 Il Pudhu Mandapam a Madurai
Questa foto è stata scattata a Madurai, nel Pudhu Mandapam, quello dei sarti, solo che questa è la navata centrale, chiusa da un cancello alle due estremità. Nel mezzo di quella confusione da mercato, con gli stimoli contraddittori delle merci in basso e delle decorazioni in pietra in alto, ma tutto fittissimo, affollatissimo sia sotto che sopra, si apre di colpo questa inaccessibile prospettiva, questo spazio enorme e vuoto, assolutamente favoloso.
Non c’è molto da aggiungere a quello che la foto dice da sola, perché proprio qui come là è impossibile andare oltre, camminare tra quei pilastri, sfiorare i pali di legno per impalcature appena smontate o sul punto di essere costruite. Il cuore del Pudhu Mandapam si rivela così, come una promessa di divinità impossibile da mantenere, ma anche da smentire.
 Contemplazione del tramonto a Varkala
Restiamo, con la scorsa settimana, in tema di contemplazioni verso sera. Ho scattato questa foto a Varkala, nel Kerala. Certo, in teoria questa foto potrebbe essere stata scattata su qualsiasi costa rivolta a occidente nel mondo; ma in India, a quest’ora, ovunque ci si trovi le spiagge si riempiono di persone. Cosa fanno? Vengono a vedere il tramonto – persino quando il tramonto non c’è, perché il cielo è troppo coperto, o non è sul mare, perché la costa è rivolta a est.
Evidentemente il fascino dell’ora che volge ai disio i navicanti, e intenerisce il core, da queste parti è molto sentito (anche se gli indiani non possono citare Dante). È anche per questo, evidentemente, che questa foto mi piace. Però non solo.
Naturalmente è facile fare foto suggestive a una situazione suggestiva, e i tramonti fotografici si sprecano. Però, tra le molte foto che ho scattato a queste situazioni, questa ha un fascino particolare; sarà per quella strana nuvola che diffrange la luce del sole, sarà per il colore, irreale persino per un tramonto, o per la composizione dei gruppi di figure…
Non so. Magari sono viziato nel mio giudizio dal fatto di esserci stato.
 Contemplazione del crepuscolo a Kanyakumari
Ho scattato questa foto appena dopo il tramonto, a Kanyakumari, l’estremità meridionale dell’India.
Mi piace non solo per il contrasto tra i colori poco saturi che dominano l’immagine e quelle due vivaci tonalità di verde al centro, o per la presa diagonale dell’immagine che accenna appena a una prospettiva che fugge, ma anche per il contrasto tra l’atteggiamento delle due figure: il padre perso nella contemplazione del mare verso sera, la bimba ridacchiante e rivolta al mondo.
Mi è abbastanza chiaro, però, che l’immagine mi colpisce anche perché mi viene istintivo immedesimarmi in quella figura maschile contemplativa, e insieme mi ritrovo fortemente anche nella dimensione del padre – perché è bello perdersi, ma è ancora più bello avere di fianco qualcuno che ti riporta indietro, senza tristezza.
 Mattina del giorno di festa a Mamallapuram
È il 15 agosto, festa dell’Indipendenza dell’India. Seduti sul muretto di recinzione di una grande cisterna invasa di ninfee, a Mamallapuram, questi signori si fanno radere. Sono i borghesi del luogo, la mattina del dì di festa – tutti eleganti, in verità, compresi i barbieri (a parte forse l’uomo in canottiera a sinistra).
La foto mi piace per questo bel ritmo di corpi, a coppie, che progrediscono dall’ombra alla luce, dalla fase preparatoria del lavoro a quelle avanzate, contro lo sfondo della gradinata della cisterna che sembra scendere da sinistra a destra (un effetto prospettico) e il verde delle ninfee dietro ai corpi, e del cespuglio davanti.
Ma soprattutto, che voglia di essere lì, a celebrare questo piccolo rito, all’aperto, la mattina, sotto il sole non ancora troppo caldo!
 Tramonto nel Ranganathaswamy Temple a Tiruchirapalli
Ho scattato questa foto nel Ranganathaswamy Temple a Tiruchirapalli, il tempio forse più grande dell’India intera (già dalla foto aerea di Google Maps si può capire che razza di bestia sia). È una foto romantica, come è facile che vengano all’ora del tramonto, “che volge al disio i navicanti, e intenerisce il core”.
Siamo in uno dei recinti intermedi del tempio. Quelli più esterni sono aperti al traffico veicolare. Quelli più interni hanno spazi più angusti di questi. La gente sta facendo il tradizionale giro (in senso rigorosamente orario), che è un atto devozionale, e si può compiere attorno a ogni recinto sacro, grande o piccolo che sia.
Qui, l’esposizione un po’ prolungata dovuta all’ora tarda (il tempio è aperto fino a notte) ha popolato la passeggiata di spettri evanescenti. Nei templi indiani si ha sempre l’impressione che ci sia un sacco di gente che non fa nulla, e lascia semplicemente che il tempo scorra. Al massimo cammina. Una bella atmosfera, sempre molto rilassata, sempre un po’ magica.
L’effetto romantico è procurato dai forti contrasti luministici e cromatici presenti in questa foto: il colore freddo del cielo e quello troppo rosso del mondo, con sprazzi di verde ugualmente saturo qua e là; lo scuro delle ombre e le zone illuminate, qua e là addirittura sovraesposte. A questo si aggiunge la corrispondenza tra le macchie di nuvole vaganti nell’azzurro, in alto, e le macchie di persone che si muovono nel rosso, in basso: come due configurazioni che si confrontano, simili, ma calda e chiusa l’una e fredda e senza confini l’altra.
Poco romantico, perché troppo indiano, è invece l’oggetto più suggestivo della foto, l’edificio alto a destra, un gopuram, o torre di entrata, che staglia le sue volute baroccheggianti contro quel cielo ugualmente barocco. Però, se si guarda bene, proprio sotto quell’oggetto favoloso c’è un’automobile parcheggiata, quanto di più ridicolmente prosaico si possa immaginare: ve la immaginate, dalle nostre parti, un’automobile in chiesa?
È necessario un suggerimento. Se volete godervi questa foto, ed entrare un minimo in nello spirito di quel mondo, non limitatevi a guardarla così piccolina. Cliccateci sopra e poi ingranditela più che potete, a tutto schermo, se possibile (provate con F11), e poi camminateci dentro sino alla luce verde in fondo, là dove si gira l’angolo.
Ho concluso il post sulla fotografia di giovedì scorso con un’osservazione sulle tracce della procedura di produzione lasciate da Sarah Moon sulle sue fotografie. È un discorso molto più vasto di quanto si potrebbe pensare.
Anche in pittura le tracce del processo di produzione possono essere una componente importante del discorso di un dipinto. Nell’osservare un dipinto di Frans Hals, per esempio, è inevitabile restare sorpresi dal modo in cui il pittore costruisce effetti di realistica vivacità facendo uso di tratti di colore così grossi da rendere palesi i suoi stessi gesti col pennello. In altre parole, l’effetto complessivo dell’opera non è dato solo dall’oggetto raffigurato e dalla qualità della rappresentazione, ma anche dall’ostentazione del gesto del pittore, che non nasconde più la sua tecnica, ma anzi, da vero virtuoso, ce la sbatte davanti agli occhi.
Se guardiamo dei tratti intendendoli in questo modo, però, non stiamo più analizzando né le qualità figurative né quelle plastiche dell’immagine. I tratti vengono intesi come tracce, registrazioni di un movimento, impronte di gesti. Certo che, al contempo, essi vanno intesi anche per le loro qualità figurative e plastiche, ed è proprio la dialettica tra questi due differenti modi di considerare i medesimi tratti a caratterizzare (in diversa misura) la produzione pittorica di diversi secoli sino a noi.
Tradizionalmente, tuttavia, la pittura è quella che è proprio perché le considerazioni figurative e plastiche sono dominanti, rispetto a quelle che riguardano le tracce dei gesti pittorici. La rivoluzione dell’astrattismo cambia i rapporti tra figurativo e plastico, rendendo dominante quest’ultimo, ma non modifica la rilevanza delle tracce. È solo con l’invenzione del dripping di Jackson Pollock che i rapporti si ribaltano davvero, e il valore di traccia dei suoi segni diventa superiore al loro valore plastico (quello figurativo è pressoché nullo): un dipinto di Pollock va preso prima di tutto come traccia della danza del suo autore, attraverso le controllate sgocciolature del pennello.
La fotografia nasce già come traccia, impronta. La luce riflessa dagli oggetti del mondo lascia il suo segno sull’emulsione fotografica (o, oggi, sulla superficie sensibile delle macchine digitali). Per fare questo, però, c’è bisogno dell’operazione di qualcuno che inquadri la porzione di mondo da fotografare, e scatti nell’istante prescelto. La foto, di conseguenza, porta in sé non solo la traccia luminosa della parte di mondo fotografata, ma anche la traccia dello sguardo del fotografo, che ha scelto la porzione di spazio e di tempo a cui limitare il proprio sguardo. Proprio come in pittura la traccia del gesto può essere ostentata (Frans Hals) o nascosta (Jan van Eyck), pur essendo comunque presente, anche in fotografia la traccia della presenza e dell’atto di fotografare può essere resa più o meno evidente.
Però, messe le cose in questi termini, si deve sottolineare anche la differenza che emerge tra pittura e fotografia. Nell’una la traccia del gesto si associa a un’immagine che non comunica come traccia, bensì come ipoicona, cioè per somiglianza costruita. Nell’altra la traccia del gesto si associa a un’immagine che è a sua volta traccia, impronta del mondo.
Nel post su Sarah Moon abbiamo visto come la fotografa aggiunga particolari tracce gestuali alle tracce del mondo che sono le sue foto, in modo da rendere evidente la sua presenza, la presenza dell’autrice e delle sue scelte – insomma, per dirla in linguaggio semiotico, ostentando le marche del soggetto dell’enunciazione. Non è più solo l’occhio della fotografa a essere presente alle sue foto, ma l’intero controllo del processo: questa presenza, tuttavia, non viene mostrata, bensì “tracciata”. Paradossalmente, le foto della Moon appaiono dunque ancora più vere di qualsiasi foto “standard”; sono più vere perché, oltre a mostrarci l’oggetto e a darci traccia dello sguardo del fotografo sull’oggetto, ci esibiscono anche le tracce del processo di produzione della foto. Viceversa, un dipinto di Frans Hals non ci appare più vero per l’ostentazione della traccia della mano; magari più bello, efficace, vivace… Forse un Pollock invece ci appare più vero, ma questo succede proprio perché Pollock ha ribaltato la gerarchia di valori, e ha costruito una pittura più simile (nella modalità di comunicare) alla fotografia.
Ora, che ne sarà di tutto questo quando il fotoritocco digitale avrà eliminato non solo ogni implicazione di una presenza del fotografo alla scena fotografata (perché tutto potrebbe essere stato montato in postproduzione), ma anche ogni possibilità di lasciare delle tracce del processo produttivo (perché anche qualsiasi traccia potrebbe essere un falso)? L’elaborazione digitale delle immagini apre grandi possibilità, ma ne chiude anche: dove tutto è possibile con le stesse categorie di gesti, niente può più essere interpretato come traccia di un gesto specifico. Dove tutto può essere molto facilmente falsificato senza possibilità di verifica, la distinzione tra vero e falso perde qualsiasi senso.
Per chi ha letto Il fotografo di Guibert e Lefèvre, cosa ne sarebbe del fascino di un libro come questo, tutto giocato sul contrasto tra immagini costruite (le vignette disegnate) e immagini-testimonianza (le foto), se avessimo ragione di sospettare che queste ultime sono tutti fotomontaggi realizzati con Photoshop?
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Zuppa d'Anatra
Una comunicazione
Per chi abita a Bologna e dintorni, sabato 30 alle 15.30, presso laLibreria Edicola Pinakes (via Nazionale 38/2, Pianoro – in realtà a Carteria di Sesto, 5 minuti di macchina dalla città), discuterò sui due miei volumi Breve storia della letteratura a fumetti, e Il pensiero disegnato. Saggi sulla letteratura a fumetti europea.
Ci sarà anche (mi dicono) la Sacher Torte, che è una mia amica di buon gusto e che si concede a tutti.
 Sui canali di Aleppey
Non c’è molto da dire su questa foto, scattata da qualche parte sui canali di Aleppey, nel Kerala, nel rumore dello sciacquio dei remi.
Quello che mi colpisce, in questa foto, è sostanzialmente la rima visiva tra la palma e il profilo della barca, rafforzata dagli accostamenti dei grigi (del cielo, dell’acqua, della barca) e dei neri (del fogliame, della barca). Nonostante questi colori, a guardar bene le ombre ci si può accorgere che c’è il sole.
C’è molta pace, ma anche una strana inquietudine. Saranno gli uccelli tra le foglie, sarà quella massa compatta e oscura a sinistra…
 Sarah Moon. Berlin 1995
La fotografia è un indice sul reale, si è detto. C’è del vero, ma a patto di valutarne le conseguenze. Se è un indice, c’è qualcuno che indica. E non si tratta solo di un indice, perché l’immagine è lì davanti a me, e il reale è in qualche misura riprodotto; e l’indicare, che indubbiamente c’è, è in realtà un guardare: il guardare del fotografo che ha deciso cosa inquadrare e ha scelto l’attimo giusto per scattare la foto, un guardare che corrisponde al mio guardare di fruitore, che si ritrova solidale nello sguardo con il fotografo.
Tuttavia, affinché io riconosca tutto questo, devo già sapere, almeno a grandi linee, qual è il processo di produzione di una foto. Se non lo so, non ho i mezzi per distinguere una foto da un dipinto, e posso pensare che si tratti di un dipinto particolarmente dettagliato: scompare dalla mia consapevolezza, quindi, tutta quella componente del discorso dell’immagine che si basa sul fatto di essere un’impronta del reale – per quanto mediata dall’azione del fotografo, che è quella che rende discorso questa impronta.
Nonostante tutto questo, e nonostante il fatto che l’atto cruciale della produzione di una foto sia la fissazione dello sguardo del fotografo (ben diverso da quello che succede con un dipinto, in cui lo sguardo del pittore è mediato dalla lenta procedura costruttiva manuale), ci sono foto a cui la postproduzione aggiunge molto, e che non si risolvono nel semplice essere un’impronta resa discorso dalle scelte di sguardo del fotografo.
La fotografia di Sarah Moon, per esempio, si basa su una serie di operazioni di postproduzione che alterano in varia misura l’effetto di realismo. La foto viene a volte sfocata, a volte mossa, a volte graffiata… Molto spesso le vengono lasciati (o aggiunti) i margini, che mostrano l’area di confine con la parte di pellicola non impressionata; e non di rado, come nella foto che ho messo come esempio, ci sono altre ricercate “imperfezioni”.
L’effetto cercato e ottenuto, spesso, è quella di una foto antica, primitiva, su cui la tecnica ancora incerta ha lasciato le tracce, come sui dagherrotipi dell’Ottocento. L’immagine, per quanto reale, ci sembra così provenire da un’antichità temporale favolosa, quasi appartenesse a un diverso dominio del reale.
Nelle sue foto, spesso struggenti, Sarah Moon mette in scena un’imperfezione tecnica (che è in realtà il frutto di una originale ricerca espressiva) che ci costringe a focalizzare non solo l’oggetto ritratto, ma anche le condizioni della sua presa. Non c’è solo la compresenza del soggetto con il fotografo: c’è anche questo favoloso distacco, questa irrealtà sovraimposta alla realtà.
Ma se – ignoranti di fotografia come non lo è ormai nessuno – scambiassimo le foto di Sarah Moon per dipinti, tutto questo non avrebbe modo di manifestarsi. È proprio perché conosciamo il procedimento tecnico della fotografia che possiamo capire le sue alterazioni e intuirne il senso. È proprio perché sappiamo che cosa succede a una foto quando invecchia, che possiamo riconoscere questa evocazione di antichità.
Sarah Moon costruisce il suo universo irreale combinando due effetti di realtà: quello standard e atteso della foto come impronta del reale, e quello della foto come esito di un procedimento pratico. Se nel primo effetto l’autore frequentemente resta nascosto (in quanto la foto può facilmente essere assunta come qualcosa di oggettivo: pura impronta del reale, come tipicamente avviene per le foto intese come testimonianza), nel secondo egli (ella) emerge invece con energia e passione.
Proprio come i dipinti di Pollock sono la traccia materiale della sua danza sopra la tela con il pennello che sgocciola, le foto della Moon sono la traccia del suo lavoro nello sviluppo e nella postproduzione. Comunque tracce, impronte, come in ogni foto che si rispetti. Impronte dell’autore, tuttavia, che non si possono ignorare.
Il tema è troppo succoso. Ci tornerò sopra presto.
 Nanotecnologia a Kulittalai
Certo che, da qui, appare strano pensare all’India come a un paese altamente tecnologicizzato. Eppure, più della metà del software che si produce al mondo viene realizzato in India; e là, ovunque tu vada, anche nel posto più sperduto e semidesertico, ci sono Facoltà di Ingegneria rigurgitanti di studenti.
Questa foto è stata scattata in una borgata vicino a Kulittalai, nel Tamil Nadu, tra i polli, le capre e i maiali; oltre a una piccola orda di simpaticissimi bambini, che facevano compagnia ai rari stranieri che capitavano in un posto così turisticamente irrilevante.
La foto ha – mi sembra – una sua grazia, con questa sua struttura quadripartita, e i due quadranti opposti verdi, accompagnati dai due quadranti opposti bianco-azzurri. Tuttavia, ovviamente, quello che colpisce – e la ragione stessa per cui l’ho scattata – sta nel contrasto tra quello che si trova nel quadrante in alto a destra e gli altri tre: futuro (nano)tecnologico contrapposto a passato rurale.
Se poi dicessi (ma lo farò in un’altra occasione) che cosa ci facevamo in quel posto, il quadro sarebbe ancora più paradossale. Ma già questo mi pare che basti, no?
 Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538
 Francisco Goya, La maja desnuda, c.a 1795
 Edward Weston, Nude. Oceano 1936
Qualche giorno fa sono intervenuto al congresso dell’Associazione Nazionale di Studi Semiotici, dedicato a “La fotografia. Oggetto teorico e pratica sociale”, con un intervento dal titolo “L’indice indiscreto”, il cui argomento era l’erotismo in fotografia. L’intervento espandeva alcuni temi che ho già affrontato sinteticamente anche in questo blog, in due post dedicati ai nudi di Edward Weston (qui e qui).
L’intervento ha scatenato un certo dibattito, soprattutto da parte di alcuni partecipanti che si occupano di Storia dell’Arte, che mi hanno obiettato che anche la pittura implica la presenza, e che l’eventuale maggiore eroticità della foto di Weston non è data dalla presenza implicata del fotografo, e dalla coincidenza del suo sguardo con il mio di osservatore, come sostenevo io, bensì da altre caratteristiche della foto, come il fatto che la modella viene mostrata immersa nel proprio piacere (di corpo nudo al sole), o anche, in parte, per la presenza della sabbia.
Vorrei perciò aggiungere alcune osservazioni, che erano in parte implicite e in parte troppo poco sottolineate nel mio intervento, per chiarire la mia posizione, e perché penso che siano comunque interessanti per l’analisi del discorso della fotografia.
Intanto, io credo che ci sia qualcosa che distingue la fotografia dalla pittura, che rende le modalità del discorso dell’una differenti (in parte, ovviamente) da quelle del discorso dell’altra. Non so se sia corretto o opportuno definirlo uno specifico fotografico, che è un’espressione vecchia, che fa forse riferimento a modalità diverse di indagine sulle immagini. Certo, la fotografia costituisce un campo, perché ogni nuova proposta fotografica è sì in dialogo con le proposte del campo del visivo in generale, ma lo è molto più specificamente con le altre proproste del campo della fotografia stessa. D’altra parte, la fotografia è un campo piuttosto facile da definire, persino con una certa precisione, perché nella sua enorme varietà di pratiche e risultati resta accomunata dalla presenza di uno strumento tecnico, la macchina fotografica, che registra l’immagine del mondo su un supporto, quale che esso sia.
L’uso di questo strumento prevede delle procedure, la più ampiamente comune delle quali richiede che il momento cruciale della produzione sia quello in cui una persona, il fotografo, sceglie le condizioni ottiche, il quadro e il momento preciso in cui scattare la foto. Certo, potrà aver preparato la situazione prima (proprio come il pittore) o potrà lavorare di post-produzione dopo (in misura comunque largamente minore del pittore); tuttavia, mentre il gesto del pittore è un gesto costruttivo, che prevede una sequenza in cui qualsiasi microscelta è una scelta del pittore e della sua mano, il gesto del fotografo consiste sostanzialmente nella scelta di uno sguardo, sanzionato dal clic che lo blocca per sempre. Il pittore può alterare (migliorare o peggiorare) le fattezze e la posizione della modella in qualsiasi momento; il fotografo (se non usa Photoshop, ma qui stiamo ancora parlando di Weston e di una fotografia pre-digitale) no, o solo in misura molto ridotta, ed esponendosi al rischio di essere riconosciuto come qualcuno che sta operando un falso.
Per questo, anche se la compresenza di autore e modella nuda, con tutte le sue implicazioni erotiche, c’è in pittura proprio come in fotografia, la fotografia me la focalizza molto di più, perché coglie – per la sua stessa natura produttiva – esattamente quell’attimo in cui la relazione erotica di sguardo si produce, e di conseguenza riproduce nel clic per la futura fruizione. Una fruizione a cui l’identità di sguardo è inevitabilmente presente, potendo evocare, per questo, in maniera sineddochica, anche altre qualità della presenza: le sensazioni tattili (l’aria, la sabbia), olfattive e uditive, oltre a quelle psicologiche della vicinanza.
Se osserviamo adesso le due figure femminili ritratte da Tiziano e da Goya, ci possiamo accorgere con facilità che il loro sguardo è rivolto verso di noi. Questa è una situazione molto studiata dalla semiotica della pittura, e in particolare dalla teoria dell’enunciazione: lo sguardo della figura rivolto a noi ci mette in gioco, ci rende destinatari di un discorso di sguardi. E se il tema dell’immagine è erotico, questo sguardo è una inequivocabile chiamata in gioco.
La ragazza della foto di Weston invece non ci guarda. Appare immersa in sé, nel proprio piacere, richiamato anche dalla posizione delle gambe. Ma non ci guarda anche perché non ha bisogno di guardarci: infatti, poiché questa è una foto, è già implicato in essa uno sguardo che è quello del fotografo che coincide con il nostro. Se la modella ci guardasse (come peraltro succede in tante altre foto, anche di tema erotico) l’effetto sarebbe quello – molto più forte – di un incrocio di sguardi.
Ma a Weston non interessa un coinvolgimento erotico così forte. La bellezza delle sue foto sta in questa irrisolvibile oscillazione tra una comunque conturbante presenza erotica e una costruzione formale che rimanda a quelle della pittura, e che ha imparato da Stieglitz, cercando di arricchirla di elementi nuovi.
Quanto alla sabbia, e al suo valore, c’è, e sicuramente contribuisce alla sensazione di abbandono della modella. Ma la sabbia è anche un operatore di costruzione di forme, come si vede bene dall’accostamento di queste altre due foto (qui sotto) che provengono dalla stessa serie “Oceano” del 1936. Le curve delle dune della prima foto rinviano alle curve della modella nella seconda, e viceversa. L’erotismo si carica di un senso panico, di rimando alla natura. E anche la vicinanza fonetica (un facile anagramma) di dunes e nudes ha forse parte in questo.
 Edward Weston, Dunes. Oceano, 1936
 Edward Weston, Nude. Oceano, 1936
Naturalmente anche per quest’ultima immagine c’è un riferimento classico. Ed eccolo qui sotto. (E pure qui lo “sguardo in macchina” della pittura scompare quando la “macchina” è davvero presente)
 Diego Velazquez, Venere allo specchio, 1644
 Il santuario di Gandhi a Kanyakumari
Questa casa di bambola dal colore caramelloso e dalle forme da giocattolo per la primissima infanzia, non è né un playmobil né la versione indiana della casa di Barbie. È un edificio vero, a Kanyakumari, sulla punta estrema dell’India: il santuario di Gandhi. Lì sono state custodite le sue ceneri, prima di essere disperse nell’oceano che sta subito dietro.
In verità, proabilmente, questo è avvenuto per solo una parte delle sue ceneri, visto che ci sono diversi luoghi dell’India che vantano di aver ospitato le ceneri disperse del Mahatma.
La ruota per filare la lana (un arcolaio?) che sta sul frontone del santuario è il simbolo che Gandhi avrebbe voluto sulla bandiera indiana. Alla fine c’è andata la ruota e basta. In sanscrito ruota si dice chakra (pronuncia ciakra): vi dice qualcosa? Nessuno vi ha mai proposto corsi sui chakra e come risvegliarli, col serpente Kundalini e tutta quella roba lì? Al solito, a noi (pure a me) fa spesso un po’ ridere; ma quando vai a casa sua, quella roba assume significati che non ti saresti mai aspettato.
Qui davanti, sulla punta dei tre mari (Golfo del Bengala, Oceano Indiano, Mar Arabico), ho riempito una boccettina tra le onde, e me la sono portata a casa. Metti mai che sto ospitando sullo scaffale qualche atomo del Mahatma!
 Shiva, Parvati e Airtel
Anche questa foto, come quella della scorsa settimana, è stata scattata a Varkala, nel Kerala. Là mostravo un cartellone con un’immagine dei nuovi dei; qui, a poca distanza, ecco invece una scultura da trasporto degli dei vecchi, quelli veri, tradizionali, belli: Shiva e Parvati – che è come dire, in questa zona prevalentemente shivaista, il principale avatar (incarnazione) del Brahman (ovvero di Dio), e il principale avatar femminile di questo avatar.
Tutto lo sterminato empireo induista è fatto di avatar, di avatar di avatar, di avatar di avatar di avatar, e così via. Ciascuno di noi, alla fine dei conti, è un avatar di Dio. Probabilmente lo è persino Airtel (il principale concorrente indiano di Vodafone), che mostra qui la stessa disposizione colorata e chiassosa delle due figure divine.
Ma la cosa più bella, qui, è ovviamente il carretto su cui sono montate le figure, insieme al fatto che era lasciato lì, sul bordo della strada – e chissà mai se è ancora in grado di muoversi!
Immaginatevi la scena corrispondente in Occidente, con una coppia di immagini di Cristo e della Madonna su un carretto arrugginito abbandonato al bordo della strada in mezzo a una discreta immondizia. Qualunque credente griderebbe al sacrilegio; e pure io che non lo sono mi sentirei disturbato. Ma qui, a quanto pare, è normale. Shiva e Parvati vivono tra noi: il fatto di essere divinità (e quali divinità!) in fin dei conti non le rende così estranee al mondo. Se Dio è dappertutto è sicuramente anche sul bordo abbandonato di una strada.
 I nuovi dei
Ho scattato questa foto a Varkala, nel Kerala (come si capisce chiaramente dai caratteri con cui è scritto il testo), come parte di una serie dedicata ai manifesti del cinema di Bollywood e dintorni. Io li trovo fantastici, questi manifesti: tanto sono miti, gentili e sorridenti gli Indiani, quanto sono brutti, trucidi e incazzati i loro eroi cinematografici. Questo ci ha fin la vitiligine che gli sfigura la faccia!
Non bisogna poi mancare di osservare l’ambientazione, con quel po’ di sporcizia e fatiscenza che non manca mai; e le piante e le muffe…
Questi nuovi dei incazzosi, tuttavia, nei film finiscono sempre per mettersi a ballare e cantare; e i film sono tutti musical, anche quelli in apparenza drammatici. Poi magari si scopre che questi mostri hanno il cuore d’oro, a dispetto dell’aspetto da orco (o da maraglio, per meglio dire).
Insomma, persino qui, tutto in India ha molte facce, e gli dei più terribili sono anche i migliori, e viceversa. I nuovi dei non fanno eccezione. Ma a noi fanno un po’ ridere.
 Negozio di spezie a Mattancherry
Ho scattato questa foto in Bazaar Road a Mattancherry, Cochin, nello stato indiano del Kerala. Come dice il nome della strada, si tratta di un luogo di commercio, ma il nome non ci dice che Cochin era una colonia portoghese e che l’intera strada è un’area di docks, costruita dai portoghesi stessi in stile europeo – anche se ovviamente riadattata all’uso e consuetudini indiane: in sostanza, un’affascinante e vivacissima fatiscenza. Di fianco a questo negozio c’è persino una chiesa.
Bazaar road diventa, poco più avanti, Jew Town Road, che possiede persino una bella e antica sinagoga. Gli ebrei arrivarono qui, ai confini del mondo, intorno al 75 d.C., cioè subito dopo la diaspora. Insomma, il melange di profumi di queste spezie rimanda al melange di culture che ci circondava quando l’ho scattata.
Tuttavia, anche se tutto questo aggiunge fascino alla foto, non è per questo che ne parlo. Ci sono due motivi (oltre a quelli, di circostanza, che ho già detto) per cui questa foto mi piace, nonostante la lieve sovraesposizione del muro bianco esterno.
Il primo è che qui tutto è organizzato per ortogonali, quasi come in un dipinto funzionalista, alla Mondrian. Naturalmente questo tipo di riferimento non è certo qualcosa che abbia inventato io: già negli anni 20 Edward Weston riusciva a produrre riferimenti di questo genere persino con foto di nudo. Questa ortogonalità fornisce all’immagine un tono un po’ irreale, quasi come se davvero quello che si vede fosse bidimensionale.
Il secondo motivo per cui questa foto mi piace è che, proprio per questa ortogonalità e la suggestione di bidimensionalità che ne risulta, la profondità emerge molto lentamente, e per piani giustapposti, uno dietro l’altro, come se fossero quinte teatrali.
Questo effetto, e il rallentamento percettivo che ne consegue, mi ricordano una vignetta di Flash Gordon che ho usato molte volte per mostrare come la profondità spaziale, gestita in un certo modo, possa essere usata per allungare il tempo di lettura. Nel caso di Flash Gordon, questo crea inoltre una certa coerenza con l’uso, adottato da Raymond, di verbose didascalie: un lungo tempo di lettura dei testi narrativi, cioè, è tollerabile in una vignetta se si accompagna a un lungo tempo di lettura dell’immagine. Questo, a studiare Flash Gordon, appare chiarissimo in Raymond – mentre quando la serie passa poi nelle mani di Austin Briggs, non è solo la qualità grafica del disegno a scendere, ma anche la capacità di tenere assieme la lunghezza dei testi con le sue immagini. Briggs non è davvero capace di costruire la durata della lettura visiva, e cerca di buttarla sull’istantanea efficace che rende il movimento. Peccato che non fosse un drago nemmeno lì.
Certo, la vignetta di Raymond non ha il riferimento funzionalista, però i piani giustapposti ci sono, uno dietro l’altro. Ma è una vignetta, appunto, non una foto, e il disegnatore nasconde con facilità i raccordi trasversali dello spazio, nella direzione della profondità. Nella foto, la costruzione ortogonale ha più o meno la stessa funzione.
 Alex Raymond, Flash Gordon, vignetta dalla tavola del 9 gennaio 1940
 Hari, Krishna
La foto di questa bambina è stata scattata a Kochi, nel Kerala, sul bus che porta da Fort Cochin a una spiaggia poco più a nord. Io trovo in questa foto diversi motivi di interesse.
Prima di tutto, la composizione. C’è un accenno di costruzione ortogonale, fornito dai tubi di metallo e dai montanti dei finestrini del bus. Ma poi, in maniera molto indiana, tutto è bombato e rotondeggiante, e le finestre sono addirittura inclinate verso sinistra. Viceversa, le figure animate sono tutte inclinate verso destra: braccio della mamma, bimba e figurina di Krishna. A destra abbiamo il dominio della luce, a sinistra quello dell’ombra.
Su questo sfondo, poi, certamente quello che colpisce è il rapporto tra la figura della bambina (tutta di colori caldi, dal bruno della pelle screziata di sole al rosso del vestitino) e quella retrostante del dio Krishna, anche lui bambino, azzurro su fondo verde (tutti colori freddi, sopra l’ombra del fondo).
Krishna è l’ottavo avatar del dio Vishnu, e per alcuni vaishniti ne rappresenta addirittura la forma originaria, essendo in questo caso la divinità suprema. Il suo nome significa “scuro” o “blu-scuro”, e per questo viene rappresentato sempre con la pelle di questo colore. Un altro dei suoi nomi è Hari (da cui la formula Hare Krishna), che significa “colui che prende” o ancora “colui che distrugge il samsara“, cioè il ciclo doloroso dei ritorni dell’anima.
Krishna è sempre raffigurato giovane, e spesso, come qui, in figura di bambino, con riferimento ai miti che raccontano la sua infanzia terrena. Trovo molto bella, qui, con tutta l’ingenutà di questa icona, la variazione sul gesto di namasté, ovvero del ringraziare a mani giunte: salvo che qui una delle mani è sostituita dal piedino del bimbo.
Mi piace, dunque, questa giustapposizione di due infanzie: quella mitica, del dio sorridente che ci libera dal destino del dolore, e quella reale, della bambina forse appena malinconica, ma tutta presa dall’osservazione del mondo che fugge intorno all’autobus. Alla fin fine, tutte e due le figure sono figure di Hari, colui che prende, che ci ruba, che ci libera, sia che si trovino nella luce solare del reale sia che emergano dalla freschezza e dall’ombra eterna del mito.
 Strada a Tiruchirapalli, sotto il Rock Fort
Questa foto, scattata a Tiruchirapalli sotto il Rock Fort, mi piace perché lo spazio è tutto pieno. In basso c’è l’incredibile confusione della città, pedoni, motociclette, automobili, camion (tutti impegnatissimi a suonare il clacson); salendo, ci sono le case e tutto l’intreccio dei pali e dei fili della luce, che formano una specie di inestricabile reticolo. Sul fondo, la mole ascensionale del Rock Fort, il quale, manco a dirlo, è un tempio, e dalla sua sommità si può vedere tutta la città fino al fiume e fino all’enorme tempio di Ranganathaswamy, il più grande dell’India intera, forse del mondo.
Fa caldo, c’è rumore, la città è caotica, ma la montagna sullo sfondo è ugualmente parte di un sogno, un sogno che scende e si allarga fino a noi. Per quanto siamo immersi nei nodi e nella rete della vita di tutti giorni, il sogno rimane incredibilmente presente, pesante, materiale. Una roccia che continua tutto il tempo a essere antichissima nel cuore eccitato della città.
 Accesso alla spiaggia, a Ovest di Kanyakumari
In questa foto, scattata 15 km a Ovest di Kanyakumari, dove ancora la costa è rivolta quasi esattamente verso Sud, e tra noi e l’Antartide c’è soltanto oceano, il tempo scorre a modo proprio. Lo mostrano le pose dei personaggi: solo la donna occidentale sta facendo, senza fretta, qualcosa; gli indiani sembrano interessati unicamente a far sì che il tempo scorra, fluisca.
Il mare dietro è grande, e il sole è basso, con la luce radente che crea strisce d’ombra sull’asfalto della strada. Anche dalla direzione delle ombre si capisce che siamo rivolti a Sud.
Questa foto mi piace perché ritrae una situazione metafisica in un luogo metafisico: un De Chirico indiano. Potrebbe essere l’immagine di un rebus, una di quelle situazioni sospese e senza senso, combinate senza una logica narrativa, ma solo per fare emergere dei frammenti di parola, in vista della soluzione.
Qui la soluzione è lontana, lontanissima, ma non se ne preoccupa nessuno. La donna occidentale e l’indiano sdraiato mi guardano. Sembrano rimproverarmi della mia iniziativa. L’atto stesso dello scattare questa foto potrebbe rompere la magia. Ma se non l’avessi scattata, oggi questa magia ugualmente non ci sarebbe.
 I sarti nel Pudhu Mandapam di Madurai
Il Pudhu Mandapam di Madurai, situato proprio di fronte al Menakshi Amman Temple, è un posto incredibile. È un mandapam (ovvero un colonnato aperto) del sedicesimo secolo, pieno di statue e di colonne istoriate. Solo la navata centrale, la più ampia, è chiusa, e si può vedere dalle due estremità attraverso i cancelli. Invece le due coppie di navate laterali, piuttosto strette, sono state trasformate in un mercato, dominato dai negozi di stoffe e dalle macchine da cucire dei sarti. Idem per i due ingressi, anteriore e posteriore.
Il contrasto è incredibile. Se guardi in su, ti sembra di essere in un tempio; se guardi sotto, ci sono i mercanti (e soprattutto i sarti, al lavoro).
Questa foto mi piace perché la sento come – forse – la foto più indiana del mio viaggio, quella che coglie insieme più aspetti di quel mondo incredibile.
Mi piace la luce, che entra radente da destra, dall’uscita sul fondo del mandapam e illumina insieme statue e sarti, e le tettoie in lamiera sullo sfondo. Mi piace quella figura maschile che mi guarda, al centro dell’immagine – perché mentre tu guardi l’India c’è sempre l’India che guarda te.
E mi piace moltissimo questo brulicare di cose così varie, dalle meraviglie in pietra alle persone, in attività o svagate, sino anche alle merci. L’Occidente (e l’Islam ancora di più) sembra essersi perso dietro il mito dell’Uno, della sintesi, della formula unica che spiega tutto, del rigore geometrico che riporta il molteplice all’unità. Qui, dove tutto sembra funzionare bene o male lo stesso, non c’è nessun Uno, né nell’alto dei cieli né sui vicoli della Terra.
 Svastike nell'Arunachaleswarar Temple a Tiruvannamalai
Giuro che non ho ritoccato i colori di questa foto, presa nell’Arunachaleswarar Temple di Tiruvannamalai. I colori sono quelli che ricordo, anche se forse il tempo lungo di esposizione dovuto all’illuminazione da interno ha contribuito a saturarli un po’. La foto mi piace anche a prescindere dai segni sul muro, per quell’esposizione di steli sacre che, al mio gusto occidentale, appaiono tra il ridicolo, il fascinoso e l’inquietante.
Il serpente è particolarmente sacro, in India, perché è legato all’acqua, che è a sua volta sacra, e l’adorazione delle divinità serpente è molto antica. Non a caso, uno dei miti che raccontano l’infanzia di Krishna (avatar di Vishnu) lo mostrano in combattimento con un grande e potente serpente fluviale, che alla fine gli si asservisce. Qui però siamo nel mondo di Shiva (o Annamalai, come lo chiamano qui), che spesso è rappresentato sotto la protezione del cappuccio del cobra, come pure accade anche con il Buddha. Arunachala, la collina dell’alba, alla cui base il tempio si stende, è Shiva medesimo, in una delle sue incarnazioni più antiche.
Sicuramente, la prima cosa che un occhio occidentale nota in questa foto sono le svastiche, come è capitato a me quando ero realmente davanti a quel muro. E di sicuro, l’effetto simbolico che questi coloratissimi simboli producono è ben diverso da quello della croce uncinata nera nel cerchio bianco sul fondo rosso che Hitler costruì con attenzione come simbolo del suo nascente partito; è diverso, ma non riesce a liberarsene del tutto.
È davvero affascinante (e preoccupante) la storia delle varie deviazioni per cui, dall’infatuazione indofila che porta in Europa verso la fine dell’Ottocento alla nascita della Società Teosofica (che ha la svastica stessa e l’Om come simboli), si arriva, passo dopo passo, attraverso le teorie razziste di Guido von List, sino alla Società di Thule, che darà poi vita al Deutsche Arbeiterpartei, ben presto trasformato dal suo giovane e rampante leader in Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei. Il resto della storia lo conosciamo.
Quello che in Occidente di solito si ignora, invece, è la spaccatura politica che l’adozione nazista di questo simbolo ha creato in India durante la guerra, tra coloro che avevano capito che la Germania era davvero un pericolo e appoggiavano i dominatori inglesi, in cambio di future (ma incerte) concessioni, e quelli che vedevano nell’alleanza con un paese anti-inglese, e per di più avente la svastica come simbolo, l’occasione per liberarsi dal dominio britannico. Per fortuna di tutti (indiani inclusi) hanno vinto i primi.
La svastica piaceva a Hitler perché era un simbolo antico e ariano. Ma è davvero paradossale che questo simbolo di pace e di luce sia diventato per noi un segno così tremendo. Queste svastiche colorate e luminose, tracciate da mani popolane di devoti, rinviano al culto del sole, e di Shiva che lo sovraintende. Il fatto che noi non riusciamo a non vedere in loro il truce simbolo della violenza e della morte ci mostra quali sentieri davvero strani possano prendere le idee e i loro simboli. Oltre un certo livello, nemmeno ricostruirne la storia può più restituirci la loro verginità.
 I templi sulla spiaggia a Mamallapuram
A proposito di funzionalismo e prospettive, non è detto che si trovino sempre assieme. Ho scattato questa foto sulla spiaggia di Mamallapuram (o Mahabalipuram), nel bel mezzo di quello che resta di un complesso straordinario e antichissimo (VII o VIII secolo). Era il 15 agosto, festa dell’Indipendenza dell’India, e per questo c’erano un sacco di turisti, quasi tutti indiani.
Anche Alberto Moravia, in una pagina del suo libro di viaggio (Un’idea dell’India), parla di questi templi. Lui deve averli visti ancora abbandonati e in balia delle onde, visto che ne fa oggetto di una riflessione sul fatto che tutto è destinato a scomparire, anche la pietra, quando è soggetta all’erosione. Oggi i templi della spiaggia di Mamallapuram si trovano nel bel mezzo di un parco tutto verde, protetto dalla furia dell’oceano da una robusta scogliera.
Quando li ha visti Moravia dovevano essere dunque ancora più struggenti, ma la prospettiva di questa foto era probabilmente impossibile all’epoca, coperta come doveva essere dalla sabbia della spiaggia – come peraltro accade ancora, in parte, per tanti altri monumenti minori, scolpiti praticamente su ogni roccia affiorante dalla sabbia, per chilometri attorno.
Questa foto mi piace perché tra la piramide implicita della prospettiva in basso e le piramidi esplicite del templi in alto ci sono le persone, indaffarate a guardare, cioè a fare esattamente quello che sto facendo io. E poi c’è questa luce da mezzogiorno, quasi senza ombre. E infine quell’architettura a gradoni bombati dei templi sul fondo, che si rispecchia nelle forme del primo piano. Ci sono tante rime visive in questa immagine, e tanta lieve asimmetria che mette in movimento la simmetria dell’immediata evidenza.
In realtà, bisognerebbe essere da soli, qui, e magari persi in contemplazione. Il tempio è dedicato a Shiva, e l’immagine del dio si trova proprio davanti a me, là dove c’è la gente e tutti guardano. Il percorso indicato dalla fuga prospettica della mia foto conduce a lui, il dio asceta, colui che quando danza crea tutte le cose.
Non è questione di crederci o non crederci. Il mito ha poco a che fare con la credenza, a differenza della religione. Ma la religione è un’invenzione cristiana. Il mito è sempre, comunque, un passo più in là dentro di noi.
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