Iscrizione nel grande tempio di Tanjavur
Tra le cose che ho trovato affascinati e degne di essere fotografate nel Tamil Nadu ci sono anche queste iscrizioni su pietra, entrambe realizzate intorno al X o XI secolo. Mi sembra di capire che la scrittura utilizzata nelle due iscrizioni è la stessa, ma è evidente la differenza di stile grafico tra le due. Inoltre, quella di Tanjavur è notevolmente più accurata e raffinata.
Da quel poco che riesco a capire, mi sembra anche che questa scrittura sia differente (benché parente: diversi segni, con un po’ di sforzo, sono alla fine riconoscibili) da quella utilizzata dai Tamil oggi. D’altra parte, all’occhio di qualcuno che non l’ha mai frequentata, anche la nostra scrittura può apparire mostruosamente trasformata dal Mille a oggi; quelle che a noi appaiono semplicemente come varianti stilistiche (tra, p.e. il gotico e gli alfabeti moderni) possono apparire da fuori come vere trasformazioni morfologiche.
Ho però ragione di pensare che la scrittura tamil si sia trasformata davvero nell’ultimo millennio. La scrittura brahmi da cui deriva veniva utilizzata poco prima di Cristo, e non è certo cambiata da un giorno all’altro.
D’altra parte anche noi mica utilizziamo la stessa scrittura degli antichi romani, a dispetto di quello che ci fanno credere a scuola. Il set di lettere che avete principalmente sotto gli occhi, cioè quelle minuscole, è interamente un’invenzione del medioevo. I Romani (come pure i Greci) usavano solo il maiuscolo.
Iscrizione nel Rock Fort Temple di Tiruchirapalli
Varietà tipografica sulle strade del Tamil Nadu
Questa settimana, visto che siamo in tema di caratteri, niente foto indiana. Mi sono invece divertito a realizzare questo collage di caratteri tipografici della scrittura tamil, presi per le strade del paese (insegne e manifesti).
Al di là di un gusto per il colore forte che caratterizza tanto i caratteri tipografici quanto le figure in generale, ci sono poche altre osservazioni da fare per un’immagine che si commenta da sé. Giusto due parole sulla scrittura tamil, che è una delle tante scritture derivate dal brahmi (l’antica scrittura del sanscrito, dell’epoca precedente alla nascita di Cristo), tra le quali la più nota è il devanāgari, con cui si scrive l’indi e altre lingue indiane del nord. Sono tutte scritture a base sillabica, in cui i caratteri principali, nella loro forma di base esprimono ciascuno una consonante seguita dalla vocale a. Se si vuole indicare una vocale diversa, il carattere cambia leggermente forma, a seconda della vocale da esprimere. Se la consonante va pronunciata da sola, viene sormontata da un punto. Per le vocali da sole esistono invece altri segni.
Non sarebbe un sistema in sé particolarmente complesso, se non fosse che l’uso ha imposto la presenza di molte legature (coppie di caratteri frequentemente accostate, che si fondono graficamente, dando vita a un nuovo carattere, come succede in Occidente con il segno &, cioè “et”). Queste legature, in tamil sono alcune decine, mentre in altre scritture indiane possono essere addirittura centinaia, e rappresentano il principale ostacolo all’apprendimento rapido da parte di un Europeo.
Comunque, nelle poche settimane in cui sono stato lì ero riuscito a imparare a leggere un sufficiente numero di caratteri da distinguere le destinazioni dei bus, che spesso non venivano scritte anche in caratteri occidentali; e per scoprire che i nomi delle città potevano a volte suonare piuttosto differenti per i locali rispetto alla loro versione occidentale (es. Puduccherri per Pondicherry, che va pronunciata alla francese, perché era, appunto, una colonia francese).
Contemplazione del tramonto a Varkala
Restiamo, con la scorsa settimana, in tema di contemplazioni verso sera. Ho scattato questa foto a Varkala, nel Kerala. Certo, in teoria questa foto potrebbe essere stata scattata su qualsiasi costa rivolta a occidente nel mondo; ma in India, a quest’ora, ovunque ci si trovi le spiagge si riempiono di persone. Cosa fanno? Vengono a vedere il tramonto – persino quando il tramonto non c’è, perché il cielo è troppo coperto, o non è sul mare, perché la costa è rivolta a est.
Evidentemente il fascino dell’ora che volge ai disio i navicanti, e intenerisce il core, da queste parti è molto sentito (anche se gli indiani non possono citare Dante). È anche per questo, evidentemente, che questa foto mi piace. Però non solo.
Naturalmente è facile fare foto suggestive a una situazione suggestiva, e i tramonti fotografici si sprecano. Però, tra le molte foto che ho scattato a queste situazioni, questa ha un fascino particolare; sarà per quella strana nuvola che diffrange la luce del sole, sarà per il colore, irreale persino per un tramonto, o per la composizione dei gruppi di figure…
Non so. Magari sono viziato nel mio giudizio dal fatto di esserci stato.
Contemplazione del crepuscolo a Kanyakumari
Ho scattato questa foto appena dopo il tramonto, a Kanyakumari, l’estremità meridionale dell’India.
Mi piace non solo per il contrasto tra i colori poco saturi che dominano l’immagine e quelle due vivaci tonalità di verde al centro, o per la presa diagonale dell’immagine che accenna appena a una prospettiva che fugge, ma anche per il contrasto tra l’atteggiamento delle due figure: il padre perso nella contemplazione del mare verso sera, la bimba ridacchiante e rivolta al mondo.
Mi è abbastanza chiaro, però, che l’immagine mi colpisce anche perché mi viene istintivo immedesimarmi in quella figura maschile contemplativa, e insieme mi ritrovo fortemente anche nella dimensione del padre – perché è bello perdersi, ma è ancora più bello avere di fianco qualcuno che ti riporta indietro, senza tristezza.
Mattina del giorno di festa a Mamallapuram
È il 15 agosto, festa dell’Indipendenza dell’India. Seduti sul muretto di recinzione di una grande cisterna invasa di ninfee, a Mamallapuram, questi signori si fanno radere. Sono i borghesi del luogo, la mattina del dì di festa – tutti eleganti, in verità, compresi i barbieri (a parte forse l’uomo in canottiera a sinistra).
La foto mi piace per questo bel ritmo di corpi, a coppie, che progrediscono dall’ombra alla luce, dalla fase preparatoria del lavoro a quelle avanzate, contro lo sfondo della gradinata della cisterna che sembra scendere da sinistra a destra (un effetto prospettico) e il verde delle ninfee dietro ai corpi, e del cespuglio davanti.
Ma soprattutto, che voglia di essere lì, a celebrare questo piccolo rito, all’aperto, la mattina, sotto il sole non ancora troppo caldo!
Tramonto nel Ranganathaswamy Temple a Tiruchirapalli
Ho scattato questa foto nel Ranganathaswamy Temple a Tiruchirapalli, il tempio forse più grande dell’India intera (già dalla foto aerea di Google Maps si può capire che razza di bestia sia). È una foto romantica, come è facile che vengano all’ora del tramonto, “che volge al disio i navicanti, e intenerisce il core”.
Siamo in uno dei recinti intermedi del tempio. Quelli più esterni sono aperti al traffico veicolare. Quelli più interni hanno spazi più angusti di questi. La gente sta facendo il tradizionale giro (in senso rigorosamente orario), che è un atto devozionale, e si può compiere attorno a ogni recinto sacro, grande o piccolo che sia.
Qui, l’esposizione un po’ prolungata dovuta all’ora tarda (il tempio è aperto fino a notte) ha popolato la passeggiata di spettri evanescenti. Nei templi indiani si ha sempre l’impressione che ci sia un sacco di gente che non fa nulla, e lascia semplicemente che il tempo scorra. Al massimo cammina. Una bella atmosfera, sempre molto rilassata, sempre un po’ magica.
L’effetto romantico è procurato dai forti contrasti luministici e cromatici presenti in questa foto: il colore freddo del cielo e quello troppo rosso del mondo, con sprazzi di verde ugualmente saturo qua e là; lo scuro delle ombre e le zone illuminate, qua e là addirittura sovraesposte. A questo si aggiunge la corrispondenza tra le macchie di nuvole vaganti nell’azzurro, in alto, e le macchie di persone che si muovono nel rosso, in basso: come due configurazioni che si confrontano, simili, ma calda e chiusa l’una e fredda e senza confini l’altra.
Poco romantico, perché troppo indiano, è invece l’oggetto più suggestivo della foto, l’edificio alto a destra, un gopuram, o torre di entrata, che staglia le sue volute baroccheggianti contro quel cielo ugualmente barocco. Però, se si guarda bene, proprio sotto quell’oggetto favoloso c’è un’automobile parcheggiata, quanto di più ridicolmente prosaico si possa immaginare: ve la immaginate, dalle nostre parti, un’automobile in chiesa?
È necessario un suggerimento. Se volete godervi questa foto, ed entrare un minimo in nello spirito di quel mondo, non limitatevi a guardarla così piccolina. Cliccateci sopra e poi ingranditela più che potete, a tutto schermo, se possibile (provate con F11), e poi camminateci dentro sino alla luce verde in fondo, là dove si gira l’angolo.
Sui canali di Aleppey
Non c’è molto da dire su questa foto, scattata da qualche parte sui canali di Aleppey, nel Kerala, nel rumore dello sciacquio dei remi.
Quello che mi colpisce, in questa foto, è sostanzialmente la rima visiva tra la palma e il profilo della barca, rafforzata dagli accostamenti dei grigi (del cielo, dell’acqua, della barca) e dei neri (del fogliame, della barca). Nonostante questi colori, a guardar bene le ombre ci si può accorgere che c’è il sole.
C’è molta pace, ma anche una strana inquietudine. Saranno gli uccelli tra le foglie, sarà quella massa compatta e oscura a sinistra…
Nanotecnologia a Kulittalai
Certo che, da qui, appare strano pensare all’India come a un paese altamente tecnologicizzato. Eppure, più della metà del software che si produce al mondo viene realizzato in India; e là, ovunque tu vada, anche nel posto più sperduto e semidesertico, ci sono Facoltà di Ingegneria rigurgitanti di studenti.
Questa foto è stata scattata in una borgata vicino a Kulittalai, nel Tamil Nadu, tra i polli, le capre e i maiali; oltre a una piccola orda di simpaticissimi bambini, che facevano compagnia ai rari stranieri che capitavano in un posto così turisticamente irrilevante.
La foto ha – mi sembra – una sua grazia, con questa sua struttura quadripartita, e i due quadranti opposti verdi, accompagnati dai due quadranti opposti bianco-azzurri. Tuttavia, ovviamente, quello che colpisce – e la ragione stessa per cui l’ho scattata – sta nel contrasto tra quello che si trova nel quadrante in alto a destra e gli altri tre: futuro (nano)tecnologico contrapposto a passato rurale.
Se poi dicessi (ma lo farò in un’altra occasione) che cosa ci facevamo in quel posto, il quadro sarebbe ancora più paradossale. Ma già questo mi pare che basti, no?
Il santuario di Gandhi a Kanyakumari
Questa casa di bambola dal colore caramelloso e dalle forme da giocattolo per la primissima infanzia, non è né un playmobil né la versione indiana della casa di Barbie. È un edificio vero, a Kanyakumari, sulla punta estrema dell’India: il santuario di Gandhi. Lì sono state custodite le sue ceneri, prima di essere disperse nell’oceano che sta subito dietro.
In verità, proabilmente, questo è avvenuto per solo una parte delle sue ceneri, visto che ci sono diversi luoghi dell’India che vantano di aver ospitato le ceneri disperse del Mahatma.
La ruota per filare la lana (un arcolaio?) che sta sul frontone del santuario è il simbolo che Gandhi avrebbe voluto sulla bandiera indiana. Alla fine c’è andata la ruota e basta. In sanscrito ruota si dice chakra (pronuncia ciakra): vi dice qualcosa? Nessuno vi ha mai proposto corsi sui chakra e come risvegliarli, col serpente Kundalini e tutta quella roba lì? Al solito, a noi (pure a me) fa spesso un po’ ridere; ma quando vai a casa sua, quella roba assume significati che non ti saresti mai aspettato.
Qui davanti, sulla punta dei tre mari (Golfo del Bengala, Oceano Indiano, Mar Arabico), ho riempito una boccettina tra le onde, e me la sono portata a casa. Metti mai che sto ospitando sullo scaffale qualche atomo del Mahatma!
Shiva, Parvati e Airtel
Anche questa foto, come quella della scorsa settimana, è stata scattata a Varkala, nel Kerala. Là mostravo un cartellone con un’immagine dei nuovi dei; qui, a poca distanza, ecco invece una scultura da trasporto degli dei vecchi, quelli veri, tradizionali, belli: Shiva e Parvati – che è come dire, in questa zona prevalentemente shivaista, il principale avatar (incarnazione) del Brahman (ovvero di Dio), e il principale avatar femminile di questo avatar.
Tutto lo sterminato empireo induista è fatto di avatar, di avatar di avatar, di avatar di avatar di avatar, e così via. Ciascuno di noi, alla fine dei conti, è un avatar di Dio. Probabilmente lo è persino Airtel (il principale concorrente indiano di Vodafone), che mostra qui la stessa disposizione colorata e chiassosa delle due figure divine.
Ma la cosa più bella, qui, è ovviamente il carretto su cui sono montate le figure, insieme al fatto che era lasciato lì, sul bordo della strada – e chissà mai se è ancora in grado di muoversi!
Immaginatevi la scena corrispondente in Occidente, con una coppia di immagini di Cristo e della Madonna su un carretto arrugginito abbandonato al bordo della strada in mezzo a una discreta immondizia. Qualunque credente griderebbe al sacrilegio; e pure io che non lo sono mi sentirei disturbato. Ma qui, a quanto pare, è normale. Shiva e Parvati vivono tra noi: il fatto di essere divinità (e quali divinità!) in fin dei conti non le rende così estranee al mondo. Se Dio è dappertutto è sicuramente anche sul bordo abbandonato di una strada.
I nuovi dei
Ho scattato questa foto a Varkala, nel Kerala (come si capisce chiaramente dai caratteri con cui è scritto il testo), come parte di una serie dedicata ai manifesti del cinema di Bollywood e dintorni. Io li trovo fantastici, questi manifesti: tanto sono miti, gentili e sorridenti gli Indiani, quanto sono brutti, trucidi e incazzati i loro eroi cinematografici. Questo ci ha fin la vitiligine che gli sfigura la faccia!
Non bisogna poi mancare di osservare l’ambientazione, con quel po’ di sporcizia e fatiscenza che non manca mai; e le piante e le muffe…
Questi nuovi dei incazzosi, tuttavia, nei film finiscono sempre per mettersi a ballare e cantare; e i film sono tutti musical, anche quelli in apparenza drammatici. Poi magari si scopre che questi mostri hanno il cuore d’oro, a dispetto dell’aspetto da orco (o da maraglio, per meglio dire).
Insomma, persino qui, tutto in India ha molte facce, e gli dei più terribili sono anche i migliori, e viceversa. I nuovi dei non fanno eccezione. Ma a noi fanno un po’ ridere.
Negozio di spezie a Mattancherry
Ho scattato questa foto in Bazaar Road a Mattancherry, Cochin, nello stato indiano del Kerala. Come dice il nome della strada, si tratta di un luogo di commercio, ma il nome non ci dice che Cochin era una colonia portoghese e che l’intera strada è un’area di docks, costruita dai portoghesi stessi in stile europeo – anche se ovviamente riadattata all’uso e consuetudini indiane: in sostanza, un’affascinante e vivacissima fatiscenza. Di fianco a questo negozio c’è persino una chiesa.
Bazaar road diventa, poco più avanti, Jew Town Road, che possiede persino una bella e antica sinagoga. Gli ebrei arrivarono qui, ai confini del mondo, intorno al 75 d.C., cioè subito dopo la diaspora. Insomma, il melange di profumi di queste spezie rimanda al melange di culture che ci circondava quando l’ho scattata.
Tuttavia, anche se tutto questo aggiunge fascino alla foto, non è per questo che ne parlo. Ci sono due motivi (oltre a quelli, di circostanza, che ho già detto) per cui questa foto mi piace, nonostante la lieve sovraesposizione del muro bianco esterno.
Il primo è che qui tutto è organizzato per ortogonali, quasi come in un dipinto funzionalista, alla Mondrian. Naturalmente questo tipo di riferimento non è certo qualcosa che abbia inventato io: già negli anni 20 Edward Weston riusciva a produrre riferimenti di questo genere persino con foto di nudo. Questa ortogonalità fornisce all’immagine un tono un po’ irreale, quasi come se davvero quello che si vede fosse bidimensionale.
Il secondo motivo per cui questa foto mi piace è che, proprio per questa ortogonalità e la suggestione di bidimensionalità che ne risulta, la profondità emerge molto lentamente, e per piani giustapposti, uno dietro l’altro, come se fossero quinte teatrali.
Questo effetto, e il rallentamento percettivo che ne consegue, mi ricordano una vignetta di Flash Gordon che ho usato molte volte per mostrare come la profondità spaziale, gestita in un certo modo, possa essere usata per allungare il tempo di lettura. Nel caso di Flash Gordon, questo crea inoltre una certa coerenza con l’uso, adottato da Raymond, di verbose didascalie: un lungo tempo di lettura dei testi narrativi, cioè, è tollerabile in una vignetta se si accompagna a un lungo tempo di lettura dell’immagine. Questo, a studiare Flash Gordon, appare chiarissimo in Raymond – mentre quando la serie passa poi nelle mani di Austin Briggs, non è solo la qualità grafica del disegno a scendere, ma anche la capacità di tenere assieme la lunghezza dei testi con le sue immagini. Briggs non è davvero capace di costruire la durata della lettura visiva, e cerca di buttarla sull’istantanea efficace che rende il movimento. Peccato che non fosse un drago nemmeno lì.
Certo, la vignetta di Raymond non ha il riferimento funzionalista, però i piani giustapposti ci sono, uno dietro l’altro. Ma è una vignetta, appunto, non una foto, e il disegnatore nasconde con facilità i raccordi trasversali dello spazio, nella direzione della profondità. Nella foto, la costruzione ortogonale ha più o meno la stessa funzione.
Alex Raymond, Flash Gordon, vignetta dalla tavola del 9 gennaio 1940
Hari, Krishna
La foto di questa bambina è stata scattata a Kochi, nel Kerala, sul bus che porta da Fort Cochin a una spiaggia poco più a nord. Io trovo in questa foto diversi motivi di interesse.
Prima di tutto, la composizione. C’è un accenno di costruzione ortogonale, fornito dai tubi di metallo e dai montanti dei finestrini del bus. Ma poi, in maniera molto indiana, tutto è bombato e rotondeggiante, e le finestre sono addirittura inclinate verso sinistra. Viceversa, le figure animate sono tutte inclinate verso destra: braccio della mamma, bimba e figurina di Krishna. A destra abbiamo il dominio della luce, a sinistra quello dell’ombra.
Su questo sfondo, poi, certamente quello che colpisce è il rapporto tra la figura della bambina (tutta di colori caldi, dal bruno della pelle screziata di sole al rosso del vestitino) e quella retrostante del dio Krishna, anche lui bambino, azzurro su fondo verde (tutti colori freddi, sopra l’ombra del fondo).
Krishna è l’ottavo avatar del dio Vishnu, e per alcuni vaishniti ne rappresenta addirittura la forma originaria, essendo in questo caso la divinità suprema. Il suo nome significa “scuro” o “blu-scuro”, e per questo viene rappresentato sempre con la pelle di questo colore. Un altro dei suoi nomi è Hari (da cui la formula Hare Krishna), che significa “colui che prende” o ancora “colui che distrugge il samsara“, cioè il ciclo doloroso dei ritorni dell’anima.
Krishna è sempre raffigurato giovane, e spesso, come qui, in figura di bambino, con riferimento ai miti che raccontano la sua infanzia terrena. Trovo molto bella, qui, con tutta l’ingenutà di questa icona, la variazione sul gesto di namasté, ovvero del ringraziare a mani giunte: salvo che qui una delle mani è sostituita dal piedino del bimbo.
Mi piace, dunque, questa giustapposizione di due infanzie: quella mitica, del dio sorridente che ci libera dal destino del dolore, e quella reale, della bambina forse appena malinconica, ma tutta presa dall’osservazione del mondo che fugge intorno all’autobus. Alla fin fine, tutte e due le figure sono figure di Hari, colui che prende, che ci ruba, che ci libera, sia che si trovino nella luce solare del reale sia che emergano dalla freschezza e dall’ombra eterna del mito.
Strada a Tiruchirapalli, sotto il Rock Fort
Questa foto, scattata a Tiruchirapalli sotto il Rock Fort, mi piace perché lo spazio è tutto pieno. In basso c’è l’incredibile confusione della città, pedoni, motociclette, automobili, camion (tutti impegnatissimi a suonare il clacson); salendo, ci sono le case e tutto l’intreccio dei pali e dei fili della luce, che formano una specie di inestricabile reticolo. Sul fondo, la mole ascensionale del Rock Fort, il quale, manco a dirlo, è un tempio, e dalla sua sommità si può vedere tutta la città fino al fiume e fino all’enorme tempio di Ranganathaswamy, il più grande dell’India intera, forse del mondo.
Fa caldo, c’è rumore, la città è caotica, ma la montagna sullo sfondo è ugualmente parte di un sogno, un sogno che scende e si allarga fino a noi. Per quanto siamo immersi nei nodi e nella rete della vita di tutti giorni, il sogno rimane incredibilmente presente, pesante, materiale. Una roccia che continua tutto il tempo a essere antichissima nel cuore eccitato della città.
Accesso alla spiaggia, a Ovest di Kanyakumari
In questa foto, scattata 15 km a Ovest di Kanyakumari, dove ancora la costa è rivolta quasi esattamente verso Sud, e tra noi e l’Antartide c’è soltanto oceano, il tempo scorre a modo proprio. Lo mostrano le pose dei personaggi: solo la donna occidentale sta facendo, senza fretta, qualcosa; gli indiani sembrano interessati unicamente a far sì che il tempo scorra, fluisca.
Il mare dietro è grande, e il sole è basso, con la luce radente che crea strisce d’ombra sull’asfalto della strada. Anche dalla direzione delle ombre si capisce che siamo rivolti a Sud.
Questa foto mi piace perché ritrae una situazione metafisica in un luogo metafisico: un De Chirico indiano. Potrebbe essere l’immagine di un rebus, una di quelle situazioni sospese e senza senso, combinate senza una logica narrativa, ma solo per fare emergere dei frammenti di parola, in vista della soluzione.
Qui la soluzione è lontana, lontanissima, ma non se ne preoccupa nessuno. La donna occidentale e l’indiano sdraiato mi guardano. Sembrano rimproverarmi della mia iniziativa. L’atto stesso dello scattare questa foto potrebbe rompere la magia. Ma se non l’avessi scattata, oggi questa magia ugualmente non ci sarebbe.
I sarti nel Pudhu Mandapam di Madurai
Il Pudhu Mandapam di Madurai, situato proprio di fronte al Menakshi Amman Temple, è un posto incredibile. È un mandapam (ovvero un colonnato aperto) del sedicesimo secolo, pieno di statue e di colonne istoriate. Solo la navata centrale, la più ampia, è chiusa, e si può vedere dalle due estremità attraverso i cancelli. Invece le due coppie di navate laterali, piuttosto strette, sono state trasformate in un mercato, dominato dai negozi di stoffe e dalle macchine da cucire dei sarti. Idem per i due ingressi, anteriore e posteriore.
Il contrasto è incredibile. Se guardi in su, ti sembra di essere in un tempio; se guardi sotto, ci sono i mercanti (e soprattutto i sarti, al lavoro).
Questa foto mi piace perché la sento come – forse – la foto più indiana del mio viaggio, quella che coglie insieme più aspetti di quel mondo incredibile.
Mi piace la luce, che entra radente da destra, dall’uscita sul fondo del mandapam e illumina insieme statue e sarti, e le tettoie in lamiera sullo sfondo. Mi piace quella figura maschile che mi guarda, al centro dell’immagine – perché mentre tu guardi l’India c’è sempre l’India che guarda te.
E mi piace moltissimo questo brulicare di cose così varie, dalle meraviglie in pietra alle persone, in attività o svagate, sino anche alle merci. L’Occidente (e l’Islam ancora di più) sembra essersi perso dietro il mito dell’Uno, della sintesi, della formula unica che spiega tutto, del rigore geometrico che riporta il molteplice all’unità. Qui, dove tutto sembra funzionare bene o male lo stesso, non c’è nessun Uno, né nell’alto dei cieli né sui vicoli della Terra.
Svastike nell'Arunachaleswarar Temple a Tiruvannamalai
Giuro che non ho ritoccato i colori di questa foto, presa nell’Arunachaleswarar Temple di Tiruvannamalai. I colori sono quelli che ricordo, anche se forse il tempo lungo di esposizione dovuto all’illuminazione da interno ha contribuito a saturarli un po’. La foto mi piace anche a prescindere dai segni sul muro, per quell’esposizione di steli sacre che, al mio gusto occidentale, appaiono tra il ridicolo, il fascinoso e l’inquietante.
Il serpente è particolarmente sacro, in India, perché è legato all’acqua, che è a sua volta sacra, e l’adorazione delle divinità serpente è molto antica. Non a caso, uno dei miti che raccontano l’infanzia di Krishna (avatar di Vishnu) lo mostrano in combattimento con un grande e potente serpente fluviale, che alla fine gli si asservisce. Qui però siamo nel mondo di Shiva (o Annamalai, come lo chiamano qui), che spesso è rappresentato sotto la protezione del cappuccio del cobra, come pure accade anche con il Buddha. Arunachala, la collina dell’alba, alla cui base il tempio si stende, è Shiva medesimo, in una delle sue incarnazioni più antiche.
Sicuramente, la prima cosa che un occhio occidentale nota in questa foto sono le svastiche, come è capitato a me quando ero realmente davanti a quel muro. E di sicuro, l’effetto simbolico che questi coloratissimi simboli producono è ben diverso da quello della croce uncinata nera nel cerchio bianco sul fondo rosso che Hitler costruì con attenzione come simbolo del suo nascente partito; è diverso, ma non riesce a liberarsene del tutto.
È davvero affascinante (e preoccupante) la storia delle varie deviazioni per cui, dall’infatuazione indofila che porta in Europa verso la fine dell’Ottocento alla nascita della Società Teosofica (che ha la svastica stessa e l’Om come simboli), si arriva, passo dopo passo, attraverso le teorie razziste di Guido von List, sino alla Società di Thule, che darà poi vita al Deutsche Arbeiterpartei, ben presto trasformato dal suo giovane e rampante leader in Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei. Il resto della storia lo conosciamo.
Quello che in Occidente di solito si ignora, invece, è la spaccatura politica che l’adozione nazista di questo simbolo ha creato in India durante la guerra, tra coloro che avevano capito che la Germania era davvero un pericolo e appoggiavano i dominatori inglesi, in cambio di future (ma incerte) concessioni, e quelli che vedevano nell’alleanza con un paese anti-inglese, e per di più avente la svastica come simbolo, l’occasione per liberarsi dal dominio britannico. Per fortuna di tutti (indiani inclusi) hanno vinto i primi.
La svastica piaceva a Hitler perché era un simbolo antico e ariano. Ma è davvero paradossale che questo simbolo di pace e di luce sia diventato per noi un segno così tremendo. Queste svastiche colorate e luminose, tracciate da mani popolane di devoti, rinviano al culto del sole, e di Shiva che lo sovraintende. Il fatto che noi non riusciamo a non vedere in loro il truce simbolo della violenza e della morte ci mostra quali sentieri davvero strani possano prendere le idee e i loro simboli. Oltre un certo livello, nemmeno ricostruirne la storia può più restituirci la loro verginità.
I templi sulla spiaggia a Mamallapuram
A proposito di funzionalismo e prospettive, non è detto che si trovino sempre assieme. Ho scattato questa foto sulla spiaggia di Mamallapuram (o Mahabalipuram), nel bel mezzo di quello che resta di un complesso straordinario e antichissimo (VII o VIII secolo). Era il 15 agosto, festa dell’Indipendenza dell’India, e per questo c’erano un sacco di turisti, quasi tutti indiani.
Anche Alberto Moravia, in una pagina del suo libro di viaggio (Un’idea dell’India), parla di questi templi. Lui deve averli visti ancora abbandonati e in balia delle onde, visto che ne fa oggetto di una riflessione sul fatto che tutto è destinato a scomparire, anche la pietra, quando è soggetta all’erosione. Oggi i templi della spiaggia di Mamallapuram si trovano nel bel mezzo di un parco tutto verde, protetto dalla furia dell’oceano da una robusta scogliera.
Quando li ha visti Moravia dovevano essere dunque ancora più struggenti, ma la prospettiva di questa foto era probabilmente impossibile all’epoca, coperta come doveva essere dalla sabbia della spiaggia – come peraltro accade ancora, in parte, per tanti altri monumenti minori, scolpiti praticamente su ogni roccia affiorante dalla sabbia, per chilometri attorno.
Questa foto mi piace perché tra la piramide implicita della prospettiva in basso e le piramidi esplicite del templi in alto ci sono le persone, indaffarate a guardare, cioè a fare esattamente quello che sto facendo io. E poi c’è questa luce da mezzogiorno, quasi senza ombre. E infine quell’architettura a gradoni bombati dei templi sul fondo, che si rispecchia nelle forme del primo piano. Ci sono tante rime visive in questa immagine, e tanta lieve asimmetria che mette in movimento la simmetria dell’immediata evidenza.
In realtà, bisognerebbe essere da soli, qui, e magari persi in contemplazione. Il tempio è dedicato a Shiva, e l’immagine del dio si trova proprio davanti a me, là dove c’è la gente e tutti guardano. Il percorso indicato dalla fuga prospettica della mia foto conduce a lui, il dio asceta, colui che quando danza crea tutte le cose.
Non è questione di crederci o non crederci. Il mito ha poco a che fare con la credenza, a differenza della religione. Ma la religione è un’invenzione cristiana. Il mito è sempre, comunque, un passo più in là dentro di noi.
Funzionalismo a Tiruvannamalai
Questo è l’interno dell’Hotel Ganesha a Tiruvannamalai, visto dalla porta della nostra camera. È un posto rumoroso dove non si può aprire la finestra esterna, ed è meglio così, perché sotto c’è la strada principale dove tutti suonano il clacson continuamente. Si è condannati all’aria condizionata.
È l’unico hotel in cui sia mai stato al mondo dove, qualunque cosa spostassi, cuscino compreso, si levavano decine di zanzare. La stanza non era né più sporca né più pulita di tante altre in India, ma la concentrazione di zanzare faceva impressione.
Poi, come spesso accade in India, la cosa si è rivelata più preoccupante che realmente fastidiosa: non siamo stati punti in quella stanza più che in altri luoghi. Solo che avere il nemico in casa, anziché la casa come baluardo contro il nemico, è sempre un po’ destabilizzante. L’unica soluzione percorribile è accettare, e fluire con il tutto.
Tiruvannamalai è una città mistica e sporca, un luogo indimenticabile che porta il dio Shiva persino nel nome (da questa parti Shiva si chiama Annamalai). Sorge ai piedi della collina di Arunachala (che è essa stessa Shiva) e attorno al tempio di Arunachaleswarar, tra i più grandi e belli dell’India. Ci sono pochissimi turisti.
In questo luogo così indiano, la prospettiva funzionalista delle balconate interne del nostro hotel mi ricorda i progetti per la città di Chandigarh (nel Punjab) realizzati da Le Corbusier su incarico di Nehru negli anni Cinquanta, e anche che Salman Rushdie nel suo The Moor’s Last Sigh favoleggia di due piccoli edifici realizzati dal medesimo architetto non ancora ventenne a Cabral Island, Cochin, nel Kerala. Nonostante mi si agiti nella mente la sensazione che si tratti di un episodio storico, in realtà non ne ho poi trovato documentazione; e probabilmente è solo un’invenzione del romanziere.
Certo, quello davanti ai nostri occhi è un funzionalismo da poco, ma queste rette e questa prospettiva diritta che apre sul fondo a uno scorcio di città ugualmente fatto di piani geometrici giustapposti, è comunque tanto più invitante e sorprendente per la mia vista – che appena fuori di lì sta cogliendo in quei medesimi giorni organizzazioni visive ben diverse.
Passaggio presso il Bhagavathi Amman Temple a Kanyakumari
Questa foto vuota è tra le mie preferite del mio viaggio in India. L’ho fatta qui, a Kanyakumari, a duecento metri dalla punta estrema meridionale del subcontinente indiano, visibile appena svoltato quell’angolo, a destra; proprio dove conduce il marciapiede.
La parete rigata sulla destra è quella del Bhagavathi Amman Temple, un santuario dedicato a una divinità femminile dove gli uomini, in segno di rispetto, devono entrare a spalle e petto nudo – e se non ti togli la maglietta non ti fanno entrare. A sinistra, un’icona del progresso elettronico, con un bel colore da manifesto indiano.
Questo è un luogo magico, come peraltro tanti in India. E anche questo ha la sua magia peculiare. È una finis terrae. Di là da qui, verso Sud, c’è solo oceano sino all’Antartide, e pure verso Est e verso Ovest non c’è da scherzare. In quell’acqua sono state disperse le ceneri di Gandhi.
Questa foto vuota mi fa sognare. Le sue linee ortogonali sono quelle di un mito razionalista, il mio e quello di tutto l’Occidente, che in questo paese ha una particolare e originalissima manifestazione locale. La sua luce e i suoi colori sono quelli di un luogo senza tempo: ma il tempo irrompe, in alto a sinistra, e nei fili che percorrono il cielo.
Non c’è nessuno, al momento. Solo la mia vista, seguendo il marciapiede, cammina verso l’angolo.
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