Sasso nel parco di Mamallapuram
Di questa foto, scattata nel parco di Mamallapuram, non mi colpisce, evidentemente, solo il rapporto tra la cornice rettangolare e la forma grosso modo romboidale che richiama immediatamente l’attenzione. La chiamano Krishnas Butterball, cioè la palla di burro di Krishna, e posso assicurare che da qualsiasi parte la si guardi sembra incredibile che possa stare lì dove sta, senza scivolare o rotolare giù.
Ancora più misterioso è come questo masso sia arrivato lì, visto che attorno è tutto fatto di rocce levigate e appiattite come quelle su cui siedono gli arditi che approfittano dell’ombra. Però, visto che ci troviamo in India, dove tutto è magico e sacro, la mia ipotesi demenziale l’ho fatta anch’io, e la propongo qui, con la scusante del caldo e del fascino del mito.
Se osservate bene il masso, vi accorgerete che sulla parete di sinistra, in alto a destra dell’ardito con la camicia chiara in prima fila, c’è un’incavo che con un po’ di fantasia può essere interpretato come l’occhio semichiuso di un rettile. Se riuscite a vederlo, riuscirete anche a vedere l’intero masso come una testa di tartaruga, appoggiata a terra proprio sotto la bocca, e mozzata (a sinistra) prima che inizi il collo.
Questa tartaruga nella mia ipotesi è Kurma, ovvero il secondo avatar di Krishna, che secondo il mito agitò l’oceano primordiale per ottenere il Soma, la bevanda dell’immortalità, in modo da restituire agli dei la vita eterna che avevano perduto.
Il mito esiste davvero, ma che questa sia la testa di Kurma arenatasi qui dopo l’impresa è del tutto una mia invenzione. Però c’è davvero un tempio di Krishna a 200 metri da lì, e il sasso ha quel buffo nome; e quando si agita il latte quello che si ottiene è proprio il burro… Metti mai che ci ho preso!
Pentole a Tiruchirapalli
Questa foto è stata scattata di notte, nella zona del mercato, a Tiruchirapalli. Mi piace, anche se è leggermente mossa, perché ritrae un inno ingenuo al consumismo. Questo soffitto argentato di pentole in acciaio inossidabile, inframezzate di splendenti luci al neon, che si rifrangono all’infinito in migliaia di culi di pignatte, sarebbe insopportabile a una massaia europea, persino a una mitica casalinga di Voghera. E invece qui è bello, normale, eccitante, sfolgorante come il dio Shiva.
Le bimbe sgambettano felici, i genitori si sentono avvolti nella luce davvero abbagliante della modernità. Che ci sta a fare lo sguardo così gentile della guardia giurata, rivolta al turista occidentale che fotografa stupefatto questo tempio profano? Perché non castiga invece il mio stupore, quello di uno che viene da un mondo assai più consumistico di questo?
Qualche volta davvero gli indiani mi sembrano tutti bimbi, felici dei loro giocattoli splendenti, gentili e ottimisti di fronte a qualsiasi cosa. Anche i loro edifici sacri sono così; trasmettono lo stesso entusiasmo, lo stesso stupore di fronte a quello che luccica. Forse è solo a noi moralisti occidentali che questa felicità puerile appare in contraddizione con le profondità del Vedanta.
Volto di cavaliere sul muro esterno del Kailasanather Temple a Kanchipuram
Il tempio Kailasanatha a Kanchipuram è il più antico tempio costruito del sud dell’India, e risale ai primi anni dell’ottavo secolo. Più indietro nel tempo ci sono solo i templi scolpiti direttamente nella pietra delle colline rocciose di Mamallapuram, non lontano da qui.
Il tempio è dedicato a Shiva, ed è di una bellezza straordinaria. Vi ho scattato centinaia di foto, cercando di portarmene a casa l’anima, peraltro inutilmente. Sul muro esterno c’è una sequenza di rilievi di cavalieri, che montano creature fantastiche. Molti sono erosi dal tempo, ma alcuni rimangono ben conservati. Al volto di questo ho scattato diverse foto, perché aveva qualcosa di indicibilmente attraente.
Poi Elio Di Raimondo ha avuto la sfacciataggine di commentare questa immagine con queste parole: “vorrei essere guardato così almeno una volta al giorno. Potrei vivere cent’anni di felicità”.
E grazie a lui ho capito il fascino di quella lontana figura.
Vasca nel tempio di Kachabeshwarar a Kanchipuram
Anche se leggermente mossa, questa foto esercita molto fascino su di me. L’ho scattata nel tempio di Kachabeshwarar, a Kanchipuram.
Nel Tamil Nadu, tutti i templi di grandi dimensioni contengono una o più vasche: l’acqua è sacra, in India. Molte volte, però, esse non sono accessibili.
Sarà che quest’acqua in cui vediamo il riflesso dei recinti e delle cupole del tempio mi appare come una metafora del velo di Maya, che ci impedisce di vedere il mondo come è davvero; o sarà per il ribaltamento tra pietra e cielo, con quegli alberi che si intravvedono proprio in basso. Sarà per la composizione a strisce orizzontali, interrotta qua e là dagli eventi. Sarà anche per l’andamento irregolare dei gradini, speculare a quello delle cose nell’acqua.
O sarà appunto per l’evento della marginale conversazione tra quei giovani, a sua volta riflessa dall’acqua, mentre il gesto languido della ragazza che muove il piede nella freschezza della vasca crea un ponte, un tramite tra i due mondi. Sarà perché quel gesto me l’ha fatta desiderare, e qui, nella foto, lo ripete all’infinito.
Su una spiaggia a nord di Pondicherry
Di questa foto, presa appena a nord di Pondicherry, mi piace quel fazzoletto arancione agitato dal vento, che sembra un po’ un’onda come quelle che gli si intuiscono dietro. Lo vedo ancora svolazzare nell’aria calda, col frastuono dell’oceano attorno.
E poi c’è quella conversazione con gli occhi tra i bambini, la mamma e il venditore di noci di cocco, una primitiva prelibatezza, dissetanti e dolci.
E ci sono, qui, le strisce di colore che compongono la superficie della foto, di colori caldi quelle relative al mondo dell’uomo, di colori freddi quelle dell’altrove, mare o cielo che sia. Però è azzurro anche il legno del carretto, dello stesso colore del mare, appena un po’ più vivo. E poi c’è il verde, unico nell’immagine, delle noci da cocco.
Mentre scattavo questa foto avevo in mente una figura, quella di un dipinto di Giovanni Fattori, che riporto qui sotto. In realtà è molto diverso da come lo ricordavo in quel momento, ma alcune analogie ci sono veramente. E ce ne sono abbastanza per far risaltare, invece, le differenze: da un lato un’Europa elegante e compassata, col mare gentile e la tettoia un po’ leziosa, dall’altro un’India calda e inesorabilmente popolare, col mare sempre tumultuante, e la gente che sorride.
In mezzo io, che non riesco a vedere l’una se non attraverso il filtro dell’altra, che è la mia, inesorabilmente, nonostante tutto il fascino della prima.
Giovanni Fattori, La rotonda di Palmieri, 1866
Contatti elettrici a Tiruchirapalli
Questa foto dal contenuto complicato è stata scattata la sera successiva alla foto contenuta nel post del 5 giugno, dalla medesima terrazza (in attesa di ripetere l’esperienza gastronomica della sera prima), ma da un tavolo diverso, giusto un paio di metri dal precedente. Nonostante la sovraesposizione, si può distinguere, nell’angolo della foto in basso a destra, la bancarella della foto precedente. Alle sue spalle c’è la grande cisterna buia; davanti e attorno le vie illuminate e affollate.
Tutta quella luce ha ovviamente un’alimentazione elettrica. E non potevo dunque non fotografare questo totem dell’improvvisazione elettrotecnica che si trovava proprio di fronte a me!
Questo oggetto ha davvero qualcosa di straordinario – ma solo per noi: in India, a quanto o potuto osservare poi, è un fenomeno diffuso e normale.
Nonostante la sovraesposizione e la confusione, questa foto a me piace, e non solo per la paradossalità del suo oggetto. Il fatto è che quando si riesce a dipanare la massa degli stimoli visivi, e a separare visivamente il mostro in primo piano dallo sfondo, vi appare una vita ricca e vivace, insieme a un grande spazio di silenzio e di oscurità. La complessità inestricabile della rete dei contatti elettrici che si vede qui, e ci fa sorridere, corrisponde a una complessità inestricabile della cultura indiana, i cui collegamenti sono spesso imprevedibili – e ci danno l’idea di un garbuglio senza né capo né coda.
E invece, incredibilmente, la cosa funziona, esattamente come questo impianto elettrico. Chissà: magari a un occhio indiano potrebbe apparire semplicissimo, immediatamente evidente nella sua banale ovvietà!
Bancarella a Tiruchirapalli
Ho scattato questa foto a Tiruchirapalli (anche detta Trichy) nel Tamil Nadu, di notte, dalla terrazza del ristorante dove stavamo aspettando la cena. È una foto che a me piace molto, non solo per l’ordine maniacale con cui i commercianti indiani dispongono la frutta, che contrasta singolarmente con il disordine che regna tutt’attorno; non solo per i colori brillantissimi, a grandi macchie, e per lo spazio irrisorio in cui il fruttivendolo si trova costretto ad agire.
E poco importa anche che alle spalle della bancarella si stenda un enorme spazio buio: una grande cisterna, praticamente un piccolo lago quadrato nel bel mezzo della città. Davanti, viceversa, c’è luce e vita, e un sacco di gente che passa e si ferma a far compere.
Qui, in quello che si vede nella foto, il rettangolo della bancarella illuminata si staglia sul rettangolo più grande e oscuro intorno, ripreso, in piccolo, dalla macchia nera dell’uva proprio al centro. E poi, qui, sono tutte macchie rettangolari, cesto di frutta accanto a ogni cesto di frutta, compreso il corpo del fruttivendolo in alto. Rettangoli irregolari, molto creativi evidentemente, però ugualmente mattoni per assemblare questa composizione un po’ funzionalista.
E così mi viene in mente che l’India è in verità un paese di grandi matematici, che i nostri numeri sono stati inventati lì, e che al giorno d’oggi vi si scrive anche la maggior parte del software che si produce al mondo. A camminare per le strade magari non si direbbe; ma poi quell’anima nascosta e astratta si rivela, a livello popolare, anche nel razionalismo maniacale dei fruttivendoli, e nei contrasti geometrici tra rettangoli di luce e quadrati d’ombra.
La cena, comunque, qualche minuto dopo è stata buonissima.
Pianura a Tiruvannamalai, dalla collina di Arunachala
Non sono in grado di esprimere davvero un giudizio su questa immagine, presa dalla cima della collina rocciosa di Arunachala, la “collina dell’alba”, presso Tiruvannamalai, nel Tamil Nadu. Io la trovo bella, ma capisco benissimo che il mio giudizio possa essere ancora fortemente segnato dall’esperienza vissuta in quell’occasione.
Sono circa le nove di mattina. Sulla cima di Arunachala c’è una brezza piacevolissima. Ma sino a pochi minuti prima stavamo arrancando da oltre due ore nel caldo-umido dell’India del Sud, colmando quasi ottocento metri di dislivello dalla pianura sottostante, avvolta in una leggera bruma.
Tiruvannamalai, la città che si stende dall’altro lato della montagna, è un luogo sacro a Shiva (che in Tamil Nadu ha anche nome, appunto, Annamalai), e vuole il mito che la montagna stessa sia non solo un’incarnazione del dio, ma addirittura la prima di tutti i tempi. Per questo, una volta l’anno, si svolge qui un festival a cui accorre oltre un milione di persone, e questa cima di roccia a cui siamo arrivati è interamente annerita dal burro fuso dell’enorme falò che vi viene acceso l’ultima notte – per essere visto da chilometri attorno.
Camminare sopra Arunachala vuol dire camminare dunque sopra il dio Shiva, e per quanto si possa essere lontani dalla religione, la cosa trasmette comunque un certo brivido – anche perché la visione della città sottostante, con il suo tempio enorme – tra i più grandi dell’India – è veramente impressionante.
Paul Klee - Strada principale e strade secondarie, 1929
Ma quando si arriva in cima, e si vede finalmente dall’altra parte, il panorama cambia del tutto, e il mio occhio di Occidentale acculturato non può fare a meno di vedere quello che Paul Klee ha a suo tempo visto magari solo con gli occhi dell’immaginazione.
Per me l’impatto è stato fortissimo, e non riesco più a capire quanto questa foto lo renda, e quanto la parentela con il sogno di Klee ne salti fuori.
Se aggiungiamo che questo stesso dipinto di Klee è anche protagonista di un libro di Pierre Boulez sui rapporti tra Klee e la musica (Il paese fertile. Paul Klee e la musica, Leonardo Editore, Milano 1989) si capirà come il cortocircuito si faccia ancora più stretto e più ricco.
Misticismo e sublime hanno strane vie, talvolta, per manifestarsi.
Madras - Tempio di Kapaleeswarar a Mylapore
Ho scattato questa foto a Madras (oggi Chennai), dentro al tempio di Kapaleeswarar a Mylapore. Ero affezionato a questa immagine anche prima che Elio di Raimondo la commentasse con termini lusinghieri, facendomi decidere di renderla pubblica.
Mi piace per via della composizione, con questo gioco di diagonali e di verticali. Mi piace per il gioco di piani diversi che si susseguono, dalla lamiera scura in primo piano in basso, alla statua della mucca, al lampione, alla cupoletta, fino alla bandiera dorata del tempio – senza contare altri piccoli dettagli. Mi piace per le rime visive: il rosso dello stendardo a sinistra col rosso del drappo sulla mucca, lo scuro della lamiera in basso con lo scuro della bandiera in alto, il bianco della mucca con il bianco della cupoletta, il giallo del muro in basso con il giallo dell’asta della bandiera, e l’altro giallo luminoso del lampione con l’angolo illuminato della cupoletta. Mi piace per il fondo di cielo piatto, quasi grigio.
E mi piace perché mi racconta di una prima sera appena arrivati in India (anche se questo non si vede), mentre i simboli della devozione (la mucca, la bandiera, la cupola) sono accostati a quelli della modernità (la lamiera, il filo elettrico che taglia a metà l’immagine, il lampione acceso). E che la belva sacra (come la definisce Elio) sia illuminata non dalla luce divina ma da quella elettrica mi pare così dolcemente ironico da essere davvero indiano, fino in fondo.
La malinconia della sera, l’ironia, il sacro, la tecnologia: tutto vi si trova insieme, e insieme è dolcemente trascurato. Come dire che tutto ha valore, ma niente ne ha troppo; e proprio per questo anche gli opposti possono convivere.
P.S. (del giorno dopo): Riguardando la foto mi sono reso conto che la belva sacra molto probabilmente non è una mucca, bensì un toro, anzi il toro Nandi. Di fronte alle immagini sacre di Shiva c’è sempre un toro Nandi in contemplazione e adorazione, e spesso attorno ce ne sono altri. Poiché il tempio in cui è stata scattata questa foto è un tempio dedicato al dio Shiva, è quindi probabile che si tratti proprio di lui.
Il toro Nandi è il simbolo della contemplazione mistica, è il proto-asceta, che si perde nella contemplazione del dio. Se lo riconosciamo in questo modo, la foto assume ancora altri significati, sia ironici sia appassionati. La luce che illumina l’estasi dell’asceta è infatti la povera luce elettrica di un lampione cittadino – ma per un indiano anche quella può essere luce divina, perché il divino è ovunque.
E il toro perso in contemplazione è anche l’immagine rispecchiata dell’occhio che ha visto questa scena, l’ha amata, e ha scattato la foto. Di nuovo, tutto è mistico, persino la contemplazione del turista, persino dentro l’inevitabile ironia della situazione. L’India è una specie di vortice da cui non si riesce a uscire.
Mamallapuram, palme
Ho scattato questa foto in India, l’anno scorso, a Mamallapuram (o Mahabalipuram), dalla collina rocciosa dove si trovano i templi del Settimo secolo scavati direttamente nella pietra, guardando non verso il mare, ma verso la pianura attraversata dal fiume. La trovo una bella foto, ed è passato ora abbastanza tempo da quel momento da darmi una sufficiente illusione di distacco nella valutazione.
La collina rocciosa di Mamallapuram non è più oggi un luogo sacro, ma lo è stato, certamente, per lungo tempo, e molto tempo fa. Ora è un ridente e affascinante parco pubblico. Quando ho scattato questa foto mi trovavo in India da un mese, ed ero a Mamallapuram per la seconda volta, in attesa dell’aereo da Chennai per l’Italia.
Questa foto mi piace perché rappresenta un altare, e al tempo stesso non lo rappresenta affatto. La roccia sotto i miei piedi non è il dio Shiva, come ad Arunachala, e il fiume che si intuisce non è la Kavery. Ma tutte le acque sono sacre in India, e quella stessa roccia, a pochi passi da me, porta intagliate figure divine di bellezza straordinaria.
Tutto questo nella foto non si vede. Quello che sostanzialmente si vede – credo – sono puri rapporti geometrici tra le verticali delle palme e l’orizzontale della pianura. Sono questi rapporti a richiamare, alla mente di chi guarda, l’altare che non c’è, il tempio che manca alla vista.
Al tempo stesso, però, le verticali restano palme, e l’orizzontale resta pianura, e dietro c’è il cielo e sotto ci sono le rocce e gli alberi, e questo è un luogo mitico e lontano, che ci racconta che il sacro esiste, indipendentemente dal fatto che Dio sia uno, nessuno o centomila.
Per questo questa foto continua a piacermi.
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