15 Settembre 2020 | Tags: Alejandro Jodorowsky, fumetto, Moebius | Category: fumetto | Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di tempo, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Nicola Pesce, Scuola di fumetto.
Credo che, per capire Moebius, sia necessario ripartire da Alex Raymond, e in particolare da quello che ne dicevo 4 mesi fa (su SdF 109, insomma). Molto in breve (ché potete comunque riaprire quel numero e rileggervi con comodo il tutto), sostenevo che il fascino di Flash Gordon non sta certo nella quasi-dimenticabile vicenda, bensì nella costruzione del mito che su quella fragile vicenda pone le basi, e quella costruzione è tutta fondata sulla straordinaria capacità grafica e sull’invenzione di luoghi, costumi, posture, espressioni… Alex Raymond ci fa sognare mettendo in scena mondi carichi di evocazioni, per farci immergere con lui, all’epoca, settimana dopo settimana in un immaginario carico di favola (ovvero di storia del nostro stesso immaginario).
Negli anni Settanta Moebius procede in maniera non del tutto dissimile: da Arzach al Garage ermetico di Jerry Cornelius è tutta un’invenzione di situazioni favolose, straordinariamente evocative, piene di echi a mitologie lontane e vicine. Anche qui la sceneggiatura è abbastanza trascurabile: le storie di Arzach sono volutamente senza capo né coda (per non dire di altre storie brevi assolutamente ermetiche, come Absoluten calfeutrail), mentre il Garage ermetico veniva improvvisato episodio dopo episodio, volutamente evitando di prevedere come sarebbe andato a finire (se non proprio alla fine, evidentemente).
Sottolineate le analogie, le differenze sono sufficientemente evidenti: il punto è che l’immaginario di un colto autore francese degli anni Settanta, che si rivolge a un pubblico nutrito ad avanguardie e a nouvelle vague, è inevitabilmente diverso da quello di un disegnatore americano dei Trenta, il cui pubblico – se va bene – è nutrito a pellicole hollywoodiane e classicismo di recupero. La fantascienza che costituisce il quadro di riferimento di Raymond arriva a Moebius profondamente trasformata dalle narrazioni distopiche degli anni Cinquanta e Sessanta, con i mondi allucinati di Philip K. Dick in testa. L’altrove non ha affatto smesso di essere il luogo del meraviglioso, solo che adesso quel meraviglioso ha assunto un alone inquietante che prima non aveva. Si andrebbe così rapidamente verso il drammatico o addirittura il tragico, che una solida vena di ironia o sarcasmo diventa necessaria per rendere digeribile il tutto.
A Raymond potevano bastare delle storie banalotte, purché coerenti, per reggere il meccanismo. Moebius deve invece proprio annullare la storia; trasformarla a sua volta in una serie di evocazioni fantastiche, reduplicando sul coté narrativo quello che già fa su quello visivo. Non importa che le storie siano coerenti; anzi, meglio se non lo sono. Del racconto deve bastare il profumo, l’illusione, la vaga impressione: quello che conta è anche qui l’effetto di immersione in un altrove leggendario, e pieno di miti. Poi, questi miti sono a loro volta spesso evidenti metafore di problematiche sociali, psicologiche, o addirittura politiche del presente: e qui la differenza tra la cultura francese dei Settanta e quella americana dei Trenta emerge prepotentemente.
A un certo punto della sua carriera Moebius incontra Alejandro Jodorowsky. Jodó ha già fatto un sacco di cose, partecipando a movimenti artistici e girando come regista due film. Ma i film, per quanto lodati dalla critica, sono stati commercialmente dei flop, e nessuno gli dà più soldi per girarne ancora. Jodó ha la testa piena di storie, ma sono storie che a Moebius potrebbero andare assai bene, tanto stralunato, assurdo, impossibile è il mondo in cui sono ambientate, e tanto complesse e imprevedibili sono le trame. Aggiungiamoci una vena di (agnostico) misticismo, che si sposa molto bene con le poetiche degli Humanoides (Druillet in questo era già andato molto più in là di Moebius stesso): e nasce così L’Incal, al principio degli Ottanta.
Quelle che vediamo qui sono rispettivamente la seconda e la terza pagina del primo episodio. Nella prima pagina (quattro vignette) John Difool, “titolare di una licenza di detective privato di classe R”, viene malmenato da quattro uomini mascherati e gettato giù da un ponte. Si tratta di un inizio violentemente in medias res: non sappiamo né il perché né il percome, e solo con la seconda pagina, che vedete qui, viene esplicitato il contesto.
Poiché Jodó è un grande inventore di storie, questo attacco intrigante avrà un seguito degno e coerente (oltre che a più riprese sorprendente), ma già in queste sole due pagine ci ritroviamo gettati a capofitto nel mito – e senza il salvataggio estremo di cui gode Difool. La città pozzo, l’epidemia di suicidi, il grande mare acido, l’interrogatorio durante la caduta… e poi aggiungete il vestito e la pettinatura un po’ sette-ottocentesche del protagonista, un po’ da pirata (cinematografico).
La città pozzo proviene da un racconto breve di Moebius di qualche anno prima, The Long Tomorrow, una storia di genere hard boiled, chandleriana anche nel titolo. E, pure qui, il ruolo di detective dichiarato da subito di Difool ci fa attendere un racconto di tipo hard boiled, insomma un poliziesco violento e pieno di azione. Solo che, qui come là, il contesto è tutt’altro che classico.
La vertiginosa prospettiva che ci introduce all’immagine della città ci mostra un mondo futuristico e minaccioso, ma costellato di quotidianità. Solo che fa parte di questa quotidianità la possibilità di fare il tiro a segno sui suicidi, o anche quella di limitarsi ad assistere allo spettacolo. Cinquant’anni di illustrazioni di fantascienza (Flash Gordon compreso) hanno costruito il mito di un futuro tecnologico e meraviglioso che qui si ribalta di colpo in (spettacolosa) angoscia.
Tre illustratori per Dante
Il Sole 24 Ore, 21 novembre 1999
Come illustrare la Divina Commedia senza restare bloccati dall’incontro con gli spettri di Gustave Doré, di William Blake, di Botticelli? Per non dire che dei più grandi, inevitabilmente evocati quando si tenta l’operazione di fare illustrare il racconto più immaginifico e terribile della nostra letteratura. Ci hanno provato le Edizioni (e Galleria) Nuages di Milano, proponendo ciascuna delle tre cantiche a un autore diverso. Deciderà la storia se i nomi di questi illustratori resisteranno al tempo come quelli nominati più sopra. Per ora possiamo limitarci a dire che sono tra i migliori disponibili nel mondo.
Ai tre volumi corrispondono tre esposizioni. Quella di Milton Glaser, autore delle illustrazioni del Purgatorio, si è tenuta dal 29 ottobre al 13 novembre. Quella di Lorenzo Mattotti, autore delle illustrazioni per l‘Inferno, si è aperta il 16 novembre e si chiuderà il 5 dicembre. Quella di Moebius, illustratore del Paradiso, si svolgerà dal 9 al 24 dicembre.
Si tratta di tre proposte illustrative molto diverse tra loro, e anche il confronto è stimolante.
L’Inferno di Mattotti è all’insegna dell’angoscia e del terrore. I colori sono saturi e contrastati e le luci radenti rivelano le forme in un’oscurità rossastra. Le forme sono spesso piegate, contorte. Le figure imponenti e incombenti. Più che il dolore, è la paura a percorrere queste immagini, a volte giocate sulla complessità, e a volte su un’estrema semplificazione: la figura bianca del Caronte “con gli occhi di bragia” si inarca su una forma nera ogivale sospesa su un’acqua di un azzurro irreale, contro uno sfondo rossastro. E’ solo la presenza e il gesto di Caronte a rendere comprensibili le forme che lo contornano. I suoi occhi, per quanto piccoli, sono il fulcro dell’intera immagine.
Anche il Purgatorio di Glaser insegue una semplificazione formale, ma lo spirito è del tutto diverso. Le forme (spesso pure silhouette) e i colori hanno tutti un aspetto allegorico, sembrano sempre rinviare a qualcos’altro. Il tempo vi appare come sospeso; le situazioni narrative suggerite e denegate; gli oggetti carichi di evocazioni. Le immagini a volte si ripetono, variate per colori e rilevanza dei dettagli, così che una stessa situazione narrativa si ritrova talora illustrata due volte. E’ lo stesso Glaser, nella sua breve introduzione al proprio lavoro, a raccontare come questa duplicità, inizialmente suggeritagli dal percorso tecnico con cui ha realizzato le immagini, poteva bene accostarsi allo spirito stesso del Purgatorio, “dove il tempo è interminabile”.
Moebius è forse quello che resta più fedele al proprio modello fumettistico. Il Paradiso appare costellato di nubi e figure umane che paiono torri. Sarà per identità nazionale, o per un comune spirito visionario, le immagini di Moebius sono quelle che più ricordano la figurazione di Doré. Lunghe figure isolate; volti che guardano verso l’alto, o verso il basso… Ma Moebius non può fare a meno di adornare queste figure con gli spettri formali del proprio immaginario: vestiti e copricapi singolari, colori caldi e sfumati; eventi fermati in un gesto che, per quanto evidentemente pacato, consono al luogo, accenna a un divenire che l’immagine nel suo complesso sembrerebbe escludere.
La Divina Commedia ci ritorna, attraverso l’entusiasmo visivo dei suoi tre illustratori, avvicinata, attualizzata. Le angosce, le allegorie, le illuminazioni di Dante continuano ad affascinarci perché sono, evidentemente, le stesse nostre angosce, allegorie, illuminazioni – quando solo si attraversa quel medioevo che tutti e tre gli autori hanno scelto assai coerentemente di dimenticare. Non è perché Dante è vissuto allora che la sua opera continua ad ammaliarci.
Le tre esposizioni saranno riunite in una sola mostra presso la Torre Avogadro di Lumezzane (Brescia) dal 19 febbraio al 16 aprile 2000. I volumi di Glaser e Mattotti si trovano già in libreria; quello di Moebius è imminente.
Dante Alighieri, La Divina Commedia
L’Inferno di Lorenzo Mattotti
Il Purgatorio di Milton Glaser
Il Paradiso di Moebius
Edizioni Nuages, Milano, ogni vol. £.58.000
La galleria ha sede in via Santo Spirito 5, Milano
Questa settimana questo blog ha avuto due differenti occasioni di lutto: a distanza di due giorni sono scomparsi Elio Pagliarani, uno dei maggiori poeti del Novecento italiano, e Jean Giraud Moebius, maestro internazionale del fumetto francese. Erano stati due autori, ciascuno nel suo campo, cruciali. Chi li conosce lo sa.
Questo blog si occupa di varie tematiche, ma non c’è dubbio che i campi di cui si parla con maggiore frequenza siano proprio quelli in cui Pagliarani e Giraud hanno primeggiato. Non parlerò di loro; o perlomeno non oggi. Ne stanno già parlando tutti, specie di Moebius.
Piuttosto, questo incrocio di lutti mi ha portato a domandarmi se, almeno per me, tra fumetto e poesia (e magari anche gli altri ambiti di cui mi occupo) ci siano degli aspetti in comune; oppure se più semplicemente sia io a essere un po’ scisso, come è peraltro normale essere: la coerenza e l’omogeneità dell’io caratterizza i personaggi, per ragioni narrative, non le persone, che sono per loro natura complesse.
Ho perciò riflettuto (aiutato dal fatto che non sarebbe la prima volta che me lo domando, certamente). Che io sia un po’ scisso è senz’altro vero; ma c’è ben altro, al di fuori dei miei gusti estetici, in cui la scissione si manifesta – e anche in questo sono normale. Ma c’è anche, almeno per me, un motivo di profonda vicinanza tra fumetto e poesia, o almeno un aspetto sotto il quale si contrappongono comunemente al romanzo, e rispetto al romanzo si schierano dallo stesso lato.
Per il fumetto è più facile dirlo. Il fumetto racconta storie, proprio come il romanzo, ma la materia di cui sono fatti i suoi sogni sono le immagini, disegnate. Le parole vi sono accessorie, quando ci sono. La forma microstrutturale del racconto non è quella ben definita della proposizione (soggetto-predicato-complementi) ma quella sfumata della figurazione, che mostra, allude e non dice, cioè, di fatto non racconta. Non racconta anche perché, non essendo fatta di parole (che, per loro natura, dichiarano il punto di vista temporale e personale da cui sono pronunciate: non si parla – o scrive – senza coniugare i verbi secondo la persona, il tempo e il modo), non implica necessariamente la presenza di un narratore (che può esserci, ove serva, ma che il più delle volte non c’è).
Questo vale certo anche per il cinema, ma il cinema fluisce autonomamente – e questo basta di per sé a farlo un’altra cosa, parente più della musica che del fumetto.
Potrei dire che l’aspetto della comunicazione che più mi affascina e a cui ho dedicato i miei interessi è quello che passa al di fuori delle parole e della loro costruzione del significato. Leggo (e scrivo) sufficiente critica e filosofia per averne abbastanza di comunicazione razionale basata sulla struttura della proposizione e del periodo, in grado di comunicare idee chiare e distinte di cartesiana memoria. Non che questa comunicazione verbale chiara e distinta sia da disprezzare: è ciò a cui tendo ogni volta che scrivo parole di carattere critico, come anche sto facendo ora. Ma è necessario riconoscere i suoi limiti. È necessario riconoscere che ci sono cose di cui non si può parlare, e, tanto per stracitare Wittgenstein, di queste cose è necessario tacere. Ma tacere non significa trascurare. Tacere, in questo senso, significa cercare modi di comunicare diversi dalla parola definitoria, razionale. Il disegno è uno di questi modi, attraverso cui può essere trasmesso ciò di cui non si può parlare.
La parola poetica è un altro di questi modi, per quanto paradossale possa apparire l’idea che un testo fatto solo di parole sia un testo che tace, nel senso detto sopra. Ma ciò che è interessante della parola poetica è che non si tratta di una parola definitoria, ovvero di una parola che fa uso della struttura proposizionale (soggetto-predicato-complementi) per trasmettere informazione. Quando ancora ne fa uso, sappiamo benissimo che si tratta di un uso strumentale. Se leggiamo la poesia come se fosse un discorso definitorio, razionale, come facciamo con queste stesse righe, allora non stiamo capendo nulla, e faremmo meglio a lasciar perdere. La poesia fa un uso alternativo delle parole, in cui tutta la loro natura, semantica quanto fonetica quanto prosodica, entra in gioco, a disegnare letteralmente un mondo. È un disegno più astratto di quello del fumetto, perché il suo oggetto è un altro, ed è forse l’universo stesso del senso, nel senso più vasto possibile (quello che comprende, per esempio, anche la dimensione emozionale, a giustificare in parte coloro che credono che la poesia sia semplicemente espressione di emozioni).
Pure qui, in poesia, poiché il senso passa attraverso un disegno, la parola definitoria è fuori gioco, ed è fuori gioco l’inevitabilità del riferimento all’io narrante (quello che esprime, nel verbo, la persona, il tempo, il modo, e continua a manifestarsi in altri modo nella struttura della proposizione). Quando questo riferimento c’è, in poesia, è in realtà accessorio, manifestazione superficiale; proprio come quando, nel fumetto, un personaggio parla attraverso la propria vignetta: dice “io”, certamente, e manifesta un soggetto e un punto di vista proposizionale sul mondo, ma non per questo assumiamo la sua posizione come indice della presenza di un narratore complessivo. Capisco bene che, in poesia, sia più facile confondersi, e scambiare l’io scritto con quello complessivo; ma se ci si rende conto che la poesia comunica al di là della struttura proposizionale (di cui al massimo fa un uso locale e strumentale), si capirà che, rispetto al proposizionalissimo romanzo, fumetto e poesia si trovano dallo stesso lato, quello del disegno, seppure attraverso strumenti del tutto differenti.
La poesia gode di un prestigio millenario, e le si dà grande spazio a scuola. Eppure siamo in pochi a interessarcene di fatto. Quanti sono gli italiani che conoscono il nome di Elio Pagliarani? Il fumetto è stato a lungo un medium trascurato e vilipeso, anche se oggi le cose vanno meglio: alla scomparsa di Moebius, poi, hanno dato molto spazio i giornali e le TV. Ma questo dipende troppo dalla fama personale per farne una questione generale. Moebius deve la sua fama anche ai suoi influssi sul cinema, e questo ha indubbiamente pesato moltissimo.
Io continuo a pensarli come maestri, entrambi. E continuo a pensare che, quando scrivo poesie, sto in verità disegnando, o tracciando linee musicali, di cui le parole rappresentano l’inchiostro, o le forme base delle linee che si vanno a combinare, o la materia timbrica che va a costruire la melodia. Scrivere poesia è un’attività radicalmente diversa dall’esporre proposizionalmente pensieri organizzati, come sto facendo in questo istante (e il cui risultato state leggendo voi, ora). È un’attività che si impara nella prassi, magari imitando inizialmente dei maestri, magari imitando anche Elio Pagliarani, o Jean Giraud Moebius.
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Quanto di morte noi circonda e quanto
tocca mutarne in vita per esistere
è diamante sul vetro, svolgimento
concreto d’uomo in storia che resiste
solo vivo scarnendosi al suo tempo
quando ristagna il ritmo e quando investe
lo stesso corpo umano a mutamento.
Ma non basta comprendere per dare
empito al volto e farsene diritto:
non c’è risoluzione nel conflitto
storia esistenza fuori dell’amare
altri, anche se amore importi amare
lacrime, se precipiti in errore
o bruci in folle o guasti nel convitto
la vivanda, o sradichi dal fitto
pietà di noi e orgoglio con dolore.
(Elio Pagliarani, da “La ragazza Carla” 1954-57)
Vita di Corto tra pescecani e pirati
Il Sole 24 Ore, 14 agosto 1994
Il mare dei fumetti non è certamente quel luogo estivo, dove la vita scorre calma e piatta tra giochi da spiaggia e seduzioni serali. Non che questo aspetto del mare sia assente dalla produzione a fumetti, ma di sicuro la sua scarsa fascinosità non lo ha favorito molto nell’immaginario degli autori.
Quando pensiamo al mare dei fumetti, le visioni che arrivano alla mente sono quelle del Mare del Mistero del pianeta Mongo, dove Flash Gordon vive per un poco una nuova vita respirando come i pesci, e scopre un’intera civiltà sottomarina e fantastica. Certo, gli echi di Atlantide sono tutt’altro che lontani dall’invenzione classicheggiante di Alex Raymond, ma proprio Atlantide è l’ovvio prototipo di qualsiasi mondo in ambiguo e periglioso contatto con il mare.
Le Atlantidi dei fumetti, peraltro, non si contano. Evocate o ritrovate, perdute o dimenticate, reinventate o ricostruite, costituiscono un tema ricorrente con ossessiva regolarità in tante serie di mistero e fantascienza. Il mare vi è comunque il limite antico, l’altro mondo, ma conquistato e domato da una civiltà, che per quanto simile ci è in ogni caso – e magari proprio per questo – più o meno aliena.
Anche Corto Maltese, il più famoso dei personaggi dei fumetti nati da una mano italiana, ha a che fare con il mito di Atlantide da un certo momento in poi della sua vita. E sembra, questo, un incontro inevitabile, visto che il mare e il mistero sono fin dall’inizio due componenti cruciali della personalità di Corto. Lo incontriamo infatti, per la prima volta, nella “Ballata del mare salato”, legato mani e piedi a una zattera alla deriva nei mari del sud, destinato a morire di sole e di sete. Salvato da una navicella di pirati, capeggiata dal torvo Rasputin, si troverà implicato in una vicenda intricata di guerra e di corsari, di tedeschi e di inglesi, di maori e di indonesiani, sullo sfondo grande, enorme, onnipresente e silenzioso dell’oceano.
Pescecani e gabbiani, barchette polinesiane e corazzate europee, isole dominate da strani personaggi e rotte guidate dalle stelle, è il mare a cantare la sua ballata di sentimenti e di azioni umane, così importanti e così irrilevanti di fronte a lui. Poi, negli anni che seguono, pur spostatosi su altri scenari, il mare ritorna, accompagna, scandisce la vita di Corto, ora come presenza navigata, ora come ricordo di Malta o di Venezia, luoghi di mare per eccellenza e patria del personaggio e del suo autore.
Ma i mari del sud e dell’estremo oriente non sono, certo, una prerogativa del Maltese, né nei fumetti né altrove. Da Melville e Conrad, a tanti altri, sembrano essere diventati per un certo periodo, nell’immaginario occidentale, la quintessenza stessa del mare. Gli anni trenta abbondano di fumetti i cui personaggi veleggiano da quelle parti, da Terry e i pirati a Ming Fu. Da questo punto di vista, Corto Maltese sembra quasi un epigono di un gusto già in via di spegnimento negli anni della sua uscita, ma rilanciato con vigore dalla sua stessa comparsa.
Quando si passa dai mari del sud a quelli del nord si perde anche l’ultima caratteristica comune con il mare pigro delle vacanze: il caldo. In questo, nei fumetti come altrove, i mari del nord appaiono sempre come luoghi più duri, torvi e pericolosi di quelli del sud: sono i luoghi della caccia alle balene, come in una famosa storia di Wash Tubbs, del 1933, dove il protagonista e il suo amico sono ingaggiati a forza in una baleniera e trascinati in un viaggio disastroso, che si conclude sulle spiagge, assai poco balneari, dell’Alaska settentrionale.
Mari più lontani sono stati immaginati in anni più recenti da Moebius, che nel suo Incal ci mostra un pianeta interamente coperto d’acqua, dove si vive – non diversamente che in Flash Gordon – sul fondo del mare, ma i trasporti sono realizzati da immense e luminose meduse addomesticate, vere creature del mare. E nemmeno si potrebbe dimenticare il Fiume dei Morti dei Naufraghi del tempo di Forest e Gillon, un anello d’acqua dotato di atmosfera, in orbita attorno a una luna di Saturno, abitato da un’inquietante genia di becchini, che vivono su case galleggianti in mezzo a una distesa d’acqua convessa su cui vagano alla deriva le tombe galleggianti dei potenti e dei sovrani dei mondi circostanti…
Sempre più lontano, c’è un mare ancora più strano e fascinoso, che non appartiene al mondo dei fumetti, ma potrebbe bene, per la sua delirante coerenza e spettacolarità. E’ l’oceano senziente del pianeta Solaris, dal libro di Lem o dal film di Tarkowski, capace di dare forma e realtà ai desideri e ai sogni degli umani che lo avvicinano.
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