Di una foto del cielo e della terra (in città)

La torretta d'angolo

La torretta d'angolo

Siete stati costretti, per vedere questa foto nella sua interezza, a scrollare dall’alto verso il basso, proprio come se il vostro sguardo fosse dovuto discendere da quel cielo così bianco e pulito da confondersi con il bianco della pagina sino al frastuono del livello della strada, da cui quella figura umana con gli occhi bassi sembra cercare di sfuggire, affrettando il passo, ma anche chiudendosi in sé.

Ora, mentre leggete queste parole, riuscite a vedere, del mondo della foto, solo la parte del basso, il caos soverchiante della grande città. Ma se risalite un poco con lo sguardo (ovvero con la barra di scrolling) rivedrete quello che sta in mezzo, tra il vuoto del cielo e il pieno del livello terra. È una finzione architettonica, una torretta d’angolo in aggetto, con tanto di guglia: un intermezzo fantastico, davvero un po’ irreale, tra i due estremi del reale.

Magari è una metafora della cultura: una costruzione immaginifica che ci permette di vivere la nostra vita, a cavallo tra il nulla e il troppo. E che dà senso a entrambi.

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Della foto di un San Giorgio diagonale

Il San Giorgio diagonale

Il San Giorgio diagonale

In verità credo che sia un San Giorgio: c’è l’uccisione e c’è il drago. Ma manca il cavallo, e non sono riuscito a trovare conferme. Lo vedo con una certa frequenza qui.

Ma la volta che ho scattato la foto è stato perché ho osservato per la prima volta questa singolare combinazione di diagonali. Se osservate il capitello con attenzione, vedrete che non è allineato con le linee delle grondaie, segno che la base della colonna non è allineata con la linea di quella strada. Ma il San Giorgio, e la sua gamba appoggiata sulla coda del mostro, e il mostro stesso, quelli sì che sono allineati con i bordi della strada azzurra al di sopra.

Piccole manie di un patito del guardare, e del trovare corrispondenze nascoste. Una ragione, poi, da qualche parte c’è sempre.

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Della foto di un bosco d’inverno

Le croci

Le croci

È incredibile la varietà delle croci che è possibile incontrare in un qualsiasi cimitero!

È come la varietà delle forme degli alberi in un bosco. Però non è detto che ci facciamo caso. Il più delle volte siamo lì per altro.

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Della foto di una casa a squadri

La casa a squadri

La casa a squadri

Che questa casa esista e dove la si possa vedere dal vivo può essere verificato con questo clic. È buffo come la geometricità di questo incrocio rigoroso di ortogonali sia fortemente negata dal calore del vivere, dal disordine e rumore visivo di tutte quelle persiane mezzo avvolte, degli infissi un po’ invecchiati, e dai pensieri della signora che osserva le sue piante sulla terrazza in alto a sinistra.

Se pure mai c’è stato un sogno razionalista dietro al progetto di questa casa, quello che rende interessante questa figura è proprio la sua negazione. Ma, naturalmente, perché si capisca che c’è una negazione, si deve poter vedere quello che viene negato. Magari il senso del funzionalismo sta allora proprio in questo, nell’esistere per poter essere negato dalla storia e dalla vita lasciando comunque trasparire se stesso, e il sogno, che è stato, di controllo sul mondo attraverso la ragione. Un sogno che mostra il futuro del passato, però; non quello nostro, ahinoi!


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Della foto di una barriera rossa sul fondo azzurro

La barriera rossa

La barriera rossa

Sarà il contrasto tra il rosso e l’azzurro, mediato da un accenno di verde; sarà il profilo irregolare delle montagne, ripetuto più lieve dalle colline, e poi ancora più leggero dalla plastica rossa; sarà la ripresa diagonale e verticale che ne fanno i muri attorno. Sarà la luce, il rapporto tra vicino e lontano, o non so che altro, ma a me questa foto fa venir voglia di tirare un grande respiro e di tuffarmi, volando come Superman, verso quella visione.

Mi contenterei anche, però, di essere lì, in un giorno così, con il tempo di stare. Magari pensando di prendere la macchina e andare proprio là, e lassù voltarmi indietro a cercare, laggiù, quel posto da cui stavo guardando prima.

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Di una foto con le linee intrecciate

Il pergolato

Il pergolato

Dedico questa foto primaverile a tutti coloro che, come me, stanno soffrendo il caldo in un luogo che non assomiglia a questo.

Sogno di vacanza a parte, a me questa foto piace anche perché è leggermente storta, e l’orizzonte è pure lui una delle linee diagonali che definiscono il soffitto del pergolato. E ci si arriva dunque per questo zigzag aereo, che si riflette in quello, più tranquillo, dal lato basso. C’è molto movimento per questa immobilità.

È il bello dell’essere in vacanza: deleghi il movimento all’occhio, e al pensiero.

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Della foto di una città ferma al semaforo

Il mondo con il semaforo

Il mondo con il semaforo

Questa città invisibile ha al suo centro un semaforo, rosso. Ma ho scattato questa foto (in questo luogo reale) perché mi inquietava la scritta Microsoft sulla sommità dell’edificio. Non so se sia una foto bella o brutta, o magari solo insignificante. A me continua a produrre una leggera inquietudine.

Sarà il cielo così intenso sopra la normalità cittadina, o sarà forse la torre (in uno stile di un moderno ormai d’epoca) che sta dietro all’edificio che porta la scritta, con tutte quelle antenne sopra – come se non bastasse l’altezza per poterlo fregiare del titolo di “grattacielo”, ma dovesse anche dettagliare il modo in cui il cielo va grattato. O magari sarà quella fila di pali con i lampioni, tutti verdi, stagliati contro degli alberi molto meno verdi di loro. O sarà banalmente il semaforo stesso, rosso a bloccarci nel centro esatto dell’immagine, contro un cielo che la città stessa nega, pur non potendolo nascondere.

Non so. Non so dire bene. A voi questa immagine dice qualcosa?

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Di una foto a strisce orizzontali

La casa bianca

La casa bianca

Questa parete bianca contro il blu va comparata con quella della scorsa settimana. Non c’è dubbio, che, a differenza di quello, questo è un luogo in cui passeremmo volentieri almeno una parte della nostra vita, magari d’estate. Sarà anche la dimensione orizzontale dell’immagine a contribuire al clima decisamente più rilassato che in quella, drammatica e verticale.

Mi piace, qui, la rima visiva tra gli angoli del tetto e gli angoli del profilo dell’orizzonte, prodotti dalle due isole (che, per chi le sa riconoscere, danno un’idea piuttosto precisa del luogo in cui è stata presa questa foto). La rima funziona, e si fa notare, perché questa immagine è fatta di strisce orizzontali: di vegetazione, di muro in ombra, di tetto piatto al sole, di mare e di cielo..

È la voglia, anche per noi, di sdraiarci orizzontali al sole, a guardare magari quella piccola nuvola, proprio sopra l’isola minore..

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Della foto di una parete al sole

Il condominio bianco

Il condominio bianco

Questa specie di condominio-prigione rappresenta probabilmente l’esempio di un luogo in cui nessuno vorrebbe davvero abitare. Il suo squallore è così grande che non riesco decidermi se sia più terribile la zona a sinistra popolata di finestre, oppure la zona a destra tutta vuota e liscia.

Però, il modo in cui si staglia la luce contro questo bianco, e il modo in cui questo bianco si contrappone al blu intenso del cielo, e quindi complessivamente questa nettezza così intensa della luce, rendono stranamente profondo questo luogo.

Di sicuro non vorremo abitare tra queste mura, ma forse poco lontano da qui ci sarà modo di godere di questa nettezza festiva dell’aria e della luce senza patire quest’incubo. Eppure se guardiamo all’incubo non come un luogo da abitare, ma come una forma pura, astratta, un’idea suprematista, una macchia geometrica di bianco, modulata, a sinistra, dal ritmo uniforme delle finestre, forse allora ai nostri occhi questa visione cambierà aspetto, diventando persino bella e disponibile a essere vagamente presa in giro dai panni stesi qua e là, e dalle piccole imperfezioni dell’intonaco.

In verità, a suo tempo, più o meno qui, ho visto e scattato. Ero già consapevole sia del bene che del male che mi si stagliavano davanti.

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Di una foto presa verso il basso

Verticali e orizzontali, ombre e luci

Verticali e orizzontali, ombre e luci

La città invisibile mostrata in questa foto (scattata, nel mondo reale, esattamente da qui) è evidentemente una città dove è importante la luce. Non solo infatti ne definisce tutte le geometrie, ma i suoi simboli notturni ne costellano anche le immagini diurne, proprio come qui.

Questa foto mi piace anche perché mi ricorda le geometrie di De Chirico. Però io c’ero, là. Non è passata nessuna bambina con il cerchio. E le muse inquietanti le avevo dentro.

Auguro a chi se lo merita mille mattine come questa, in questa luce, a scendere le scale per raggiungere quelle ombre (e c’è anche il mare, qui vicino).


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Di una foto da vicino e da lontano

Il senso della distanza

Il senso della distanza

Vicino, lontano. Dalla posizione da cui ho preso questa foto, il piccolo mito laggiù in fondo è ulteriormente separato dal velo dei rami. C’è il sole, è una bella giornata, ma lo stato dei rami rivela che siamo d’inverno, e c’è pure una leggera foschia nell’aria.

Quella roba della città ideale sta di casa proprio qui, e il piccolo mito laggiù in fondo ne è certamente parte. Di notte, viene illuminato, e sembra una bolla sospesa per aria, in mezzo al nero.

Inquadrato in questo modo, le sue linee ortogonali si trovano rispecchiate in quelle qui vicine, così come il suo colore, e l’inquadramento vegetale. Persino uno dei rami che si frappongono è proprio orizzontale.

Il fascino di queste città invisibili ideali è che se pur indubbiamente esprimono un razionalismo, un progetto, un’assolutezza di concezione, un’ideologia, tutto è così allo stato nascente, così aurorale, da ispirare tenerezza. I drammi della ragione irriducibile sono di là da venire; qui ci sono solo i suoi aspetti positivi, ingentiliti dal colore delicato e dal tempo.

Su questo posto mi era anche scappata una poesia, una volta. È qui.

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Di Diane Arbus, o del volto mostruoso della normalità

Diane Arbus, Teenage couple on Hudson Street, N.Y.C. 1963

Diane Arbus, Teenage couple on Hudson Street, N.Y.C. 1963

Oggi pomeriggio alle 18, al Centro delle Donne in via del Piombo 5 a Bologna, parlo di Diane Arbus. Non sarà una conferenza vera e propria. Mi è stato chiesto, qualche mese fa, se ci fosse qualche autrice che mi ha particolarmente colpito, e di raccontare, quindi, le ragioni di questo particolare interesse – all’interno di un ciclo tutto strutturato così. Certo, non è la Arbus l’unica autrice al mondo che mi ha colpito, però, per qualche ragione, ho subito pensato a lei.

La Arbus mi ha colpito in tempi molto antichi. Difficile dire quando e in che occasione ho visto per la prima volta le sue foto. Però, leggendomi un po’ di cose della sua vita (quella di cui stasera dirò solo i sommi capi: perché è delle sue foto che voglio parlare, e di lei solo attraverso di loro) ho scoperto che la mostra che l’ha resa famosa si è tenuta alla Biennale di Venezia nel 1972. Nell’estate del 1972 io avevo 15 anni, e facevo il mio primo viaggio da solo proprio a Venezia. I ricordi delle varie Biennali che ho visitato si sovrappongono, per cui non posso dire di avere ricordi di quell’edizione specifica. Ma sapendo quello che facevo in quegli anni, e le modalità del mio turismo, è estremamente probabile che io sia entrato alla Biennale e abbia visto quella mostra – del tutto all’oscuro di quello che stavo vedendo. Probabilmente nemmeno ho memorizzato il nome della Arbus, salvo riconoscere qualche anno dopo le sue foto, e imparare ad associarglielo.

È successo un sacco di volte nella mia adolescenza (e anche dopo, in verità) che delle immagini mi si imponessero senza associare loro un’identità, magari a volte senza nemmeno sapere che erano opera di un medesimo autore. Poi, a un certo punto, arrivava la scoperta.

La Arbus è nota come la fotografa dei mostri, e tuttavia sono proprio le sue foto di mostri a inquietarmi di meno. I suoi nani, le sue terrificanti drag queen, i suoi fenomeni da baraccone, i suoi giganti, mongoloidi, ermafroditi sono spesso semplicemente belli, malinconicamente teneri, molto umani. Del resto è lei stessa a confessare di sentirsi più a suo agio con loro, quando dice “La maggior parte delle persone vive nel timore di poter avere un’esperienza traumatica. I mostri sono nati già con il loro specifico trauma. Hanno già passato il loro test per la vita. Sono degli aristocratici.”

I veri mostri delle foto della Arbus non sono dunque i mostri, ma gli altri, quelli che ostentano una indubitabile normalità, mentre rivelano, nelle sue foto sempre (in questi casi) crudeli, una profondità di squallore, di perdizione, di incolpevole ma definitiva ottusità. Basta guardare questa coppia di adolescenti, colta nelle strade di New York nel 1963: poco più che bambini, da un lato; mentre dall’altro i vestiti, la posa e l’espressione dei volti sono mimati da un mondo adulto che appare come un destino obbligato, senza scampo – chiuso come quel muro alle loro spalle. Solo la presa nervosa della mano di lui sulla spalla di lei tradisce l’avventatezza del gioco: loro sanno di non essere ancora così, ma recitano a esserlo, perché è così che vogliono essere – e hanno trovato la fotografa che permette loro per un attimo di essere quello che ambiscono a essere: dei grandi, e dei grandi standard, normali.

Tutte le foto della Arbus sono duplici, a partire dalla banalità apparente delle inquadrature (figura centrata, sguardo in macchina, magari lei che sta dicendo “guarda l’uccellino”) che nasconde una finezza straordinaria di costruzione. Una banalità della forma che si rispecchia nella banalità delle vite fotografate, e a cui corrisponde invece un malessere profondo, uno sconfinato male di vivere. Potremmo chiamare in gioco quella che Hannah Arendt chiamò, ad altro proposito, la banalità del male, o magari la malignità del banale.

Certo, non è necessario vedere tutto questo grottesco, questa tristezza, all’interno delle vite normali. Il normale, il banale, sono tali proprio perché di solito non ci danno motivo di interesse, né in positivo né in negativo. Probabilmente, la capacità della Arbus di tirare fuori tutto questo malessere nascosto, di rivelare il male, deriva dal fatto che questo male stesso ha casa dentro di lei – e ogni volta, nel fotografare il mondo, lei sta fotografando se stessa, quello che ama e insieme odia di più.

Mi fermo qui. Il resto lo dirò stasera, guardando le 80 foto che ho scelto – o che mi hanno scelto.

La info ufficiale dell’evento (e il commento è ancora scritto da me) si trova comunque qui, mentre un’informativa sul ciclo nel suo insieme può essere letta qui.


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Della narratività e dei suoi limiti

Non so se il tema che voglio affrontare qui sia davvero adatto per il post di un blog. Forse avrebbe piuttosto bisogno dello spazio e dello stile di lettura più concentrato di un saggio su una rivista scientifica. Ma ormai mi sono abituato a utilizzare questo blog per mettere giù le riflessioni che mi girano per la testa, e penso che i miei lettori si siano rassegnati a loro volta a questi post dai temi magari un po’ coriacei. In fin dei conti, per male che vada, il lettore ha sempre la possibilità di smettere di leggere e di guardare altrove: il Web è comunque strapieno di cose interessanti.

Il tema è quello, profondamente semiotico ma non solo, della narratività. Una delle idee che stanno alla base della semiotica generativa di Greimas è che la struttura narrativa sia fondamentalmente alla base di qualsiasi discorso. Questo sarebbe dovuto al fatto che la struttura narrativa articola un percorso fondato sul quadrato semiotico, il quale a sua volta articola un’opposizione semantica; e le opposizioni semantiche sono alla base di qualsiasi discorso.

Io ho qualche dubbio anche su questo, ma non è questo il punto in questione qui. Si può discutere sui dettagli, ma la posizione di Greimas individua nel suo complesso una questione reale, e una centralità del racconto che ne fa inevitabilmente un tema di indagine per chi voglia lavorare a fondo sui testi. Tuttavia, la posizione di Greimas ha un corollario che di solito non viene preso particolarmente in considerazione dai semiologi generativi, troppo intenti a rintracciare le strutture narrative nascoste, e poco interessati a capire come vi siano state nascoste. In altre parole, se il racconto è così pervasivo nei testi, è perché il racconto è evidentemente (come peraltro suggerisce Ricoeur) la forma con cui noi diamo senso al divenire temporale: il tempo, cioè, non è un semplice succedersi insensato di battiti dell’orologio; prende piuttosto senso per noi attraverso l’articolazione delle cause e degli effetti, che è già un’articolazione narrativa. Se volessimo essere kantiani, potremmo dire che la forma-racconto è un trascendentale, ovvero una struttura implicita nella nostra comprensione del mondo. Se invece che kantiani, volessimo essere evoluzionisti alla Bateson, potremmo dire che la forma-racconto è il modo migliore che la nostra evoluzione ha escogitato per metterci in rapporto memoriale con gli eventi del mondo, permettendoci di dar loro un senso – o di trascurarli o dimenticarli quando non entrano in nessuna successione narrativa.

Qualunque sia il perché, il come non cambia, il racconto è il modello, lo schema che noi applichiamo alla nostra comprensione del mondo, ogni volta che viene messo in gioco il tempo, cioè un divenire.

Ora, se portassimo questa assunzione alle estreme conseguenze, dovremmo dire che non ci sono racconti al di fuori di noi, ma solo sequenze di eventi che noi comprendiamo in modo narrativo. Se il mondo al di fuori di noi fosse fatto solo di natura, potrei anche sottoscrivere queste estreme conseguenze, e farla finita qui, neo-kantianamente. Ma il mondo al di fuori di noi è fatto anche di prodotti di altri esseri umani, i quali esprimono la propria comprensione del mondo; e siccome la loro comprensione del mondo è avvenuta in termini narrativi, allora anche la loro espressione potrebbe essere strutturata narrativamente.

Cercare le strutture narrative di un testo significa allora cercare le tracce di questa narrativizzazione. E se mettiamo le cose in questi termini, sembra che i semiologi generativi facciano la cosa giusta quando cercano la forma-racconto alla base di qualsiasi manifestazione testuale, dal romanzo alla pittura alla musica. Il mio sospetto che sia il lettore colui che “nasconde” la forma-racconto nel testo sembra rivelarsi privo di fondamento; l’autore del testo, infatti, prima che autore, è stato a sua volta “lettore” del mondo, e l’ha “letto” in forma di racconto, passandolo poi a noi in questo modo.

Continuo a non essere però del tutto convinto. Continuo a sentire della differenza tra il trattamento narrativo di un romanzo (che è sicuramente il prodotto di una lettura già narrativa del mondo), e quello di un dipinto o di un brano musicale.

Proviamo a riflettere sulla natura delle nostre percezioni, in particolare sonore e visive. I suoni e le forme visive che arrivano ai nostri sensi vengono prima di tutto interpretati come segnali del mondo circostante; anzi, per la nostra ontologia ingenua, come il mondo circostante stesso. Solo in seconda istanza valutiamo se non siano stati prodotti da qualcuno a scopo comunicativo, e cerchiamo di interpretarli in questo senso. Ma c’è una grande eccezione a questo principio, perché quando i suoni e le figure sono riconosciute come linguaggio (oralità o scrittura, insomma), noi tendiamo a, per così dire, vedere attraverso di loro, per arrivare il più rapidamente possibile al loro significato. La dimensione materiale, quella del significante, non scompare, ma la nostra attenzione è rivolta da subito (e non in seconda istanza) al significato. È solo quando il significato è per noi incomprensibile (per esempio di fronte alle espressioni in una lingua sconosciuta) che ci arrestiamo al significante, con la forte (e ben giustificata) sensazione che ci stiamo perdendo il meglio.

Quando sono in gioco le parole (e altri segni dichiaratamente convenzionali), insomma, assumiamo immediatamente che ci sia alle loro spalle qualcuno che le ha pronunciate o scritte. Questa medesima assunzione è molto più problematica, invece, quando le parole non sono in gioco, e siamo di fronte a immagini e/o suoni non verbali. Per portare la cosa al limite, è vero che un dipinto è sicuramente un’immagine prodotta dall’intenzione comunicativa di qualcuno; ma la cosa è molto meno certa (e rilevante) per un’immaigne fotografica o per un audiovisivo. I fotogrammi o le riprese di una telecamera di sorveglianza, per esempio, pur essendo immagini, non sono di solito interpretati come discorsi, bensì come testimonianze, documenti ottenuti attraverso un’estensione della nostra capacità di vedere e udire, che ci permette di vedere e udire anche quello che è accaduto in un luogo e un tempo in cui non eravamo presenti.

Senza arrivare a questi estremi, l’assenza di una voce narrativa (orale o scritta) ci mette sempre nella condizione di valutare le percezioni non verbali come segnali del mondo (o direttamente come mondo); poi, subito dopo, nell’eventuale misura in cui sappiamo che sono state prodotte, iniziamo a considerarle anche come discorsi.

Una delle conseguenze di questo è che mentre un racconto verbale (orale o scritto che sia) non può non avere un narratore (cioè una voce narrante, che si manifesta – come minimo – attraverso i pronomi e i tempi verbali), un’immagine, una sequenza di immagini o una sequenza di suoni, o una sequenza audiovisiva, possono benissimo non avere un narratore. Avranno un autore, certamente – ma non è la stessa cosa: è la voce narrante, cioè il narratore, che mi garantisce che quello che sto percependo è già una narrazione, ovvero il prodotto di un’interpretazione narrativa del mondo. Se il narratore non c’è, la situazione è molto più incerta.

Supponiamo di stare facendo una passeggiata con un amico, in montagna. A un certo punto lui mi dice “Guarda”, indicando qualcosa. Io guardo e vedo una sequenza di eventi (un gruppo di camosci spaventati che fuggono, un falco in picchiata, una valanga): di fronte a quello che ho visto, io sto già interpretando narrativamente – e lo avrei fatto anche se avessi visto autonomamente quella scena. Certo anche il mio amico ha operato un’interpretazione narrativa del mondo, e sulla scorta di quella ha ritenuto opportuno avvertirmi. Ma la sua operazione si è esaurita di fatto con l’avvertimento, e la mia narrativizzazione è tutta mia. Ben diverso sarebbe stato se fosse stato lui a raccontarmi uno di questi eventi.

In molti casi, quello che succede con i testi non verbali ha qualcosa in comune con l’esempio appena fatto, e non solo nell’ambito, ovvio, della fotografia. Un disegnatore o pittore traccia delle forme affinché, prima di tutto, io le veda e riconosca narrativamente. Proprio per questo le preparerà (potendolo fare, a differenza del mio compagno di passeggiata) in maniera da favorire una mia certa interpretazione narrativa, piuttosto che qualche altra. Ma, a differenza del narratore del romanzo, non potrà dichiarare implicitamente di stare raccontando – perché questo implicito è una prerogativa dalla parola. Il disegnatore (il pittore, il regista…) crea piuttosto delle situazioni prenarrativizzate (o delle sequenze prenarrativizzate) ovvero pronte perché si dia di loro una certa interpretazione narrativa.

Non sto giocando con le parole. C’è differenza tra un racconto, garantito da un narratore, che ci autorizza da subito ad accettare che la sua stessa produzione sia già narrativa, e una sequenza prenarrativizzata, che siamo noi lettori a interpretare narrativamente, anche se è certamente stata progettata per favorirci in questo, ma dove non c’è nessuna garanzia, e nessuno che dichiara davvero “sto raccontando”. In questo secondo caso, io semplicemente assumo che ci sia a monte un’intenzionalità narrativa, ma sono io lettore a ricostruire il racconto in quanto tale.

Ma poiché sono io, io sono anche libero allora di non farlo, e di fruire il testo in altro modo, presumendo che l’intenzionalità narrativa non sia l’unica, o magari non sia la principale, o magari non fosse nemmeno pertinente all’intenzionalità espressiva (e quindi interpretativa) dell’autore. Le parole esistono perché, convenzionalmente, trasmettono discorsi: se mi rifiuto o non sono in grado di recepire una sequenza di parole come discorso, non le sto nemmeno più ascoltando o vedendo come parole. A questo destino sono talvolta destinate le parole quando vengono messe in musica: a volte restano davvero parole, che trasmettono il loro senso, altre si trovano a essere trattate come semplici suoni articolati, ascoltate per il suono e ignorate per il senso.

Dal punto di vista del rapporto con il racconto, il musicista si trova in una situazione ancora più estrema di quella di chi produce immagini. In molti casi le immagini possono essere lette come mimetiche; mentre raramente si può dire lo stesso delle sequenze musicali. Il musicista (compositore o esecutore) ci mette di fronte a delle sequenze articolate di suoni, e nemmeno ci dice che siamo tenuti a recepirle come un’interpretazione del mondo. Ma senza questa assunzione, diventa impossibile assumere che ci possa essere un qualche tipo di intenzionalità narrativa in musica, e quindi delle strutture narrative intimamente in gioco. Si fa fatica persino a pensare che la musica possa essere intesa come una sequenza prenarratizzata, quali il fumetto o il cinema (eccetto nel caso di melodramma e simili, ovviamente, dove la musica accompagna un’azione visiva e/o verbale).

Quello che si può dire è che ci sono dei contesti storici e/o culturali in cui un’intenzionalità interpretativa del mondo e quindi espressiva può essere ipotizzata. Da Haydn e Mozart in poi questa ipotesi ha un senso nella musica occidentale. Ma forse bisognerebbe domandarsi, opera per opera, se sia accettabile di vederla come una sequenza prenarrativizzata. Se non lo fosse, e ugualmente vi rinvenissimo delle strutture narrative nascoste, sapremmo con certezza che siamo stati noi stessi, interpretando il testo musicale, a nascondervele.

Il problema cruciale delle analisi narrative è dunque questo: per evitare di trovare quello che noi stessi vi mettiamo dentro, dobbiamo poter assumere che il racconto vi sia già, almeno nella forma implicita della sequenza prenarrativizzata. Lo possiamo assumere tranquillamente con il romanzo e con le forme analoghe più brevi. Lo potremmo assumere anche con la poesia, se non fosse che la poesia mette molto in primo piano certi aspetti del piano del significante, i quali con il racconto non hanno nulla che fare – ma la poesia gioca proprio su questo doppio binario. Lo assumiamo convenzionalmente con fumetto e cinema, trattandoli come varianti del racconto verbale – ma ci sono situazioni in cui la differenza salta fuori. A mano a mano che ci si allontana da questo nucleo, l’assunzione di narratività deve essere sempre più forte, e sempre più esplicitamente motivata: in musica, per esempio, è accettabile per il Romanticismo, ma in generale a fatica per le forme strumentali del Barocco – mentre sul jazz credo che potremmo discutere a lungo, caso per caso. In pittura, è accettabile per molti generi, ma la natura morta e il paesaggio la eludono in molti casi – per non dire dell’astrattismo di Mondrian, o dell’informale di Pollock.

Non basta, insomma, trovare in qualche tipo di testo un’analogia con la forma-racconto per poter dire di essere di fronte a una struttura narrativa. Siamo noi a vedere racconti dappertutto. L’analogia non è una prova se non del fatto che quello che abbiamo davanti è un frammento di mondo, interpretabile narrativamente come tutto. Di notte, si sa, tutti i gatti sono neri.


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Della foto di un altro cimitero, lontano

Il cimitero ebraico, lontano

Il cimitero ebraico, lontano

Ovunque tu sia, da qualche parte nella zona, qualunque sia la tua città invisibile, lì c’è un cimitero ebraico. Restiamo in tema cimiteriale, dopo la scorsa settimana – e anche qui, come là, nella foto c’è un interno, in basso, sovrastato dall’esterno, dietro, in alto. Un po’ diverso, senza dubbio, da quello della volta scorsa.

A Finale Emilia, dove sono nato, e poi ritornato per lunghi periodi da giovane, ce n’è uno bellissimo; come anche ad Ancona, in cima alla collina a strapiombo sul mare. Hanno sempre un’aria strana, misteriosa, come se insieme appartenessero e non appartenessero al luogo in cui sorgono.

Un fascino simile, tra i nostri, ce l’ha solo, un poco, il Cimitero degli Inglesi, quello che sta a Roma vicino alla Piramide; quello di Shelley, e delle ceneri di Gramsci, con tanto di spettro di Pasolini che si aggira. Ce l’ha forse, perché anche quello è un cimitero che a noi appare anormale, differente, stranamente fuori posto.

Questo specifico cimitero ebraico, qui nella foto, non avrebbe in sé niente di particolare. Sarebbe forse anche meno affascinante degli altri, se non fosse per il luogo in cui si trova, così lontano da essere sorprendente, e quindi anche sorprendentemente fuori luogo.

Sembra che gli ebrei siano arrivati qui ai primi del sedicesimo secolo, ma venivano da poco lontano (dove avevano litigato con il signore locale). Lì, però, ci abitavano già da oltre 1400 anni, cioè dall’epoca della diaspora. È questo che io continuo a trovare stupefacente: millequattrocento anni (e poi altri cinquecento) e sono ancora distinti, riconoscibili, differenti. Sono arrivati sin qui, in questo universo alieno, in questo altro mondo, e hanno continuato protervamente a essere loro.

Non mi stupisce che persino i loro cimiteri mi comunichino insieme familiarità e differenza. Provengono non solo da un altro luogo, ma anche da un altro tempo. E appaiono irreali anche quando ci sei dentro, li tocchi, li respiri.

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Della foto di un altro confine

I vivi e i morti alla Recoleta

I vivi e i morti alla Recoleta

I cimiteri monumentali sono sempre luoghi affascinanti. Non perché siano belli (da questo punto di vista, infatti, sono l’impero del kitsch), ma perché mi danno l’idea di testimoniare meglio di qualsiasi altro luogo lo spirito di un’epoca e di un paese. Questo qui, però, li batte davvero tutti.

Si trova nel mezzo della città, completamente circondato da architetture urbane e certamente moderne, non di rado già fatiscenti. Il cimitero è grande ma non grandissimo, e, ovunque tu sia, lo sfondo comprende sempre questi edifici molto più alti della compassata architettura cimiteriale, e in stridente contrasto con essa.

Dentro il cimitero c’è questo neoclassico pseudocanoviano, molto neogotico pseudomedievale, niente di dichiaratamente moderno. Il moderno viene sentito, evidentemente, come poco rispettoso per i morti; i quali appartengono piuttosto alla dimensione del passato, come quegli stili riesumati.

Ma attorno al cimitero, la città è viva e rumoreggiante, anche architettonicamente; e ci si trova continuamente a camminare presso il confine tra il regno esterno dei vivi e quello interno dei morti.

Non so se questa foto sia bella o brutta. A me piace molto quell’assurda facciata verde a sinistra, appena fuori dal confine, che fa un bel contrasto con le muffe e i licheni che ci sono qui attorno.

Solo riguardando ora questa foto mi sono invece reso conto che, proprio a fianco della facciata verde, si intravede un finestrone gotico, di cui, quando ero lì, non mi ero assolutamente accorto. Un po’ di esplorazione su Google Maps mi ha permesso di capire che si tratta dell’edificio della Facoltà di Ingegneria. Ma il gotico (pardon, il neogotico), in questa città dovrebbe stare soltanto dentro, e non fuori dalle mura del cimitero.

Qual è allora il recondito legame tra una facoltà universitaria e il recinto dei morti? Non è troppo difficile trovarlo, in realtà.


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Di una foto dei confini del mondo

La ringhiera e l'orizzonte

La ringhiera e l'orizzonte

Qui la città è davvero invisibile, alle mie spalle. Se guardate la mappa che vi rivela dove è stata scattata questa foto potete capire perché questi siano i confini del mondo. Se zoomate indietro abbastanza da vedere l’intera area, capirete che quest’acqua non è di mare, ma è quella della Ria, ovvero dell’estuario del fiume; e il mare è laggiù, dove ci sono quelle costruzioni all’orizzonte che vengono indicate dalla ringhiera.

Il fascino di questa foto non sta, secondo me, solo nell’inquadrare questo sperone estremo di urbanità incuneato in una natura evidentemente inospitale, inumana. È che la geometria che viene costruita qui dall’inquadratura, attraverso la prospettiva, rende geometrico l’intero mondo visibile, donando un’apparenza di umanità anche a questo confine inumano. È come se la città, insomma, attraverso questa geometria, si impadronisse anche di quello che non le appartiene affatto.

Anche di queste illusioni è fatta la cultura.

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Della foto di un battello ai confini del mondo

Il battello arenato

Il battello arenato

È un peccato che questa foto sia venuta un po’ sfocata. È stata presa qui, in uno dei luoghi più assurdi del mondo (nella foto di Google Maps si vede persino il medesimo battello dall’alto). Sarebbe stata una bella foto, senza il disturbo visivo della sfocatura. A me piace lo stesso, non solo per la rima visiva tra l’inclinazione del battello arrugginito a sinistra e quella delle gru lontane a destra.

Mi piace per la luce incredibile e per lo squallore di questa sorta di deserto. Quell’acqua che si vede non è il mare, ma l’estuario enorme di un fiume – un fiume in sé piccolo, minimo, che si rifà in questo modo alla foce. I punti bianchi sulla destra sono migliaia di gabbiani. Ancora più a destra, fuori dall’inquadratura, inizierebbe la città vera e propria, qui invisibile. Ma non è molto diversa, come tono, da quello che è visibile qui.

Si direbbe che ci troviamo ai confini del mondo, e che quella ruggine storta e arenata sulla spiaggia testimoni un passato più glorioso. In verità è proprio così. Persino il nome della regione a cui appartiene questo luogo sa di qualcosa di estremo, di favoloso, di remoto: si chiama Patagonia.

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Della foto di una sedia a sdraio

La sedia a sdraio

La sedia a sdraio

Forse questa non è una foto interessante in sé, ma in questo contesto un senso ce l’ha lo stesso. Faceva molto caldo in quel luogo, e così verso le cinque di mattina ero sempre già sveglio. Seduto su quello sdraio, in quella posizione, dalle cinque alle nove di mattina per un venti-venticinque giorni, ho scritto la prima metà del libro che dà il titolo a questo blog.

Alla mia sinistra vedevo il mare. Quando mi alzavo era ancora blu scuro, e quasi buio il cielo. Smettevo perché il sole stava diventando implacabile e la luce forte mi rendeva impossibile leggere lo schermo del computer.

Questa è dunque la città invisibile che dà origine materiale a tutte le città invisibili di cui si è fantasticato in questo luogo. Ormai non è né più né meno virtuale di quelle.

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Della foto di una tavola rossa

Il tavolo rosso

Il tavolo rosso

Di questa foto, scattata qui, mi piace l’incrocio di diagonali, e i diversi piani orizzontali e verticali. Mi piace anche il fatto che ciascun piano rimanda a una dimensione differente: la camminata, l’imbarco, il mare irrequieto, la necessità dell’ombra – e, ovviamente, al centro in rosso, la convivialità.

Ma quella tovaglia rossa è così chiassosa e irruente, che non ci accorgiamo subito che un po’ di rosso è sparso dappertutto, persino sulla testata del molo – perché è l’ora in cui questo succede.

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Di una foto bianca e azzurra

La terrazza

La terrazza

Anche questa foto è stata presa nello stesso luogo di quella di due sabati fa, ed evidentemente non nella stessa giornata.

A me piace per le sue linee verticali e orizzontali, per i suoi colori delicati, e perché mi fa pensare a Diomira:

Partendosi di la e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste anche in altre città. Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva in una sera di settembre, quando le giornate si accorciano e le lampade multicolori si accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: Uh!, gli viene da invidiare quelli che ora pensano di aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici.

Non dirò chi ha scritto questo breve testo (ma non è affatto difficile capirlo). Un gran filone e astuto giocoliere di parole. Un frammento indimenticabile.

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di Daniele Barbieri

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