Il Popeye di Sergio Ponchione
Sergio Ponchione rivela sul suo blog un segreto di Pulcinella, ovvero il debito enorme che ha nei confronti di Elzie Crisler Segar. A guardar bene, nella vignettona iniziale, si vede bene anche un altro grande debito, quello nei confronti di Benito Jacovitti.
Nelle loro peculiarissime specificità, Segar e Jacovitti sono stati forse gli autori più genialmente demenziali della storia del fumetto mondiale, capaci di costruire sul niente delle gag assolutamente esilaranti, spesso indimenticabili. I personaggi di entrambi ostentano continuamente un misto tra genio e stupidità, assai difficile da calibrare; così come è difficile giocare sul tormentone mantenendolo nei limiti di ciò che fa ridere, senza arrivare a far sì che stanchi. Quante volte il capitano don Perfidio Malandero può farsi schiaffeggiare dall’Alonza Alonza detta Alonza continuando a farci ridere? E quante volte Wimpy (o Poldo che dir si voglia) può riuscire a scroccare il suo panino?
C’è qualcosa, in Segar come in Jacovitti, che si potrebbe definire una sorta di geometria dell’assurdo, una sotterranea iper-regolarità delle gag, o dei rapporti stralunati tra i personaggi; una geometria che è una specie di idealizzazione astratta del reale, il quale, visto attraverso la sua lente, ci può apparire a sua volta assurdo. Ma la regola di questa geometria continua a sfuggire – ed è senz’altro diversa dall’uno all’altro autore.
Obliquomo è il figlio di questa assurda e inafferrabile geometria, il tentativo sempre più riuscito di definirne delle nuove coordinate, senza dimenticare quello che c’è stato prima. Vedere in questa tavola Ponchione che ripropone Segar in una grande panoramica alla Jacovitti è davvero un po’ emozionante. A quando una nuova grande storia surreal-demenziale del prof. Hackensack?
Jacovitti, panoramica da “Il Vittorioso”, 1955
P.S. A dire il vero, bisognerebbe aggiungere un terzo autore di riferimento per Ponchione, a costruire una sorta di trimurti del surreal-demenziale, che soprassiede agli incubi ponchioniani. Eccolo qui:
Basil Wolverton, “Eat at joe’s”
21 Giugno 2012 | Tags: fumetto | Category: comunicazione visiva, fumetto | A quanto mi dicono, Maestri del fumetto (Tunué editore) è in libreria oggi. Io non l’ho ancora ricevuto, e muoio dalla voglia di vederlo. Intanto qualcosa potete vedere anche voi, via ISSUU, o qui sotto (cliccateci sopra per ingrandire):
P.S.: Mi fa sapere giusto ora l’editore che c’è stato un ritardo, e il volume sarà in libreria il 28 giugno. Bisogna trattenersi ancora un poco.
Flavio Montelli, "Goodbye Bukowski" (Coconino 2012), pp.42-43
La si legge volentieri, e non solo, questa prima graphic novel di Flavio Montelli. Il disegno, ispirato all’underground americano, è del tutto in linea con quello di cui si racconta; ma soprattutto ne emerge un’immagine di Charles Bukowski molto diversa da quella che di solito ne abbiamo: ubriacone sì, ma molto tenero e innamorato, dolcissimo con le donne e soprattutto con la figlia. Poi non so (e non mi interessa) quale sia il Bukowski più vero, se questo o quell’altro. Quello che conta è che Montelli lo racconta bene, forse perdendosi un poco verso la fine, quando i flash back si moltiplicano; ma è un peccato veniale, nel complesso.
Quello che più conta è che la storia ha un bel ritmo di pause e di eventi, e che soprattutto in questo modo si ottiene l’effetto di una complessiva serenità, anche se il protagonista non smette praticamente mai di bere. È come se un certo negativismo da intellettuale maledetto americano venisse riscattato da qualcosa di più solare, e persino il disegno, pur rifacendosi a Crumb, o a Seth, o comunque a quel tipo di impostazione grafica, appare in qualche modo più sorridente…
Sarà l’attraversamento dell’oceano, sarà che l’immagine degli scrittori ubriaconi è passata un po’ fuori moda (ma l’eventuale loro qualità letteraria no), ma nel complesso è molto piacevole questa rivisitazione, questa separazione del personaggio Bukowski dall’immagine un po’ usurata che ancora gli si tiene cucita addosso (e che magari vende, certo! e questo, per chi gestisce la sua eredità, è quello che conta).
Flavio Montelli, "Goodbye Bukowski" (Coconino 2012), pp. 136-137
11 Giugno 2012 | Tags: fumetto, Jérémie Dres | Category: fumetto | Jérémie Dres, "Noi non andremo a vedere Auschwitz", Coconino 2012
Leggo Noi non andremo a vedere Auschwitz, di Jérémie Dres, fresco di stampa da Coconino. Il tema è interessante: due fratelli francesi, di origine ebreo-polacca, vanno in Polonia a cercare traccia delle proprie origini, poco dopo la morte della nonna, che è stata sino ad allora il loro unico tramite verso quel mondo. A Varsavia ne cercano la casa, prendono contatto con la comunità ebraica locale, troveranno con qualche sforzo le tombe dei bisnonni, scopriranno che esiste una rinascita vivace della cultura ebraica, dopo la caduta del comunismo. E non andranno ad Auschwitz, il che è sicuramente uno dei fatti più apprezzabili della vicenda, come sottolinea pure, nella prefazione, Jean-Yves Potel, Rappresentante del memoriale della Shoah per la Polonia (a Parigi). Evitare Auschwitz significa infatti cercare le tracce di un’altra storia, una storia positiva di vita e di civiltà, che il nazismo prima e il comunismo poi hanno in gran parte spazzato via. Però non del tutto.
Sin qui, tutto bene. Peccato che, al di là di queste apprezzabili cose, leggendo il testo non si capisca bene perché si dovrebbe andare avanti nella lettura. Noi non andremo a vedere Auschwitz si presenta come un reportage a fumetti, o come un diario di viaggio, ed è sicuramente fedele, documentato (le parole delle persone intervistate provengono dalle registrazioni, le immagini dalle fotografie…). Tuttavia, o troviamo interesse a priori nell’argomento, oppure il testo non fa gran che per sollecitarlo in noi, e questo mi sembra un difetto non piccolo.
Insomma, o c’è qualcosa che io continuo a non capire, oppure il meccanismo di questo testo non funziona. Sarebbe stato meglio forse scrivere un saggio, un libro-documento, destinato a chi sia interessato a priori al tema. Ma la forma graphic novel, come la forma romanzo tout court, ha l’ambizione di rivolgersi a “tutti”, o comunque anche a chi non sia interessato già di per sé al tema in sé, perché il meccanismo di coinvolgimento che esse instaurano dovrebbe funzionare indipendentemente dal tema, e favorire per questo l’interesse anche per qualcosa che prima non si supponeva che ci potesse interessare.
Insomma, questo libro non prende. È onesto, discreto, per niente ideologico; non cavalca il facile tema dell’antisemitismo; tutto è raccontato con cura e senza ideologie precostituite. Ma non prende mai il volo, e dopo un po’ non si capisce più perché si dovrebbe andare avanti a leggerlo. Peccato.
Jean-Philippe Peyraud & Alfred, "La disperazione della scimmia", Tunué 2012
Voglio solo dire due parole su La disperazione della scimmia, di Alfred (disegni) e Jean-Philippe Peyraud (sceneggiatura), pubblicato da poco in Italia da Tunué (trad. di Stefano Andrea Cresti). È un libro strano, che mi suscita sensazioni contraddittorie.
Da un lato è un feuilleton, con un paese oppresso, degli artisti, amori contrastati, una rivoluzione, e un sacco di temi un po’ stravisti. Dall’altro non posso negare di averlo letto, sin dalla prima pagina, con molto gusto e facendo fatica a staccarmi. Rispetto alle altre storie disegnate da Alfred e pubblicate da Tunué (Non morirò da preda, e Perché ho ucciso Pierre), il tema è forse un po’ meno originale – ma la qualità del disegno non cambia, e la sua combinazione grafica di caricatura e tragedia non è affatto secondaria per l’effetto complessivo.
Però, anche la storia ha evidentemente i suoi pregi. La figura del colonnello, per esempio, è memorabile: da un lato è indifferente e spietato, tirannico e omicida, dall’altro ha un volto da bambino spaventato e un’acuta sensibilità per l’arte moderna. Sarà magari questa combinazione di prevedibile e di originale a colpire, e a rendere, in fin dei conti, la lettura di questo libro così piacevole: molte cose scontate e parecchie soluzioni piuttosto originali, presentate con un segno incisivo e un montaggio piuttosto classico
Un prodotto molto francese, questo è chiaro; magari il frutto di un’industria culturale più matura – e quindi anche più standardizzata – di quella italiana. Però una bella storia a fumetti; di quelle che fanno venir voglia di lavorarci sopra (un’altra volta, però) per capire sino il fondo il perché.
Muñoz y Sampayo, "Billie Holiday"
Sono andato a sentire, qualche giorno fa, Laura Pigozzi parlare di Billie Holiday. Laura Pigozzi è psicoanalista ma anche cantante jazz. Il ciclo era quello di Polifonia del femminile (info qui) a cui avevo partecipato anch’io l’anno scorso parlando di Diane Arbus. L’idea del ciclo di incontri è quella che il relatore parla di una donna che, per qualche motivo, l’ha colpito molto – e cerca di comunicarne al pubblico le ragioni. Sono sempre presentazioni molto sentite, dunque; e quella dell’altro giorno lo è stata particolarmente. Quando poi ci è stato mostrato un video del ’59 (l’anno in cui Billie è morta) in cui canta Strange Fruit, il pubblico era visibilmente commosso, me compreso.
Io però non potevo fare a meno di pensare a un’altro resoconto emozionante su Billie Holiday, quello di José Muñoz e Carlos Sampayo, e una volta tornato a casa sono andato a rileggermelo. L’edizione italiana (Milano Libri – Rizzoli) è del 1993. In copertina c’è lei che canta, accompagnata da una coppia di pianisti dai capelli impomatati e con un’aria più latino- che afro-americana, in cui è difficile (ma non impossibile) riconoscere i volti dei due autori giovanissimi, all’età che potevano avere quando lei era ancora viva.
Il disegno di Muñoz colpisce come sempre, cioè violentemente. Però, una volta tanto, vorrei parlare piuttosto della sceneggiatura di Sampayo – anche se bisogna sempre avvertire, parlando di loro, che l’interscambio tra i due autori è sempre molto forte, per cui non esiste una sceneggiatura precedente che viene poi messa su pagina con i disegni, bensì un lavoro comune di progetto e realizzazione nel quale Sampayo è soprattutto sceneggiatore (ma interviene anche nelle scelte grafiche) e Muñoz è soprattutto disegnatore (ma interviene anche nelle scelte narrative).
Il racconto di questo libro è – diciamo così – polifonico: siamo al trentennale della morte della cantante, cioè il 17 luglio 1989, anzi, la notte prima; un giornalista che non sa nulla di lei viene incaricato di scrivere il pezzo per la commemorazione; non è molto contento di dover passare la notte in redazione, invece di raggiungere l’amante, che lo tempesta di telefonate; ma poi, inizia a scoprire la vita di lei, e ad appassionarsi alla cosa. Contemporaneamente, dall’altra parte della città, un uomo (nel quale chi conosce i lavori precedenti di Muñoz e Sampayo può riconoscere Alack Sinner) ascolta la voce della Holiday, e ricorda alcuni episodi che hanno intrecciato (marginalmente) la sua vita con quella di lei – e alla fine del libro andrà a posare un mazzo di fiori sulla sua tomba. Queste due diverse modalità di rievocazione (fredda e oggettiva – ma progressivamente sempre più partecipata – l’una, memore e appassionata l’altra) si intrecciano con i momenti della vita di lei, raccontati a questo punto senza un ordine preciso, ma seguendo ora l’una ora l’altra delle due rievocazioni: i difficili rapporti con i suoi uomini, che l’hanno sistematicamente sfruttata; la dipendenza dall’eroina e dall’alcol; i numerosi arresti; ma anche il rapporto singolare con Lester Young, il suo successo e la sua bellezza. Come pure la sistematica ignoranza della sua esistenza da parte dei bianchi, e l’adorazione, quasi venerazione, da parte dei neri.
Certo, la vita di Billie Holiday si presta bene a un racconto dai toni forti; non c’è bisogno di pigiare sull’acceleratore dei sentimenti, perché tutto sembra già al massimo da sé: il genio e la capacità creativa, insieme all’assoluta incapacità di stare davvero al mondo, facendo le scelte – non dico giuste – ma almeno non troppo sbagliate. Insomma una tragedia (nel senso teatrale) bell’e pronta, sfornata dalla storia della sua vita, e tanto più forte perché tutta vera.
Per questo Sampayo complica il gioco, e lo rende il racconto di un racconto, anzi di due; e Billie viene narrata attraverso il mito che la circonda, un mito fatto di luci spendenti e oscurità terribili, attraverso cui i sentimenti più dolci – come quelli che sembrano emergere dalla conversazione con Pres (Lester Young) si trovano presto sistematicamente annegati dalle durezze che li circondano – basate fondamentalmente sul pregiudizio, sull’incomprensione e sui luoghi comuni.
Tutto questo viene raccontato per spezzoni, passando di colpo da un momento della vita di lei a un momento del presente, in cui il giornalista è incalzato dall’amante che lo aspetta, o Alack è sommerso dai ricordi, e poi di nuovo alla storia di lei. Ogni evento è un breve flash, un po’ più lungo o un po’ più corto, ma comunque sempre un frammento che emerge nel frastuono collettivo degli eventi, quelli del presente come quelli della storia, quelli individuali come quelli collettivi.
Billie Holiday, il racconto a fumetti di Muñoz e Sampayo, è come una jam session in cui le voci soliste si alternano a scatti, emergendo sulla voce collettiva – la quale però rimane comunque ben presente, scandita dalla differenza e dai pregiudizi razziali. E la diversità di comportamento tra la comunità bianca e quella nera si riverbera anche nel presente, come quando il giornalista si accorge proprio studiando la vita di una donna nera che c’è lì, vicino a lui, un uomo delle pulizie nero, che lui non ha mai notato prima, ma che lavora in quel posto da ben 17 anni…
La violenza della vita di ieri non è molto diversa da quella della vita di oggi, proprio come la difficile emersione dei sentimenti. Esemplare è la parabola di Rufus, uno degli uomini di lei che se ne approfitta e la maltratta (mentre lei lo difende sino all’ultimo), che la vita conduce all’umiltà, e si incontra con Alan sulla tomba di lei, a portare i fiori.
Sampayo sa benissimo di maneggiare una materia pericolosa, che facilmente degenera nella retorica scandalistica dei quotidiani. Per questo gioca attraverso questi cambi fulminei di punto di vista, per cui siamo in un momento del tutto dentro alla storia di lei, vivamente compartecipi di quello che sente, e un momento dopo del tutto fuori, distaccati, quasi tecnici; e non c’è comunque tempo per la commozione, non c’è tempo per soffermarsi sui dettagli morbosi. Eppure, persino nella seconda modalità, quella cronachistica e distaccata, finiamo per coinvolgerci.
Proprio come sulla copertina del libro, Muñoz e Sampayo si sentono evidentemente del tutto coinvolti. E pure noi, i lettori, lo siamo sin dalla prima pagina, quella in cui la voce di Billie parla dal mito che la accompagna: “Sfiorerò tutte le tonalità e vi farò sentire che la mia voce non è solo la voce di Billie, ma viene da una voce che è quella di tutti. Anche se solo io mi chiamavo Billie Holiday. Lady Day.” (traduzione: Fiorella Di Carlantonio)
Miguel Ángel Martín, "Bug", Nicola Pesce Editore 2012
È tanto che non mi capita di scrivere di Miguel Ángel Martín. L’ultima volta è stato qui, su Golem, nel 2001, parlando di Psycho Pathia Sexualis, di pornografia e di violenza. Mi ritrovo pienamente in quello che scrivevo allora, e continuo a pensare che Martín sia un grande artista – ma non proprio facile facile da capire.
Per chi vuole fare meno fatica, e non è interessato alle angosce del sesso, c’è, adesso, Bug – dove la violenza sicuramente non manca (e in verità pure un po’ di organi sessuali vengono messi in gioco) ma l’argomento è così ridicolo e paradossale da non farcela percepire almeno direttamente come tale. Insomma, come dice già il titolo, il protagonista di Bug è un bacarozzo, una creatura minuscola di tipo incerto, ma sicuramente aggressiva e vorace – anzi, potremmo dire che è fatta solo di voracità e aggressività, nella più assoluta incomprensione di qualsiasi altra cosa.
Per questo la stupidità del nostro bug è a sua volta esemplare, e lo rende il protagonista ideale di piccole storie eccessive, o di microscopici eccessi. Violenza e voracità pure, unite alla totale stupidità, portano a conseguenze ovvie, tipicamente alla morte; ma il livello a cui tutto questo avviene è quello dell’irreale. Il nostro bug è il protagonista di un fumetto (e sarebbe perfetto anche per una serie di cartoni animati) che ha l’aria di essere fatto per bambini, ma che di sicuro non lo è. A prima vista sembrerebbe avere la perfidia di Tom & Jerry, ma poi ci si accorge che le morti e gli sbudellamenti sono un po’ troppo cruenti per quel mondo là.
Martín, da questo punto di vista, è decisamente sempre lui, sempre lo stesso di allora. La sua linea semplicissima e scarna, dalle forme rotondeggianti da fumetto disneyano, viene utilizzata in maniera troppo fredda; e l’assenza in generale di sfumature crea un senso di distacco e di straniamento. Alla fine, quello che viene raccontato non è che un orrore dietro l’altro: questo è evidente. Ma è evidente anche che Martín sta scherzando; ci sta ridendo sopra. Ci ridiamo sopra anche noi, non se ne può fare a meno, perchè Bug fa proprio ridere. Ma fa anche male, accidenti!
Il bacarozzo, in fin dei conti, ci assomiglia troppo, e non ci è difficile identificarci con lui, pur ridendone. Martín scherza, ma in fin dei conti scherza sempre, nei suoi fumetti. E ci fa sempre male. Magari Martín ci piace proprio per quello, perché ci fa male.
Insomma, anche il lettore di Martín è un masochista. Vedendomi così, mi sembra quasi di essere un personaggio delle sue storie. Alla dialettica del male non c’è scampo. Martín ce lo mostra sempre molto bene.
Alan Moore & Melinda Gebbie, "Lost Girls" (Magic Press) cap. 10 pp.2-3 (trad. Leonardo Rizzi)
Gironzolando per gli stand del Comicon l’altra settimana, capito allo stand di Magic Press, e noto i tre volumi di Lost Girls in vendita a prezzo ribassato. Mi pare indelicato indagare, ma questa svendita mi sembra un indizio di qualche problema nelle vendite del prodotto – tanto più che non devo nemmeno chiederlo e (in virtù del mio essere un noto critico) vengo facilmente omaggiato dell’opera, con il suggerimento che magari un po’ ne parli. Ecco, ne parlo, ma non per riconoscenza rispetto al (comunque gradito) omaggio. Ne parlo perché il lavoro di Alan Moore e Melinda Gebbie mi pone un problema, e i problemi sono sempre qualcosa di interessante di cui parlare.
Lost Girls è nato nel 1991, per la rivista/almanacco Taboo, e su quella avevo, all’epoca, letto qualche episodio sparso. Non mi aveva colpito molto; ma non si può basare un giudizio solo su degli scampoli. E solo adesso, finalmente, l’ho letto per intero. La versione in volume (dopo sedici anni di produzione) è solo del 2006 (negli USA) e del 2008 (in UK e in Italia). Negli USA ha venduto moltissimo. Qui, non so in verità, ma ho il sospetto che non sia andata allo stesso modo.
Intendiamoci: se è andata così non è colpa dell’edizione. I tre volumi della Magic sono molto belli e ben stampati. La traduzione non mostra negligenze (potrei anche dire che è buona, ma non ho sottomano l’originale per confronto). Tutto, di quello che un editore può fare, mi pare sostanzialmente al meglio.
E allora come mai un’opera che si presenta esplicitamente (parole del suo autore) come pornografica, che è piena di sesso esplicito, e che è stata scritta da uno dei più celebrati autori di fumetti al mondo, finisce per essere venduta sottocosto? Potrebbe essere solo che ne hanno stampato troppe copie e, pur avendone vendute molte, molte ne sono anche rimaste. Certo, potrebbe essere benissimo così.
Però, dovendo giudicare sulla base dell’effetto che il lavoro di Moore e della Gebbie ha fatto su di me, non sarei stupito dal sapere che non ha venduto gran che. Ma andiamo con ordine.
Un’opera pornografica, dicevamo, e quindi ovviamente piena di sesso esplicito, e di tutti i tipi: un catalogo abbastanza completo. Questo, di per sé, dovrebbe essere già un motivo per essere apprezzata e comperata da un maschio adulto italiano. E l’ha scritta Alan Moore, e dunque l’opera è piena, anzi rigurgitante di citazioni letterarie; anzi è interamente costruita su citazioni letterarie rivoltate in termini erotici (per i dettagli, se non conoscete l’opera, date un’occhiata alla voce di Wikipedia, ma quella in inglese; in italiano è molto succinta). Descritta così, Lost Girls dovrebbe essere una chicca per un maschio intellettuale, che potrebbe solleticare insieme sia il suo eros che la sua sensibilità culturale – non foss’altro per la somiglianza che, data già solo questa descrizione, essa porterebbe nei confronti di opere del marchese De Sade, tipo La filosofia nel boudoir.
Sarà forse perché, tolto qualche sprazzo, io mi annoio anche a leggere De Sade; ma questo Lost Girls, tolto qualche sprazzo, finisce per apparirmi di una noia mortale. Non è colpa della Gebbie, credo. Come disegnatrice magari lei non è Brian Bolland o Brian Talbot; però se la cava comunque meglio di Dave Gibbons, e se pensiamo a cosa Moore è riuscito a tirar fuori da Gibbons, non sarebbe dovuto essergli difficile tirarlo fuori pure da lei.
Il problema, io credo, è proprio Alan Moore. Siamo tutti d’accordo (e io per primo) che Watchmen è una delle opere chiave della storia del fumetto; geniale e intrigante sia nel soggetto che nel modo in cui è stato poi sceneggiato. Ho adorato Swamp Thing del periodo Moore, e apprezzato moltissimo varie altre cose successive scritte da lui. Ma non tutte. A forza di leggere, per esempio, le storie superomistiche di Moore (anche quelle che sono in verità delle parodie), si sviluppa una specie di stanchezza per i suoi dialoghi interminabili durante altrettanto interminabili passeggiate, e per il rigore geometrico delle sue simmetriche progressioni narrative – persino quando poi si resta a bocca aperta per l’intelligenza di certe sue soluzioni.
Ecco il punto. Leggete Lost Girls, e dopo un po’ sarete prigionieri dei suoi giochi letterari. E, a questo punto, o vi divertite a scoprire a cosa si sta riferendo o che cosa sta citando l’autore, oppure incominciate a essere un po’ stufi di racconti paralleli, di simmetrie di design, di paragoni tra realtà e storie nella storia (ricordate a mente o riportate da un libro). A un certo punto questa dimensione cerebrale diventerà talmente ossessionante che poco importerà che sotto i vostri occhi si stia svolgendo un’orgia oppure un dibattito culturale.
Lost Girls è così. Siccome la pornografia è di solito (su questo Moore ha ragione) il regno del banale e del noioso, insomma del brutto, teniamola come tema di sfondo, come occasione per parlare d’altro. Eppure questo altro, non potendo appoggiarsi qui che sulla pornografia, finisce per apparire freddo e astruso, un divertissement intellettuale – o, se preferite, visto il tema, una masturbazione mentale. Alla fine, il libro è pornografico e insieme non lo è, perché è troppo intellettuale; tutto si vede, del sesso, anche troppo, ma dopo un po’ non ce ne importa nulla. Perché quello che manca (quasi) interamente in queste pagine, incredibilmente, sembra essere proprio l’eros, quella cosa che ammicca e ci eccita.
Sarà magari perché Lost Girls è nato per essere fruito in brevi episodi di otto pagine, e non in un unica sequenza di duecentoquaranta. Magari, a leggerne una alla settimana, l’eros potrebbe anche rimanere in vista. Ma non mi sembra che l’eros interessi davvero a Moore; si ha piuttosto l’impressione che gli interessi il gioco geometrico degli incastri letterari, il riuscire a riraccontare coerentemente in termini erotici la storia di Alice (in Worderland), quella di Dorothy (nel regno di Oz) e quella di Wendy (alle prese con Peter Pan). Una sorta di parole incrociate di alto bordo, insomma, che funziona (e come funziona!) quando la posta è quella del racconto critico sui supereroi; ma che davvero fa fatica a incocciarsi con l’eros, quello che prende!
Alla fin dei conti, la cosa più erotica che ho trovato in Lost Girls è l’idea che ci fosse uno sceneggiatore maschio che scriveva delle storie pornografiche per farle disegnare a un’artista femmina, la quale si trovava così “costretta” a dare figura (grafica) alle fantasie (spiegate a parole) di lui. Non c’è molto da stupirsi che alla fine dell’impresa i due si siano sposati: lo ammette lo stesso Moore.
“I’d recommend to anybody working on their relationship that they should try embarking on a 16-year elaborate pornography together,” joked Moore. “I think they’ll find it works wonders.” (da qui)
10 Maggio 2012 | Tags: fumetto | Category: fumetto | Ecco come si presenta l’anteprima per i librai del mio prossimo libro sui fumetti, nel catalogo Tunuè. In uscita intorno a giugno.
Maestri del fumetto, Dal catalogo anteprime Tunuè
Manu Larcenet, "Blast" vol.1, Coconino Press 2012, pp.92-93 (trad. di Francesca Scala)
Non si può non notare il debito nei confronti di Gipi e dei suoi paesaggi luminosi dal cielo enorme, sin dalla prima pagina di Blast; come anche, spesso, nel rapporto tra il segno del pennino e i grigi della colorazione. Manu Larcenet è però un autore troppo originale e capace, e il debito, indubbio, appare perfettamente digerito. Come pure ben digerito appare l’altro debito, ancora più netto e forte, quello narrativo nei confronti di Georges Simenon: proprio come in Lettera al mio giudice o ne La camera azzurra, un reo confesso racconta infatti qui ai rappresentanti della giustizia i precedenti di un delitto di cui sappiamo solo che c’è stato, mentre nulla sappiamo del chi l’abbia subito, del cosa e del come.
Colui che racconta è un uomo di una grassezza enorme, quasi ripugnante, uno che, in seguito alla morte del padre, è fuggito dalla vita tutto sommato normale che conduceva. Scomparso il padre, è svanito anche il principio del dovere, quello che lo teneva legato alla vita civile, e la sua irrequietezza interiore ha preso il sopravvento, rendendolo un clochard, alla ricerca di qualcosa che nemmeno a lui è chiaro, ma è certamente diverso. E, di quando in quando arriva il blast.
Il blast è uno stato mentale di illuminazione, che giunge d’improvviso, e ti travolge, ti trasporta altrove, ti fa vedere i colori di un universo altrimenti in bianco e nero. In preda al blast il pesante protagonista può volare, può trovarsi di fronte ai mohai dell’Isola di Pasqua.
L’imputato è poetico e ironico nel suo racconto, di fronte a due poliziotti che non capiscono, ma sono costretti ad ascoltare. È profondo come un colpevole di Simenon, che ormai non ha remore nel raccontarsi – ma qui, poi, il racconto è sostanzilmente visivo.
Se conoscete Larcenet per le sue prove recenti (Lo scontro quotidiano, Ritorno alla terra) avrete in mente un umorista sottile e profondo, dal tratto semplice e arguto, adatto alle gag, e che lavora sui piccoli sentimenti della quotidianità. Qui siamo altrove. La sensibilità dell’autore è la stessa, ma ci troviamo all’interno di una grande storia, dai toni drammatici, di cui il volume di cui sto parlando rappresenta solo il primo episodio. Quel medesimo tratto viene a raccontare adesso una storia estrema.
Forse davvero Larcenet ha imparato da Gipi a utilizzare strumenti umoristici, insieme a strumenti lirici, per raccontare il dramma; a usare il paesaggio per rendere gli stati d’animo, ad alternare ironia e intensità, pennino e pennello. Questo Blast è comunque una bella sorpresa, di cui si aspetta davvero il seguito, come nel più avvincente dei gialli esistenzialisti e disperati del grande scrittore belga.
Sydney Jordan, dettaglio da una striscia di "Jeff Hawke", Gennaio 1971
Questa immagine ad alta risoluzione è stata scansionata direttamente dall’originale di Sydney Jordan conservato presso il Fondo Enrico Gregotti. Ingranditela in un’altra finestra per osservare i dettagli.
Jordan è un illustratore classico, e per di più è britannico. Non ci si può aspettare da lui una particolare originalità nel modo di disegnare. Eppure, come sa benissimo qualunque appassionato di Jeff Hawke (e tra questi ci sono anch’io), il mestiere di Jordan ha saputo dar vita a una delle più belle saghe fumettistiche del XX secolo. Non c’è dubbio, in questa saga, che siano l’intreccio e le invenzioni narrative di Willie Patterson a costituire la principale attrazione; ma se Jordan non fosse stato il maestro del disegno che era, il fascino dei racconti di Patterson non sarebbe mai arrivato al lettore. E Jordan sapeva essere, da bravo inglese, sia drammatico che ironico, sia realistico che teatrale.
Questa vignetta rappresenta il momento in cui Hawke scopre che per le civiltà aliene noi siamo solo dei pericolosi selvaggi, tanto da circondare il sistema solare con una serie di satelliti di avvertimento, proprio come quando sulle antiche mappe si trovava scritto “Hic sunt leones”. È il momento della scoperta drammatica, e l’illuminazione radente e violenta dal basso serve per dare ulteriore enfasi a questo primissimo piano a sua volta visto dal basso.
Il retino viene utilizzato insieme con le tessiture del pennino. Qui – va precisato – l’effetto è però ancora più forte che nelle versioni a stampa, perché col tempo la colla del retino è ingiallita, e nella scansione in bianco e nero fornisce un fondo grigio a quella parte dell’immagine, fondo che nella stampa originale non c’è. All’immagine rimpicciolita per la stampa, però, la scuritura fornita dal retino è sufficiente, mentre l’ulteriore lavoro realizzato a pennino dà profondità e rilievo alle diverse aree del volto. C’è anche un po’ di biacca bianca, per dar luce al microfono. L’effetto, come spesso nel lavoro di Jordan, non è né statico né particolarmente dinamico; guardate però quella bella linea sinuosa che separa la zona della luce da quella dell’ombra, attraversando naso e fronte del personaggio: il dinamismo è implicito: se la storia lo suggerisce, la figura diventa facilmente dinamica; se invece la storia non lo fa, abbiamo solo un effetto tensivo – nel caso specifico, appunto, drammatico.
Certo, siamo lontani le miglia, in questa immagine, dalle raffinatezze degli inchiostri di Alex Raymond, o di Magnus, o di Pratt. Il tratto di Jordan è tutto fuorché elegante. Eppure questa apparente sporcizia di linee costruisce benissimo il suo teatro, e ci tiene incollati lì. I lettori di Jeff Hawke lo sanno benissimo. Nell’arte di Jordan ci sta anche il non farsi notare.
Joan Sfar, "Il Gatto del rabbino"
Quando mi è capitato per la prima volta in mano Il gatto del rabbino di Joann Sfar, non ci ha messo molto a conquistarmi. Dopo tre pagine ero già appeso al fascino di questo racconto insieme quotidiano e magico – come solo Sfar sa fare. Recentemente, a Bilbolbul, ho visto anche il film d’animazione, e ho provato lo stesso fascino. Che Sfar sappia raccontare è difficile metterlo in discussione.
Ma c’è anche a chi non piace. Qualcuno, qualche mese fa, titolava un post “Sfar mi sembra un autore svogliato e privo di idee che disegna col piede sinistro mentre chiacchiera al telefono”. Volevo rispondere subito, ma poi la cosa mi è sfuggita. Rimedio oggi.
Sullo svogliato e privo di idee, con tutto il rispetto per chi esprime l’opinione, non si può che dissentire. Sfar produce anche troppo, persino per uno che di voglia ne ha. Quanto alle idee, pure di queste io ce ne vedo tantissime, e spesso assai originali.
Mi diverte invece la questione del disegnare col piede sinistro mentre si chiacchiera al telefono. Posso capire che Sfar produca questa impressione. Ma non è un difetto. Anzi credo che sia proprio il segreto della sua arte. Le storie di Sfar scorrono. Non ti puoi fermare, e non solo perché il racconto chiede che si prosegua: è anche il disegno che non ti induce a sostare. Benché sia pieno di dettagli, e la composizione complessiva sia sempre molto ben studiata (le vignette sembrano quasi dei dipinti, spesso, sotto questo aspetto), le linee di inchiostro sono tutte tremolanti, sia quelle di contorno che quelle di tessitura per le ombre.
Questo rende scarsamente definite le figure, e lievemente faticoso il loro riconoscimento. Tanto più che i personaggi principali (il gatto, il rabbino) sono proprio quelli definiti con la massima economia di linee.
Ciò che invece rimane sempre immediatamente evidente, e magari persino enfatizzato dalla scarsa definizione delle figure complessive, sono le espressioni, le sfumature emotive, e le azioni, gli eventi. In maniera del tutto diversa da Hergé e dai patiti della ligne claire, Sfar sta insomma seguendo il medesimo principio, quello di un disegno interamente funzionale al racconto – solo che il suo racconto è di tutt’altro tipo di quello di Hergé.
Le macchie di luce e di ombra, la linea nervosa, il frequente effetto di schizzato, producono l’effetto di qualcosa che ci arriva da lontano, quasi da un altro mondo, come può essere per noi l’Algeria degli anni Venti, vista dal punto di vista degli ebrei – cioè un punto di vista ancora più marginale di quello degli arabi dominati dai francesi. Con tutta la sua dolce ironia, Sfar è, in senso positivo, un sentimentale persino nel disegno. Se definisse troppo le sue figure, darebbe loro una realtà che esse non hanno; ne distruggerebbe il senso di sogno, di altrove. Quel senso che rende così naturale, nelle sue storie, che un gatto si metta a parlare, o che un leone possa essere un animale domestico. Il segno di Sfar è insieme minuzioso e trascurato, descrittivo ed evocativo.
A questo serve la sua aria svagata, il suo sembrare realizzato col piede sinistro mentre si chiacchiera al telefono: è perché tutto quello che con quel segno si racconta non è serio, non si può prendere troppo sul serio, proprio come la vita quando la si racconta attraverso una favola che appare come un sogno narrato da qualcuno che viene da un altrove che si mostra in tutta la sua diversità, proprio mentre ci affascina con la sua familiarità.
A me Sfar piace perché nei suoi racconti e nei suoi disegni ci sono tutte queste contraddizioni, attraverso lo sguardo ironico di un figlio di rabbini, figlio di una tradizione secolarmente ironica e secolarmente favolosa. Il disegno di Sfar è semplicemente come il suo racconto: qualcosa che deve scorrere, facendoci sorridere, lasciandoci alla fine con il sospetto che ci sia qualcosa di profondo nascosto sotto quella superficie. Ma non ci dice mai che cosa. Un po’ come la scienza dei numeri e della Kabbalah.
Christophe Blain & Abel Lanzac, "I segreti del Quai d'Orsay" (Coconino 2011), pp. 39-41
C’è una sequenza magistrale alle pagine 39-41 de I segreti del Quai d’Orsay. Cronache diplomatiche. Il ministro Taillard de Vorms, per cui il protagonista scrive i discorsi, ha appena parlato a un meeting internazionale, e non è rimasto soddisfatto di quello che hanno scritto per lui. Il ministro e i suoi collaboratori sono a cena, e l’atmosfera è tesa. Il ministro cerca di spiegare come va scritto un discorso e, tra la sorpresa di tutti, prende ad esempio Tintin.
Nella prima pagina il tono visivamente dominante è scuro; si intravede appena la tenda color rosso vinaccia dietro al ministro. La figura del ministro incalza nelle vignette di sinistra, rivolgendosi verso destra, dove stanno invece le vignette con i collaboratori, rivolti a sinistra. È sufficiente questa collocazione per mettere il ministro in posizione di attacco, e i collaboratori in quella di difesa.
All’inizio il ministro occupa appena più spazio dei suoi collaboratori, distinguendosi solo per la camicia bianca contro le giacche scure. Poi, man mano che si infervora, acquista sempre più spazio nella pagina, e il fondo dietro a lui diventa rosso vinaccia. Nella striscia in basso, quando nomina Tintin, il ministro domina già lo spazio, con mani, naso e spalle come vettori puntati verso destra. E lì, a destra, sullo sfondo blu scuro, stanno i due collaboratori stupefatti.
La seconda pagina imbastisce il crescendo. È tutta rossa, eccetto la vignetta blu finale, con i due collaboratori esterrefatti – relegati ormai a un ruolo di testimoni del furore esplicativo del ministro. Le prime quattro vignette preparano la situazione: il ministro è sempre in posizione di punta in avanti, con mani naso e spalle, che gesticolano con discrezione, e intanto le parole impostano il climax: “Tintin” è ritmo, “Tintin” è musica, “Tintin” è una sinfonia.
Poi nella quinta vignetta lo spazio si riduce e il ritmo accelera, proprio mentre il ministro ripete: “Il ritmo”. E le sue mani incominciano ad agitarsi, mentre la voce dice “Tac, tac, tac, TAC, TAC”. Poi eccole a saltare da una vignetta alla successiva, e poi a mimare l’acapo di fine riga (giusto nella vignetta di fine riga), e poi di nuovo a saltare, e poi a mimare la scena che intanto la voce racconta. E poi, nell’ultima vignetta, la voce fuori campo continua a incalzare, sopra i volti dei testimoni.
All’inizio della terza pagina c’è l’esplosione, con la vignetta più grande, il ministro a quattro braccia, e l’evocazione di una grande vignetta: “E poi PAF! C’è un razzo a tutta pagina…”. Sembra il culmine del climax, e ci aspettiamo la discesa. E invece ora cambia la forma delle vignette, che diventano orizzontali, e la frenesia continua. Ma adesso, nei medesimi termini, si sta parlando di come va tenuto un discorso pubblico, con la mano che (tac, tac, tac) delinea il percorso da un punto al successivo, e descrive poi l’ascesa della tensione, e infine, insieme con l’acapo, ecco finalmente il TAC! che dovrebbe davvero chiudere il crescendo.
Ma proprio adesso, giusto al centro della pagina, c’è una prima vignetta dal fondo tutto nero, più piccola delle precedenti, in cui anche il volto del ministro ha acquistato delle ombre nere che prima non aveva, e gli occhi (che sino a quel momento erano stati solo dei puntini) si sono aperti, e la bocca ha assunto un’espressione amara: “La crisi, il terrorismo, le bombe!”, “Bisogna che le senta scoppiare…”, “Deve aver paura”. Questa è la vera conclusione del crescendo, che si riverbera nelle vignette successive, apparentemente ritornate alla tranquillità (il ministro ha ripreso a mangiare la sua bistecca, la voce è tornata ai collaboratori…).
Il ministro ci ha dato una formidabile lezione di retorica oratoria, prendendo l’andamento di “Tintin” come esempio, proprio mentre Blain e Lanzac ci stanno dando un’altrettanto convincente lezione di retorica fumettistica: come si conovoglia l’attenzione, come si costruisce un crescendo, come lo si adopera per risolverlo esattamente su quello che vogliamo sottolineare.
La lezione la danno loro. Questo mio è soltanto un link.
Paolo Bacilieri, "Sweet Salgari" pagg. 5, 8-9, 11
C’è qualcosa che non mi convince sino in fondo in questo Sweet Salgari di Paolo Bacilieri. Voglio dire, che non mi convince sino in fondo per essere di Bacilieri. Cioè, dato chi è Bacilieri, e cosa ha fatto nella sua carriera, forse le mie aspettative nel leggerlo erano troppo elevate – o forse semplicemente mi sto sbagliando: con Bacilieri, del resto, mi è già capitato, in passato. La sua combinazione di sarcasmo e di tragedia è sempre particolare, ed è facile che possa apparire irritante, o persino superficiale (non qui, di sicuro); in ogni caso, bisogna entrarci in sintonia. Magari devo solo aspettare un po’ di tempo, e Sweet Salgari mi apparirà un capolavoro.
Per ora no (o non ancora). Ma questo non mi impedisce di apprezzare, qua e là, alcune scene magistrali, come quella con cui il volume si apre, sulle parole dello stesso Salgari, prese (direi, a memoria) dall’attacco de I misteri della jungla nera. Salgari ci descrive il Gange, mentre Bacilieri ci mostra il Po, a Torino. Alla visione fantastica dello scrittore viene fatta corrispondere la realtà della sua vita quotidiana.
Ma la corrispondenza non finisce qui. Il Po della prima vignetta, benché addomesticato e cittadino, è vasto e oscuro; e la cupola della Mole Antonelliana che vi si riflette ha davvero qualcosa di indiano. Poi, però, mentre la descrizione prosegue, ci appaiono le vie eleganti e monumentali di Torino, con i lampioni, e la Mole stessa sopra i tetti e i camini fumanti. Sembra che racconto visivo e racconto verbale stiano seguendo ormai due percorsi differenti; ma nel momento in cui Salgari descrive il suddividersi del fiume, ecco che pure le vignette si suddividono in una serie di volti, e poi ancora paesaggi del Po cittadino, e poi ancora volti. Si finisce la scena – mentre Salgari dice “nulla di più desolante, di più strano e di più spaventevole che la vista di qureste sunderbunds” – con una magnifica veduta a volo di uccello di un angolo popolare di Torino, povero ma non miserrimo.
Il procedimento di contrasto tra le parole e le immagini non è nuovo, ma Bacilieri lo conduce con particolare arguzia e delicatezza, introducendo al tempo stesso l’autore e la realtà in cui vive, ma anche la scollatura profonda tra loro, l’inadeguatezza dello scrittore alle banalità (e alle durezze) del quotidiano, che lo stanno portando, proprio ora, di qui a pochissimo, al suicidio. E pure il suicidio, nell’ambientazione familiare e tranquilla di un bosco, viene poi consumato con modalità esotiche, o decisamente fantasiose e bizzarre.
Ecco: qui, a questo punto, mi ritrovo a non capire davvero se apprezzare o meno l’insistenza di Bacilieri sui dettagli, decisamente macabri, dell’operazione. Sì, certo: quello che traspare continuamente è un’affettuosa ironia del fumettista verso lo scrittore, o, se vogliamo, un ironico affetto. Salgari appare buffo, ma tragicamente buffo, o buffamente tragico. Non sembra davvero che si stia dando la morte – e in che modo! Vicinanza (affettuosa) e distacco (ironico) nei confronti del protagonista sono costantemente giocati da Bacilieri per tutto il volume. Come lettori, non sappiamo se provare pietà e orrore, oppure ridere di quel buffo ometto. Finiamo per fare tutte due le cose, e così magari finiamo per farci noi un po’ orrore a noi stessi, per aver sorriso di una cosa così atroce.
Nel costruire questo effetto complesso, Baccilieri è bravissimo. Questo non lo si può negare. Ma io, lettore, rimango turbato. Su cos’è che si ironizza, qui? Non è il povero Salgari, in fin dei conti; non in maniera decisiva, almeno. È come se Bacilieri volesse buttare in vacca l’orrore stesso. Da un punto di vista retorico, ha ragione: in questo modo riesce a trasmettercelo con una forza ancora maggiore. Eppure potrebbe ottenere lo stesso straniamento in altri modi.
Quello che si intuisce qui, in Bacilieri, è semmai un pessimismo radicale, quella sorta di ridere della morte perché non riusciamo a distoglierci dalla sua immagine, quel fare ironia sul dolore perché il dolore è dentro di noi, o perché la morte il dolore e l’ironia stanno tutto sommato dalla stessa parte rispetto allo squallore della monotonia, o all’incubo del vivere delle proprie fantasie, senza più proficui contatti col mondo, dal quale si continua a fuggire. Insomma, sembra quasi che Paolo Bacilieri si sia riconosciuto, attraverso lo specchio, in Emilio Salgari, che si sia un po’ identificato in lui, e che, proprio per questo, e nonostante l’affetto nei suoi confronti che viene costantemente espresso, abbia dovuto metterlo in ridicolo perché in questo poteva mettere in ridicolo, specularmente, se stesso (non potendo mettersi in scena di persona, questa volta, in qualità di Zeno Porno o di chi per lui).
Sarà questo che mi disturba e mi impedisce di apprezzare sino in fondo Sweet Salgari? Nel complesso, non credo, anche se la vena autodistruttiva di Bacilieri è sempre un poco ostica da digerire. Magari è piuttosto qualche rigidezza, qua e là nella costruzione: forse sono tutti questi salti temporali, per quanto narrativamente ben gestiti e comprensibili, che accostano presenti diversi della vita di Salgari, attraverso il ricordo. O magari è questa tristezza insormontabile, questa melanconia, questa vena di follia (che nella moglie dello scrittore è arrivata a esplodere, sino al manicomio). O è forse perché Bacilieri è troppo sincero, troppo vivo in quello che scrive e disegna, troppo vero.
Che sia un libro da leggere, non ci sono dubbi. Chi ne avrà voglia mi dirà che effetto ha prodotto su di lui (o su di lei). Qualunque sarà il giudizio, non si potrà davvero dire che Bacilieri manchi di originalità: questa rimarrebbe in ogni caso una certezza.
Frantz Duchazeau, "Lomax" (Coconino Press 2012)
Avrei letto di corsa una graphic novel su Alan Lomax anche se l’avesse realizzata il peggiore fumettista del mondo. E, certo, nel timore di restare deluso, l’avrei letta tenendola con le pinze, attento a tutto. E invece mi è andata bene, molto bene, con questo Lomax. Ricercatori di folk songs, realizzata da Frantz Duchazeau.
Alan Lomax (1915-2002) è quasi un personaggio mitologico, al pari dei vari Woody Guthrie, Jelly Roll Morton, Lead Belly, che lui scoprì o con cui collaborò. È colui che ha dato voce modiale a tutta quella musica che non era mai stata scritta, e quasi mai registrata, perché realizzata da chi non la sapeva scrivere e non aveva legami con l’industria musicale. È colui che, insieme, al principio, con suo padre John – che fu il vero iniziatore della ricerca – raccolse una mole impressionante di documenti musicali popolari da tutte le parti degli Stati Uniti e del mondo, scoprendo non solo una quantità di talenti, ma facendo soprattutto conoscere al mondo un universo sonoro sommerso e di solito remoto.
Se volete sapere che musica facessero gli indiani (dell’India) trapiantati nelle Indie Occidentali, e in particolare nei Caraibi, Lomax l’ha registrata. La voce degli schiavi negri, dei reclusi nelle prigioni americane, dei cowboy texani (quelli veri però, non il country), ma anche quella delle Antille, dei cantanti popolari scozzesi, dell’Estremadura, della Yugoslavia, della Sicilia, dei trallalleri di Genova, lui le ha registrate tutte, per strada, nelle case, andando a cercare le persone. Era in contatto, attraverso Diego Carpitella, con Ernesto De Martino, e registrava le musica nel Salento nei primi anni Cinquanta, otto anni prima che il medesimo De Martino pubblicasse La terra del rimorso.
Lomax ha raccolto e ci ha lasciato un patrimonio etnomusicale straordinario, e senza il suo lavoro non ci sarebbe stato nemmeno un Bob Dylan, a raccoglierne una delle tracce. Mi basta sentire il suo nome per pensare a un’esperienza favolosa, eccezionale, di quelle che in altre epoche davano vita alle leggende, e un po’ lo fanno anche oggi.
Frantz Duchazeau se la cava molto bene, bisogna dire. Mette in scena un momento in cui i due Lomax, padre e figlio, stanno iniziando la propria campagna di registrazioni, negli Stati del Sud, tra sceriffi ostili, possidenti increduli e contadini diffidenti. John, il padre, è mosso da un entusiasmo fervido. Alan, che non ha ancora vent’anni, è naturalmente più timido, ma si capisce che è ugualmente appassionato. Ci sono mille problemi, a partire dal far capire il senso del voler registrare quella roba, ma ci sono anche un sacco di soddisfazioni – persino nei luoghi più assurdi, persino nelle prigioni, dove i Lomax scoprono un vero talento, Lead Belly (qui potete sentire la canzone di cui stanno parlando nelle pagine riportate sopra, e qui un’altra, ancora più bella).
Il racconto di Duchazeau scorre come il suo tratto grafico fluido, fatto di linee lunghe e molto modulate, ma anche di forme essenziali, concise, quasi senza sfondi. È un poco caricaturale, appena appena grottesco, vagamente scherzoso mentre si capisce quanto sia serio quello che sta succedendo. I due Lomax stanno letteralmente dando voce a un popolo, quello dei neri di America, mostrando che al di là delle emergenze già riconosciute del jazz e del blues, esiste anche uno straordinario universo popolare sommerso.
Insomma: cerco di parlare di Duchazeau, e finisco sempre per parlare dei Lomax. La mia passione per la musica, almeno qui, è più forte di quella per il fumetto. Ma è anche un segno che Duchazeau ha lavorato bene, e ha saputo tener viva la magia (il mondo magico, direbbe De Martino), restando leggero, con un’ironia affettuosa. Gli sono grado per avermi ricondotto per qualche attimo a Lomax, per averlo fatto con gentilezza e con una passione che evidentemente è molto simile alla mia.
Fred Bernard, "L'Uomo Bonsai" (Tunuè)
Fred Bernard l’ho conosciuto, non troppo da vicino, a un incontro di Bilbolbul. Si impegnava, non era antipatico, ma credo che non abbia detto cose così interessanti, visto che non ne ricordo quasi nulla. Ci sono andato perché Fred Bernard è l’autore de L’Uomo Bonsai, e quello, pur avendolo letto qualche mese prima, me lo ricordavo (me lo ricordo) benissimo.
Adesso, per l’occasione, me lo sono pure riletto, e mi ha rifatto la stessa molto positiva impressione. È una storia di mare, raccontata da un anziano capitano a dei giovani marinai in una bettola, la storia – a lui a sua volta raccontata – di un uomo a cui cresce un albero in testa, un albero che lo ucciderebbe, se non venisse sapientemente potato e ridotto a un bonsai; e invece in questo modo gli dona l’invulnerabilità e una forza incredibile.
Il disegno non si può definire “bello”, eppure ogni tanto raggiunge effetti di grande spessore. La storia non si può definire originale – se non per l’idea del bonsai – ma è lo stesso estremamente avvincente. Inizi a leggerlo pensando che sia l’ennesima roba francese un po’ snob, col disegno tirato via alla Sfarr (ma senza l’arguzia di Sfarr) – e poi ci resti sopra, anzi dentro, sino alla fine. Non sarà l’arguzia di Sfarr, ma è il favoloso di Bernard. E il segno, dopo un po’, finisce per essere persino realistico – salvo per l’uso dei colori piatti e dei contrasti cromatici, che sono la cosa più bella da vedere.
L’Uomo Bonsai appartiene a quella categoria di testi che si apprezzano senza capire bene il perché. Sono i testi che affascinano i critici irrequieti, come me, perché difficili da sistemare nelle categorie assestate. Non c’è il bel disegno, non c’è la storia originale; puoi quasi prevedere quello che succederà dopo. Anzi, lo prevedi proprio, perché tanto, sin dalle prime pagine, sai già come andrà a finire. Cos’è, allora, che ti tiene lì?
Sarà il fatto che è il racconto del racconto di un racconto; saranno i mari del sud; sarà la storia d’amore con Shangai Li; sarà l’incubo alla Lovecraft del seme che ti mette le radici sulla testa; o sarà che quest’incubo si rovescia in positiva leggenda, in meraviglia del mare e della vita; saranno i colori raffinati, e i tatuaggi blu sulla pelle azzurra del protagonista, a contrasto con il giallo della sua amante. Nessuna di queste cose è sufficiente da sola a fare di un testo a fumetti un bel testo. E allora sarà il modo in cui si combinano tutte quante, e ancora molte altre…
La formula per dimostrare che un testo (a fumetti o di qualsiasi altro tipo) è oggettivamente bello la sto ancora cercando. Appena l’avrò trovata potrò fornire dimostrazioni sicure e inconfutabili di qualità. Per adesso continuo col mio naso, anche a costo di non saper fornire giustificazioni rigorose. Avrò letto troppi libri di pirati da bambino! Sarà qualcosa nascosto nel mio inconscio! Ma siccome non sono il solo ad aver seguito certe strade, magari le mie specifiche idiosincrasie non sono soltanto mie.
E magari anche voi apprezzereste, quindi, più o meno quanto me, questa storia assurda raccontata da un albero cresciuto su un vascello alla deriva nell’oceano, e poi riferita a dei marinai ubriachi, attraverso cui è arrivata nei disegni un po’ sghembi di in una storia a fumetti, di cui ora io vi sto a mia volta raccontando.
Blutch, "Per farla finita con il cinema" (Coconino) pp. 46-47
Bisognerebbe dedicare uno studio sistematico a questo volume di Blutch. Bisognerebbe cercare di spiegare come questa graphic novel riesca a essere intrigante e appassionante senza essere affatto una novel, cioè senza contenere un racconto, senza raccontare nessuna storia. Per farla finita con il cinema è piuttosto la lunga e desolata dichiarazione di una passione irredimibile, senza scampo, pur nella consapevolezza della propria eccessività, quasi assurdità, del proprio essere, come ogni passione davvero forte, qualcosa di patologico.
Il punto di partenza della godibilità di Blutch sta certamente nel suo disegno dal tratto complesso e di evidente ascendenza naturalistica, eppure continuamente declinato con l’ironia di un umorista, nella tradizione – non del tutto nascosta – di Jean-Claude Forest. È proprio l’ambiguità del suo tratto che gli permette al tempo stesso di glorificare e di essere sarcastico, di dichiarare la propria passione (per esempio per Burt Lancaster) e di prenderne in giro ferocemente l’oggetto.
Il cinema è creazione di miti. Subiamo questi miti, che ci danno forma anche mentre ne comprendiamo la natura effimera, di semplici apparenze. La consapevolezza non basta: capiamo benissimo perché i suoi eroi ci permettano di pensare di poter essere (a modo nostro) come loro, e allo stesso tempo continuiamo a pensarlo, e ad amare loro – talvolta persino a dispetto della conoscenza di tutte le miserie che stanno in verità dietro alla produzione di un film.
Prima di tutto, quindi, il testo di Blutch testimonia che il mito è più forte di qualsiasi sua messa in discussione, e che l’ambivalenza tra il sentire e il capire può essere lancinante – coniugandosi, come accade qui, in una serie di meditazioni sui grandi protagonisti, da Paul Newman a Burt Lancaster, da Luchino Visconti a Michel Piccoli. L’autore è in scena continuamente, ora più giovane ora invecchiato e imbruttito, reso estremo e un po’ stupido, ma comprensibilissimo e umanissimo attraverso questa messa in caricatura delle sue ossessioni.
E la prima e più ricorrente delle sue ossessioni è ovviamente quella erotica, quella su cui lo stesso cinema ha costruito buona parte del suo fascino. C’è una scena irresistibile in cui grandi attrici sensuali si rivolgono a lui (e a tutti i maschi del mondo) domandandogli se gli piaccia questa o quella loro parte intima del corpo. E poi, continuamente, il monologo dell’autore è rivolto a una figura femminile chiaramente proiettata dalla sua immaginazione: una ex-moglie, una ex-fidanzata, una presenza-assenza come quelle sullo schermo, che finiscono magari per amoreggiare di fronte a lui con un vero uomo, uno del cinema, quale il favoloso Michel Piccoli delle ultime pagine.
Quello che uno studio accurato dovrebbe scoprire è poi come faccia Blutch a costruire il suo ritmo – che non è un ritmo narrativo perché il racconto non c’è; e lo chiameremo quindi magari ritmo del discorso, ritmo delle sequenze… Comunque lo chiamiamo, c’è qualcosa di davvero importante, di particolare, di nuovo, in questa assurda messa in sequenza di sensazioni evocazioni riflessioni. È un po’ come quando si ascolta un oratore davvero bravo, che affascina per quello che dice e per come lo dice attraverso l’argomentazione e i suoi modi, senza raccontare una storia, senza fare uso degli stratagemmi delle curiosità indotte dal racconto. Blutch, potremmo azzardare, è uno straordinario oratore per immagini, un meraviglioso oratore a fumetti, capace di far leva nel modo giusto e al momento giusto su tutte le energie di un discorso fatto di immagini e parole scritte, facendo della loro immobilità una forza.
Poi, alla fine dei conti, questa è solo una recensione, e non andrà più in là di così. Spero di avere il tempo e l’opportunità per arrivare in un’altra occasione più a fondo – o che qualcun altro lo faccia magari per me. Per farla finita con il cinema è un oggetto che vale davvero la pena studiare.
Craig Thompson, "Habibi" pp. 404-405
Con Habibi (Rizzoli Lizard), Craig Thompson conferma la sua vena sentimentale, ma anche le sue qualità di narratore e disegnatore. Habibi è una favola orientale, una milleduesima notte ambientata in un’epoca in cui convivono la schiavitù e la tecnologia contemporanea, le carovane di cammelli nel deserto con le discariche gigantesche delle città, l’oriente arabo con quello indiano. Il melange funziona, perché la favola è ovviamente una favola morale, e il suo realismo è solo quello allucinato ma veridico del sogno o del racconto allegorico.
Habibi è una lunga favola (quasi settecento pagine) sull’amore; non quello passionale, però. Il legame che lega Zam e Dodola è un lungo e profondo attaccamento, dal momento in cui lei bambina di dieci anni sfugge ai mercanti di schiavi e si porta dietro lui, di anni due, sino all’età adulta. Un legame che si trasforma rimanendo sempre fortissimo.
Per questo Habibi è una favola sentimentale, in cui il bene e il male sono netti e contrapposti, e i protagonisti (buoni) non fanno che lottare contro le più diverse peripezie, e la loro stessa separazione.
Ma Habibi è anche una favola che mette in campo temi duri: Dodola per sopravvivere e dar da mangiare a Zam si prostituisce; quando le nasce un figlio dal Sultano non riesce ad amarlo; Zam, rimasto solo, si associerà a una setta di transessuali mistici…
E, soprattutto, Habibi è una lunga allegoria e un lungo omaggio alla cultura e alla scrittura araba, e questo è sicuramente l’aspetto più intrigante dell’opera, tanto più in quanto opera di un cittadino americano. La favola che il libro racconta ha i suoi alti e i suoi bassi, i suoi aspetti apprezzabili e quelli forse troppo dolciastri, ma l’insieme di temi e riferimenti arabeggianti che la attraversano è certamente un motivo di fascino assolutamente particolare, e sufficiente di per sé a marcare più che l’originalità, direi proprio l’unicità di questo lavoro di Craig Thompson.
Dodola racconta continuamente storie (proprio come succede ai personaggi delle Mille e una notte). Le racconta al piccolo Zam, e sono ovviamente le storie che sono state raccontate a lei stessa da piccola, le storie di Abramo, del re Salomone, di Gesù, e di altri profeti del mito islamico. Il lettore occidentale, avvezzo alle storie del mito cristiano, non può non notare che si tratta, in sostanza, delle stesse storie; solo, talvolta, con un lieve spostamento del punto di vista. Abituati, come siamo dalla vulgata massmediatica, a considerare l’Islam come ciò che è diverso, la familiarità che riconosciamo immediatamente in queste storie non può non colpirci, non può non stupirci.
Craig Thompson, "Habibi" pp. 38-39
Dodola sa scrivere, e quello che dice e quello che vive sono continuamente intessuti del valore magico della scrittura. Proprio come accadeva in alcune tradizioni africane islamiche, nel momento in cui si trova a rischio di morte, il medico scrive formule magiche e parole del Corano su una tavoletta, per poi sciogliere nell’acqua l’inchiostro con cui le parole erano state scritte, e darle quell’acqua da bere. Le forme della scrittura araba sono forme liquide: appaiono nell’acqua mossa e nelle cose della natura, e possono a loro volta diventare strumento di rappresentazione mentre restano strumento di scrittura. C’è una bellissima pagina, verso l’inizio del libro, in cui Thompson ci spiega come dall’espressione Bismil ahir ahmanir ahim (Nel Nome di Dio il Clemente il Misericordioso) si possano ottenere una quantità di forme decorative, e persino raffigurazioni. E poi, per tutto il volume, la scrittura araba si intreccia con la vita e con i racconti di Dodola, diventando volta per volta la forma del fiume, quella del serpente, quella della passione, quella della guarigione, quella della prigionia, quella della protezione magica… Thompson ci dà delle prove di vero virtuosismo calligrafico, oltre che grafico tout court, in queste trasformazioni.
Il disegno si fa scrittura, il disegno si fa storia, e la scrittura è ovviamente storia, ma la scrittura è magica, sacra, e il disegno lo diventa con lei. Il disegno diventa allegoria, e l’allegoria è scrittura. Per questa via bizzarra, attraverso questa affascinante passione per la scrittura e la cultura araba, Thompson ci presenta una bellissima allegoria del raccontare a fumetti, del raccontare per immagini, suggerendo, attraverso l’Islam, che la scrittura verbale stessa è immagine, è costruzione grafica, fornendo, almeno per una volta, un senso diverso e più intrigante all’abusata espressione graphic novel, un romanzo grafico, certamente, ma in cui anche la scrittura è grafica, e non solo graphos.
P.S. Se volete saperne di più, su Habibi, potete leggere anche la recensione di Sergio Rotino, qui.
Craig Thompson, "Habibi" pp. 140-141
Questa settimana questo blog ha avuto due differenti occasioni di lutto: a distanza di due giorni sono scomparsi Elio Pagliarani, uno dei maggiori poeti del Novecento italiano, e Jean Giraud Moebius, maestro internazionale del fumetto francese. Erano stati due autori, ciascuno nel suo campo, cruciali. Chi li conosce lo sa.
Questo blog si occupa di varie tematiche, ma non c’è dubbio che i campi di cui si parla con maggiore frequenza siano proprio quelli in cui Pagliarani e Giraud hanno primeggiato. Non parlerò di loro; o perlomeno non oggi. Ne stanno già parlando tutti, specie di Moebius.
Piuttosto, questo incrocio di lutti mi ha portato a domandarmi se, almeno per me, tra fumetto e poesia (e magari anche gli altri ambiti di cui mi occupo) ci siano degli aspetti in comune; oppure se più semplicemente sia io a essere un po’ scisso, come è peraltro normale essere: la coerenza e l’omogeneità dell’io caratterizza i personaggi, per ragioni narrative, non le persone, che sono per loro natura complesse.
Ho perciò riflettuto (aiutato dal fatto che non sarebbe la prima volta che me lo domando, certamente). Che io sia un po’ scisso è senz’altro vero; ma c’è ben altro, al di fuori dei miei gusti estetici, in cui la scissione si manifesta – e anche in questo sono normale. Ma c’è anche, almeno per me, un motivo di profonda vicinanza tra fumetto e poesia, o almeno un aspetto sotto il quale si contrappongono comunemente al romanzo, e rispetto al romanzo si schierano dallo stesso lato.
Per il fumetto è più facile dirlo. Il fumetto racconta storie, proprio come il romanzo, ma la materia di cui sono fatti i suoi sogni sono le immagini, disegnate. Le parole vi sono accessorie, quando ci sono. La forma microstrutturale del racconto non è quella ben definita della proposizione (soggetto-predicato-complementi) ma quella sfumata della figurazione, che mostra, allude e non dice, cioè, di fatto non racconta. Non racconta anche perché, non essendo fatta di parole (che, per loro natura, dichiarano il punto di vista temporale e personale da cui sono pronunciate: non si parla – o scrive – senza coniugare i verbi secondo la persona, il tempo e il modo), non implica necessariamente la presenza di un narratore (che può esserci, ove serva, ma che il più delle volte non c’è).
Questo vale certo anche per il cinema, ma il cinema fluisce autonomamente – e questo basta di per sé a farlo un’altra cosa, parente più della musica che del fumetto.
Potrei dire che l’aspetto della comunicazione che più mi affascina e a cui ho dedicato i miei interessi è quello che passa al di fuori delle parole e della loro costruzione del significato. Leggo (e scrivo) sufficiente critica e filosofia per averne abbastanza di comunicazione razionale basata sulla struttura della proposizione e del periodo, in grado di comunicare idee chiare e distinte di cartesiana memoria. Non che questa comunicazione verbale chiara e distinta sia da disprezzare: è ciò a cui tendo ogni volta che scrivo parole di carattere critico, come anche sto facendo ora. Ma è necessario riconoscere i suoi limiti. È necessario riconoscere che ci sono cose di cui non si può parlare, e, tanto per stracitare Wittgenstein, di queste cose è necessario tacere. Ma tacere non significa trascurare. Tacere, in questo senso, significa cercare modi di comunicare diversi dalla parola definitoria, razionale. Il disegno è uno di questi modi, attraverso cui può essere trasmesso ciò di cui non si può parlare.
La parola poetica è un altro di questi modi, per quanto paradossale possa apparire l’idea che un testo fatto solo di parole sia un testo che tace, nel senso detto sopra. Ma ciò che è interessante della parola poetica è che non si tratta di una parola definitoria, ovvero di una parola che fa uso della struttura proposizionale (soggetto-predicato-complementi) per trasmettere informazione. Quando ancora ne fa uso, sappiamo benissimo che si tratta di un uso strumentale. Se leggiamo la poesia come se fosse un discorso definitorio, razionale, come facciamo con queste stesse righe, allora non stiamo capendo nulla, e faremmo meglio a lasciar perdere. La poesia fa un uso alternativo delle parole, in cui tutta la loro natura, semantica quanto fonetica quanto prosodica, entra in gioco, a disegnare letteralmente un mondo. È un disegno più astratto di quello del fumetto, perché il suo oggetto è un altro, ed è forse l’universo stesso del senso, nel senso più vasto possibile (quello che comprende, per esempio, anche la dimensione emozionale, a giustificare in parte coloro che credono che la poesia sia semplicemente espressione di emozioni).
Pure qui, in poesia, poiché il senso passa attraverso un disegno, la parola definitoria è fuori gioco, ed è fuori gioco l’inevitabilità del riferimento all’io narrante (quello che esprime, nel verbo, la persona, il tempo, il modo, e continua a manifestarsi in altri modo nella struttura della proposizione). Quando questo riferimento c’è, in poesia, è in realtà accessorio, manifestazione superficiale; proprio come quando, nel fumetto, un personaggio parla attraverso la propria vignetta: dice “io”, certamente, e manifesta un soggetto e un punto di vista proposizionale sul mondo, ma non per questo assumiamo la sua posizione come indice della presenza di un narratore complessivo. Capisco bene che, in poesia, sia più facile confondersi, e scambiare l’io scritto con quello complessivo; ma se ci si rende conto che la poesia comunica al di là della struttura proposizionale (di cui al massimo fa un uso locale e strumentale), si capirà che, rispetto al proposizionalissimo romanzo, fumetto e poesia si trovano dallo stesso lato, quello del disegno, seppure attraverso strumenti del tutto differenti.
La poesia gode di un prestigio millenario, e le si dà grande spazio a scuola. Eppure siamo in pochi a interessarcene di fatto. Quanti sono gli italiani che conoscono il nome di Elio Pagliarani? Il fumetto è stato a lungo un medium trascurato e vilipeso, anche se oggi le cose vanno meglio: alla scomparsa di Moebius, poi, hanno dato molto spazio i giornali e le TV. Ma questo dipende troppo dalla fama personale per farne una questione generale. Moebius deve la sua fama anche ai suoi influssi sul cinema, e questo ha indubbiamente pesato moltissimo.
Io continuo a pensarli come maestri, entrambi. E continuo a pensare che, quando scrivo poesie, sto in verità disegnando, o tracciando linee musicali, di cui le parole rappresentano l’inchiostro, o le forme base delle linee che si vanno a combinare, o la materia timbrica che va a costruire la melodia. Scrivere poesia è un’attività radicalmente diversa dall’esporre proposizionalmente pensieri organizzati, come sto facendo in questo istante (e il cui risultato state leggendo voi, ora). È un’attività che si impara nella prassi, magari imitando inizialmente dei maestri, magari imitando anche Elio Pagliarani, o Jean Giraud Moebius.
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Quanto di morte noi circonda e quanto
tocca mutarne in vita per esistere
è diamante sul vetro, svolgimento
concreto d’uomo in storia che resiste
solo vivo scarnendosi al suo tempo
quando ristagna il ritmo e quando investe
lo stesso corpo umano a mutamento.
Ma non basta comprendere per dare
empito al volto e farsene diritto:
non c’è risoluzione nel conflitto
storia esistenza fuori dell’amare
altri, anche se amore importi amare
lacrime, se precipiti in errore
o bruci in folle o guasti nel convitto
la vivanda, o sradichi dal fitto
pietà di noi e orgoglio con dolore.
(Elio Pagliarani, da “La ragazza Carla” 1954-57)
Joe Matt, "Al capolinea" (Coconino Press) pp.50-51
Be’, sì, lo confesso. Questo Al capolinea di Joe Matt mi fa un po’ impressione. Non perché sia brutto. Tutt’altro. Molto ben disegnato. Molto ben raccontato. Molto crudo, molto duro, impietoso, senza veli… Tutto benissimo.
Il problema è che ho sempre più problemi con l’autobiografismo nel fumetto (e anche altrove in verità) e Joe Matt ne è indubbiamente il campione. In particolare, questo libro disperato sulla masturbazione e sull’ossessione sessuale (tragicamente autoerotica) mi appare a sua volta come una prolungata masturbazione, seppur mentale. Il protagonista parla da solo, o con un paio di amici con i quali continuano a uscire i medesimi temi di conversazione, e sembrano espansioni di lui stesso.
Uno di questi amici è Chester Brown, recentemente autore di un libro (Io le pago) ugualmente autobiografico e ugualmente sul tema di una problematica erotica. Ma almeno Chester Brown affronta un problema che non riguarda solo lui, e ci sono tanti altri personaggi in gioco nella sua storia. L’autobiografismo c’è, indubbiamente, ma c’è anche dell’altro.
Ora, naturalmente anche la storia di Joe Matt può essere presa (e va certamente presa) come una storia esemplare, e Matt, parlando di sé, sta parlando di tanti altri come lui, e un po’ di tutti. E questo va benissimo. E in questo è bravo, capace, spesso profondo e senza remore. Ma alla fine uno si domanda se è davvero tanto importante questo io che ciascuno di noi si porta addosso da renderlo l’unico protagonista di una storia senza uscita.
È tutta colpa di Robert Crumb, mi verrebbe da dire, almeno per quello che riguarda il fumetto americano. E a Robert Crumb è esplicitamente dedicato il libro di Joe Matt. L’underground aveva il dovere morale di far qualcosa di diverso dal fumetto mainstream, e in particolare da quello di supereroi. Non c’era una sola strada possibile, e ne sono state percorse tante diverse, accomunate dall’irriverenza. Persino lo stesso Crumb ha indicato molte strade; e tra queste, certo, pure quella dell’autobiografismo, del ripiegarsi sull’interiorità (magari in versione paradossale) per evitare di cadere nell’esteriorità spettacolare.
Crumb aveva ragione, e ha fatto epoca, creando un esercito di imitatori, tra scarsetti e bravi, talvolta quanto e persino più di lui. Ma sono passati quasi cinquant’anni dalle sue prime mosse, e il fumetto americano che vive fuori dal mainstream è diventato maturo e colto. Non ha più bisogno delle stampelle. Non ha più bisogno di differenziarsi dal fumetto di supereroi. È già, per sua natura, un’altra cosa.
È per questo che di autobiografismo non se ne può più. L’abbiamo avuto ormai in tutte le salse, di buona e cattiva qualità. Siamo stanchi. Lo si tollera quando appare come un veicolo di altro, del fantastico in David B., del paradossale in Daniel Clowes (dove peraltro l’autobiografismo è sempre falso, e parodiato), o magari del sociale in Chester Brown (almeno qualche volta).
Non è che si debba gridare “arridatece l’avventura!”. Non è certo quello il punto. Non è una gara tra intimismo ed esotismo. Ma l’io non è tutto. A volte è un quasi-niente. È a gonfiarlo come un pallone che si produce questa insofferenza.
p.s. Avevo già scritto queste parole quando ho visto che Andrea Queirolo esprime un sentimento molto simile al mio nel suo blog. Da leggere.
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