Come post di oggi inserisco un breve (ma non brevissimo) saggio che avevo scritto alcuni mesi fa per una collana di microlibri progettati dalle edizioni CFR di Gianmario Lucini (Poiein). La collana non ha avuto successo, e il mio testo è rimasto inedito.
Il saggio sviluppa in maniera molto più ampia alcune riflessioni che avevo anticipato in un post di questo blog: “Di Goethe, dell’azione e della poesia”, apparso il 31 marzo 2011. Vi si parte da una riflessione filosofica ispirata ad alcuni versi del Faust per parlare del rapporto tra poesia e senso della collettività, lirica e poesia civile.
Mi piacerebbe che su questi temi si potesse dibattere. Il saggio è qui: La poesia e il collettivo.
Ho concluso il post precedente sulla poesia con un interrogativo, domandandomi come si concili un’affermazione come quella del Faust di Goethe (“In principio era l’atto”) con il dominio della lirica nel mondo della poesia, che negli anni del Faust era già un fatto, e in seguito lo sarebbe stato ancora di più. In altre parole, come si concilia un’istanza anti-soggettiva come quella espressa dalle parole di Faust (a cui farà seguito Nietzsche e l’invenzione freudiana dell’inconscio, e le prospettive a-soggettive delle scienze sociali) con l’istanza profondamente soggettiva che sta alla base della lirica?
Naturalmente non c’è bisogno che si concilino, perché in ogni epoca non esiste un solo spirito del tempo, ma ben più di uno – per cui istanze profondamente soggettive e istanze profondamente anti-soggettive possono condividere la stessa epoca e gli stessi luoghi. Però credo che la questione possa essere affrontata in maniera meno banale di questa, e che il rapporto tra l’anti-soggettività e l’iper-soggettività moderne sia più stretto di una semplice coabitazione.
Di lirica ho già parlato in questo blog in più occasioni. Ma mi ha risensibilizzato particolarmente al problema la lettura di due testi interessanti di Guido Mazzoni. Il primo l’ho trovato in rete, nel blog di Punto Critico, ed è un’intervista di Italo Testa al medesimo Mazzoni. Il secondo, letto in seguito all’incontro più o meno fortuito con quell’intervista, è il libro di Mazzoni che ha per titolo Sulla poesia moderna (ed. Il Mulino, 2005).
Riassumerò le tesi di Mazzoni (che trovo di grande interesse) con due citazioni. La prima, tratta dall’intervista su Punto Critico, è questa:
Ora: non tutta la poesia moderna coincide con la lirica, ma è indubitabile che la lirica sia il centro della poesia moderna. Allo stesso modo, è indubitabile che la perdita di mandato sociale dello scrittore, che segna la storia della scrittura in versi da un secolo e mezzo almeno, valga a maggior ragione per il sottogenere lirico, perché quest’ultimo esprime in forma pura quell’individualismo, quell’egocentrismo, quell’«inesplicato bisogno di individualità», come dice Mallarmé, che è il fondo etico della forma di vita emersa negli ultimi secoli. In particolare, la lirica esprime bene la variante del soggettivismo che Charles Taylor chiama «espressivismo», cioè l’ideale etico per cui il senso della vita starebbe nella capacità – in qualche modo nell’obbligo – di essere all’altezza della propria originalità, di esprimere la propria differenza soggettiva. A partire dall’epoca romantica, l’espressivismo diventa un ethos sempre più condiviso dagli intellettuali; a partire dagli anni Sessanta, si diffonde fra le masse in Occidente. La poesia moderna è l’arte d’élite che più direttamente si lega a un simile bisogno, e la lirica è il centro del sistema.
La seconda invece proviene dal volume, a pag. 212:
L’immagine del mondo che la maggior parte delle poesie moderne rinvia al lettore è di tipo narcisistico. Uso questo termine nell’accezione di Christopher Lasch: caratteristica del narcisismo, come istanza psichica e come atteggiamento esistenziale, è l’idea che il piacere, la felicità, il senso della vita non vadano ricercati nel confronto col mondo esterno, nella lotta per la conquista di beni materiali o simbolici, ma in una difesa tenace dell’indipendenza emotiva, ottenuta proteggendosi dalle passioni centrifughe, depotenziando i rapporti con gli altri e cercando di “essere se stessi” o, tutt’al più, di “esprimere se stessi”. Emanano un’immagine del mondo manifestamente narcisista il centro lirico e la periferia occupata dalla poesia pura: nei testi del primo, l’io racconta frammenti di vita personale in una forma carica di espressivismo; nei testi della seconda, l’io cerca di costruire una realtà soggettiva priva di contatti con il modo ordinario di fare esperienza delle cose. Ma anche la poesia dall’andamento narrativo o riflessivo, che pure sembrerebbe avere caratteristiche diverse, non potrebbe esistere senza una forte dose di quell’indecifrabilità che è il primo segno della chiusura egocentrica, come dimostra il fatto che due secoli di long poem antilirico non siano riusciti a scalfire, nel senso comune dei lettori, l’idea che il genere mimetico della letteratura moderna sia il romanzo, e non la scrittura in versi.
C’è molto più di questo sia nell’intervista che nel volume (davvero molto interessante) di Mazzoni; ma credo che queste due citazioni bastino per spiegare la posizione di Mazzoni sul rapporto tra dominio della lirica e affermazione del soggettivismo (anzi, dell’espressivismo). Mi sono ritrovato interamente nelle posizioni di Mazzoni (e ne consiglio caldamente la lettura), ma voglio aggiungere alcune altre considerazioni a queste, anche come risposta al problema da cui siamo partiti.
Una delle cose su cui Mazzoni insiste nel suo libro è il fatto che, benché l’istanza espressivista sia già chiara nelle teorizzazioni dei primi romantici, e anche in Leopardi, la poesia ha continuato per molto tempo a muoversi all’interno delle maglie della tradizione. La rottura delle regole metriche, che sancisce definitivamente il dominio del soggetto, avviene solo a fine Ottocento, e comunque in maniera progressiva e bisognosa di continui appoggi nella tradizione stessa: il verso libero di Dino Campana proviene da quello di Walt Whitman, e quello di Whitman a sua volta dalla Bibbia…
Se pure il dominio del soggettivismo (e di conseguenza della lirica) è chiaro nella teoria da molto tempo, come mai i medesimi poeti che lo dichiarano non riescono, se non nel giro di parecchi decenni, a realizzarlo appieno? La risposta facile è che, per un poeta romantico, già il suo livello di violazione della regola è sentito come sufficiente per esprimere la propria soggettività; e che solo quando quella sua violazione diventa, col passare del tempo, a sua volta regola, si sente il bisogno di fare un passo più in là. Questa risposta facile è vera, ma è insufficiente, perché postula che lo sviluppo del soggettivismo stia in una continua violazione della regola al momento data – e che di conseguenza la poesia (come qualsiasi altra arte) non possieda un nucleo storicamente più duro, dandosi solo rispetto alle aspettative del momento.
Io ritengo piuttosto che la poesia possa essere riconosciuta come tale solo quando chi la legge ne riconosce un qualche tipo di valore universale. La natura di questo valore si modifica col tempo; mentre il fatto che ci debba essere è sentito come costante. Il poeta romantico, se vuole sperare che il suo lavoro possa essere riconosciuto come poesia deve necessariamente adeguarlo alle aspettative del suo pubblico, rispetto a quello che il suo pubblico ritiene “valori universali”. Le sue innovazioni sono accettate nella misura in cui sono riconosciute come qualcosa che esprime meglio di prima quegli stessi valori universali. Per questo, si potrà arrivare anche alla distruzione della metrica tradizionale, quando quella metrica inizierà a essere sentita come un vincolo astratto, un ostacolo all’espressione dei valori universali anziché un indispensabile strumento.
È parte cruciale di questa dimensione di universalità percepita anche la natura rituale della testualità poetica, una natura che tradizionalmente è passata in larga misura attraverso le regole del metro, e il conseguente irrigidimento dei ritmi prosodici che ne deriva. Il poeta espressivista ha potuto a un certo punto lavorare contro il metro, ma lo ha potuto fare solo recuperando qualche altro tipo di ritualità (come il versetto biblico per Whitman). Universalità attribuibile e ritualità sono i due scogli con cui si è dovuto variamente misurare l’espressivismo: coloro, tra chi scrive poesia, che non hanno capito che questo è comunque un passaggio obbligato, vanno a riempire la grandissima schiera dei poeti della domenica. Sono le vittime della poetica dell’epressivismo, quelli che hanno creduto davvero che la poesia non sia altro che “esprimere se stessi”.
Ecco però che, a difesa di queste vittime, entra in gioco la preminenza faustiana del fare, o l’inconscio freudiano, o le strutture sociali studiate dall’antropologia. Se infatti proprio nel cuore del soggetto, nel suo fondo più profondo (e “più profondo che non pensi il giorno”, per dirla con lo Zarathustra di Nietzsche), sta un’istanza non soggettiva, naturale o culturale che sia, cioè l’inconscio, le strutture sociali, il DNA, l’azione, allora paradossalmente è proprio esprimendo se stesso che il soggetto può costruire una nuova universalità. Non è più l’universalità delle regole date dalla tradizione, ma quella “spontanea” del buon selvaggio nascosto dentro ciascuno di noi.
Se vediamo le cose in questo modo, abbiamo ancora più ragioni di quanto non ne abbia Mazzoni per riconoscere come lirica anche quello che cerca di spacciarsi oggi come suo superamento o negazione. Se al cuore del soggetto che si esprime liricamente sta un buco di soggettività (alla Nietzsche), allora la sua espressione non sarà né più né meno lirica di quella di chi cerca di “ridurre” quel soggetto (per usare le parole di Alfredo Giuliani nella prefazione ai Novissimi) o di abolirlo attraverso pratiche varie di scrittura automatica o semi-automatica (come il googlism). Non c’è in verità nessun cambio di paradigma in queste pratiche di scrittura, e Mazzoni ha del tutto ragione a denunciarne la soggettiva ricerca di una modalità di espressione diversa, e quindi comunque personale.
Resta il fatto che qualsiasi pratica di scrittura poetica deve confrontarsi con i requisiti di universalità percepita e ritualità. L’esistenza di una non-soggettività (culturale o naturale) nel cuore stesso del soggetto va incontro alla prima. Ma la seconda rimane comunque un banco di prova per la qualità poetica del testo. Si tratta di un banco di prova scivoloso e variabile, perché i riti variano con la collettività stessa. Però, se in principio era l’atto, e questa natura originaria dell’atto deve essere trasmessa dalla poesia, la poesia sarà riconosciuta come tale solo se agisce su di me, e lo fa facendomi sentire parte di un agire condiviso, collettivo. La lirica è la forma (molteplice) che questo agire ha preso negli ultimi secoli.
Egli sta scritto: “Nel principio era la parola.” (“Im Anfang war das Wort!”) Ecco io sono già impacciato! E chi m’ajuterà ad uscirne? No, io non posso stimare sì alto la parola, e se lo spirito degna illuminarmi mi bisogna tradurre diversamente. Sta scritto: “Nel principio era la mente (der Sinn).” Bada bene al primo verso ve’, che la tua penna non precipiti! può egli la mente tutto produrre e informare? Forse starà meglio così: “Nel principio era la possanza (die Kraft).” Ed ecco pur nell’atto ch’io scrivo questo, io mi sento da non so che avvertire che non devo contentarmene. Or sì il cielo mi aiuta da vero! Io prendo per una volta consiglio, e animosamente scrivo: “Nel principio era l’atto (die Tat).” (Johann Wolfgang von Goethe, Faust, traduzione di Giovita Scalvini, 1835 – da LiberLiber)
Mi sono sempre domandato se Goethe si rendesse conto dell’importanza della sua proposta filosofica, oppure se volesse soltanto mettere in scena un delirio interpretativo da parte di Faust, quando già Mefistofele si trova presso di lui sotto forma di un can barbone, e di lì a poco si manifesterà, e il patto sciagurato tra loro verrà sancito. Seguendo questa seconda ipotesi potremmo prendere le parole di Faust come semplice testimonianza dello stato confuso della sua mente, già votata all’eresia e poco dopo al patto col diavolo. Ma poiché Goethe questa cosa l’ha poi scritta davvero, e sta lì – e pure il suo Faust alla fine si salva (a differenza dei suoi predecessori nella tradizione) – possiamo legittimamente prenderla per buona, e guardarla più da vicino.
Certo, non possiamo prendere davvero le proposte di Faust come traduzioni alternative delle parole di S.Giovanni. Il logos può essere inteso certamente come la parola (il verbo della vulgata), e anche, di conseguenza, come il pensiero. La seconda proposta di Faust è ancora plausibile dunque: qui Sinn viene tradotto come mente, che è corretto, però ancora prima che mente Sinn significa senso, o significato. Pensare che all’inizio di tutto ci stia il senso, o la mente, è ancora coerente con il platonismo di fondo su cui si basa il pensiero cristiano, e la filosofia occidentale sino a Goethe (e ancora dopo di lui).
Ma la terza proposta di traduzione di Faust è già rischiosa: la possanza, o meglio (diremmo oggi) la forza (die Kraft), postula un materialismo agnostico, e pone all’inizio delle cose un puro principio naturale, in maniera del tutto slegata dalla trascendenza. È come dire che al principio di tutto sta l’energia, il Big Bang, il cieco scontrarsi delle forze. È la metafisica dello scientismo, decisamente alternativa a quella, idealistica, che mette al principio il logos (parola o pensiero che sia). In questa terza concezione, il principio non è solo un principio logico, ma anche un principio temporale, l’alba di tutte le forze.
Faust non è però contento, e vuole andare più in là. In principio, dunque, era l’atto, die Tat, cioè l’azione, il fare (tat è anche il passato di tun, cioè fare, e quindi feci, o facevo). Tutto sommato, mettere al principio di tutto la forza significa sovvertire la gerarchia tradizionale, dichiarando una priorità della natura e delle sue leggi sul pensiero; tuttavia i protagonisti tradizionali della riflessione filosofica occidentale (la natura e la nostra conoscenza) rimangono al loro posto, e muta solo il valore dato all’uno piuttosto che all’altro. Un’ontologia materialista, proprio come una spiritualista, vede il mondo in termini di natura e di pensiero che la conosce; solo che anche il pensiero viene pensato come riducibile alla natura – anziché viceversa, come era prima, quando si metteva al primo posto il pensiero assoluto di Dio.
Ma mettere a fondamento di tutto il fare, l’azione, l’atto, è una mossa assolutamente più radicale. Se l’azione si trova al principio, allora non la possiamo considerare come una conseguenza del pensiero, e la dialettica fondante mondo vs conoscenza (con le sue varie soluzioni – materialiste e spiritualiste) va semplicemente a farsi fottere. Se nel principio c’è l’azione, da essa dipendono sia la conoscenza che la natura – con il corollario che ogni tentativo di spiegarla compiutamente è destinato a fallire. Spiegare l’azione vorrebbe infatti dire ricondurla al pensiero o al mondo, ovvero a un sistema cognitivo o naturale. Ma se l’azione si trova al principio, è semmai essa a spiegare il pensiero e il mondo. L’azione in sé però non spiega: fa, e basta.
A meno che non sia, appunto, azione esplicativa. Tuttavia l’azione esplicativa rimane fondante solo finché è in atto, cioè finché resta azione; mentre il suo risultato, cioè la spiegazione (ovvero il pensiero) non è più azione. Mettere l’azione al primo posto, in altre parole, significa postulare un fondo inspiegato e inspiegabile dell’essere: il fallimento stesso, dunque, del pensiero occidentale – una buona ragione, in fin dei conti, per vendere l’anima al diavolo.
Magari Goethe voleva dire altro, o magari stava solo facendo delirare Faust. Sta di fatto però che, via Schopenhauer e Nietzsche, queste riflessioni arrivano trasversalmente sino al medico positivista Sigmund Freud, il quale, quasi senza rendersene conto – e continuando a pensare di agire nei termini di una metafisica della forza (die Kraft) – mette al centro del soggetto un’entità, l’inconscio, che alla fine dei conti non è riconducibile a nulla. Poiché Freud è ancora un materialista, ritiene di poterla spiegare in termini causali (in termini di forze, appunto).
Poiché non possiamo fare a meno di spiegare, presumibilmente la posizione di Freud resta quella corretta, in linea di principio. Postulare l’inconscio vuol dire far fuori infatti con un colpo solo le due prime traduzioni di Faust: in principio non può essere né la parola (Wort) né il senso (o la mente – Sinn), perché entrambe frutto della coscienza; e se esiste l’inconscio, la coscienza non può essere che un concetto emergente.
Eppure la posizione di Freud contiene in sé i germi della propria negazione. Se postuliamo infatti l’inconscio, stiamo dicendo che alla base del nostro agire non sta nessuna spiegazione, perché l’inconscio non spiega, e non contiene spiegazioni. La spiegazione materialista, dunque, potrà magari essere valida, ma non è sufficiente a fondare il nostro agire. L’azione viene dunque necessariamente prima della spiegazione, perché ci può essere sempre qualche sua componente che non può essere riportata a una qualche spiegazione. Postulare l’inconscio vuol dire pensare che in molti casi vengono prima le azioni dell’uomo, e solo poi le loro spiegazioni o motivazioni.
Questo ribalta il tradizionale meccanismo di causa-effetto, senza però sostituirgli nulla (non la causa finale, non il caso…). Che a ogni azione corrisponda una serie di cause si può certo postulare, ma solo in astratto – perché persino il soggetto che ha agito sarà a conoscenza di solo una parte di loro; e la soluzione riduzionista neurologica è in verità troppo complessa per essere veramente percorribile.
Ma, d’altro canto, se davvero assumiamo il primato dell’azione, la spiegazione acquisisce senso solo in prospettiva di un’azione futura. È tutto un gran casino, insomma. Da un lato, infatti, la visione del mondo in termini di natura e conoscenza ci è necessaria (e la filosofia occidentale ha tentato di costruirla al meglio per venticinque secoli); dall’altro, la priorità dell’azione ce la rende falsa, vacua, utile solo localmente.
Ma non è tutto merito di Freud. La scoperta dell’inconscio ci ha permesso di mettere in dubbio l’esistenza del soggetto medesimo (quello che S.Agostino e Cartesio prendevano come base certa, attraverso l’atto stesso del dubitare), ma Freud fatica ad abbandonare l’io, e continua a cercarne delle tracce in profondità. Più radicali in questo senso sono certamente Jung e Lacan.
Antropologia e sociologia hanno spesso assunto di fatto la presenza di una dimensione non di pensiero al cuore dei processi stessi del pensiero – una posizione che, per quanto riguarda il nostro discorso, è diversa da quella della psicoanalisi solo metodologicamente. Senza parlare di io e di Es, anche qui il soggetto si trova dissolto, e con lui il concetto stesso di parola, di senso, di spiegazione.
Ma la conclusione di Faust non può davvero dare origine a una disciplina cognitiva, scienza o filosofia che sia. Una disciplina del sapere non può accettare veramente una preminenza diversa da quella del sapere stesso. Per bene che vada, una disciplina cognitiva potrà giusto ammettere di ritrovarsi localmente confusa.
Goethe non era un filosofo, infatti, bensì un poeta. Se manteniamo centrale questa considerazione, potremo pensare che dichiarare la preminenza del fare sul conoscere significa lanciare un monito, un monito nei confronti di chi legge la poesia come se fosse filosofia, cioè (tentativo di) spiegazione, riflessione, pensiero, parola che definisce. Se la poesia manifesta la priorità, le preminenza del fare, essa riproduce in qualche modo la fattività del mondo, senza necessariamente descriverla.
In altre parole, non è che la poesia non possa descrivere o spiegare, ma, in tal caso, quello che conta è il fatto che essa sta descrivendo o spiegando, e non ciò che vi si trova descritto o spiegato. Se nel principio c’era l’azione, quello che conta è quello che la poesia fa, non quello che dice, o comunica: lo farà magari anche dicendo o comunicando qualcosa, ma quelli sono semplicemente modi del suo fare, non la sua essenza.
Goethe, attraverso Faust, potrebbe dunque stare allertandoci proprio sulla natura non cognitiva della poesia (e delle arti in genere). La poesia è essenzialmente un’azione (poiein), molto prima e molto di più di quanto non sia comunicazione. Per questo, per capirne la natura non abbiamo davvero bisogno di mettere in gioco le problematiche del soggetto (che è un’entità cruciale per la parola e per il senso – ma non per l’azione). Naturalmente, cercare di capire la natura della poesia è già un ricondurla al cognitivo – e quindi un inevitabile sviamento. Dovremmo limitarci a leggerla, e quindi a viverla! Ma noi abbiamo bisogno di spiegazioni, a costo di ingarbugliarci tra le contraddizioni.
La poesia, dunque, sarebbe tale proprio perché mette fuori gioco la trasmissione del sapere tra soggetto e soggetto. In questo senso non è solo performativa, o perlocutiva, perché nelle definizioni di performatività e perlocutività i soggetti vengono comunque messi in gioco. E tuttavia la si potrebbe davvero prendere come modello di un certo modo di usare il linguaggio, un modo che veda il linguaggio come prassi sociale, come modo non tanto di comunicare quanto di produrre un qualche tipo di consonanza, di accordo, di Stimmung.
È singolare comunque che l’epoca in cui Goethe fa dire queste cose al suo Faust sia anche quella che inaugura, in poesia, il dominio della lirica, ovvero di una forma di poesia che ha al suo centro proprio il soggetto, e la comunicazione del suo sentire nei confronti di altri soggetti. Da questo punto di vista, la lirica sembrerebbe piuttosto presupporre una metafisica centrata sul senso (Sinn), o sulla parola (Wort) in quanto strumento per comunicare. Ma questo potrebbe essere il tema di un prossimo post.
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