L’argomento di questo post mi si è per così dire imposto, come succede quando troppe coincidenze spingono negli stessi giorni sul medesimo tema. Proprio, infatti, mentre mi è ricapitato sotto mano La lettera uccide di Giovanni Lussu (il quale è a sua volta citato nel primissimo post di questo blog, intitolato appunto Guardare e leggere – esattamente come il libro che uscirà a gennaio da Carocci, e che era stato da me pensato in prima istanza per una collana diretta dallo stesso Lussu), leggo nel blog di Luisa Carrada una segnalazione di un altro post di Antonio Larizza intitolato Riscrivere la lettura, post che inizia citando Ivan Illich nel suo libro che mi è più caro (Nella vigna del testo). E mi accorgo poi che il primo degli articoli (suoi), collegati al tema, che la Carrada linka nel suo post è una specie di recensione del libro di Lussu; e il cerchio si chiude. Ed eccomi qui.
Il tema è la scrittura, ma non quella alfabetica. Chi conosce il lavoro della Schmandt-Besserat (di cui abbiamo parlato in questo post), sa che per diversi millenni il mondo antico ha utilizzato forme di scrittura senza associarle necessariamente alla parola, e sa di conseguenza che la scrittura alfabetica non è la scrittura tout court, ma solo un sistema che noi troviamo particolarmente comodo – ma anche il nostro giudizio è influenzato dal fatto che le nostre stesse attività grafico-scrittorie sono state condizionate a loro volta dalla scelta alfabetica, per cui c’è qualcosa di lapalissiano nel fatto che troviamo comodo un sistema di scrittura che ci permette di fare più facilmente quello che ci siamo abituati a fare attraverso quel medesimo sistema di scrittura! Proprio nel libro di Lussu, mi pare, ho ritrovato un’informazione che avevo già incontrato altrove, sul fatto che, a parità di anni di studio, i bambini inglesi imparano l’ortografia di un numero di parole inferiore a quello dei bambini cinesi. Se dunque il primato della scrittura alfabetica sta nella presunta semplicità di apprendimento, questo non vale davvero per tutte le lingue che ne fanno uso: inglesi e francesi ne sanno qualcosa.
Ma il punto sollevato da Larizza non è questo. È piuttosto che ci stiamo avviando (e sempre di più con le nuove tecnologie informatiche, iPad in prima linea) verso una scrittura visiva di tipo grafico, destinata ad accompagnare la scrittura alfabetica con la sua maggiore immediatezza e precisione (almeno per certi scopi). È il tema dell’infografica, cioè di come trasmettere l’informazione attraverso schemi, diagrammi e tabelle, grafici, grafi, o comunque figure facilmente e correttamente interpretabili, che siano anche nel contempo attraenti e interessanti alla vista.
Non c’è dubbio che la direzione sottolineata da Larizza sia corretta, anche se mi sembra eccessivo l’accento che (da giornalista) lui mette sulla novità della cosa. L’infografica (o i suoi predecessori) esiste in verità da quando esiste la comunicazione visiva – cioè da prima della scrittura. Ed è vero (come lui stesso ci ricorda) che le limitazioni dovute alla tecnica della stampa a caratteri mobili l’hanno portata, da Gutenberg in poi, un po’ in secondo piano – ma non l’hanno mai esclusa del tutto (basterebbe guardare cosa facevano i gesuiti tra Cinque e Seicento nei loro libri educativi – come ci spiega bene Andrea Catellani in un libro di cui parlerò prossimamente, Lo sguardo e la parola. Saggio di analisi della letteratura spirituale illustrata). Le condizioni di fruizione erano diverse (pochi e scelti lettori, lunga vita culturale della pubblicazione), ma questo non mi sembra così rilevante.
Il problema, secondo me, non sta tanto dalla parte della fruizione, bensì da quella della produzione. Una buona infografica, anche accompagnata da pochissime didascalie, è spesso più informativa e più immediatamente comprensibile delle parole che servirebbero per descrivere i medesimi dati. Certo, non qualsiasi discorso si presta alla visualizzazione grafica (e ci sono discorsi che si prestano benissimo a visualizzazioni che non sono infografiche – basta pensare ai fumetti), però indubbiamente se è opportuno usarla e ne abbiamo le capacità, dovremmo sentirci moralmente obbligati a farne uso; proprio come è moralmente giusto scrivere nella maniera più semplice e comprensibile possibile, rispetto a quello che vogliamo esprimere.
Ma il punto sta proprio in questa capacità di fare uso della grafica. Gli esempi che porta Larizza (“i designer-giornalisti Andrew Vande Moere (www.infosthetics.com), Nicholas Feltron (http://feltron.com) e David McCandless (www.davidmccandless.com“) sono giornalisti che sono pure grafici di qualità, o che hanno il sostegno di grafici di qualità. Se l’argomento del discorso è la scrittura giornalistica, allora tutti dovrebbero fare come loro, ogni volta che sia opportuno.
Ma la scrittura investe ben altro universo, oltre al giornalismo. La sua corrispondenza (più convenzionale di quanto non si creda) con la lingua parlata può crearmi un’illusione di presenza rispetto alla voce di chi scrive, che rivela la sua efficacia, per esempio, nella posta, anche elettronica. Mi domando se i parlanti (e scriventi) cinesi percepiscano lo stesso effetto: in buona misura certamente sì, perché la scrittura cinese ha comunque una forte componente fonetica. Ma forse, in qualche altra misura, di meno, specie quando si sa che lo scrivente parla un dialetto differente dal nostro.
Ma lasciamo perdere anche i contesti in cui il legame della scrittura con la voce sono rilevanti. Possiamo immaginare, per sempio, una corrispondenza commerciale che accompagni a qualche formula verbale di cortesia e inquadramento del tema una serie di infografiche documentative o esplicative. Non c’è bisogno di aspettare il futuro o l’iPad per questo: già si fa.
Tuttavia, chi scrive una lettera commerciale di questo tipo non può sperare di avere a disposizione un grafico di qualità, se già non lo è lui stesso. Il problema diventa allora quello di poter disporre di strumenti grafici sufficientemente standard, facili da utilizzare e versatili nell’applicazione, così che il nostro scrivente se li ritrovi già nella propria competenza (avendoli comunque imparati a utilizzare, ma con lo stesso tipo di diligenza con cui si impara a scrivere).
Il vantaggio della scrittura non sta solo nella sua potenza espressiva, ma anche nella meccanicità (e quindi facilità) della sua applicazione. Scrivere bene è difficile, e anche produrre infografica di qualità lo è; ma così come per la stragrande maggioranza delle applicazioni quotidiane è sufficiente saper scrivere, bene o meno bene che sia, anche per la stragrande maggioranza delle applicazioni quotidiane di infografica dovrebbe essere sufficiente saper usare correttamente degli strumenti standard, di chiara comprensibilità.
Solo se questi strumenti standard esistono, ci si può riferire a loro con l’espressione “scrittura”, perché la scrittura è tale soltanto se si basa su una convenzione sufficientemente diffusa, e sulla quale si va a stagliare (magari per modificarla) qualsiasi novità si cerchi di introdurre.
Questi strumenti, nell’era informatica, esistono già in qualche misura. Il problema di chi li propone dovrebbe essere quello di pensarli all’origine come strumenti di qualità, efficienti e comprensibili, definendo anche una serie di varianti stilistiche comunicativamente equipotenti (proprio come i diversi font in cui è possibile scrivere i medesimi caratteri di scrittura).
Il grafico che inventa modalità nuove di comunicazione infografica per scopi informativi specifici è necessario e continuerà a esserlo – ma è ancora più importante che queste innovazioni si possano catacresizzare quando lo meritano e diventare a tutti gli effetti linguaggio, scrittura. Anche questo riconoscimento e diffusione di standard è un lavoro da grafico. Dalla sua qualità dipende l’universo visivo della scrittura di domani.
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