È per via dell’arte concettuale che mi sono messo a disegnare fumetti. Ho iniziato la mia carriera “ufficiale” di artista in pieno periodo di arte concettuale, e come artista concettuale sono nato. In quel momento, più che soddisfare la mia voglia di manualità e di pittura, cose che ormai non si facevano più, io progettavo i lavori. Il mio era infatti soprattutto un lavoro di progettazione, dopo il quale passavo il progetto agli artigiani, e vedevo realizzate alla fine le mie opere quasi senza toccarle. È stata così questa mancanza di sfogo della manualità a farmi venire una voglia immensa di ricominciare a disegnare e a dipingere; e il fumetto mi sembrava la strada più adatta.
Per di più, l’arte stava diventando totalmente chiusa al mondo esterno; l’artista lavorava su se stesso, lavorava sull’arte, e il lavoro era diventato talmente poco comunicativo che un’altra cosa che mi mancava era proprio la comunicazione, il contatto con il grosso pubblico, il contatto con quel mondo dell’immagine che entrava nelle edicole, dell’immagine che veniva riprodotta: insomma tutto quello che era negato più che mai in quel momento all’artista figurativo. È quindi questo uno dei motivi che mi ha spinto a fare il fumetto; un fumetto comunque, il mio, che era assai poco fumetto, che era quanto di più lontano ci fosse dal fumetto. Un fumetto molto concettuale: ho cominciato a piccoli passi, a piccole dosi. E infatti l’impatto con il pubblico è stato difficile, perché il mio lavoro era quasi offensivo. Io usavo le pagine dei giornali con un segno elementare, usavo magari un’intera pagina per fare una testa, quando invece il pubblico del fumetto allora voleva le pagine piene, voleva il fumetto classico, eccetera eccetera.
All’inizio Minus era di un bianco e nero asciuttissimo, povero povero, elementare, ed è andato poi riempiendosi di colore, e il colore ha introdotto quelle atmosfere, quel lirismo, quella poesia che il personaggio richiedeva. Il colore in Minus è fondamentale, perché è un po’ la poesia del mio fumetto, è quello che riempiva quei grandi vuoti, è quello che creava lo spettacolo in un fumetto che era eccessivamente povero. È ciò che mi permetteva di ricordare, di sognare Klee, cose che non potevo fare in pittura, perché lì non facevo il pittore. Il colore di Minus è influenzato dal colore dell’arte, è influenzato da Klee, da Steinberg, da tutti questi personaggi che stavano altrove e non nel fumetto.
Curiosamente poi, nel momento in cui io passo a Valvoline – e questo è l’unico legame che c’è tra la mia figura di artista e la mia figura di disegnatore di fumetti – nel momento in cui io torno a fare l’artista, cioè ritorno a usare i colori, ad usare le mani, a sfogare la mia manualità, a fare il pittore, ecco che in quel momento incomincio a fare veramente il fumetto fumetto, il vero fumetto; la mia sensibilità ormai gratificata nel mondo dell’arte non aveva infatti più bisogno di fare Minus e di sognare.
E così a questo punto mi è venuta una grande voglia di sottostare a quelle che erano le vere leggi del fumetto, naturalmente da alieno quale ero io, senza in realtà adattarmi perfettamente alle sue regole, ma proprio divertendomi a sbagliare, a finire in altre zone, ad arrivarci anche lentamente, senza copiare nessuno, così come avevo fatto prima con Minus. Il sistema che ho adottato: non guardare nessuno per essere sicuro di arrivare a un prodotto completamente originale, e quindi non guardare neanche come si indica il movimento, come si sintetizzano le cose, niente. Era stato proprio partendo da zero che avevo tentato di ricostruire il mondo con Minus, dove tutto doveva corrispondersi: gli alberi, le case dovevano essere alla Minus. E poi sono ripartito da zero di nuovo nel momento in cui ho incontrato questo gruppo di persone, prima Carpinteri, e poi gli altri amici di Valvoline; ed è stato lì che ho avuto uno dei più grossi impatti emotivi che mi sia mai capitato di avere.
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Io sono sempre stato un solitario, come artista e anche come fumettista fino a Minus. Ma nel momento in cui tornavo alla pittura da una parte e arrivavo al fumetto vero dall’altra, scoprivo di trovare più energia cosiddetta artistica in questi fumetti che in qualsiasi pittore che in quel momento ci fosse in circolazione. Ho avuto proprio un colpo di fulmine per il lavoro di Carpinteri, di Igort e degli altri. Ed ecco che ci siamo aggregati, senza capire bene il perché all’inizio, perché io in fondo non avevo niente del loro segno. Avevo però una mentalità che poteva combinare con la loro, e trovavo in loro per la prima volta un modo di affrontare il fumetto da artisti, con quella libertà e quella sorpresa, quel mistero che normalmente era solo nell’arte, e non era mai stato nel fumetto in genere. E loro trovavano in me delle attrattive che non trovavano negli altri autori di fumetti. Ed era anche un momento in cui la sperimentazione era forte, e l’entusiasmo era enorme. E tutto questo curiosamente accadeva proprio nel momento in cui riesplodeva la pittura, in cui riesplodeva nell’arte la grande carica emotiva.
All’inizio della mia storia con Valvoline c’è quindi questa voglia di lavorare insieme, e ci sono le mie esperienze con Carpinteri, dove io portavo la mia mentalità, la mia follia, il mio squilibrio da una parte, e lui il suo segno dall’altra. E lavorando insieme arrivavamo a fumetti che non erano mai rigorosamente fumetti, che erano profondamente sperimentali e che continuavano a irritare il pubblico, ma che avevano dentro delle tracce di futuro, di un lavoro interessante.
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Per arrivare a lavorare con gli altri, per realizzare questa voglia di far fumetto vero, mi sono così convinto a ripartire da zero, a cambiare completamente quello che avevo fatto fino a quel momento, a fare l’opposto di quello che avevo fatto in altri momenti; ma a fare l’opposto anche – almeno a prima vista – dello stile che avevano i miei amici. Ho visto infatti che si stava formando un gruppo molto compatto, compatto anche nello stile, e proprio in quella compattezza, e in quella precisione di stile e impatto notevole vedevo anche la possibilità della fine del gruppo, vedevo il pericolo, la troppa riconoscibilità. E quindi il mio compito, la mia voglia è stata quella di essere il diverso nel gruppo, l’elemento più imprendibile, che avesse la caratteristica della durata nel tempo, che fosse meno consumabile.
Così mi sono quasi violentato. Con quale segno è più difficile fare ricerca, fare avanguardia? Con il realismo. Io sono andato all’opposto di quello che stavano facendo loro. Ho voluto brutalizzare proprio il gruppo, in questo senso, e ho scelto di essere realista fino in fondo, al massimo livello. Sono partito quindi dalla fotografia, per essere al massimo del realismo, per liberarmene poi col passare del tempo. All’inizio il contatto con la fotografia è stato strettissimo, e poi più sono andato avanti e più ho cercato di allontanarmene, arrivando infine ad atmosfere che non sono più legate alla fotografia, ma arrivando ciononostante a uno stile così preciso che anche quando la fotografia non c’è, sembra reale e fotografico quasi allo stesso modo.
Poi, dentro il realismo e oltre il realismo, con la mia prima storia sono andato ancora più a fondo, partendo da quanto di più sgradevole si potesse immaginare in quel momento. Qual era la cosa che interessava in quel momento di meno in assoluto? I contadini, il mondo contadino. Il realismo e il mondo contadino insieme creavano in fondo quanto di meno prevedibile in quel momento si potesse immaginare, e che meno aveva a che fare col lavoro dei miei amici.
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Mi è difficile parlare del mondo rappresentato nei miei fumetti. Perché io ho sempre lavorato in una condizione di leggera incoscienza, da una parte lucido e preciso, razionale, e dall’altra uno stato di follia e di non lucidità e di non razionalità voluta, che mi serve a creare le storie. È questo che mi fa nascere le idee. Nelle prime storie che pubblicavo su Frigidaire la storia era irreale, addirittura c’era il contratto con l’aldilà: in una di queste storie il protagonista costruisce un fucile e degli occhiali che per la prima volta vedono l’anima, e dopo aver abbattuto un personaggio, indossa gli occhiali, vede l’anima, innesca un secondo colpo e uccide anche quella. Poi arriva a capire di essere mandato da Dio, di non avere nessuna colpa perché il mondo altro, l’aldilà è talmente zeppo di anime che non ne può più contenere; e quindi la prossima guerra necessiterebbe di armi nuove che eliminino anche quelle. Da una parte un realismo totale quindi, e dall’altra una profondissima irrealtà, ma cercando sempre un equilibrio, cercando di agganciare sempre l’attenzione del pubblico con il vero, perché se ti spingi troppo oltre in questo gioco puoi far svanire ogni interesse per la storia.
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Questo è l’estratto dell’intervista a Marcello Jori contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. Le interviste agli altri autori di Valvoline seguiranno nei prossimi giorni. Qui un’introduzione a Valvoline.
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