Di José Muñoz, due volte migrante

Muñoz & Sampayo, Gardel, p.74

Muñoz & Sampayo, Gardel, p.74

Credo che non si possa capire sino in fondo José Muñoz se non si capisce almeno un poco il mondo da cui proviene. Tutta l’America, nella prima metà del Ventesimo Secolo, è un paese intessuto di sogni: sogni di migranti, di nostalgia e di ricchezza, di radici e di futuro. Si emigra alla ricerca di una fortuna che in patria appare impossibile, e ci si trova fuori luogo, disinquadrati, senza il contesto rassicurante della tradizione: i sogni sono l’appiglio inevitabile, sia quelli del passato (che non si può abbandonare del tutto senza perdere se stessi) sia quelli del futuro (che sono ciò per cui si è qui, ciò che ci manda avanti). Il migrante porta alla superficie della propria consapevolezza tante cose che se ne stanno sepolte tranquillamente in profondità nella coscienza di chi rimane in patria. I suoi sogni lo perseguitano; i suoi miti vengono pericolosamente a galla.

Il mito è quella dimensione collettiva e inconscia che sta dietro ai nostri desideri e alle nostre paure. Viene a galla attraverso i nostri comportamenti, ma anche attraverso le mitologie, che sono i racconti del mito. Possiamo in parte arrivare a riconoscerlo, ma non c’è modo di dominarlo. Guida il nostro agire sociale e individuale. Nel Vecchio Mondo, in cui le culture e le società sono assestate, possiamo credere di farne a meno – mentre eleggiamo al suo posto il mito della ragione. Ma in un mondo fatto di migranti, in cui le culture e le società si costruiscono giorno dopo giorno, sono gli stessi contrasti e conflitti a tirare fuori (spesso in maniera lancinante) i desideri e le paure più profonde. Attraverso i sogni, il mito viene più facilmente a galla. E i sogni sono già storie, in nuce,

Di tutto il continente americano, l’Argentina è il luogo i cui sogni più ci colpiscono, i cui miti sembrano essere più vicini alla superficie. Non saprei dire se sia così perché davvero la cultura argentina è più propensa delle altre a mitologizzare, oppure – più probabilmente – se sia così perché l’Argentina è il paese americano più vicino all’Europa latina, talmente vicino da potersi quasi confondere con Spagna o Italia, di quando in quando. Certo, quando si guarda da qui che cosa accade là, è proprio la somiglianza a farci osservare, per contrasto, quelle differenze.

Prima di tutto c’è il tango. Il tango non è semplicemente un ballo, o una forma musicale. Non c’è niente di simile in Europa all’investimento culturale ed emotivo che grava sul tango in Argentina. È come se in quei passi e in quelle note si dovesse addensare l’anima di un paese composto di gente così diversa, ma affratellata dal medesimo affrontare le durezze, dal medesimo senso di nostalgia. Non è nemmeno pensabile in Europa l’investimento emotivo che l’Argentina continua dopo ottant’anni a tributare a Carlos Gardel – che è stato davvero un cantante straordinario, ma questo di per sé non basterebbe a giustificare la sua perdurante popolarità. Non stiamo più, di fatto, parlando di una persona reale: Gardel è, come Agamennone o Ulisse, il personaggio mitologico di una saga nazionale.

E poi c’è – diciamo così – Jorge Luis Borges. Be’, certo, non soltanto lui. I nomi da fare sarebbero tanti, a partire da Cortázar e dalla Storni, e Sábato e Soriano… Ma Borges colpisce inesorabilmente il lettore europeo per la sua capacità di recuperare l’aura mitica persino delle costruzioni più cervellotiche. Si resta colpiti in apparenza dall’arguzia e dalla capacità di trovare soluzioni inaspettate (da parte di un autore che è sempre un passo più in là dei suoi critici), mentre in realtà quello che ci travolge è il senso di eternità e profondità che emerge dal suo modo di affrontare i propri temi. Quelle di Borges sono davvero mitologie. Emergono in Argentina perché lì lo strato di grasso protettivo della ragione è più sottile, ma il lettore della vecchia Europa riconosce immediatamente i propri stessi miti, quegli stessi a cui non sa più dare parola.

Giovanissimo, Muñoz studia accanto a un altro personaggio di straordinaria levatura: Alberto Breccia. Negli anni Quaranta, il fumetto è già un medium di successo in Argentina, per quanto di vocazione e pubblico popolari. Ma nella Escuela Panamericana de Arte le ambizioni sono diverse. Di lì a pochissimo i medesimi autori che vi insegnano (Breccia e Hugo Pratt primi tra tutti) saranno coinvolti nell’impresa editoriale e scrittoria di Hector Oesterheld. La sua idea di letteratura popolare comprenderà la fantascienza, l’avventura e l’umorismo, ma tutto con una forte dose di impegno sociale e politico. Ben presto la ricerca di nuovi modi di espressione, e di una maggiore profondità di senso, porterà Breccia a esplorare tecniche inedite di rappresentazione, e dai primi anni Sessanta, con il Mort Cinder di Breccia e Oesterheld, sarà davvero difficile continuare a utilizzare l’aggettivo (un po’ dequalificante) popolare per la produzione argentina.

Muñoz ha vent’anni in quel momento. Per un po’ lavorerà qua e là, in particolare disegnando Precinto 56, sui testi di Eugenio Zappietro, e in seguito nello studio di Francisco Solano López, senza però firmarvi nulla. Nel 1972, a trent’anni, decide di lasciare Buenos Aires per trasferirsi in Europa, migrante di ritorno, o forse due volte migrante. Prima di approdare in Italia passa per la Spagna, e trascorre due anni in Gran Bretagna. In questo periodo fa l’incontro della sua vita con Carlos Sampayo.

Da questo momento in poi, è difficile parlare di José Muñoz senza tirare in ballo Sampayo. Il sodalizio tra i due inizia con una collaborazione strettissima, nella quale Sampayo soprattutto scrive e Muñoz soprattutto disegna, ma c’è una tale sinergia nella realizzazione delle storie che è davvero impossibile separare le responsabilità di ciascuno. Poiché Muñoz soprattutto disegna, sarà soprattutto di disegno che parleremo nelle pagine che seguono – ma si tratta di un disegno che è sempre funzionale a un modo di raccontare, che dovremo comunque tenere presente. Per brevità nominerò ora l’uno ora l’altro dei due autori, ma ogni volta starò sempre parlando almeno un poco di tutti e due.

La pubblicazione di Alack Sinner in Italia, su AlterLinus nel 1975, segna un momento cruciale nella storia del fumetto italiano, già percorso dai fremiti umanoidi che giungono dalla Francia. Per i giovani autori che stanno per lanciarsi a propria volta nell’avventura della produzione di fumetti, cresciuti nel clima politicizzato ed effervescente dei primi anni Settanta, la fantascienza in versione Metal Hurlant costituisce un quadro di riferimento da cui è impossibile prescindere, ma è al tempo stesso troppo evasiva e intellettualistica. L’hard boiled esistenziale di Alack Sinner, invece, rivela a molti la strada verso una sorta di realismo espressionista, in cui la posizione politica viene espressa non tramite le proiezioni in un futuro degradato, ma attraverso l’analisi del quotidiano e delle sue laceranti contraddizioni. In un periodo in cui il personale è politico, i fumetti di Muñoz e Sampayo sembrano mostrare esattamente come lo si possa mettere in scena.

Da questo punto di vista, i due autori argentini hanno un vantaggio sugli italiani. Sono cresciuti nel continente dei sogni e del mito, e in quella sua parte cui ci sentiamo più vicini. La loro arte visionaria corrisponde benissimo alle visioni di un momento storico in cui, in Italia, i sogni di cambiamento sono fortissimi. I giovani degli anni Settanta si sentono infatti fuori luogo e sbalestrati quasi come un migrante, sensibili ai desideri di cambiamento e alla loro frustrazione…

Il seguito di questo articolo si trova nel catalogo della mostra “José Muñoz. Come la vita…“, che si inaugura domani sera 3 marzo negli spazi espositivi del Museo Civico Archeologico di Bologna, alle 19, nell’ambito del Festival del Fumetto Bilbolbul. Stasera, invece, si può vedere un film su di lui (“L’Argentine de Muñoz” di Pierre–André Sauvageot) e incontrarlo al Cinema Lumière.

P.S. Domani sera, sempre al Museo Civico, alla stessa ora, apre anche la mostra di Vanna Vinci. Insomma, due piccioni con una fava: il maestro, e una tra i suoi discendenti migliori.

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Di “Guardare e leggere”, che non è solo un blog

Guardare e leggere. La copertina

Guardare e leggere. La copertina

Be’, sì, è in libreria. L’altro giorno, quando ho detto a un mio amico che stava per uscire, lui mi ha chiesto: “E il blog l’hai fatto?”. Ho avuto un momento di perplessità. Ovviamente lui si riferiva al fatto che ormai quando si pubblica un libro si crea anche il blog per riparlare ed espandere i suoi temi. Ma io il blog ce l’ho già. Anzi è venuto al mondo un anno prima del libro. Un blog ha però una gestazione breve, mentre un libro ce l’ha decisamente più lunga. Il libro in verità esisteva già prima del blog, e il nome che a suo tempo ho dato al blog era anche augurale per il libro. Quindi, in fin dei conti, al mio amico ho risposto “Sì”.

Il libro è più specifico del blog, come è giusto. Se volete sbirciare indice e introduzione potete andare qui.

Mi sento un po’ come quelli che dal romanzo è uscito il film, o dal film il fumetto, o dal fumetto il romanzo. Il blog non cambierà, ma se qualcuno mi propone qualche tema di cui nel libro si parla, può essere una buona occasione per tornarci sopra.

Per adesso, ne parlo pubblicamente in un incontro nell’ambito del festival del fumetto Bilbolbul, sabato mattina 5 marzo alle 11.30 alla libreria Irnerio (via Irnerio 27) a Bologna, con Luca Raffaelli. Spero di vedervi tutti.

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Del pennino di Francesco Cattani

Francesco Cattani, Barcazza, pag. 26

Francesco Cattani, Barcazza, pag. 26

Mi piace, Barcazza di Francesco Cattani (Canicola 2010), per quel segno di pennino sottile che ricorda quello del Mattotti della linea fragile. E mi piace anche perché le storie che racconta sono esili come il suo segno, e insieme – proprio come il suo segno – capaci di esplorare in profondità un piccolo mondo.

C’è un piccolo gruppo di persone in vacanza, al mare, in una casa isolata tra le rocce da qualche parte nelle isole Eolie o giù di lì. Una donna adulta, il nipote ventenne con la fidanzata, alcuni bambini, figli o nipoti.

C’è il mare, c’è il sole, c’è il non far niente della vacanza, attraverso cui strisciano piccoli eventi e tensioni, erotismi e gelosie. Succede poco o niente; gli eventi sono irrilevanti o inconclusi. Una vicenda sembra snodarsi leggermente, ma è come annegata nel torpore della vacanza.

È proprio questo che mi piace di questo libro, questo realismo minimale in cui con poco si suggerisce tutto, ma intanto si gode di quell’essere lì, nel silenzio e nel sole, nella lentezza quasi ingombrante della vacanza.

E il pennino di Cattani funziona al medesimo modo. Traccia poche linee, pochissime. Però il mare appare intensamente mare, e le rocce sono vere, e la casa è una casa delle Eolie. Ma le linee sono anche linee, e sembra quasi di vedere quel pennino che procede, che scava i profili delle persone sulla carta – un po’ come fa anche Gipi, che è certamente un altro riferimento del nostro.

Mattotti, Gipi. Direi che se ne intravede la lezione. Però, pur essendo passato di là, direi anche che Cattani ha già delineato una sua precisa strada. Mi piace.

Francesco Cattani, Barcazza, pagg. 84-85

Francesco Cattani, Barcazza, pagg. 84-85

 

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Di Giacomo Monti

Giacomo Monti, Camicia

Giacomo Monti, Camicia

Sarà magari perché ce l’ho in mente da quando ho parlato di Mumin, ma i fumetti di Giacomo Monti mi sembrano avere qualcosa in comune con i film di Aki Kaurismäki. C’è lo stesso sconsolato squallore, la stessa umanità appassionata e demente, la stessa ironia sottile e devastante. In realtà Kaurismäki mi fa ridere un po’ di più, ma anche lo squallore di Monti è talmente stralunato o lunare, così ridicolo e assurdo, che non si può restare del tutto seri.

Eppure le storie raccolte in Nessuno mi farà del male (Canicola, 2010) sono serie, serissime, talvolta drammatiche – proprio come quelle di Kaurismäki. C’è la capacità di cogliere il gesto, il dettaglio solo in apparenza insignificante: come la camicia spiegazzata del cliente della prostituta, su cui si incentra il loro discorso, unica relazione un poco umana nell’indifferenza reciproca generale.

Persino il disegno raccoglie e diffonde il senso di monotonia e grigiore della vita, con quelle caselline tutte uguali, quelle linee troppo o troppo poco marcate per essere di qualità, graficamente. E tuttavia persino il disegno è straordinario in Monti, nella sua assurda semplicità, nella sua quasi demenza. Mi piace persino il modo in cui Monti spreca lo spazio della pagina, limitandosi a poche vignette piccole dove potrebbe metterne tante, o magari farle più grandi.

Ma qui tutto deve essere piccolo, perché piccola è la vita, piccole le gioie, i dolori, le disgrazie. E persino l’arrivo degli alieni finisce per diventare una storia di amore coniugale di campagna.

Monti è antiepico, antilirico, antigrafico, ma riesce a esserlo liricamente e quasi epicamente, inventandosi una grafica del banale e dello scontato, che non è, in sé, né banale né scontata.

Insomma, capisco bene perché Gipi abbia scelto questo libro per ricavarne il soggetto del suo primo film. Mi domando giusto come farà a ottenere una trama unitaria da questo pulviscolo di piccole vicende.

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Di Mumin, nei suoi boschi

L’articolo è qui, sul blog di Bilbolbul, curato da Lo Spazio Bianco.

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Di Manuele Fior che mi inquieta, e perché

Manuele Fior - Cinquemila chilometri al secondo, pag.72

Manuele Fior - Cinquemila chilometri al secondo, pag.72

Ho promesso, qualche mese fa, che avrei cercato di trovare se non la chiave, perlomeno una chiave per capire che cosa mi renda così inquieto leggendo i libri di Maunele Fior. Ora che Cinquemila chilometri al secondo ha vinto ad Angoulême, mi sembra di non potere più posticipare questa ricerca.

Mi sono messo così a pensare. Mi sono riletto il volume. Mi è ripiaciuto moltissimo, forse ancora più che alla prima lettura. Ma la chiave è rimasta nascosta.

Certo, posso dire che è una bella storia, raccontata molto bene e anche molto ben disegnata. Posso dire che i colori di Fior sono ammalianti, ed è molto bello anche l’uso che viene fatto delle varianti tonali per gruppi di pagine, quasi a esprimere degli stati d’animo dominanti. Posso dire che quel modo di trattare l’esotismo è profondo, e che la sensazione di Svezia e la sensazione di Egitto sono tutte e due intense, proprio nella loro diversità; è quasi come se ci stessimo vivendo anche noi. Non c’è niente di cartolinesco, niente di oleografico. Fior è davvero bravo anche in questo.

Insomma, che Fior è bravo si vede, si capisce continuamente: dai disegni, dai dialoghi, dal modo di condurre la storia complessiva… Ma perché mi inquieta? Come fa a prendermi così visceralmente?

Mentre brancolavo alla cieca alla ricerca dell’invisibile chiave, ho avuto un piccolo flash, e mi sono venute alla mente queste parole, lette tanto tempo fa: “C’è nella vita un tempo in cui essa rallenta vistosamente, come se esitasse a proseguire o volesse mutare direzione.” È l’inizio di “Grigia” il primo dei tre racconti che compongono Tre donne, di Robert Musil.

Tre donne è un libro che ho amato molto, negli anni dell’università. Proprio per questo lo regalai come dono di commiato a una donna (il regalo era mio, ma il commiato era stato suo), e smisi di averlo in casa. Qualche anno dopo lo ricomperai in tedesco, nell’illusione che la mia conoscenza della lingua di Musil (che già mi permetteva di leggere con fatica le favole dei fratelli Grimm) fosse sufficiente ad affrontarlo. Ma dopo avere speso due giorni per leggere le prime tre pagine, capii che al mio tedesco mancava ancora parecchia strada (una strada che in verità non ho mai più percorso). Ma quell’esercizio mi aveva lasciato stampato nella memoria quell’inizio folgorante: “Es gibt im Leben eine Zeit, wo es sich auffallend verlangsamt, als zögerte es weiterzugehn oder wollte seine Richtung ändern. Es mag sein, daß einem in dieser Zeit leichter ein Unglück zustößt.”

Che cosa ha a che fare Musil con Cinquemila chilometri al secondo? Non lo so, in verità. Non so nemmeno se Fior abbia letto Musil, anche se sospetto di sì. So però che il romanzo di Fior è focalizzato su alcuni momenti della vita dei suoi protagonisti, e per ciascuno di quei momenti potrebbero valere le parole di Musil. Sono quei momenti di debolezza in cui le costruzioni mentali che tutti noi ci facciamo per portare avanti alla meno peggio la nostra vita si indeboliscono e diventano trasparenti, lasciando vedere quello che c’è dietro. Sono quei momenti in cui la sfortuna potrebbe accanirsi contro di noi, come accade nel racconto di Musil ma non in quello di Fior. Ma sono comunque quei momenti in cui le persone si rivelano non solo nella loro superficie, ma quasi come se la loro pelle fosse diventata trasparente.

Non è un modo occasionale di procedere per Fior: La signorina Else e Rosso Oltremare sono costruiti al medesimo modo. Fior evidentemente sa disegnare e sa scrivere molto bene, ma il fascino delle sue storie deriva dal suo saper guardare le persone e le cose, in superficie come in profondità. E magari – chissà – dall’aver letto appassionatamente Musil, oltre a Schnitzler.

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Di Saul Steinberg

Saul Steinberg, Dog on leash

Saul Steinberg, Dog on leash

Un post di Caro su The Hooded Utilitarian mi riporta agli occhi l’arte di Saul Steinberg, ricordando quella che lui (ma solo lui, Caro) definisce una graphic novel ante litteram (del 1954): il volume The Passport. Che The Passport fosse una graphic novel è naturalmente solo una boutade da appassionato, ma la passione per il lavoro di Steinberg è un fatto del tutto comprensibile, indipendentemente dalla decisione (discussa nel post) se si tratti di fumetti oppure no – un tema su cui non mi pronuncerò qui.

Saul Steinberg, No

Saul Steinberg, No

Io ho incrociato Steinberg su un numero di Linus degli anni Settanta, o forse ancora prima. Ne ricordo una vignetta spettacolosa in cui il personaggio seduto dietro a una scrivania parlava a quello seduto di fronte a lui, e il fiume di incomprensibili parole che costituiva il suo discorso era contenuto in un grande e arzigogolato balloon che formava chiaramente un enorme NO. Al di là dell’efficacia della gag, c’era qualcos’altro che indubbiamente m’intrigava in quel disegno, e che ritrovo pienamente negli esempi portati dal post di Caro (al quale rimando per vederne molti di più di quelli riportati qui – ancora di più se ne possono vedere, ovviamente, su Google images).

Con poche eccezioni, tutto il lavoro di Steinberg è basato sull’uso di un pennino sottile, dalla punta dura che consente poca modulazione della linea, e su un’estrema economia di segni. In qualche caso, come quello riportato in alto, questa estrema economia diventa quasi il tema, e l’effetto insieme lirico e ironico di questa immagine è tutto basato su una grande assenza evocata dalle poche presenze – o da un grande nero (il buio della notte) rappresentato dalla pagina bianca. In altri casi, come quello che segue, si arriva al virtuosismo di eseguire immagini figurative abbastanza complesse attraverso l’uso di una sola linea continua: e l’ironia di Steinberg ci rivela di colpo dimensioni percettive di cui non siamo consapevoli, e, insieme, strane relazioni tra le cose.

Saul Steinberg, Tree and dog

Saul Steinberg, Tree and dog

Non è tutto qui. Con le sue linee striminzite, Steinberg ha costruito uno stile molto ben riconoscibile, talmente personale da essere continuamente quasi una specie di firma. Non a caso, poi, la sua firma vera e propria quasi non si distingue dagli scarabocchi con cui, di tanto in tanto, imita la scrittura.

Questo segno così personale è una sorta di “io” grafico; attraverso il segno così riconoscibile, è come se per ogni immagine che ci presenta, Steinberg stesse (sommessamente) dicendo “io la vedo così”, “ecco la mia visione delle cose”. Questa forte soggettivizzazione toglie immediatamente alle sue vignette qualsiasi pretesa di rappresentare il mondo com’è, e ci invita subito a cogliere il punto ironico e/o lirico del suo discorso.

Nell’immagine che segue, la complessità della parte in basso la rende subito sfondo, mentre l’attenzione si concentra su quella in alto, che contiene il cuore del discorso – compreso il delizioso dettaglio della luna, che si trova inquadrata nel finestrino, come se appartenesse solo al mondo di chi dorme, e non al paesaggio sottostante.

Saul Steinberg, Airplane

Saul Steinberg, Airplane

La forte caratterizzazione dei pochi segni permette a Steinberg di ottenere l’immediata concentrazione dell’attenzione dello spettatore su quello che gli interessa comunicare. Ed è in questo modo che diventa possibile trasmettere anche qualcosa di molto sottile, di leggero e impalpabile: qualcosa che magari fa appena sorridere il lettore, magari con un’ombra di tenerezza, magari con un sospetto di crudeltà.

L’ultima vignetta qui sotto la dedico agli amici del blog Sinsemia, che si occupa di comunicazione visiva. Come a volte succede con le vignette di Steinberg, ho dovuto avanzare dei dubbi sulla mia prima interpretazione. A prima vista, mi è sembrato che la vignetta giocasse sulla scarsa capacità di progettare ( e quindi di pensare think) del personaggio, proprio mentre scrive la parola think. Poi mi sono accorto che quello che lui sta scrivendo si può leggere anche come “thin k”, cioè “k sottile”, dove “sottile” è scritto in bold. La seconda lettura non esclude la prima, né viceversa. Su cosa gioca Steinberg?

Saul Steinberg, Think

Saul Steinberg, Think

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Dei sogni fotografici di Dave McKean

Dave McKean, copertina per The Dreaming

Dave McKean, copertina per The Dreaming

Le straordinarie copertine realizzate da Dave McKean per diverse serie di comic book americani mostrano bene che cosa ne sia dello strumento fotografico nell’epoca di Photoshop. Credo che a nessuno verrebbe infatti in mente di considerare i dettagli palesemente di origine fotografica che appaiono in molte di quelle immagini come testimonianze di una qualche realtà, di una qualche oggettività che da qualche parte in qualche tempo ha avuto luogo.

Eppure, d’altra parte, non ha neanche molto senso considerare quei dettagli come banali scorciatoie produttive, perché si fa prima a utilizzare un brandello di fotografia che non a disegnare quel particolare con un qualche tipo di tecnica manuale. McKean fornisce continuamente prove troppo evidenti della consapevolezza con cui gioca i propri elementi costruttivi per non dargli credito anche su questo.

Il punto infatti è proprio che, a questi dettagli, qualcosa del valore di testimonianza del reale comunque resta, ed è anche su questo residuo di realismo che l’autore gioca per costruire il proprio effetto comunicativo.

La copertina di The Dreaming che apre questo post è probabilmente realizzata del tutto con frammenti fotografici – a parte i caratteri della testata, anche se la loro fattura li potrebbe comunque far scambiare per tali. Nel complesso, per la qualità delle sfumature e della grana dei materiali riprodotti, l’immagine potrebbe anche essere davvero una singola fotografia – se non fosse che la sua collocazione (copertina di un albo a fumetti) e l’improbabilità del suo soggetto ce lo fanno escludere.

Ma l’allusione al reale che questa non-fotografia compie è comunque importante. Ciò che essa rappresenta è infatti a sua volta una rappresentazione: una complessa scultura in marmo o avorio da cui emerge, o meglio, da cui sembra stare uscendo una figura umana. Questa figura è, verso il basso (la parte più arretrata del gesto di emersione, ancora vicina al blocco scultureo), certamente di marmo o avorio, e continua a esserlo nelle braccia e nel tronco – mentre nel viso, che è la parte più avanzata, più vicina a noi, qualcosa è decisamente differente.

Al di fuori di questo viso, infatti, tutto è riconducibile abbastanza tranquillamente a delle convenzioni iconografiche note, e solo l’immersione delle braccia nel reticolo delle piccole figure può apparire non canonica. Il viso, invece, è decisamente non canonico: se questo è un angelo, o un Cristo (come potrebbe suggerire la forma del drappo che gli copre i fianchi), la calvizie e il labbro leporino sono immediatamente inquietanti, un improvviso tocco di eccessivo realismo. E quando si osserva questo, ci si prende anche immediatamente conto che la grana della materia delle guance, del mento e di tutta la parte inferiore del viso non è quella di una statua, bensì proprio quella della pelle vera, così come vero è il naso, e quel riflesso dell’occhio lucido che emerge dall’ombra.

La figura grande procede quindi verso di noi, come liberandosi dall’universo della rappresentazione per fare il suo ingresso in quello reale; ed è insieme una figura sinistra, ambigua. Nel contesto complessivo di finzione, l’apparenza fotografica crea un effetto di realtà, così che questo Cristo demoniaco sembra davvero colto nell’atto di acquisire carne, uscendo dalla propria materia statuaria di origine, e venendo verso di noi – creatura da incubo che esce dal sogno per entrare nel reale…

Anche l’altra copertina, in basso, realizzata per The Sandman, gioca sull’effetto fotografico, però quasi in direzione opposta. La parte fotografica è una cornice di legno, anzi, una serie di cornici concentriche. Ciò che la cornice inquadra è ovviamente un disegno (o un dipinto); salvo che la cornice è rotta, e attraverso lo squarcio si capisce che ciò che credevamo disegnato è invece il mondo reale, che la cornice si limita a inquadrare. Pur non smettendo di apparire come una cornice, la cornice si rivela ora una sorta di finestra, e la sua realtà (testimoniata dalla sua riproduzione fotografica) si trasmette a ciò che essa inquadra, nonostante si tratti chiaramente di un prodotto della mano.

Anche per questi esempi sarebbe pertinente la citazione di Borges con cui abbiamo aperto il post di lunedì scorso. Per McKean il dettaglio fotografico è l’effetto di realtà che confonde le acque, permette ai diversi livelli di interagire, mescola il Don Chisciotte letto con quello che lo legge. Ma se in Frank Miller tutto questo serviva per dichiarare ad alta voce: “Attenti, questo è spettacolo”, nelle copertine di Dave McKean il rimando al sogno è sufficiente a tematizzarle. È come se McKean ci avesse ripetuto, copertina dopo copertina, declinato in tanti modi diversi, lo stesso motto shakespeariano pronunciato dalla voce di Prospero: “We are such stuff / As dreams are made on”, ovvero “siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”.

Dave McKean, copertina per The Sandman

Dave McKean, copertina per The Sandman

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Dell’autoriferimento, dello spettacolo e del mondo

 

Jorge Luis Borges, da "Magie parziali del Don Chisciotte", Altre inquisizioni, Feltrinelli 1963, traduzione di Francesco Testori Montalto

Jorge Luis Borges, da "Magie parziali del Don Chisciotte", Altre inquisizioni, Feltrinelli 1963, traduzione di Francesco Testori Montalto

Frank Miller "The Dark Knight Returns", DC Comics, 1985, pag. 26

Frank Miller "The Dark Knight Returns", DC Comics, 1985, pag. 26

Le parole di Borges hanno per oggetto testi classici, o speculazioni filosofiche. Le conclusioni a cui arriva restano comunque affascinanti. Questo è un saggio vero, non una delle sue Finzioni. Con Borges, si fatica a distinguere il reale dall’immaginato, e alla fine ci si rende conto che spesso non è una distinzione pertinente. Siamo anche noi il sogno di qualcuno, come Don Chisciotte era il sogno di Cervantes?

Che cosa c’entra Frank Miller con le fascinose ma astratte elucubrazioni del maestro argentino? Miller impara dai giapponesi, già nei primi anni Ottanta, a costruire la pagina in maniera diversa, a giocare con lo spazio della pagina nella sua interezza, considerando il margine delle vignette un elemento opzionale, da utilizzare o meno a seconda del caso. Il margine delle vignette ha, in generale, una funzione di cornice, e serve quindi, tra le altre cose, a distinguere lo spazio del mondo della finzione (il mondo raccontato) da quello del mondo reale (la pagina materiale, lo spazio bianco che allude allo scorrere della lettura e al passaggio dell’occhio del lettore a un altro quadro). Lasciare l’immagine al vivo, limitata solo dal taglio materiale della pagina, significa eliminare una cornice, cioè un elemento di distanza. Naturalmente rimane un’altra cornice ineliminabile, che è quella della pagina stessa – ma il taglio della pagina è un vincolo materiale, non un prodotto del disegno, proprio come il bordo della finestra che inquadra un pezzo di mondo. L’immagine al vivo rimane finzionale, ma il suo impatto è molto più forte, perché si avvicina di colpo al nostro mondo reale – lo sfiora, pur senza poterlo raggiungere. Se poi sai giocare bene anche sull’inquadratura, ecco che Batman sta davvero di colpo piombando su di noi.

Ma cosa sono dunque quei riquadri appoggiati sull’ìmmagine? Altre vignette, certo. Eppure se ci stanno sopra essi non appartengono al medesimo mondo: sono come cartoline appoggiate sopra a un manifesto. Nel mondo reale le immagini non si possono giustapporre in questo modo. Solo le immagini lo possono fare tra loro – e il fatto di trovarsi sopra indica che sono posteriori (non si infila un manifesto sotto a delle cartoline, di solito, ma viceversa).

Mentre l’immagine al vivo si accosta mostruosamente al mondo reale, la sovrapposizione di altre immagini la rigetta verso il finzionale, il rappresentato. Ma non dimentichiamo che la lettura di un fumetto va fatta in sequenza: prima dunque l’immagine grande è quasi-reale, poi diventa lo sfondo di altre immagini. La correttezza di questa modalità di lettura è confermata anche dalla posizione relativa delle vignette, e dall’andamento narrativo che ne consegue.

Si può leggere tutto questo però anche in un altro modo, cambiando un poco il punto di vista. Se l’immagine grande era quasi-reale, le vignette piccole si trovano ora ancora più vicine a noi – e poco importa che la realtà dell’immagine grande sia nel frattempo retrocessa, perché essa ormai si trova nel passato, e noi stiamo già leggendo le vignette piccole sovrastanti. È così che gioca Miller, illusione dopo illusione; e quando un’illusione si disvela, noi siamo già dentro la prossima, e poco ci importa della precedente.

E poi, soprattutto, poco ci importa perché quello che ci importa è soltanto l’impatto emotivo: questa insomma è fiction, questo è mito. Quello che Borges non arriva a dire (ma consegue dalle sue parole) è che l’ipotesi di essere a nostra volta personaggi della lettura di qualcuno ci rende parte di uno spettacolo, di un mito, di una fiction, in cui valiamo per quello che possiamo comunicare nella trama complessiva, non per quello che siamo. Se siamo i personaggi di un racconto, il senso della nostra vita, dell’intero nostro mondo, è quello di costruire un’esperienza significativa per chi ci legge, per chi lo legge.

Guarda caso, le vignette inserite sulla pagina di Miller sono schermi televisivi, con il relativo sonoro. Tutto The Dark Knight è intessuto di sequenze televisive. Le immagini più reali del quasi-reale che sta sotto di loro rappresentano dunque non una realtà bensì una rappresentazione – magari fedele, come può anche essere la TV, però una rappresentazione. Nel momento di massima vicinanza al mondo reale incontriamo quindi di nuovo una rappresentazione.

Non so se Miller abbia mai letto Borges, ma gran parte della sua notevolissima capacità narrativa sta proprio nell’aver capito che la fiction ci può apparire tanto più reale quanto più assomiglia a quella confusione di livelli tra il reale e il rappresentato che è il nostro mondo dominato dai media e dalle loro rappresentazioni. In un mondo in cui la rappresentazione (televisiva, cinematografica, raccontata dai giornali ecc.) può essere per noi più reale del reale, la realtà è per noi una dialettica complessa tra i tanti modi di viverla e rappresentarla.

Il Cervantes di Borges riduceva il mondo a spettacolo per la lettura di uno dei suoi personaggi, insinuando in noi il dubbio sulla nostra stessa realtà. Frank Miller non fa che riconoscere che il nostro mondo è ormai di quel medesimo tipo, e gli specchi della costruzione in abisso sono i diretti responsabili della costruzione del reale – non dei semplici riproduttori. Su questa dialettica senza scampo Silvio Berlusconi ha costruito il suo impero di finzione, e i suoi personaggi siamo noi. Per la lettura di chi?

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Di Jiro Taniguchi e dello scrivere su di lui

Taniguchi Jiro, Quartieri lontani, p.200

Taniguchi Jiro, Quartieri lontani, p.200

Questo post vuole essere la continuazione del post precedente, ma ora parlerò di fumetti. Voglio scrivere di Jiro Taniguchi e del suo ultimo libro pubblicato in Italia: Quartieri lontani (Coconino Press, 2010 – l’originale giapponese è del 1998, ma Coconino l’aveva già stampato in due parti, nel 2002 e 2003, con il titolo In una lontana città).

Due parole sul suo tema le devo spendere, per permettere un minimo di orientamento a chi ancora non lo ha letto. Un uomo di 48 anni si trova  – come in una sorta di sogno incredibilmente realistico – a rivivere i propri 14 anni, ma con la consapevolezza dell’adulto. Ritornare a scuola, rivedere i propri genitori, proprio nel periodo in cui il padre è andato via, rivivere i rapporti con i compagni di scuola, il primo innamoramento…

Però niente è come prima, perché prima di tutto lui, nel corpo del quattordicenne, è un adulto gettato nel passato, che cerca di nascondere agli altri le proprie conoscenze sul loro futuro, non sempre riuscendoci del tutto.

L’idea di base forse non è originale, ma, come sempre, Taniguchi è un maestro a svilupparla e a portarla sino alle ultime conseguenze. Il risultato è così un racconto sospeso tra la sensazione del già visto e la tormentosa inquietudine del non capire come possa andare a finire: guarda casa, le stesse sensazioni del protagonista della storia!

Taniguchi ha un disegno lineare e chiaro, piuttosto statico, ma questa semplicità si rivela poi adatta a meglio trasmettere le emozioni dei volti e dei corpi, sempre molto vere. E, insieme, c’è una sapiente costruzione dell’insieme, con un gioco di accostamenti/contrapposizioni tra la costruzione ortogonale della pagina, creata dalla serie delle vignette rettangolari, e lo sviluppo delle linee delle figure in esse contenute, che sono spesso anch’esse ortogonali, ma a volte organizzate sugli assi diagonali. Questa piccola vivacità costruttiva è sufficiente a dare vita alle pagine di Taniguchi, anche nel loro insieme – mentre al tempo stesso raccontano con espressività quello che sta succedendo.

Se stessimo parlando di uno scrittore, staremmo lodando la raffinatezza del linguaggio verbale e insieme la sua capacità di usarlo efficacemente per raccontare le emozioni – due qualità diverse, e non sempre compresenti. In un disegnatore di fumetti il corrispondente è ovviamente il rapporto tra il tratto grafico e la composizione, oltre che il modo di farne uso.

La strategia di semplificazione visiva agisce, in Taniguchi, anche al livello narrativo. La storia è semplice, assai lineare: tutto gira attorno a pochissimi elementi. Ma proprio come con la linearità del disegno, la linearità del racconto finisce per mettere fortemente in luce gli elementi chiave. Pagina dopo pagina, l’assurdità di quello che capita al protagonista svanisce anche per il lettore, e la vita del quattordicenne di 48 anni procede nella sua normalità, nelle sue piccole sorprese, nei suoi grandi timori.

Ho letto le 414 pagine di Quartieri lontani tutto di un fiato. Ci vogliono un paio di ore. L’immersione che mi ha prodotto non era così dissimile – come ho già detto – da quella del suo protagonista. In più di un momento della lettura mi sono sentito vivamente emozionato.

Certo, il romanzo di Taniguchi gioca su temi profondi: la memoria, il rimpianto, il sogno di rivivere il passato. Ma proprio perché sono temi così intensi, il rischio di essere banali è estremo. La semplicità del disegno e del racconto di Taniguchi è per forza quindi soltanto apparente. Il ritmo che qui l’autore costruisce è magari quello del sogno – ma non si ha mai l’impressione di trovarsi dentro un sogno. Tutto è reale, e anche il racconto è quello di qualcosa di reale. Forse è proprio questo straniamento a portare avanti il lettore – ma nella capacità che ha Taniguchi di farci dimenticare che stiamo leggendo una storia (e una storia di Giapponesi, tanto differenti da noi!) c’è qualcosa di davvero straordinario.

Come ho detto nel post precedente, non mi interessa trovare una verità del testo, e non credo che la critica debba concentrarsi su quello. Se il messaggio di Taniguchi è efficace su di me, in questo caso è perché già lo conosco e lo condivido. Non è il messaggio la parte interessante di un testo artistico, bensì l’esperienza su cui il testo ci conduce, il percorso di scoperta o riscoperta di qualcosa, che già lo conosciamo o no. Il messaggio, in questo, farà anche la sua parte – e ci sono sicuramente testi in cui è una parte importante, e davvero impariamo qualcosa di nuovo. Ma lo impariamo solo perché il testo ci ha condotto attraverso un’esperienza coinvolgente.

P.S. Giusto un’osservazione per la Coconino. Ristampare In una lontana città è certamente una buona operazione, che ha tutta la mia approvazione. E capisco anche che la concomitanza con il film di Sam Garbarsky sia una buona occasione per un’operazione commercialmente positiva (cosa da non disprezzare per un editore di questi tempi) e insieme culturalmente utile. Ma non apprezzo il fatto che da nessuna parte del volume compaia il riferimento alla precedente edizione, con il titolo mutato: la trovo anche una piccola truffa ai danni dei lettori che già possedevano In una lontana città, e che ora acquisteranno Quartieri lontani credendo che si tratti di un lavoro nuovo.

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Della cronachetta di Lara Canepa

Giacomo Nanni, "La vera storia di Lara Canepa" pp.82-83

Giacomo Nanni, "La vera storia di Lara Canepa" pp.82-83

Mi sento in dovere di parlare di Giacomo Nanni e mi accorgo che non mi è facile. È bravo, sì, ma non trovo la chiave. Forse è soltanto troppo minimale per me. Non chiedo alle storie di avere una morale, e nemmeno una conclusione. Ma, le sue, non so come prenderle. Potrei dire: semplici spezzoni di vita, cronachette. Ma se così fosse, che interesse avrebbero? Quasi nessuna quotidianità è di per sé più interessante della mia, che già lo è poco. È difficile raccontare la quotidianità perché è difficile selezionarne i luoghi interessanti, e ancora più difficile ricavarne una sequenza interessante. Giacomo Nanni ci riesce? Nelle Cronachette, in effetti sì. Ma in questa Vera storia di Lara Canepa? Non c’è troppa carne al fuoco? Elvis non morto e il figlio nato/non nato, e i sogni inquietanti? Il disegno è volutamente minimale, e questo non è certo un difetto, in sé. Però non aiuta ad andare oltre, e ci rende del tutto prigionieri della storia.

Scrivo, questa volta, non per proporre una soluzione, ma per sollecitare dei suggerimenti. C’è qualcuno che vuole provare a suggerirmi che cosa trova in questo libro, e come potrei tornare a leggerlo con meno difficoltà? (Non mi si dica di leggermi le recensioni. Ne ho lette diverse, giustamente lusinghiere e assolutamente evasive nel merito; per il mio problema, inutili).

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Di Pert e Paz

Andrea Pazienza, "Pertini", tavola 16, 1983

Andrea Pazienza, "Pertini", tavola 16, 1983

No, non è della mostra di Roma che voglio parlare. Però proprio a causa di quella ho preso in mano la mia vecchia copia di Pertini, Primo Carnera Editore, supplemento di Frigidaire del 1983. Mi ricordavo che non solo a suo tempo mi aveva fatto morire dal ridere (cosa normale da parte di Pazienza) ma che mi aveva anche colpito l’amore e il rispetto manifestati dall’autore nei confronti di Sandro Pertini. Non certo perché Pertini non se li meritasse (caso politico più unico che raro), ma perché mi colpiva allora e continua a colpirmi oggi un’esempio di satira in cui il protagonista non viene massacrato, ma anzi ne esce con simpatia.

Per questo, mi sono riletto le pagine di Pazienza, e mi sono reso conto che il vero oggetto della satira non è Pertini ma lui stesso. Non vera satira, dunque, perché su se stessi si può giocare, ma non è possibile massacrarsi.

Paz si mette nei panni dell’imbecille, che, con tutta la sua buona volontà, non riesce che a combinare guai. Se di Pert si può vedere parodia, sarà al massimo perché è troppo buono, troppo intelligente, troppo tollerante delle scempiaggini del suo luogotenente.

Le storie sono, a loro volta, una più scema dell’altra. Pazienza sembra prendere in giro se stesso anche come autore. Ma è una continua strizzata d’occhio al lettore, a cui si chiede di stare al gioco. Se saremo disposti a starci, ci sganasceremo dalle risate.

La comicità vive di meccanismi complicati. Esistono stupidità geniali e altre semplicemente stupide. Sono diverse per un soffio. Pazienza l’aveva quel soffio. L’aveva davvero!

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Della composizione e del racconto

Lorenzo Mattotti, illustrazione per "Le Monde", sul volume di Yunichiro Tanizaki "La gatta", 7 marzo 1997
Lorenzo Mattotti, illustrazione per “Le Monde”, sul volume di Yunichiro Tanizaki “La gatta”, 7 marzo 1997

Un’illustrazione non è una vignetta all’interno di un fumetto. La vignetta è fatta per scorrere, per inserirsi in un flusso di cui rappresenta un momento. L’illustrazione, viceversa, è fatta per trattenere l’attenzione tanto a lungo quanto può. La vignetta è come una singola frase di un racconto, o di un discorso più articolato. L’illustrazione è essa stessa il racconto, il discorso complessivo.

Questo non comporta che la vignetta debba necessariamente essere più semplice, ma la sua complessità deve commisurarsi al suo ruolo nel fluire del contesto. Il fluire complessivo può essere anche lento, se la vignetta si inserisce naturalmente in una sequenza di altre vignette tutte visivamente complesse – ma se si supera una certa soglia di complessità, e ciascuna vignetta ferma troppo l’attenzione per essere decifrata, la storia non fluisce più. Per salvare sia la fluidità che la complessità ci deve essere, nelle vignette, almeno un piano di più semplice lettura, quello che soddisfa l’immediato bisogno di racconto, e permette di proseguire nella lettura. Il lettore sarà consapevole che non ha colto tutto, ma intanto va avanti, e non perde il ritmo – e sa anche benissimo che il testo resta comunque lì, pronto alle mille riletture successive possibili.

L’illustrazione non  viene attraversata, e non deve gestire perciò nessuno scorrere. Anzi, più a lungo trattiene l’attenzione del fruitore e più probabilità ha di essere apprezzata. Anche l’illustrazione ha dei limiti alla complessità visiva, legati al suo contesto di apparizione, ma sono limiti assai meno cogenti di quelli della vignetta. In generale, potremmo dire che un’illustrazione può permettersi di essere tanto più complessa quanto più riesce a interessare l’occhio e la mente del suo fruitore.

Molte illustrazioni realizzate da Mattotti (e in particolare gran parte di quelle realizzate per Le Monde) sono costruite su una griglia geometrica in cui dominano le diagonali. Nel mettere in scena il mondo ritualizzato del giapponese Tanizaki, la costruzione geometrica allude inevitabilmente a un certo modo di concepire la vita, e a una particolare eleganza, entrambi caratteristicamente nipponici.

Ma, anche a monte di questo, l’immagine ci prende comunque in due modi. La complessa costruzione geometrica, resa interessante dalla distribuzione dei colori, è già di per sé una ragione di attenzione visiva; ma a essa si aggiunge la magia della scena: l’uomo e il gatto, con le due donne che lo guardano.

Questi due modi sono insieme antagonisti e convergenti: da un lato l’attenzione del fruitore oscilla tra la percezione dell’eleganza formale della composizione e la comprensione della situazione raccontata (per quanto solo per accenni); dall’altro, le quattro figure si inseriscono a loro volta così bene nella composizione da apparirne davvero come parte integrale – quasi delle decorazioni esse stesse.

La realtà raccontata (tridimensionale) si schiaccia sulla costruzione plastica (bidimensionale), mentre la costruzione plastica (piatta) prende profondità e vita psicologica. Alla fine, le stesse relazioni psicologiche accennate tra i personaggi assumono in qualche modo la compostezza geometrica dell’immagine complessiva; e questa a sua volta ci appare carica di senso emotivo.

Potremmo stare lì per ore, e vedere e rivedere queste figure plastiche e narrative, puramente visive e insieme sottilmente emotive. E magari anche questo farci oscillare ha a che fare con l’arte sottile di un narratore giapponese.

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P.S. Mi sa che nelle prossime due settimane questo blog rallenterà un po’ i suoi ritmi. Le feste colpiscono duramente, e anche i blogger si riposano, ogni tanto.

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Di Chris Ware, e dell’impaginazione

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 1 e 2

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 1 e 2

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 3 e 4

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 3 e 4

Ho già avuto occasione di mostrare queste due figure (in un post su Chris Ware il freddo e Paolo Bacilieri il caldo) ma ci voglio tornare sopra, perché c’è altro da dire. Siccome in questi giorni in questo blog e altrove si parla di sinsemia, nel momento in cui mi sono ricapitate sotto gli occhi mi sono accordo che c’è altro da dire, che riguarda proprio l’organizzazione delle parole e delle immagini nello spazio.

L’effetto di comunicazione raggelata e un po’ straniata che questa breve storia trasmette dipende anche da questa organizzazione grafica. Per esempio, coerentemente con lo stile grafico e il tipo di racconto, non sono presenti qui rumori spettacolarizzati – che indubbiamente darebbero movimento a questo universo invece tutto trattenuto. Sono però presenti alcune scritte esterne alle vignette, in posizioni di didascalia, di formato più grande, e in due casi di formato molto grande: “NOW,” nella prima doppia pagina, “BUT” nella seconda. Narrativamente, queste scritte si collegano con il testo che segue, ma graficamente si impongono subito nella visione della pagina, e l’impatto grafico è confermato dal loro essere particelle dal valore introduttivo-congiuntivo-avversativo; “ora” e “ma”.

Si impongono anche perché sono le uniche forme alfabetiche grandi in mezzo ai riquadri di immagini, ma gli stessi riquadri di immagini sono accostati secondo una logica visiva che si impone immediatamente allo sguardo, ancora prima e indipendentemente da leggere la storia. Questo è rafforzato anche dal gioco dei colori, che sono all’incirca omogenei per aree, o gruppi di vignette: specialmente i gruppi di vignette piccolissime sono, infatti, particolarmente coerenti dal punto di vista cromatico, a rafforzarne l’unitarietà. Ma è rafforzato anche dall’esplicito lasciare degli spazi bianchi, i quali non hanno, di per sé, un valore narrativo.

Complessivamente, dunque, ciascuna doppia pagina appare graficamente piuttosto mossa, ma anche in una situazione di complessivo equilibrio grafico (rafforzato dalla presenza di una vignetta esattamente centrale), che non sembra alludere in nessun modo alla tradizionale sequenzialità delle vignette. Naturalmente, poiché sappiamo che si tratta di un fumetto, la sequenzialità viene ugualmente attesa, e quindi cercata e ricostruita. Ma a prima vista, o se non sapessimo di dover cercare una sequenzialità, ogni doppia pagina appare come una sorta di collage geometrico di grande stile – una specie di Mondrian dove alle linee nere dei dipinti corrispondono qui gli spazi bianchi tra le vignette, e le vignette stesse alle aree di colori piatti.

Sappiamo che la costruzione ortogonale di Mondrian era studiata apposta per escludere qualsiasi senso di dinamicità o di scorrimento del tempo nelle sue immagini. Chris Ware ne fa uso allo stesso modo, ma all’interno del paradosso di stare invece proprio raccontando.

Ci troviamo quindi in una condizione di percezione ambivalente: visivamente il tempo è fermo, raggelato, non c’è; mentre narrativamente esso non fa altro che scorrere da una vignetta all’altra, e qua e là ci sono addirittura dei vettori che ne indicano il trascorrere (come la lunga fila di spermatozoi nella prima doppia pagina).

L’effetto di gelo che Ware mi produce è probabilmente proprio dovuto a questa duplicità: il tempo scorre, ma tutto viene costruito graficamente come se non scorresse. La pagina è costruita così magistralmente per blocchi ortogonali, che sembra fatta per essere soltanto ammirata nel suo complesso. Persino le grandi parole verticali giocano lo stesso ruolo ambiguo: mentre rafforzano visivamente la staticità della costruzione, evocano nel proprio contenuto lo scorrere del tempo.

Chris Ware non può (e naturalmente non vuole) eliminare la lettura, ma fa di tutto per relegarla il più in là possibile, il più possibile in secondo piano. Quando ci si arriva, alla lettura narrativa delle immagini, il senso di eterna immobilità delle cose si trova già dentro chi guarda queste pagine, e il mood in cui siamo entrati è quello con cui leggiamo la storia.

Con queste premesse grafiche, diventerebbero tragiche persino le avventure di Mickey Mouse, se alla Disney le avessero mai impaginate così. Ma anche Chris Ware ha avuto il suo topo.


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Dei rumori grafici

C’è un ambito, nel fumetto, che riguarda la scrittura ma non il lettering in senso stretto, ed è quello dei rumori. I rumori appaiono sotto forma di segni di scrittura dalla forte caratterizzazione grafica, con una grande varietà di forme.

Il rumore non è un oggetto del mondo rappresentato, e la natura semiotica della sua espressione nel fumetto è complessa. Un rumore viene tipicamente rappresentato attraverso una sequenza di lettere che, pur essendo di carattere onomatopeico, appare comunque come una parola – magari inventata. In quanto parola, implica la presenza di un senso (che magari può anche semplicemente essere: rumore forte) e soprattutto del suono che la sequenza di lettere evoca, un suono che (a parte quando si tratta di grida) non può davvero corrispondere a quello letteralmente espresso dalle lettere. Il suono espresso dalla parola brakabrakabraka, per esempio, che vediamo qui sotto in una tavola di Frank Miller, sarà dunque interpretato come il suono della mitragliatrice mostrata dall’immagine, un suono caratterizzato – proprio come la sequenza fonetica rinviata dalle nostre lettere – dalla ripetitività di suoni secchi, meccanici ed esplosivi.

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

La parola brakabrakabraka rinvia perciò a una serie di suoni che sono un corrispondente analogico di quelli emessi dalla mitragliatrice. L’analogia messa in scena a livello del suono trova poi riscontro in un’altra costruzione analogica a livello della forma grafica, alla quale è demandato di dare energia alla figura del suono. Così, nei diversi esempi visivi che abbiamo raccolto qui si vede chiaramente come i rumori siano costruiti graficamente in modo da rendere, per analogia, la qualità dei loro corrispondenti sonori evocati.

Ma il rumore forte visivizzato nel fumetto gode di un’altra caratteristica. Il rumore è un elemento di per sé estraneo alla natura visiva del mondo rappresentato (e deve comunque avere, nel fumetto, una rappresentazione visiva), e si tratta di qualcosa che deve caratterizzare un eccesso, poiché il rumore stesso (quando vale la pena di rappresentarlo nel fumetto) è frutto di un eccesso. Per questa sua estraneità alla dimensione figurativa e per questa sua natura eccessiva, il rumore finisce per apparire come un elemento cruciale di caratterizzazione stilistica: ci sono infiniti modi possibili di essere eccessivi nell’inventare la forma visiva di qualcosa che in sé non ha nulla di visivo; e di conseguenza il modo scelto è cruciale per l’individuazione del contesto grafico di riferimento.

Guy Peellaert, Pravda La Survireuse, 1967

Guy Peellaert, Pravda La Survireuse, 1967

Così, i rumori di Peellaert sono coloratissimi e bombati come nella visività psichedelica degli anni Sessanta, e quelli di Bodé sporchi e irregolari; mentre Crepax deve giocare sulla poca deformazione di un carattere lineare bold di ascendenza pubblicitaria, e Scozzari non si allontata dal modello underground di Bodé se non per una molto maggiore ricchezza di espressioni. Miller, infine, fa dei rumori visivi uno dei punti di forza della propria poetica della spettacolarità a tutti i costi, con una continua folgorante serie di invenzioni fonetiche e grafiche, dove non di rado il rumore investe la totalità del campo, ed è l’oggetto che si impone principalmente all’attenzione.

Vaughn Bodé, War Lizards, circa 1970

Vaughn Bodé, War Lizards, circa 1970

Guido Crepax, L'uomo di Harlem, 1978

Guido Crepax, L'uomo di Harlem, 1978

Filippo Scozzari, Nekator Superfly, 1974

Filippo Scozzari, Nekator Superfly, 1974

Frank Miller, Ronin, 1983

Frank Miller, Ronin, 1983

Il racconto – da questi esempi è chiaro – si è mangiato l’immagine: là dove la rappresentazione di un rumore può diventare la totalità di ciò che si vede, è ovvio che si guarda (e si deve guardare, e anche con attenzione) per leggere la storia. Solo nel leggerli come rumori degli eventi della storia i rumori visivi del fumetto ricevono un senso dal proprio essere guardati. Tuttavia, al tempo stesso, essi restano anche delle pure caratterizzazioni grafiche astratte, con una figuratività, perciò, del tutto diversa da quella delle figure del mondo che li attorniano.

Se ignorassimo, o mettessimo sullo sfondo il racconto, certo, allora il rumore grafico si trasformerebbe in uno straordinario oggetto visivo, spesso da godere tramite un puro guardare. Ma non verrebbe più, in tal caso, inteso come un rumore. Eppure, anche se il racconto costituisce il fumetto, sappiamo bene che non lo esaurisce affatto. I rumori grafici sono certo prima di tutto rumori, ma un po’ sono anche favolosi oggetti grafici sospesi nello spazio.

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

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Dello sguardo e della parola (nelle meditazioni gesuite)

Jerónimo Nadal, Tavola sull’Annunciazione dalle “Adnotationes et meditationes in Evangelia”, 1594

Jerónimo Nadal, Tavola sull’Annunciazione dalle “Adnotationes et meditationes in Evangelia”, 1594

Tanto per restare sui temi di queste settimane, parlando di parola e immagine e dimensione spaziale e visiva, leggo un libro da poco uscito di Andrea Catellani (Lo sguardo e la parola. Saggio di analisi della letteratura spirituale illustrata, Franco Cesati Editore 2009). È un libro di impostazione semiotica, che ha per oggetto di analisi il particolare tipo di comunicazione impostato dal gesuita Jerónimo Nadal nel suo volume Adnotationes et meditationes in Evangelia, del 1594. Il volume di Nadal non contiene solo un’opera fortemente illustrata, ma è anche un’opera sostanzialmente basata sulle proprie illustrazioni. Non solo, infatti, come si può vedere dalla figura sopra riportata, le illustrazioni contengono dei puntatori in forma di lettere maiuscole, che rimandano alle didascalie sottostanti, ma anche il testo continuo delle pagine circostanti si propone come commento più ampio dell’immagine e dei suoi dettagli. Nel libro di Nadal, dunque, l’illustrazione non è solo un commento a un testo verbale altrimenti autonomo, ma anzi, al contrario, è il nodo stesso della comunicazione, del quale il testo verbale rappresenta il commento, la spiegazione, l’interpretazione. Se togliete da questo contesto le figure, le parole cessano di avere senso, perché ne scompare il riferimento; se invece togliete le parole, impoverite grandemente la comunicazione delle immagini, senza tuttavia ucciderla del tutto.

Catellani analizza dettagliatamente il meccanismo di senso del volume di Nadal e di molte delle sue immagini, anche per comparazione con gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, da cui questo libro deriva, e con i lavori di alcuni contemporanei e allievi di Nadal. Lo fa da numerosi punti di vista, perché la macchina comunicativa di Nadal è davvero complessa ed estremamente ricca, e sfrutta numerose potenzialità già note dell’immagine introducendone altre, sufficientemente intuitive da poter essere comprese con poco sforzo dal fruitore.

Lo scopo di queste immagini e dei testi (brevi e lunghi) che le accompagnano non è soltanto informativo-didattico, ma è anche di supporto alla meditazione. Per esempio, l’immagine che ho riportato qui sopra non è soltanto un’illustrazione dettagliata dell’evento dell’Annunciazione, con le sue premesse e conseguenze più importanti, ma anche un’icona dell’Annunciazione stessa, con le sue figure sacre (la Madonna, l’Arcangelo, Dio Padre, Cristo medesimo in croce), e quindi un oggetto che si presta alla devozione e alla preghiera.

Siamo ben lontani ormai dal furore delle discussioni tra iconoclasti e iconoduli che attraversano i secoli prima del Mille, centrate sul sospetto di idolatria che l’adorazione delle immagini sacre porta comunque con sé. È un dibattito che segna profondamente il destino delle immagini (sacre e profane) in Occidente, e si risolve nella decisione di considerare le immagini come rappresentazioni della natura mortale (per esempio) di Cristo, che a sua volta viene presa come simbolica di quella divina. Adorare le immagini viene riconosciuto dunque come lecito, purché si riconosca all’immagine questa natura di semplice e imperfetto tramite simbolico, attraverso il quale si può far riferimento al trascendente. Se pensiamo che l’Islam non arriverà mai a una conclusione di questo genere, e l’immagine sarà per sempre bandita dal suo universo, capiremo che cosa significhi questa decisione per la cultura europea.

Il Gesuita Nadal, molti secoli dopo, agisce in un contesto in cui questa natura imperfettamente simbolica dell’immagine è data ormai per scontata, ma sta probabilmente proprio in questa imperfezione la possibilità delle immagini di articolarsi in racconto, in spiegazione, in una moltitudine di varietà di tramiti nei confronti del divino.

Catellani ci fa osservare come, in una figura come quella dell’Annunciazione di Nadal (che vedete qui sopra), l’evento centrale dell’apparizione dell’Arcangelo Gabriele alla Madonna sia circondato da una serie significativa di altri dettagli ed eventi, e ciascuno viene identificato da una lettera, che a sua volta rimanda alla legenda sottostante. In questo modo la successione ordinata alfabetica rimanda a un percorso di lettura preferenziale dell’immagine, che parte (A) dall’incarico dato a Dio Padre all’Arcangelo, che continua (B) con la presa di costituzione materiale dell’Arcangelo al suo ingresso nel mondo e (C) con la discesa della luce divina su Maria, che focalizza (D) l’attenzione sulla casa di Maria subito prima di presentarci l’evento centrale dell’Annunciazione medesima (E), per poi passare alle premesse prime di tutto questo, cioè (F) la creazione di Adamo, e alle conseguenze (G) cioè la crocefissione, sino all’annuncio dell’incarnazione del Cristo (H) che l’angelo porta alle anime del limbo.

La precisione con cui la sequenza delle lettere conduce l’attenzione del fruitore ha carattere didascalico, e permette di leggere l’immagine come un percorso narrativo, una sorta di fumetto, dove il racconto (come in tante tavole di Sergio Toppi, per esempio) si trova non articolato per vignette (cioè per riquadri separati) ma per aree differenti dello stesso spazio in cui agiscono dei vettori impliciti che conducono lo sguardo e l’attenzione a trascorrere dall’una all’altra rivelando la successione degli eventi. Anche qui sono presenti dei vettori impliciti, ma la successione alfabetica li rinforza con la sua inequivocabilità.

Ecco dunque che l’Annunciazione non è più presentata come un semplice evento unitario, ma come l’evento focalizzato (in quanto degno di devozione anche in sé) all’interno di una catena narrativa assai ampia. Il gesuita che fa uso del libro di Nadal per le proprie devozioni non sta dunque adorando l’evento in sé, bensì quell’evento come segno di tutta la catena degli eventi che hanno portato Cristo in Terra a redimere l’umanità, una catena che rimanda comunque a Dio.

L’immagine, con le sue dimensioni spaziali, diventa il contesto a cui la parola gira intorno, e in cui la parola trova senso. Per quanto imperfetto, è l’immagine l’oggetto di adorazione e spiegazione, rispetto a cui la parola è un semplice ausilio. L’immagine è insieme un diagramma del racconto, su cui si inserisce il discorso verbale, e l’imperfetta ma decisiva rappresentazione del divino, ed è quindi insieme temporalità (umana) e intemporalità (divina).

Il resto del discorso lo lascio alla lettura del testo di Catellani, che spero di non aver tradito troppo, in questa mia (partigiana) rilettura di una piccola parte delle davvero tante prospettive da cui riesce a osservare queste intriganti figure.

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Di Pogo e Barnaby, o della parodia della tipografia

Pogo, di Walt Kelly

Pogo, di Walt Kelly

Pogo contiene stupendi esempi di parodie di tipografie espressive. Per esprimere l’eloquio fiorito (sempre in campagna elettorale) del politico locale Mr. Bridgeport, Kelly mette in scena un intero campionario di caratteri ottocenteschi, quelli dei manifesti americani del West, e rappresenta i suoi balloon come se fossero striscioni di propaganda. Tuttavia, per restare in tono con lo spirito disegnato della striscia, non usa questi caratteri nella loro versione naturale a stampa, ma li disegna a loro volta a mano.

L’effetto, oltre quello di parodiare ferocemente il politico americano medio (di destra), che parla per esclamazioni di giubilo e luoghi comuni, è quello di farci vedere come anche la tipografia faccia parte del panorama della parola, e connoti fortemente le epoche e i ruoli sociali. Analogamente, infatti, il canto un po’ ridicolo della tartaruga Churchy Lafemme viene reso da un carattere minuscolo di ascendenza medievale, forse non troppo dissimile da quelli che avrebbe usato un William Morris per stampare un’antica ballata.

Pogo, di Walt Kelly

All’estremo opposto di Pogo, da punto di vista del lettering, sta Barnaby, di Crockett Johnson. Allo stile estremamente lineare del disegno, privo di qualsiasi dettaglio che non sia essenziale, e ossessivamente riportato alle rotondità dell’infanzia, viene accostato un lineare tipografico freddo in alto-basso, appena appena riscaldato dall’essere in versione obliqua (un Futura Heavy italics, presumibilmente). Niente lettering disegnato dunque: mentre Kelly disegna persino i caratteri a stampa, Johnson opta per la tipografia là dove non la usa nessuno.

Non è una scelta dettata da principi di economia (come sarebbe successo poi per tanti altri fumetti, con risultati spesso degradanti), ma anche qui una scelta espressiva. Il carattere con cui sono scritti questi dialoghi è lineare e neutro quanto il disegno di Barnaby, e, proprio come per il disegno, la sua scarsa espressività serve a mettere in evidenza le infinite sfumature dei discorsi e delle situazioni di questo piccolo capolavoro della comic strip americana.

È la stessa strategia dell’understatement che adotterà vittoriosamente Charles M. Schulz qualche anno dopo: rendere neutri o insignificanti un sacco di fattori su cui normalmente nel fumetto si gioca, in modo da fare emergere più chiaramente altri fattori, che altrimenti non potrebbero essere notati.

Per la storia del fumetto di quegli anni, da questo punto di vista Pogo rappresenta magistralmente il passato, e Barnaby il futuro. (Certo che se poi si allarga la vista a tempi più ampli e ad altre considerazioni stilistiche, diventa assai più difficile decidere chi sia stato alla fine il più progressista dei due. Ma credo anche che, se si generalizza troppo, il problema smetta davvero di avere senso.)

L'annuncio pubblicitario di Barnaby, di Crockett Johnson, 19 Aprile 1942

L’annuncio pubblicitario di Barnaby, di Crockett Johnson, 19 Aprile 1942

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Della linearità della scrittura

Judgement in the Other World, from the Book of the Dead. 350 B.C.

Judgement in the Other World, from the Book of the Dead. 350 B.C.

Sinsemia è un nuovo blog dall’aria molto promettente, il cui tema è la disposizione delle parole nello spazio allo scopo di comunicare, oltre che con le parole stesse, anche con le loro relazioni spaziali e grafiche e le immagini circostanti. Se volete capire più concretamente di che cosa si tratta, dateci un’occhiata, se avete fretta magari solo alle immagini, che sono sufficientemente esplicite da sé. La sinsemia non è una novità. Vi sono esempi storici come quello di Robert Fludd (1619) o quello di Gioacchino da Fiore (sec. XIII), analizzato da Luciano Perondi e Leonardo Romei (gli stessi autori del blog) su Nova 24, supplemento del Sole 24 Ore, il 28 ottobre.

Il post del 26 novembre, sul Codex Mendoza e la scrittura azteca mi fornisce un’occasione per riflettere sulla linearità della scrittura. In altre parole, se gli aztechi (e non solo loro) potevano fare uso di una scrittura non lineare, come mai noi siamo talmente vincolati alla dimensione lineare e sequenziale della scrittura da fare persino fatica a concepire qualcosa che sia insieme scrittura e comunicazione non lineare? Benché vi siano tracce di sinsemia sia nel passato che nel presente, non percepiamo certo questo modo di organizzare la scrittura come normale. Per esempio non lo si insegna a scuola – anzi tutto il nostro insegnamento e l’attività che ne consegue è basato sulla linearità della scrittura; sino a creare delle abitudini totalizzanti: io medesimo, nello scrivere queste righe a difesa della sinsemia, non sono capace di farne davvero uso, e il mio pensiero scrittorio si sviluppa sequenzialmente in un normale (per noi) testo lineare.

Credo che la questione debba essere fatta risalire a due fattori antichi, che sono l’invenzione dell’alfabeto e le ragioni della sua adozione in Grecia. L’alfabeto porta a compimento un processo di fonetizzazione della scrittura che dura millenni. Il suo vantaggio è quello di basarsi su un piccolissimo numero (molto arbitrario) di unità fonetiche consonantiche, con la scommessa che siano sufficienti a trascrivere tutte le parole. Quando l’alfabeto viene inventato, la scrittura dell’area mediorientale era già in larga misura fonetica; ma in quei sistemi di scrittura vi erano comunque moltissimi segni, che facevano riferimento a unità fonetiche a volte semplici come le nostre, ma spesso anche molto più complesse: intere sillabe e oltre.

Di questo tipo erano anche le scritture dell’antico Egitto (geroglifico, ieratico, demotico). Ma non tutti i segni che queste scritture utilizzavano andavano interpretati foneticamente: c’erano anche dei segni, detti determinativi, che rimandavano direttamente all’ambito di significato della parola. Insomma se “lira” fosse stata una parola dell’antico Egitto, ne avrebbe fatto parte o il determinativo per gli strumenti musicali oppure quello per le monete – e avremmo due parole diverse anziché una. Le scritture antiche, dunque, trascrivevano non soltanto il suono, ma anche il senso; e questo permetteva loro di essere lette molto più facilmente con i soli occhi, senza articolare la voce. Anche per questo, l’accostamento alle immagini appariva agli Egizi molto naturale, e le sinsemie sulle pareti delle tombe sono la norma, non l’eccezione.

L’invezione dell’alfabeto, dunque, taglia fuori il senso dalla scrittura diretta. Da quel momento, la parola scritta rinvia esclusivamente a quella orale, la quale a sua volta rinvia al senso. Ed è radicalmente secondo questa modalità che i Greci assumono la scrittura, copiandola dai Fenici, ma adattandola alle proprie esigenze fonetiche: per esempio, aggiungendo le vocali. L’adozione della scrittura in Grecia, intorno al IX-VIII secolo, sembra essere dovuta alla possibilità che essa offriva di memorizzare stabilmente il kleos, ovvero la celebrazione poetica degli eroi, quel genere cruciale per loro (e sino a quel giorno esclusivamente orale) che aveva il suo apice nei poemi omerici (vedi il libro di Jesper Svenbro, Storia della lettura nella Grecia antica, Laterza 1991).

E siccome i Greci scrivevano soltanto per memorizzare meglio quello che essi vivevano esclusivamente attraverso la parola orale, concepirono sempre la scrittura come semplice supporto mnemonico della voce – e mai come un sistema di significazione autonomo. Per questo, nell’antica Grecia, la lettura era un’attività che si svolgeva esclusivamente ad alta voce.

I Romani impararono tutto dai Greci, almeno in questo campo, e la consuetudine della lettura ad alta voce proseguì ininterrotta sino ai primi secoli dopo il Mille. C’è un bel libro di Ivan Illich (Nella vigna del testo. Per un’etologia della lettura, Raffaello Cortina 1994) dove si racconta come la diffusione della filosofia scolastica sconvolse le modalità di lettura (e anche di scrittura), rendendo necessaria una più rapida scansione dei testi, incompatibile con la vocalizzazione. Nasce così la lettura moderna, interiore, quella in cui tutti noi siamo ormai abilissimi.

Nella lettura visiva, le parole non vengono tradotte in suoni nemmeno dentro di noi, se non occasionalmente. Le cogliamo con gli occhi, nella loro interezza e successione; e con gli occhi ne riconsciamo immediatamente anche il senso.

Da questo punto di vista, se le parole sono virtualmente pronte oggi a essere trattate come oggetti visivi, allora anche noi siamo virtualmente pronti ad affrontare i testi sinsemici con la stessa facilità con cui affrontiamo quelli lineari tradizionali. E di fatto è proprio così, oggi – almeno dal punto di vista della fruizione.

Veniamo però da una tradizione che, nel momento in cui la parola ha incominciato a diventare visiva, aveva già alle spalle una determinante letteratura sequenziale, legata alla enunciazione orale della parola. E qualsiasi nuova letteratura non può mai fare a meno di confrontarsi con la vecchia.

Insomma, siamo legati alla scrittura lineare perché ci siamo nati dentro, e perché le nostre stesse radici culturali ci sono nate dentro. Non è quindi colpa della stampa, nonostante essa abbia certamente contribuito, a suo tempo, a separare le parole dalle figure, visto che era diverso il procedimento tecnico per metterle sulla pagina. Figure come quelle di Gioacchino da Fiore erano nella loro epoca dei pezzi unici, irriproducibili se non a rischio di alterarne il senso. In epoca di amanuensi, la scrittura alfabetica rappresentava l’unico strumento di trasmissione del sapere che garantisse una accettabile correttezza di riproduzione. Solo con l’invenzione della stampa diventò dunque facile riprodurre testi che contenessero anche le immagini (come quello di Fludd).

Insomma, la questione è intricata. Ma anche appassionante. Credo che avremo modo di tornarci sopra.

Per il momento, ancora solo un’osservazione di passaggio. C’è almeno un sistema di tipo sinsemico che è diventato recentemente comunicazione normale, in ambito narrativo, nelle culture basate sull’alfabeto. Ed è, ovviamente, il fumetto. Il fumetto, infatti, per esistere, ha bisogno non solo della stampa, ma anche di un sistema molto avanzato di produzione e consumo a stampa.

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Del lettering nel fumetto

Dino Battaglia, Maupassant, Due amici, p.4

Dino Battaglia, Maupassant, Due amici, p.4

Questa settimana parlo solo di caratteri, e il tema è di grande importanza anche per il fumetto. La leggibilità di un carattere è un requisito necessario, ma quando il carattere è usato per testi brevi una parte della sua leggibilità può essere anche sacrificata alla sua (chiamiamola così) espressività visiva (o espressività grafica): se per il corpo del testo di un romanzo o di un saggio la scelta del carattere va fatta tra quelli che garantiscono la massima leggibilità (poiché mentre si legge il carattere deve diventare trasparente, garantendo la totale attenzione al flusso delle parole), viceversa in un titolo o in una insegna o in una comunicazione pubblicitaria, la componente espressiva visiva del carattere può manifestarsi di più, sino a diventare predominante.

Poiché il fumetto comunica visivamente ancora prima che narrativamente (cioè per leggere il racconto è necessario aver guardato le immagini), la componente espressiva visiva dei caratteri ha comunque una grande importanza. Ce l’ha anche quando siamo vicini al livello qualitativamente più basso: persino il lettering più neutro e banale, per esempio, si fa per convenzione in maiuscolo – e il maiuscolo è notoriamente meno leggibile del minuscolo. Anche il lettering più neutro e banale, dunque, manifesta una qual continuità stilistica visiva con le linee del disegno circostante. Come minimo, insomma, queste lettere disegnate a mano (almeno in apparenza, spesso) manifestano la propria appartenenza al medesimo mondo grafico delle figure rappresentate vicino a loro.

Guarda caso, il passaggio dalla narrazione per immagini ottocentesca al fumetto vero e proprio negli USA di fine secolo è caratterizzato anche dalla nascita di un lettering disegnato – ben diverso da quello a stampa delle didascalie. Il carattere a stampa, evidentemente, dichiara pure in maniera grafica la propria appartenenza a un mondo diverso da quello delle figure disegnate: è un commento esterno, a cui corrisponde una finestra visiva. Nel fumetto, viceversa, noi siamo già, leggendo, nel mondo dietro a quella finestra, e il lettering manuale ci mostra di far parte pure lui di quel medesimo mondo.

Dino Battaglia script

Dino Battaglia script

Se passiamo dall’uso elementare del lettering a usi più raffinati, ci possiamo accorgere di quanto grande possa essere il contributo della forma delle lettere all’effetto visivo complessivo. Immaginate di sostituire questo lettering molto particolare di Dino Battaglia con uno più standard, anche se sempre disegnato. Se lo facessimo, ci accorgeremmo immediatamente di come ne risulterebbe stravolto l’equilibrio compositivo della pagina (qui riprodotta all’inizio del post).

Le lettere di Battaglia hanno lo stesso stile “graffiato” delle sue figure, ottenuto attraverso l’uso di un pennino sottile a punta dura. Un lettering più morbido metterebbe i testi scritti (balloon e didascalie) nettamente in evidenza sul resto della pagina, a causa della loro diversità. Anche se risulterebbe magari più leggibile finirebbe per essere messo troppo in evidenza.

Anzi, si ritroverebbe a essere in evidenza due volte: una, come già detto, per la sua diversità dal grosso dell’immagine; l’altra perché la sua maggiore leggibilità inviterebbe il lettore a privilegiare il testo rispetto alle figure, ma non è questo che l’autore vuole. A queste figure bellissime ma di decifrabilità non immediata deve corrispondere per forza un font che richiede qualche (piccolo) sforzo di lettura: comunque questa è una storia a fumetti, cioè una storia in cui è l’immagine a dover avere un peso determinante.

Andrea Pazienza, The Legend of Italianino Liberatore 2, p.8

Andrea Pazienza, The Legend of Italianino Liberatore 2, p.8

I medesimi principi di fondo sortiscono un effetto tutto diverso nel lavoro di Andrea Pazienza, che disegna con la punta morbida di un pennello o pennarello, giocando su bruschi cambiamenti di tonalità, e masse di bianco e di nero. Il lettering di Pazienza è una componente essenziale del suo disegno, praticamente inseparabile, composto di linee che sono esattamente le medesime linee, con i medesimi andamenti grafici, delle linee delle figure, e persino delle linee di contorno dei balloon.

La leggibilità è forse ancora più bassa che nel caso di Battaglia, ma l’espressività è straordinaria, ed è questa riduzione della dimensione verbale alla dimensione visiva del disegno a dare al lavoro di Pazienza una coerenza e un’efficiacia ineguagliabili. Sostituite questo lettering con uno più standard e non avrete ridotto, ma distrutto il lavoro di Pazienza.

Andrea Pazienza script

Andrea Pazienza script

D’altra parte, lui stesso è acutamente consapevole della necessità di alternare momenti in cui il lettering è sostanzialmente regolare a momenti in cui esso esplode graficamente. Tuttavia, anche dove il lettering di Pazienza è regolare esso esprime una notevole attenzione espressiva: la sua fattura manuale è sempre ostentata; sembra cioè che sempre esca direttamente dall’animo ironico del suo autore. Ed è per questo che la sua enfatizzazione, quando avviene, appare così naturale.

Leggendo Pazienza, paradossalmente, è come se seguissimo la voce di un narratore, che esprime le emozioni con i toni mentre racconta i fatti con le parole. Solo che la voce di Pazienza è il segno grafico, e questo segno si manifesta esattamente al medesimo modo nelle figure e nel lettering, tramite le quali, al contempo, ci mostra i fatti. Dunque, non c’è scampo: per leggere le storie di Pazienza le dobbiamo soltanto attentamente guardare.

Paolo Bacilieri, La magnifica desolazione 2007 p.59

Paolo Bacilieri, La magnifica desolazione 2007 p.59

Paolo Bacilieri ha senz’altro imparato molto da Pazienza, penso di più e meglio di chiunque altro. Il suo lettering esprime finemente il sarcasmo che pervade, narrativamente e graficamente, le sue storie, ed è graficamente coerente con quello che gli sta vicino. Osservate questo “bold” di forme quadrateggianti, e confrontatelo con le linee spesse del contorno delle figure e con la continua presenza di forme simili a rettangoli dagli angoli bombati – non solo nei balloon ma anche nei profili dei personaggi e dei loro dettagli.

Paolo Bacilieri script

Paolo Bacilieri script

Magari Bacilieri non ha il virtuosismo grafico di Pazienza (e chi ce l’ha?), ma è bravissimo nel costruire la (sardonicamente desolante) coerenza del proprio mondo. Il lettering ne è – se vogliamo dire così – il basso ostinato, lo swing, il groove.

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Della definizione del fumetto (e di altri media)

Ally Slooper, 1867, dalla voce di Wikipedia

È rispuntata la polemica sulla data di nascita del fumetto, tra Matteo Stefanelli e me, qui. Ma non è di questo che voglio parlare, bensì di un tema correlato, ovvero l’annosa questione della definizione del fumetto. Il tema è correlato perché, se avessimo una definizione sufficientemente affidabile del fumetto, sarebbe assai più facile verificare da quale data in poi esistono testi che vi si attagliano – e il dibattito potrebbe vertere non su opinioni ma sulla verifica di documenti storici concreti.

Ma la definizione sfugge. Anche quella faticosamente costruita da Scott McCloud, “Immagini figurative e d’altro tipo giustapposte in sequenza deliberata mirate a trasmettere informazione e/o a produrre una reazione estetica nel fruitore”, lascia fuori innumerevoli esempi che ancora consideriamo fumetto, e ne ingloba altri che non sono tali (come le istruzioni di montaggio dei mobili IKEA, per esempio). Non è perciò una buona definizione, e non è utilizzabile per tracciare un confine storiografico. In particolare, per non correre il rischio di lasciare fuori degli esempi importanti, è volutamente e consapevolmente generica.

A questo punto abbiamo due strade (senza escludere che ne esistano altre). Potremmo lavorare come fa la teoria dei prototipi cercando una definizione che centri l’essenza di quello che consideriamo fumetto, cioè quello che è per noi il fumetto prototipale. È una via interessante per la creazione di voci di dizionario, perché permette di cogliere proprio quei tratti cruciali che mettono in grado la maggior parte delle persone di capire di che cosa si sta parlando. Ma è un pessimo candidato per definire un confine storiografico, perché la concezione prototipale del fumetto cambia anch’essa col tempo; e anzi, in particolare, tipicamente non si è ancora formata in quel momento iniziale che stiamo cercando di definire. Per cui il massimo a cui potremmo arrivare è qualcosa del tipo: secondo la concezione prototipale del fumetto nell’America degli anni Novanta il fumetto è nato nel 1896; secondo la concezione prototipale del fumetto della Francia del 2000 il fumetto è nato intorno al 1820, ecc. ecc. Cosa che può essere utile per una storia delle concezioni del fumetto, ma non direttamente per una storia del fumetto.

L’altra strada appare allora inevitabile, per il fumetto come per qualsiasi altro medium. Si tratta di capire che un medium non è qualcosa che esiste in natura, classificabile secondo leggi rigorose. È piuttosto il frutto di una serie di scambi tra le persone, e soprattutto di un continuo proporne, contrattarne e definirne i confini. Supponiamo che esista una rivista che pubblica solo fumetti, e supponiamo che su questa rivista appaia un oggetto anomalo, tipo una grande vignetta unica, o una serie di riquadri che contengono testo (e non disegni). Se questo oggetto comparisse in un altro contesto, nessuno si domanderebbe se sia fumetto; ma il fatto che compaia proprio in quel contesto significa che è stato proposto proprio come fumetto, ovvero inserito nel dialogo su come debba essere fatto il fumetto. Poi i lettori potranno approvarlo o meno. Magari diranno: “Bello, ma che ci fa qui?” Oppure lo accetteranno come una provocazione, riconoscendo implicitamente la sua appartenenza (provocatoria) all’ambito del fumetto.

Dovremo dire allora che ciò che rende qualcosa un fumetto è l’apparire su una rivista di fumetti? Mi pare che sarebbe, in sé, una proposta ridicola, se non fosse che possiede un germe (solo un germe) di verità. Diciamo che il confine tra ciò che è fumetto e ciò che non lo è sta nell’essere accettabile come tale o non esserlo, e il luogo di pubblicazione può anche costituire, a volte, l’elemento determinante.

Tuttavia, se possiamo discutere se qualcosa sia fumetto o meno (senza dimenticare che le provocazioni di oggi diventano a volte la normalità di domani) è perché, evidentemente, una qualche idea di fumetto l’abbiamo, e questa idea si esprime socialmente attraverso l’esistenza di un dialogo, cioè di testi che mostrano caratteristiche comuni sia da un punto di vista formale che dal punto di vista delle modalità di produzione/pubblicazione e di fruizione.

Ma un’idea che si esprime socialmente è qualcosa di diverso da una definizione tranciante, come quella che cercavamo sopra. Il confine storiografico che andiamo cercando non sarà allora dato dalla comparsa di opere che corrispondano alla definizione, ma dalla comparsa di un dialogo collettivo attorno ad alcuni elementi cruciali.

A titolo puramente di esempio, supponiamo – semplificando mostruosamente – di decidere che il medium fumetto è caratterizzato dalla presenza della nuvoletta a cui (in Italia) deve il nome. Se vediamo le cose in questo modo, il fumetto non nasce quando compare la prima nuvoletta di testo (cioè nel medioevo), ma quando si determina un intero settore di produzione e consumo basato su testi che presuppongono l’esistenza della nuvoletta, anche quando non ne fanno direttamente uso. In altre parole, una volta che questo settore si sia avviato, un testo che si rivolga ai medesimi lettori con altre caratteristiche simili di carattere formale e produttivo sarà un fumetto pure senza nuvolette: perché è comunque in dialogo, e fa riferimento, agli altri testi simili che la nuvoletta ce l’hanno. Viceversa, un testo pieno di nuvolette che risalga a un’epoca in cui questo settore di produzione e consumo non esiste, non sarà mai un fumetto (al massimo un suo precursore) perché in quell’epoca il fumetto non esiste.

Ho semplificato a titolo esplicativo, ma non si può ridurre a un solo aspetto ciò che caratterizza un medium. Si può però decidere che ci sono insiemi di caratteristiche che lo identificano meglio di altri. Per esempio, l’assenza di una narrazione verbale autonoma (ovvero comprensibile anche in assenza delle immagini che l’accompagnano) costringe il lettore a comprendere il racconto basandosi fondamentalmente sulle immagini, ovvero a leggere attraverso un imprescindibile guardare di base. Si noti che la narrazione verbale non è necessariamente scritta: la pittura del medioevo, anche quando sequenziale, e i protofumetti a stampa del Cinquecento tedesco prevedono una voce (orale) che li racconti, e un contesto di fruizione molto diverso dalla solitudine del lettore moderno. In quei casi, dunque, la narrazione verbale c’è, anche se non è scritta, e dunque non è arrivata a noi. Dobbiamo perciò limitare il nostro ambito non solo a un epoca di stampa avanzata, ma anche di alfabetizzazione avanzata, ovvero presupporre un pubblico in grado di ricostruire da sé (leggendo o guardando) le storie che si sviluppano sotto i suoi occhi.

Insomma, venendo allo specifico, se il fumetto nasce quando il guardare diventa la base del suo leggere narrativo, ovvero quando sono prima di tutto le immagini (e non il testo verbale) a costruire nel lettore la comprensione del flusso degli eventi, allora non dovremo andare a cercare i precursori per tracciare il nostro confine storiografico. Il fumetto ha origine quando si crea una tendenza, un ambiente, in cui la norma è una comprensione di questo tipo, visiva ancora prima che verbale. Ma sino all’epoca in cui sono normalmente presenti le didascalie narrative (ed è questa la norma), questa condizione non si verifica. Mentre, viceversa, una volta che la comprensione visiva sia diventata la norma, anche testi come il Prince Valiant di Foster e il Flash Gordon di Raymond sono fumetti, nonostante reintroducano le didascalie: lo sono perché ormai si rivolgono a un pubblico che è abituato a leggere fumetti, e che capisce la ragione di una scelta differente, senza tornare per questo indietro nel tempo di cinquant’anni.

Detto questo, è chiaro che non si potrà dare più a Richard Felton Outcault, autore di Yellow Kid, il merito di avere fondato il fumetto. Gli si riconoscerà semmai la fortuna di essere stato colui che ha aperto una porta che era già socchiusa, e che avrebbe potuto aprire chiunque altro in quel momento. Quello che importa è che il momento era giusto perché si potesse formare – anche esplosivamente, come è di fatto successo – una nuova consapevolezza tra autori, editori e lettori, quella che è possibile scrivere storie non solo molto accompagnate da immagini, ma proprio per immagini. La nuvoletta non è l’elemento discriminante, dunque, ma rimane un buon indizio; ha di buono che ribalta il rapporto tra immagine e testo: con le didascalie è il testo verbale che inquadra e ingloba l’immagine, con la nuvoletta è l’immagine che inquadra e ingloba il testo verbale.

Non pretendo di avere ragione, dunque, a continuare a situare intorno al 1896 la data di nascita del fumetto. Tuttavia per smentirmi non basta produrre esempi di testi per immagini precedenti a quella data, che esibiscano la nuvoletta, o che prevedano una modalità di fruizione principalmente visiva. Bisogna anche dimostrare che, nell’epoca in cui vengono prodotti, essi costituiscono la norma. A me non pare che sia così. Ma il bello della storiografia è che può sempre scoprire qualcosa di nuovo.

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P.S. Oggi, in tutt’altra veste e su altri temi, appaio anche nel rinato blog del mio stimato omonimo, con un intervento autoeterobiografico intitolato La solitudine del blogger. Buona lettura.

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di Daniele Barbieri

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