Di una foto a Tiruvannamalai

Funzionalismo a Tiruvannamalai

Funzionalismo a Tiruvannamalai

Questo è l’interno dell’Hotel Ganesha a Tiruvannamalai, visto dalla porta della nostra camera. È un posto rumoroso dove non si può aprire la finestra esterna, ed è meglio così, perché sotto c’è la strada principale dove tutti suonano il clacson continuamente. Si è condannati all’aria condizionata.

È l’unico hotel in cui sia mai stato al mondo dove, qualunque cosa spostassi, cuscino compreso, si levavano decine di zanzare. La stanza non era né più sporca né più pulita di tante altre in India, ma la concentrazione di zanzare faceva impressione.

Poi, come spesso accade in India, la cosa si è rivelata più preoccupante che realmente fastidiosa: non siamo stati punti in quella stanza più che in altri luoghi. Solo che avere il nemico in casa, anziché la casa come baluardo contro il nemico, è sempre un po’ destabilizzante. L’unica soluzione percorribile è accettare, e fluire con il tutto.

Tiruvannamalai è una città mistica e sporca, un luogo indimenticabile che porta il dio Shiva persino nel nome (da questa parti Shiva si chiama Annamalai). Sorge ai piedi della collina di Arunachala (che è essa stessa Shiva) e attorno al tempio di Arunachaleswarar, tra i più grandi e belli dell’India. Ci sono pochissimi turisti.

In questo luogo così indiano, la prospettiva funzionalista delle balconate interne del nostro hotel mi ricorda i progetti per la città di Chandigarh (nel Punjab) realizzati da Le Corbusier su incarico di Nehru negli anni Cinquanta, e anche che Salman Rushdie nel suo The Moor’s Last Sigh favoleggia di due piccoli edifici realizzati dal medesimo architetto non ancora ventenne a Cabral Island, Cochin, nel Kerala. Nonostante mi si agiti nella mente la sensazione che si tratti di un episodio storico, in realtà non ne ho poi trovato documentazione; e probabilmente è solo un’invenzione del romanziere.

Certo, quello davanti ai nostri occhi è un funzionalismo da poco, ma queste rette e questa prospettiva diritta che apre sul fondo a uno scorcio di città ugualmente fatto di piani geometrici giustapposti, è comunque tanto più invitante e sorprendente per la mia vista – che appena fuori di lì sta cogliendo in quei medesimi giorni organizzazioni visive ben diverse.

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Di una foto vuota a Kanyakumari

Passaggio presso il Bhagavathi Amman Temple a Kanyakumari

Passaggio presso il Bhagavathi Amman Temple a Kanyakumari

Questa foto vuota è tra le mie preferite del mio viaggio in India. L’ho fatta qui, a Kanyakumari, a duecento metri dalla punta estrema meridionale del subcontinente indiano, visibile appena svoltato quell’angolo, a destra; proprio dove conduce il marciapiede.

La parete rigata sulla destra è quella del Bhagavathi Amman Temple, un santuario dedicato a una divinità femminile dove gli uomini, in segno di rispetto, devono entrare a spalle e petto nudo – e se non ti togli la maglietta non ti fanno entrare. A sinistra, un’icona del progresso elettronico, con un bel colore da manifesto indiano.

Questo è un luogo magico, come peraltro tanti in India. E anche questo ha la sua magia peculiare. È una finis terrae. Di là da qui, verso Sud, c’è solo oceano sino all’Antartide, e pure verso Est e verso Ovest non c’è da scherzare. In quell’acqua sono state disperse le ceneri di Gandhi.

Questa foto vuota mi fa sognare. Le sue linee ortogonali sono quelle di un mito razionalista, il mio e quello di tutto l’Occidente, che in questo paese ha una particolare e originalissima manifestazione locale. La sua luce e i suoi colori sono quelli di un luogo senza tempo: ma il tempo irrompe, in alto a sinistra, e nei fili che percorrono il cielo.

Non c’è nessuno, al momento. Solo la mia vista, seguendo il marciapiede, cammina verso l’angolo.

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Di quattro nudi, e della fotografia

Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538

Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538

Francisco Goya, La maja desnuda, c.a 1795

Francisco Goya, La maja desnuda, c.a 1795

Amedeo Modigliani, Nudo sdraiato, 1917-18

Amedeo Modigliani, Nudo sdraiato, 1917-18

Per parlare di fotografia, ho bisogno di passare dalla pittura. Non c’è dubbio che tutte e quattro le immagini che ho inserito in questo post siano immagini erotiche. La Venere di Tiziano era destinata a una alcova; la maja di Goya era stata commissionata da un collezionista di nudi, in una Spagna di fine settecento in cui dipingere nudi era un reato; la ragazza di Modigliani non ha bisogno di commenti.

La forte carica erotica di queste immagini non ne corrompe la sacralità, a prescindere dall’uso a cui erano di fatto destinate. Innumerevoli figure di qualità decisamente inferiore a queste sono state nella storia destinate al medesimo uso. Ma se ci ricordiamo di quelle, non le ricordiamo al medesimo modo di queste. Qui siamo di fronte a una celebrazione della sessualità e del corpo, laddove in tanti altri casi ci sono soltanto delle donne svestite, della banale pornografia, hard o soft che sia.

Edward Weston, Nude. Oceano 1936

Edward Weston, Nude. Oceano 1936

I tre dipinti ci mostrano le tre rispettive figure femminili attraverso l’immaginazione del pittore mossa dal desiderio. Nel riconoscere quel desiderio, ci possiamo immedesimare nell’occhio e nella mente dell’autore, e desiderare con lui. Anche la fotografia di Weston ci mostra una figura femminile attraverso l’immaginazione del fotografo; però c’è una differenza cruciale: se questa è davvero una fotografia, allora la scena che il fotografo ci propone è esistita davvero, e da qualche parte nello spazio e nel tempo quella specifica donna si è trovata in quella specifica posizione. All’occhio desiderante dell’autore si affianca direttamente il mio, attraverso la mediazione della sua immagine. Weston non solo mi fa sentire quello che lui sente, ma mi fa anche vedere quello che lui vede nel modo in cui lo vede, garantendomi che non si tratta solo di un prodotto della sua immaginazione.

Poi, certo, è evidente che queste quattro immagini sono, tematicamente e stilisticamente, figlie l’una dell’altra. Ma la fotografia aggiunge alla ricetta dell’erotismo un ingrediente che la pittura non possedeva: la presenza. E proprio perché questa presenza erotica è già così forte per conto proprio, il fotografo la deve contenere molto di più di quanto non debba fare il pittore. Di conseguenza, ancora più che in pittura, il corpo femminile diventa qui l’occasione per uno studio formale di linee, luci e ombre.

L’eros può così magari passare leggermente in secondo piano; non c’è comunque davvero il rischio che possa scomparire. Tuttavia nel momento in cui esso diventa il quadro di riferimento in cui si inserisce una composizione fondamentalmente plastica, questa stessa plastica diventa erotica, a volte anche indipendentemente dalla reale presenza dell’oggetto del desiderio. Lo sa benissimo, per esempio, Robert Mapplethorpe.

 

Robert Mapplethorpe, Orchids 1988

Robert Mapplethorpe, Orchids 1988

 

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Della foto di un sasso a Mamallapuram

Sasso nel parco di Mamallapuram

Sasso nel parco di Mamallapuram

Di questa foto, scattata nel parco di Mamallapuram, non mi colpisce, evidentemente, solo il rapporto tra la cornice rettangolare e la forma grosso modo romboidale che richiama immediatamente l’attenzione. La chiamano Krishnas Butterball, cioè la palla di burro di Krishna, e posso assicurare che da qualsiasi parte la si guardi sembra incredibile che possa stare lì dove sta, senza scivolare o rotolare giù.

Ancora più misterioso è come questo masso sia arrivato lì, visto che attorno è tutto fatto di rocce levigate e appiattite come quelle su cui siedono gli arditi che approfittano dell’ombra. Però, visto che ci troviamo in India, dove tutto è magico e sacro, la mia ipotesi demenziale l’ho fatta anch’io, e la propongo qui, con la scusante del caldo e del fascino del mito.

Se osservate bene il masso, vi accorgerete che sulla parete di sinistra, in alto a destra dell’ardito con la camicia chiara in prima fila, c’è un’incavo che con un po’ di fantasia può essere interpretato come l’occhio semichiuso di un rettile. Se riuscite a vederlo, riuscirete anche a vedere l’intero masso come una testa di tartaruga, appoggiata a terra proprio sotto la bocca, e mozzata (a sinistra) prima che inizi il collo.

Questa tartaruga nella mia ipotesi è Kurma, ovvero il secondo avatar di Krishna, che secondo il mito agitò l’oceano primordiale per ottenere il Soma, la bevanda dell’immortalità, in modo da restituire agli dei la vita eterna che avevano perduto.

Il mito esiste davvero, ma che questa sia la testa di Kurma arenatasi qui dopo l’impresa è del tutto una mia invenzione. Però c’è davvero un tempio di Krishna a 200 metri da lì, e il sasso ha quel buffo nome; e quando si agita il latte quello che si ottiene è proprio il burro… Metti mai che ci ho preso!

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Della foto di un negozio a Tiruchirapalli

Pentole a Tiruchirapalli

Pentole a Tiruchirapalli

Questa foto è stata scattata di notte, nella zona del mercato, a Tiruchirapalli. Mi piace, anche se è leggermente mossa, perché ritrae un inno ingenuo al consumismo. Questo soffitto argentato di pentole in acciaio inossidabile, inframezzate di splendenti luci al neon, che si rifrangono all’infinito in migliaia di culi di pignatte, sarebbe insopportabile a una massaia europea, persino a una mitica casalinga di Voghera. E invece qui è bello, normale, eccitante, sfolgorante come il dio Shiva.

Le bimbe sgambettano felici, i genitori si sentono avvolti nella luce davvero abbagliante della modernità. Che ci sta a fare lo sguardo così gentile della guardia giurata, rivolta al turista occidentale che fotografa stupefatto questo tempio profano? Perché non castiga invece il mio stupore, quello di uno che viene da un mondo assai più consumistico di questo?

Qualche volta davvero gli indiani mi sembrano tutti bimbi, felici dei loro giocattoli splendenti, gentili e ottimisti di fronte a qualsiasi cosa. Anche i loro edifici sacri sono così; trasmettono lo stesso entusiasmo, lo stesso stupore di fronte a quello che luccica. Forse è solo a noi moralisti occidentali che questa felicità puerile appare in contraddizione con le profondità del Vedanta.

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Dell’esprimere quello che non si può raffigurare

Lorenzo Mattotti, Fuochi, pagg. 7 e 8

Lorenzo Mattotti, Fuochi, pagg. 7 e 8

A proposito di cose che il fumetto cerca di esprimere anche se l’immagine non le può rappresentare (come il caldo, di cui abbiamo parlato nel post precedente), ecco due pagine da Fuochi di Lorenzo Mattotti (1984). Sono le pagine dove si racconta del primo contatto del tenente Assenzio con l’isola di Sant’Agata.

L’isola ha due volti, molto diversi fra loro ma entrambi caratterizzati da una forte emotività: quello solare e pacifico del giorno, e quello bruciante e drammatico dei fuochi che illuminano la notte. Assenzio ha già avuto una premonizione del secondo, e ora sta entrando in contatto col primo. In queste due pagine Assenzio lascia l’universo freddo, meccanico e geometrico della corazzata per scoprire quello caldo, soffuso e naturale dell’isola. Sono – in particolare la seconda – tra le pagine più belle della storia di Mattotti.

Dal momento in cui i marinai approdano all’isola, eccoli ridotti a figure minuscole immerse in una realtà naturale soverchiante, un immaginario figurativo sospeso tra impressionismo e Nabis. Questa natura non ha forme se non indistinte; è fatta di macchie di colore, a loro volta macchiate di luce, e questa luce possiede ancora altri colori. Le parole pronunciate dai personaggi sono poche, proprio mentre si inserisce una voce fuori campo che non è quella del narratore, ma quella di qualcuno che gli sta parlando dentro. Le immagini disegnate da Mattotti raffigurano i paesaggi dell’isola, ma è il modo in cui questi paesaggi vengono rappresentati a rappresentare, a sua volta, l’esperienza di coinvolgimento stordente che sta vivendo il protagonista: sono i suoi occhi a vedere in questo modo, a restituirci una realtà che sembra uscita da un dipinto di Vallotton.

Noi intuiamo come dovrebbe apparire quella realtà se fosse rappresentata realisticamente, ed è attraverso il confronto tra come dovrebbe essere e come invece è che comprendiamo il vissuto di Assenzio. Più che comprenderlo, forse lo viviamo pure noi, attraverso non solo i suoi occhi ma anche attraverso il modo in cui la sua percezione deforma il mondo. In qualche modo, il senso di solare meraviglia che suscitano i dipinti campestri di Monet, di Renoir, di Vallotton, si trasforma qui in narrazione del sentimento del protagonista; proprio come accadrà, poche pagine più avanti, in un segno emotivo opposto, con gli angosciosi deliri delle figure di Francis Bacon.

Invece di usare parole, Mattotti usa modi di raffigurare. Non ha bisogno di dire che cosa sente Assenzio, e naturalmente non può direttamente mostrarlo nell’immagine: nessuna rappresentazione delle espressioni del volto potrebbe mai trasmettere tutto questo. Lo può invece trasmettere una serie di inquadrature soggettive, o semisoggettive, attraverso l’andamento dell’alterazione del mondo percepito.

È poi c’è, di colpo, questo rallentamento dell’andamento ritmico. Proprio quando compaiono le parole della voce fuori campo, la storia incredibilmente rallenta, quasi si ferma: anche la sospensione narrativa racconta lo stato emotivo di Assenzio.

Quando le immagini sanno raccontare con tanta forza, il loro fascino si deposita dentro di noi. Da quel momento tendiamo a vedere il mondo anche attraverso di loro. Nella foto che ho messo qui sotto, scattata da me qualche anno fa, c’è sicuramente la traccia di queste pagine di Fuochi.

Prato a Villa di Sassonero

Prato a Villa di Sassonero

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Di una foto nel tempio di Kailasanatha

Volto di cavaliere sul muro esterno del Kailasanather Temple a Kanchipuram

Volto di cavaliere sul muro esterno del Kailasanather Temple a Kanchipuram

Il tempio Kailasanatha a Kanchipuram è il più antico tempio costruito del sud dell’India, e risale ai primi anni dell’ottavo secolo. Più indietro nel tempo ci sono solo i templi scolpiti direttamente nella pietra delle colline rocciose di Mamallapuram, non lontano da qui.

Il tempio è dedicato a Shiva, ed è di una bellezza straordinaria. Vi ho scattato centinaia di foto, cercando di portarmene a casa l’anima, peraltro inutilmente. Sul muro esterno c’è una sequenza di rilievi di cavalieri, che montano creature fantastiche. Molti sono erosi dal tempo, ma alcuni rimangono ben conservati. Al volto di questo ho scattato diverse foto, perché aveva qualcosa di indicibilmente attraente.

Poi Elio Di Raimondo ha avuto la sfacciataggine di commentare questa immagine con queste parole: “vorrei essere guardato così almeno una volta al giorno. Potrei vivere cent’anni di felicità”.

E grazie a lui ho capito il fascino di quella lontana figura.

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Di una foto nel tempio di Kachabeshwarar

Vasca nel tempio di Kachabeshwarar a Kanchipuram

Vasca nel tempio di Kachabeshwarar a Kanchipuram

Anche se leggermente mossa, questa foto esercita molto fascino su di me. L’ho scattata nel tempio di Kachabeshwarar, a Kanchipuram.

Nel Tamil Nadu, tutti i templi di grandi dimensioni contengono una o più vasche: l’acqua è sacra, in India. Molte volte, però, esse non sono accessibili.

Sarà che quest’acqua in cui vediamo il riflesso dei recinti e delle cupole del tempio mi appare come una metafora del velo di Maya, che ci impedisce di vedere il mondo come è davvero; o sarà per il ribaltamento tra pietra e cielo, con quegli alberi che si intravvedono proprio in basso. Sarà per la composizione a strisce orizzontali, interrotta qua e là dagli eventi. Sarà anche per l’andamento irregolare dei gradini, speculare a quello delle cose nell’acqua.

O sarà appunto per l’evento della marginale conversazione tra quei giovani, a sua volta riflessa dall’acqua, mentre il gesto languido della ragazza che muove il piede nella freschezza della vasca crea un ponte, un tramite tra i due mondi. Sarà perché quel gesto me l’ha fatta desiderare, e qui, nella foto, lo ripete all’infinito.

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Di una foto a nord di Pondicherry

Su una spiaggia a nord di Pondicherry

Su una spiaggia a nord di Pondicherry

Di questa foto, presa appena a nord di Pondicherry, mi piace quel fazzoletto arancione agitato dal vento, che sembra un po’ un’onda come quelle che gli si intuiscono dietro. Lo vedo ancora svolazzare nell’aria calda, col frastuono dell’oceano attorno.

E poi c’è quella conversazione con gli occhi tra i bambini, la mamma e il venditore di noci di cocco, una primitiva prelibatezza, dissetanti e dolci.

E ci sono, qui, le strisce di colore che compongono la superficie della foto, di colori caldi quelle relative al mondo dell’uomo, di colori freddi quelle dell’altrove, mare o cielo che sia. Però è azzurro anche il legno del carretto, dello stesso colore del mare, appena un po’ più vivo. E poi c’è il verde, unico nell’immagine, delle noci da cocco.

Mentre scattavo questa foto avevo in mente una figura, quella di un dipinto di Giovanni Fattori, che riporto qui sotto. In realtà è molto diverso da come lo ricordavo in quel momento, ma alcune analogie ci sono veramente. E ce ne sono abbastanza per far risaltare, invece, le differenze: da un lato un’Europa elegante e compassata, col mare gentile e la tettoia un po’ leziosa, dall’altro un’India calda e inesorabilmente popolare, col mare sempre tumultuante, e la gente che sorride.

In mezzo io, che non riesco a vedere l’una se non attraverso il filtro dell’altra, che è la mia, inesorabilmente, nonostante tutto il fascino della prima.

Giovanni Fattori, La rotonda di Palmieri, 1866

Giovanni Fattori, La rotonda di Palmieri, 1866

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Di un’altra foto a Tiruchirapalli

Contatti elettrici a Tiruchirapalli

Contatti elettrici a Tiruchirapalli

Questa foto dal contenuto complicato è stata scattata la sera successiva alla foto contenuta nel post del 5 giugno, dalla medesima terrazza (in attesa di ripetere l’esperienza gastronomica della sera prima), ma da un tavolo diverso, giusto un paio di metri dal precedente. Nonostante la sovraesposizione, si può distinguere, nell’angolo della foto in basso a destra, la bancarella della foto precedente. Alle sue spalle c’è la grande cisterna buia; davanti e attorno le vie illuminate e affollate.

Tutta quella luce ha ovviamente un’alimentazione elettrica. E non potevo dunque non fotografare questo totem dell’improvvisazione elettrotecnica che si trovava proprio di fronte a me!

Questo oggetto ha davvero qualcosa di straordinario – ma solo per noi: in India, a quanto o potuto osservare poi, è un fenomeno diffuso e normale.

Nonostante la sovraesposizione e la confusione, questa foto a me piace, e non solo per la paradossalità del suo oggetto. Il fatto è che quando si riesce a dipanare la massa degli stimoli visivi, e a separare visivamente il mostro in primo piano dallo sfondo, vi appare una vita ricca e vivace, insieme a un grande spazio di silenzio e di oscurità. La complessità inestricabile della rete dei contatti elettrici che si vede qui, e ci fa sorridere, corrisponde a una complessità inestricabile della cultura indiana, i cui collegamenti sono spesso imprevedibili – e ci danno l’idea di un garbuglio senza né capo né coda.

E invece, incredibilmente, la cosa funziona, esattamente come questo impianto elettrico. Chissà: magari a un occhio indiano potrebbe apparire semplicissimo, immediatamente evidente nella sua banale ovvietà!

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Di una foto a Tiruchirapalli

Bancarella a Tiruchirapalli

Bancarella a Tiruchirapalli

Ho scattato questa foto a Tiruchirapalli (anche detta Trichy) nel Tamil Nadu, di notte, dalla terrazza del ristorante dove stavamo aspettando la cena. È una foto che a me piace molto, non solo per l’ordine maniacale con cui i commercianti indiani dispongono la frutta, che contrasta singolarmente con il disordine che regna tutt’attorno; non solo per i colori brillantissimi, a grandi macchie, e per lo spazio irrisorio in cui il fruttivendolo si trova costretto ad agire.

E poco importa anche che alle spalle della bancarella si stenda un enorme spazio buio: una grande cisterna, praticamente un piccolo lago quadrato nel bel mezzo della città. Davanti, viceversa, c’è luce e vita, e un sacco di gente che passa e si ferma a far compere.

Qui, in quello che si vede nella foto, il rettangolo della bancarella illuminata si staglia sul rettangolo più grande e oscuro intorno, ripreso, in piccolo, dalla macchia nera dell’uva proprio al centro. E poi, qui, sono tutte macchie rettangolari, cesto di frutta accanto a ogni cesto di frutta, compreso il corpo del fruttivendolo in alto. Rettangoli irregolari, molto creativi evidentemente, però ugualmente mattoni per assemblare questa composizione un po’ funzionalista.

E così mi viene in mente che l’India è in verità un paese di grandi matematici, che i nostri numeri sono stati inventati lì, e che al giorno d’oggi vi si scrive anche la maggior parte del software che si produce al mondo. A camminare per le strade magari non si direbbe; ma poi quell’anima nascosta e astratta si rivela, a livello popolare, anche nel razionalismo maniacale dei fruttivendoli, e nei contrasti geometrici tra rettangoli di luce e quadrati d’ombra.

La cena, comunque, qualche minuto dopo è stata buonissima.

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Di un nudo di Weston

Edward Weston, Nudo, 1934

Edward Weston, Nudo, 1934

Ci sono diversi modi per guardare questa foto di Edward Weston, scattata nel 1934. Si può osservare la composizione, non dissimile da quella di molta pittura astratta che si poteva vedere in quegli anni – quasi un Mondrian curvilineo, o un Malevich con più chiaroscuro. Si può vedere una singolare architettura naturale, una sorta di corta grotta di sasso liscio, con le sue ombre e qualche accenno di passaggio verso il buio delle sue cavità. O si può, ovviamente, vedere un corpo nudo femminile, colto, così da vicino, in un’intimità conturbante, quasi odorosa di pelle.

Ma se si vedono tutte queste cose, poi, non è più possibile separarle. Certo, come nell’esempio classico del coniglio-anatra della psicologia della Gestalt (o di Wittgenstein, a seconda di dove l’abbiamo incrociato), non possiamo vedere le diverse cose contemporaneamente: nello stesso istante, o si vede la pelle o si vede il sasso o emerge la composizione astratta. Tuttavia, se possiamo passare dall’uno all’altro – ed è così che facciamo – è perché queste diverse forme sono tutte contemporaneamente presenti alla nostra consapevolezza. E questo è insieme, per noi, un corpo un po’ conturbante di donna e un gruppo di sassi vicino al mare e una composizione suprematista o funzionalista.

D’altra parte, non solo la bellezza artistica, ma anche l’eros funziona così: qualcosa ci attrae perché è insieme se stesso e qualcos’altro, e produce l’improvvisa sensazione, in noi, di poter avere insieme il corpo e il mito, il piacere e il mondo. Sarà un’illusione, non c’è dubbio. Ma allora la realtà, cos’è?

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Di una foto presso Tiruvannamalai

Pianura a Tiruvannamalai

Pianura a Tiruvannamalai, dalla collina di Arunachala

Non sono in grado di esprimere davvero un giudizio su questa immagine, presa dalla cima della collina rocciosa di Arunachala, la “collina dell’alba”, presso Tiruvannamalai, nel Tamil Nadu. Io la trovo bella, ma capisco benissimo che il mio giudizio possa essere ancora fortemente segnato dall’esperienza vissuta in quell’occasione.

Sono circa le nove di mattina. Sulla cima di Arunachala c’è una brezza piacevolissima. Ma sino a pochi minuti prima stavamo arrancando da oltre due ore nel caldo-umido dell’India del Sud, colmando quasi ottocento metri di dislivello dalla pianura sottostante, avvolta in una leggera bruma.

Tiruvannamalai, la città che si stende dall’altro lato della montagna, è un luogo sacro a Shiva (che in Tamil Nadu ha anche nome, appunto, Annamalai), e vuole il mito che la montagna stessa sia non solo un’incarnazione del dio, ma addirittura la prima di tutti i tempi. Per questo, una volta l’anno, si svolge qui un festival a cui accorre oltre un milione di persone, e questa cima di roccia a cui siamo arrivati è interamente annerita dal burro fuso dell’enorme falò che vi viene acceso l’ultima notte – per essere visto da chilometri attorno.

Camminare sopra Arunachala vuol dire camminare dunque sopra il dio Shiva, e per quanto si possa essere lontani dalla religione, la cosa trasmette comunque un certo brivido – anche perché la visione della città sottostante, con il suo tempio enorme – tra i più grandi dell’India – è veramente impressionante.

Paul Klee - Strada principale e strade secondarie, 1929

Paul Klee - Strada principale e strade secondarie, 1929

Ma quando si arriva in cima, e si vede finalmente dall’altra parte, il panorama cambia del tutto, e il mio occhio di Occidentale acculturato non può fare a meno di vedere quello che Paul Klee ha a suo tempo visto magari solo con gli occhi dell’immaginazione.

Per me l’impatto è stato fortissimo, e non riesco più a capire quanto questa foto lo renda, e quanto la parentela con il sogno di Klee ne salti fuori.

Se aggiungiamo che questo stesso dipinto di Klee è anche protagonista di un libro di Pierre Boulez sui rapporti tra Klee e la musica (Il paese fertile. Paul Klee e la musica, Leonardo Editore, Milano 1989) si capirà come il cortocircuito si faccia ancora più stretto e più ricco.

Misticismo e sublime hanno strane vie, talvolta, per manifestarsi.

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Di una foto a Madras

Madras - Tempio di Kapaleeswarar a Mylapore

Madras - Tempio di Kapaleeswarar a Mylapore

Ho scattato questa foto a Madras (oggi Chennai), dentro al tempio di Kapaleeswarar a Mylapore. Ero affezionato a questa immagine anche prima che Elio di Raimondo la commentasse con termini lusinghieri, facendomi decidere di renderla pubblica.

Mi piace per via della composizione, con questo gioco di diagonali e di verticali. Mi piace per il gioco di piani diversi che si susseguono, dalla lamiera scura in primo piano in basso, alla statua della mucca, al lampione, alla cupoletta, fino alla bandiera dorata del tempio – senza contare altri piccoli dettagli. Mi piace per le rime visive: il rosso dello stendardo a sinistra col rosso del drappo sulla mucca, lo scuro della lamiera in basso con lo scuro della bandiera in alto, il bianco della mucca con il bianco della cupoletta, il giallo del muro in basso con il giallo dell’asta della bandiera, e l’altro giallo luminoso del lampione con l’angolo illuminato della cupoletta. Mi piace per il fondo di cielo piatto, quasi grigio.

E mi piace perché mi racconta di una prima sera appena arrivati in India (anche se questo non si vede), mentre i simboli della devozione (la mucca, la bandiera, la cupola) sono accostati a quelli della modernità (la lamiera, il filo elettrico che taglia a metà l’immagine, il lampione acceso). E che la belva sacra (come la definisce Elio) sia illuminata non dalla luce divina ma da quella elettrica mi pare così dolcemente ironico da essere davvero indiano, fino in fondo.

La malinconia della sera, l’ironia, il sacro, la tecnologia: tutto vi si trova insieme, e insieme è dolcemente trascurato. Come dire che tutto ha valore, ma niente ne ha troppo; e proprio per questo anche gli opposti possono convivere.


P.S. (del giorno dopo): Riguardando la foto mi sono reso conto che la belva sacra molto probabilmente non è una mucca, bensì un toro, anzi il toro Nandi. Di fronte alle immagini sacre di Shiva c’è sempre un toro Nandi in contemplazione e adorazione, e spesso attorno ce ne sono altri. Poiché il tempio in cui è stata scattata questa foto è un tempio dedicato al dio Shiva, è quindi probabile che si tratti proprio di lui.

Il toro Nandi è il simbolo della contemplazione mistica, è il proto-asceta, che si perde nella contemplazione del dio. Se lo riconosciamo in questo modo, la foto assume ancora altri significati, sia ironici sia appassionati. La luce che illumina l’estasi dell’asceta è infatti la povera luce elettrica di un lampione cittadino – ma per un indiano anche quella può essere luce divina, perché il divino è ovunque.

E il toro perso in contemplazione è anche l’immagine rispecchiata dell’occhio che ha visto questa scena, l’ha amata, e ha scattato la foto. Di nuovo, tutto è mistico, persino la contemplazione del turista, persino dentro l’inevitabile ironia della situazione. L’India è una specie di vortice da cui non si riesce a uscire.

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Di una foto a Mamallapuram

Mamallapuram-palme

Mamallapuram, palme

Ho scattato questa foto in India, l’anno scorso, a Mamallapuram (o Mahabalipuram), dalla collina rocciosa dove si trovano i templi del Settimo secolo scavati direttamente nella pietra, guardando non verso il mare, ma verso la pianura attraversata dal fiume. La trovo una bella foto, ed è passato ora abbastanza tempo da quel momento da darmi una sufficiente illusione di distacco nella valutazione.

La collina rocciosa di Mamallapuram non è più oggi un luogo sacro, ma lo è stato, certamente, per lungo tempo, e molto tempo fa. Ora è un ridente e affascinante parco pubblico. Quando ho scattato questa foto mi trovavo in India da un mese, ed ero a Mamallapuram per la seconda volta, in attesa dell’aereo da Chennai per l’Italia.

Questa foto mi piace perché rappresenta un altare, e al tempo stesso non lo rappresenta affatto. La roccia sotto i miei piedi non è il dio Shiva, come ad Arunachala, e il fiume che si intuisce non è la Kavery. Ma tutte le acque sono sacre in India, e quella stessa roccia, a pochi passi da me, porta intagliate figure divine di bellezza straordinaria.

Tutto questo nella foto non si vede. Quello che sostanzialmente si vede – credo – sono puri rapporti geometrici tra le verticali delle palme e l’orizzontale della pianura. Sono questi rapporti a richiamare, alla mente di chi guarda, l’altare che non c’è, il tempio che manca alla vista.

Al tempo stesso, però, le verticali restano palme, e l’orizzontale resta pianura, e dietro c’è il cielo e sotto ci sono le rocce e gli alberi, e questo è un luogo mitico e lontano, che ci racconta che il sacro esiste, indipendentemente dal fatto che Dio sia uno, nessuno o centomila.

Per questo questa foto continua a piacermi.

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Dell’uso narrativo dell’immagine fotografica

Vorrei parlare del libro di Emmanuel Guibert, Didier Lefèvre e Frédéric Lemercier, Il fotografo (Coconino Press e Fandango 2010), non solo perché è un bellissimo libro di reportage a fumetti (nella tradizione inaugurata a suo tempo da Joe Sacco), ma anche perché presenta un modo del tutto originale di accostare l’immagine disegnata a quella fotografica per raccontare a fumetti. Ovviamente, è il tema stesso a fornire l’occasione: trattandosi del racconto dell’esperienza di un fotografo (Lefèvre) nel realizzare un reportage, il reportage stesso è giustamente parte del racconto, e il racconto è a sua volta un modo per dare ancora più senso e più gusto al reportage medesimo.

Il fotografo pp. 144-145

Guibert, Lefèvre, Lemercier, Il fotografo, pp. 144-145

Parlando in generale, l’immagine fotografica non è narrativamente autonoma: poiché essa consiste di un frammento visivo di mondo sottratto al suo contesto, ha bisogno che il contesto le venga in qualche modo ricostruito per acquistare significato (a meno che non si tratti di un gioco fotografico formale – il che va benissimo, ma in questo caso la fotografia non è così diversa dalla pittura, e il fatto di essere fotografia anziché pittura incide solo nella misura in cui aggiunge l’informazione che quelle forme lì che stiamo guardando esistono davvero nel mondo da qualche parte, e che bisogna solo saperle vedere). Il contesto viene ricostruito tipicamente attraverso titoli, didascalie, oppure inserendo le immagini come accompagnamento di un testo verbale narrativo (per esempio, un articolo sugli eventi che le foto mostrano).

I tentativi di fare racconto per immagini utilizzando direttamente le immagini fotografiche approdano di solito ai grotteschi risultati del fotoromanzo – riscattato solo in rarissimi casi da produzioni comunque di carattere intellettualistico e ostentatamente provocatorio. Il problema è che l’effetto realistico dell’immagine fotografica (in fondo si tratta davvero di un frammento visivo di mondo strappato al suo contesto) mal si armonizza con la natura grafica e convenzionale del balloon (qualsiasi forma esso prenda); mentre la scelta di accompagnare le foto con un racconto a pié di immagine (oltre a ricordare troppo le pratiche editoriali dei rotocalchi) non fa che sancire la separazione tra la funzione del raccontare (destinata alle parole) e quella del testimoniare-documentare (destinata alle immagini).

Anche ne Il fotografo è evidente che esistono parti con funzione di narrazione e parti con funzione di testimonianza; tuttavia la natura sostanzialmente visiva delle parti narrative rende lo scarto con le parti di testimonianza molto più piccolo. Così, le fotografie, pur essendo chiaramente testimonianza, riescono a essere insieme anche racconto, armonizzandosi con le vignette disegnate. L’effetto è quello di un racconto che costantemente ci sbatte di fronte alla realtà di quello che racconta, senza più la mediazione del disegno. Certo, c’è la mediazione della fotografia, ma Lefèvre è un reporter, ovvero qualcuno che (pur non negando, certo, la rilevanza del proprio punto di vista e delle proprie scelte) mira a rendere il più possibile il senso stesso della scena che sta riprendendo, e usa i propri strumenti per calibrare la foto in modo da trasmettere il più possibile il senso di quello che sta vedendo.

La fotografia è uno strano strumento comunicativo, che associa l’indubbia oggettività di quello che viene colto (immagini del mondo che impressionano la pellicola in maniera meccanica) con l’indubbia soggettività delle scelte che si fanno per coglierlo (dove puntare, in che momento scattare, che obiettivo e quanto zoom utilizzare…). L’accostamento con le vignette disegnate da Guibert sottolinea gli aspetti soggettivi delle foto di Lefèvre, rendendole parte della narrazione a tutti gli effetti. Tuttavia, questa parte stessa della narrazione è insieme anche la testimonianza, il documento, e l’oggettività di quello che Lefèvre ha visto ne viene fuori con una forza straordinaria.

Per diversi giorni dopo aver letto Il fotografo mi sono ritrovato a ripensarlo dentro di me come un grande film, perché l’effetto di coinvolgimento che aveva prodotto su di me era del medesimo tipo di quello del cinema. Il fotografo non è però un testo a fumetti particolarmente cinematografico in sé: è proprio la combinata di racconto e immagine fotografica a suscitare un tipo di coinvolgimento non dissimile da quello del cinema.

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di Daniele Barbieri

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