Della foto di una grondaia rossa in un mondo grigio

La grondaia rossa

La grondaia rossa

(questa foto è stata presa dalla medesima posizione di quella della scorsa settimana, solo girandosi dall’altro lato – non però nello stesso giorno)

Della foto di questa città invisibile, quello che mi resta in mente è la grondaia rossa. Non che sia bella in sé, è ovvio, ma in mezzo a tutti quei grigi è l’unica nota di speranza.

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Della foto di un abisso

L'abisso

L'abisso

Vi ricordate la scena finale del film Solaris, di Andrei Tarkowski? C’è lui che guarda dall’alto il mare che è il pianeta senziente, e questo mare è turbinoso e in continuo movimento.

Bene, ogni volta che io guardo un mare turbinoso da una qualche altezza, non posso fare a meno di pensare a quell’immagine; e il mio mare è quello del pianeta Solaris.

Qui, il mare turbinoso è inquadrato da questa specie di pozzo urbano, queste pareti verticali e orizzontali e lisce la cui quasi mancanza di colore fa risaltare il colore azzurro cupo. E la loro immobilità fa risaltare il suo movimento. La prospettiva urbana inquadra l’abisso turbinoso. L’al di qua è un po’ squallido e triste; l’al di là inquadrato è inquietante e sublime.

E poi mi sono divertito a realizzare una specie di dipinto funzionalista attraverso le linee del mondo reale.

(Non che sia molto rilevante, ma la foto di questa città invisibile è stata presa da qui.)

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Della foto di un altro mito

La torre con l'ogiva

La torre con l'ogiva

Un altro dettaglio delle mie città invisibili, preso da qui. Uno scorcio di un’utopia del moderno che potrebbe essere stato progettato da Antonio Sant’Elia o da Erich Mendelsohn, immerso in una caligine da leggenda. Un missile che non partirà mai, ma continuerà per sempre a evocare la propria partenza e il proprio clima primo-novecentesco.

Pure quel dettaglio rosso in basso mi piace. Mi sembra la variazione che mette in moto, visivamente, il tutto.

Anche sulla città dove questo scorcio si trova, e su questa medesima torre, mi sono scappati dei versi. Sono nella seconda delle due poesie che si possono leggere qui (sì, è lo stesso luogo della scorsa settimana).

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Della foto di una città d’oro

La città dorata

La città dorata

Le città invisibili, di Italo Calvino, è stato il romanzo della mia adolescenza. Lo è stato perché probabilmente il modo di Calvino di descrivere le sue città immaginarie corrisponde molto bene al mio modo di percepire le città reali. E così, mi rendo anche conto a posteriori che tantissime foto che ho fatto a tanti luoghi visitati nella mia vita rispecchiano quel medesimo spirito, rappresentando perciò le mie personali città invisibili – anzi, piuttosto, quelle visibili, e viste attraverso un occhio innamorato delle storie di Calvino.

Questa foto è stata scattata dall’aereo, all’incirca da qui. Mi piace non solo per la luce incredibile, ma anche per la sua intensa dinamica, che spinge verso destra, dalle nuvole in basso a sinistra, al percorso del fiume, al suo sbocco nel paradiso della luce in alto a destra. Questa immagine mi ha colpito così tanto che, qualche tempo fa, mi ci sono scappati anche dei versi, che si possono leggere qui.

P.S. Non siamo lontani dal luogo mostrato dal post della scorsa settimana. Quella foto era stata presa esattamente da qui.

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Di una foto di architetture sognate

Modernismo fantastico

Modernismo fantastico

No, non è l’India, stavolta. E lascerò indovinare a voi dove ho preso questa foto, che mi piace non solo per l’allineamento diagonale delle guglie, ma anche per l’assurdità di questa architettura, questo modernismo fantastico, o favoloso – che potrebbe crescere così rigoglioso sono in un paese che non abbia sufficiente storia per conto proprio da doversi inventare un mito del presente fatto del passato altrui.

La città dove ho preso questa foto è piena di scorci come questo, così pateticamente e fascinosamente antifunzionalisti, un post-moderno nel cuore stesso del moderno. Si può restare inorriditi, oppure felicemente stupefatti. E si può certo leggere tutto questo come ostentazione di ricchezza, e di gusto passatista.

Ma si può anche pensare che la logica utilitarista che sta alla base del funzionalismo (anche se, nei casi migliori, un utilitarismo utopico, che non ha a che fare in sé col denaro) non sempre è applicabile, o applicata. Non si costruiscono case solo per viverci, o per mostrarci ricchi e potenti. Qualche volta le si fa anche per sognare, o per raccontare sogni. (Scriverne, come fece Calvino, o come faccio più in piccolo io, non sempre basta)


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Di una foto del cielo a Tiruchirapalli

Il cielo a Tiruchirapalli

Il cielo a Tiruchirapalli

Scrivendo il post indiano della scorsa settimana ho avuto una intuizione. Vuoi mai che questa mia ossessione per le foto dei luoghi dell’India non sia legata alla mia antica e mai sopita passione per un romanzo di Italo Calvino, Le città invisibili, letto e riletto e amato al punto da aver provato più volte nella mia vita a scrivere le mie personali città invisibili? Vuoi mai che queste sono davvero le mie città invisibili, vale a dire quei luoghi che dispiegano in qualche modo il mio io nascosto, quelli che si raccontano a chi non c’è stato come luoghi favolosi, perché per noi lo sono, e lo sono profondamente?

René Magritte - Empire of Light

René Magritte - Empire of Light

Se così fosse, un cielo non sarebbe meno informativo (cioè meno evocativo) dell’architettura sottostante. C’è molto più cielo che architettura umana in questa foto scattata nel Ranganathaswamy Temple a Tiruchirapalli, quasi come in un famoso dipinto di Magritte (a sua volta altra città invisibile, senza dubbio). Lo spazio verde dentro il mandapam in basso sembra appartenere a un mondo diverso dallo spazio bianco-azzurro del cielo.

Eppure, quando ho scattato questa foto, c’erano tutti e due, quegli spazi di fronte a me. E mi piacciono molto anche quelle due frecce bianche a sinistra, che rimandano ai luoghi circostanti, quelli che qui, inevitabilmente, non ci sono, non si vedono. Come al solito, le cose intriganti non sono quelle che ci sono davvero, ma quelle che sembrano poterci essere, sulla base di quelle che ci sono (e anche questo, con altre parole, avrebbe potuto scriverlo Calvino).

(P.S. Magritte, Calvino: non sono il primo a percepire un legame tra loro. Chi progettò nel 1972 la copertina de Le città invisibili vi inserì un altro dipinto di Magritte. O forse la mia evocazione di oggi è soltanto vittima di quella scelta di allora.)

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Di una foto da un angolo nel tempio di Madurai

La vasca del loto d'oro nel grande tempio di Madurai

La vasca del loto d'oro nel grande tempio di Madurai

Di questa foto, scattata all’interno del tempio di Meenakshi e Shiva a Madurai, posso dire che mi piace, per il gioco delle linee verticali e dei colori, per la prospettiva accennata e per quella colonna scura a sinistra. Ma soprattutto dovrei dire che se c’è un posto in cui mi piacerebbe ora andare e sedermi sui gradini e lasciar scorrere il tempo, è proprio questo – magari insieme alla fortunata turista intenta alla lettura in questa immagine.

Sembra di essere in una delle città invisibili sognate da Calvino, un luogo che non c’è, un luogo da leggere.

Eppure, stranamente, c’è.

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Della foto di un Vishnu Stores

L'aquila dalla testa bianca di Aleppey

L'aquila dalla testa bianca di Aleppey

Questa foto è stata presa da una barca, lungo i canali delle lagune di Aleppey, Kerala. Nel farla, volevo mettere in luce il contrasto tra il cartellone commerciale, forse di gusto un po’ retrò, ma indubbiamente contemporaneo, e l’atmosfera da bordi della giungla di tutto il resto – salvo il fatto che la ragazza del locale è tranquillamente seduta a leggere il giornale di oggi. Questo mix molto indiano di contemporaneità, quotidianità e misteri della giungla nera era così forte in me mentre scattavo la foto, che non avevo nemmeno visto il soggetto più interessante che stavo inquadrando, cioè la piccola aquila dalla testa bianca appollaiata sul palo, come fosse un pappagallo o una cornacchia.

L’ho scoperta in seguito, guardando la foto, come se si fosse materializzata soltanto allora. Probabilmente, in quel contesto così ricco di stimoli naturali, l’aquila era qualcosa di troppo normale per essere notata.

Ma insomma, eccola qui, a fare la guardia al negozio di Vishnu, di pesce fresco e noci di cocco tenere, tra la laguna e la giungla, tra il XXI secolo e l’eternità senza tempo (o di enormi ere ricorrenti all’infinito) del mito indiano. C’è da farsi strane domande su quello che noi chiamiamo progresso, e sul suo senso.

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Di “Guardare e leggere”, che non è solo un blog

Guardare e leggere. La copertina

Guardare e leggere. La copertina

Be’, sì, è in libreria. L’altro giorno, quando ho detto a un mio amico che stava per uscire, lui mi ha chiesto: “E il blog l’hai fatto?”. Ho avuto un momento di perplessità. Ovviamente lui si riferiva al fatto che ormai quando si pubblica un libro si crea anche il blog per riparlare ed espandere i suoi temi. Ma io il blog ce l’ho già. Anzi è venuto al mondo un anno prima del libro. Un blog ha però una gestazione breve, mentre un libro ce l’ha decisamente più lunga. Il libro in verità esisteva già prima del blog, e il nome che a suo tempo ho dato al blog era anche augurale per il libro. Quindi, in fin dei conti, al mio amico ho risposto “Sì”.

Il libro è più specifico del blog, come è giusto. Se volete sbirciare indice e introduzione potete andare qui.

Mi sento un po’ come quelli che dal romanzo è uscito il film, o dal film il fumetto, o dal fumetto il romanzo. Il blog non cambierà, ma se qualcuno mi propone qualche tema di cui nel libro si parla, può essere una buona occasione per tornarci sopra.

Per adesso, ne parlo pubblicamente in un incontro nell’ambito del festival del fumetto Bilbolbul, sabato mattina 5 marzo alle 11.30 alla libreria Irnerio (via Irnerio 27) a Bologna, con Luca Raffaelli. Spero di vedervi tutti.

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Di una foto di signore al bagno

Il bagno a Mamallapuram

Il bagno a Mamallapuram

Questa foto è stata presa sulla spiaggia appena a nord di Mamallapuram, il 15 agosto, festa dell’Indipendenza dell’India. È così che le signore indiane prendono il bagno, un po’ perché l’oceano è troppo pericoloso per immergervicisi, un po’ perché le signore non si possono spogliare, giovani o vecchie che siano – o, almeno, non ne ho mai vista nessuna meno vestita di così.

Questa foto mi piace perché i vestiti colorati portano un’aria di festa a questo mare così grigio e grosso, e perché mi piace la composizione un po’ orizzontale, ma in verità incerta, e questa tensione verso sinistra creata dalla prospettiva e dagli sguardi. Non di tutte, però: le due signore in rosso sono troppo impegnate con la sabbia e con l’acqua. Ma sembra che stiano danzando, queste signore sedute. C’è una misteriosa coreografia, che organizza i loro gesti.

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Della foto di una donna nel tempio di Tiruvannamalai

Donna nel tempio Arunachaleswarar a Tiruvannamalai

Donna nel tempio Arunachaleswarar a Tiruvannamalai

Siamo nel medesimo tempio che la scorsa settimana vedevamo in assurda assonometria dall’alto della Montagna dell’alba, a Tiruvannamalai. Ora, da dentro, la prospettiva centrale è tornata a riaffermare il suo impero. La donna al centro è verticale, così come verticale è il palo che la sovrasta, anch’esso al centro. Di fianco a lei la riga diagonale del bordo della cisterna (sormontato da una fila di statue del Toro Nandi), che viene ripresa dall’altra diagonale della parete del gopuram, la grande torre d’ingresso piramidale.

Attorno a queste linee centrali, questa foto è piena di verticali (pali, colonne, umani) e di orizzontali (i panni stesi, le ombre, e poi cornici, tetti, basamenti), e ancora altre diagonali (altre fughe prospettiche, l’altro gopuram a sinistra, le cupolette, le schiene dei tori). La donna e il palo che la sormonta dividono la foto in due metà verticali; la base del tempietto a sinistra e la sua prosecuzione nell’ombra prima e poi nel bordo della cisterna in fondo dividono la foto in due metà orizzontali. Abbiamo così quattro quadranti.

I due quadranti in basso sono semivuoti, specie quello a sinistra. Anche i due quadranti in alto si assomigliano, affollati entrambi nella parte inferiore e caratterizzati da una grande V in quella superiore (per il quadrante di destra valgono i fili della luce). I due quadranti a destra (inferiore e superiore) sono accomunati da quella diagonale che continua (prima prospettiva, poi parete della torre). I due quadranti a sinistra sono invece contrapposti: l’uno è il quadrante più affollato, l’altro il più spoglio, praticamente vuoto.

La testa della donna, con il suo fazzoletto azzurro, è al centro di questo meccanismo, ed è rivolta a sinistra, verso lo spazio vuoto, che diventa così, paradossalmente, il luogo più pieno, quello dove si può trovare qualcosa degno di interesse, ma che noi non vediamo. A questo punto non facciamo fatica invece a vedere (con gli occhi della mente) qualcosa come la rotazione di un grande orologio, le cui lancette (che focalizzano l’attenzione dello spettatore) incominciano la loro corsa sulle 9, a sinistra, e proseguono attraverso i tre quadranti successivi per concludersi in quello vuoto, insieme con lo sguardo della donna, che sta proprio nel perno della loro rotazione.

Sono quindi i colori del vestito di lei a dare senso visivo a questa foto, imponendo la prima verticale e il cuore della rotazione, da cui tutto il resto segue. Puro esprit de geométrie indiano, colto per caso dal fotografo. O esprit de finesse, se volete. Qualche volta c’est la même chose.

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Di una foto diagonale a Tiruvannamalai

Il tempio di Tiruvannamalai visto da Arunachala

Il tempio di Tiruvannamalai visto da Arunachala

Sembra quasi un’assonometria, o prospettiva parallela, questa veduta del grande tempio Arunachaleswarar di Tiruvannamalai, presa dall’alto della montagna-che-è-Shiva Arunachala, la montagna dell’alba. Questa foto potrebbe essere il pendant di questa, presa da più in alto, nella direzione opposta, questa qui sopra tutta città, quella tutta campi.

Ma questa foto mi piace anche perché il tempio e la città sembrano come emergere dagli alberi, in questa posizione irreale – quasi che il mondo fosse in salita. E poi ancora perché, in questa foto, la confusione tipica dell’India rivela un’attenta costruzione razionale di fondo, proprio come mi era già capitato di osservare in quest’altro post.

Secondo me non è mica un caso che questo paese abbia inventato i nostri numeri e continui a sfornare grandi matematici (per non dire del software che utilizzamo, che è in larga misura scritto in India). Qui persino la religione ha a che fare con la logica: solo se ci si ferma alla superficie non se ne vede che l’effervescente (e affascinante) mitologia. Quando si scava sotto, si trovano pagine del Vedanta e dei suoi commentari che rivelano strane somiglianze con il teorema di Gödel e con i paradossi di Russell: fantastici apparati razionali che hanno come scopo di mostrare i limiti della razionalità.

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Di una foto inquietante a Fort Kochin

La rivincita del verde a Fort Kochin

La rivincita del verde a Fort Kochin

Non so se la foto è bella, ma il soggetto era davvero straordinario, e del tutto integrato nell’ambiente urbano/naturale di Fort Kochin, nel Kerala, in un viale di alberi giganteschi, nel bel mezzo di un paese immerso in una sorta di giungla addomesticata, eppure grande, grandissimo, praticamente una città.

Il camion abbandonato sulla pubblica strada, che da noi sarebbe presto additato a vergogna e rimosso, qui si trasforma naturalmente in una singolarissima e affascinante aiuola, del tutto in sintonia con l’ambiente circostante. Ancora un anno o due e poi della struttura metallica non si vedrà più niente.

Mi vengono in mente i racconti (inventati) di Guido Gozzano di fronte alle rovine di Goa ricoperte dalla giungla. Bellissimo e struggente, da un lato. Sottilmente inquietante dall’altro. È una natura amica questa, che si prende beffa della nostra superba tecnologia, oppure è un’amara metafora del destino della nostra civiltà?


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Dei sogni fotografici di Dave McKean

Dave McKean, copertina per The Dreaming

Dave McKean, copertina per The Dreaming

Le straordinarie copertine realizzate da Dave McKean per diverse serie di comic book americani mostrano bene che cosa ne sia dello strumento fotografico nell’epoca di Photoshop. Credo che a nessuno verrebbe infatti in mente di considerare i dettagli palesemente di origine fotografica che appaiono in molte di quelle immagini come testimonianze di una qualche realtà, di una qualche oggettività che da qualche parte in qualche tempo ha avuto luogo.

Eppure, d’altra parte, non ha neanche molto senso considerare quei dettagli come banali scorciatoie produttive, perché si fa prima a utilizzare un brandello di fotografia che non a disegnare quel particolare con un qualche tipo di tecnica manuale. McKean fornisce continuamente prove troppo evidenti della consapevolezza con cui gioca i propri elementi costruttivi per non dargli credito anche su questo.

Il punto infatti è proprio che, a questi dettagli, qualcosa del valore di testimonianza del reale comunque resta, ed è anche su questo residuo di realismo che l’autore gioca per costruire il proprio effetto comunicativo.

La copertina di The Dreaming che apre questo post è probabilmente realizzata del tutto con frammenti fotografici – a parte i caratteri della testata, anche se la loro fattura li potrebbe comunque far scambiare per tali. Nel complesso, per la qualità delle sfumature e della grana dei materiali riprodotti, l’immagine potrebbe anche essere davvero una singola fotografia – se non fosse che la sua collocazione (copertina di un albo a fumetti) e l’improbabilità del suo soggetto ce lo fanno escludere.

Ma l’allusione al reale che questa non-fotografia compie è comunque importante. Ciò che essa rappresenta è infatti a sua volta una rappresentazione: una complessa scultura in marmo o avorio da cui emerge, o meglio, da cui sembra stare uscendo una figura umana. Questa figura è, verso il basso (la parte più arretrata del gesto di emersione, ancora vicina al blocco scultureo), certamente di marmo o avorio, e continua a esserlo nelle braccia e nel tronco – mentre nel viso, che è la parte più avanzata, più vicina a noi, qualcosa è decisamente differente.

Al di fuori di questo viso, infatti, tutto è riconducibile abbastanza tranquillamente a delle convenzioni iconografiche note, e solo l’immersione delle braccia nel reticolo delle piccole figure può apparire non canonica. Il viso, invece, è decisamente non canonico: se questo è un angelo, o un Cristo (come potrebbe suggerire la forma del drappo che gli copre i fianchi), la calvizie e il labbro leporino sono immediatamente inquietanti, un improvviso tocco di eccessivo realismo. E quando si osserva questo, ci si prende anche immediatamente conto che la grana della materia delle guance, del mento e di tutta la parte inferiore del viso non è quella di una statua, bensì proprio quella della pelle vera, così come vero è il naso, e quel riflesso dell’occhio lucido che emerge dall’ombra.

La figura grande procede quindi verso di noi, come liberandosi dall’universo della rappresentazione per fare il suo ingresso in quello reale; ed è insieme una figura sinistra, ambigua. Nel contesto complessivo di finzione, l’apparenza fotografica crea un effetto di realtà, così che questo Cristo demoniaco sembra davvero colto nell’atto di acquisire carne, uscendo dalla propria materia statuaria di origine, e venendo verso di noi – creatura da incubo che esce dal sogno per entrare nel reale…

Anche l’altra copertina, in basso, realizzata per The Sandman, gioca sull’effetto fotografico, però quasi in direzione opposta. La parte fotografica è una cornice di legno, anzi, una serie di cornici concentriche. Ciò che la cornice inquadra è ovviamente un disegno (o un dipinto); salvo che la cornice è rotta, e attraverso lo squarcio si capisce che ciò che credevamo disegnato è invece il mondo reale, che la cornice si limita a inquadrare. Pur non smettendo di apparire come una cornice, la cornice si rivela ora una sorta di finestra, e la sua realtà (testimoniata dalla sua riproduzione fotografica) si trasmette a ciò che essa inquadra, nonostante si tratti chiaramente di un prodotto della mano.

Anche per questi esempi sarebbe pertinente la citazione di Borges con cui abbiamo aperto il post di lunedì scorso. Per McKean il dettaglio fotografico è l’effetto di realtà che confonde le acque, permette ai diversi livelli di interagire, mescola il Don Chisciotte letto con quello che lo legge. Ma se in Frank Miller tutto questo serviva per dichiarare ad alta voce: “Attenti, questo è spettacolo”, nelle copertine di Dave McKean il rimando al sogno è sufficiente a tematizzarle. È come se McKean ci avesse ripetuto, copertina dopo copertina, declinato in tanti modi diversi, lo stesso motto shakespeariano pronunciato dalla voce di Prospero: “We are such stuff / As dreams are made on”, ovvero “siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”.

Dave McKean, copertina per The Sandman

Dave McKean, copertina per The Sandman

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Della foto di una mucca a Mamallapuram

Mucca sulla spiaggia a Mamallapuram

Mucca sulla spiaggia a Mamallapuram

Questa mucca presa sulla spiaggia di Mamallapuram sembra davvero camminare sul profilo del mondo contro un cielo uniforme e grigio, o contro un muro di nebbia. La verità si può vedere nella foto qui sotto (da cui si capisce anche che ho barato un pochino).

Certo, quello non è il cielo, ma l’acqua di una pozza. Eppure il cielo vero non è meno grigio, e la mucca cammina lo stesso in una dimensione metafisica, sul profilo di una qualche terra, che si interrompe, per poi riprendere nella sua realtà un poco più in là, e infine perdere concretezza del tutto verso il fondo.

C’è un grande senso di quiete, non disturbato ma persino confermato dall’irruzione del quotidiano all’estrema sinistra, nel cartellone del ristorante e nell’asta diagonale del lampione. Tutto è orizzontale, e procede da sinistra verso destra (le barche amarrate, la mucca e il vitello in alto a destra, l’insegna del ristorante, persino le due barche in mare sullo sfondo), ma senza fretta. Pure l’orizzonte lievemente inclinato ci rimanda a destra.

La ruota delle cose gira, il mondo scorre. Noi lo osserviamo da turisti, seduti sotto la tettoia del ristorante. Dalla foto non si capisce, ma sta piovendo un’acqua finissima…

Mucca sulla spiaggia a Mamallapuram

Mucca sulla spiaggia a Mamallapuram

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Di una foto verso l’orizzonte a Kanyakumari

Donne in rosso a Kanyakumari

Donne in rosso a Kanyakumari

Kanyakumari, punta estrema sud dell’India, la punta dei tre mari. Questa foto mi piace per quel gruppo di donne in rosso (con l’uomo in bianco), vivace e mosso, e con un atteggiamento molto presente, che si staglia su questa geometria immobile o ricorsiva del mare sotto l’orizzonte, della terra con i suoi muretti merlati, del palo un po’ storto.

Ci sono due colori dominanti e immobili: l’azzurro del cielo-mare, l’ocra delle cose solide. Cielo e mare sono orizzontali; la terra è caratterizzata da questa lunga diagonale che va verso l’orizzonte, a metà della quale c’è il gruppo di persone.

Sono attive e ben presenti. Stanno certamente parlando tra loro. Ma l’atteggiamento prevalente è il guardare, guardare oltre il muretto, guardare nell’oceano. Quella macchia rossa e contrastata è ciò che crea un ponte tra la terra e il mare. Se non ci fossero loro sarebbe tutto vuoto – interessante lo stesso, magari, ma vuoto.

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Della foto di un Toro Nandi a Madurai

Statua del Toro Nandi a Madurai

Statua del Toro Nandi a Madurai

Se, dalla posizione da cui è stata presa questa foto, ci si volta e si attraversa lo spazio mostrato da quest’altra foto, uscendo fuori dal Pudhu Mandapam, questo è quello che si vede. Questa grande statua coloratissima del Toro Nandi è ovviamente rivolta verso il tempio di Shiva che si trova, dopo il Pudhu Mandapam, alle mie spalle.

Il Toro Nandi è, per la tradizione shivaita, il proto-asceta, il primo adoratore di Shiva perso nella contemplazione del dio, nell’unione mistica dell’advaita. Eppure, come si può facilmente vedere da questa immagine, si tratta di una figura festosa, quasi allegra – specie se comparata all’immagine che tipicamente abbiamo in Occidente dell’ascesi mistica, fatta di santi emaciati se non flagellati in un contesto decisamente drammatico (anche se più che di santi dovremmo parlare di solito di santini, e il dramma è quello per noi ormai reso ridicolo da secoli di insulsa insistenza ecclesiastica sugli aspetti più spettacolari di qualcosa che dovrebbe piuttosto essere vissuto in maniera esclusivamente interiore).

Qui di drammatico mi pare che ci sia molto poco. Di questa foto a me piace il contrasto tra tre elementi così differenti: gli austeri cinquecenteschi propilei del tempio sullo sfondo, il coloratissimo asceta con la lingua fuori, e il traffico quotidiano circostante. Ciascuno di questi elementi, poi, ostenta da sé la propria specifica complessità. Siamo in India, insomma – e comprendiamo quel che possiamo.

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Di una foto di fronte al bello

Risaie presso Aleppey

Risaie presso Aleppey

Poiché la persona inquadrata nella foto sono io, e ancora non ho il dono dell’ubiquità (né amo gli autoscatti), è ovvio che questa foto non è stata scattata da me. Ci trovavamo poco lontano da Aleppey (o Alappuzha) nel Kerala. Avevamo preso una barca senza motore, per girare i canali in silenzio. A un certo punto il nostro conduttore ci ha proposto di fermarci per un te.

Siamo scesi, e non ci hanno messo di fronte a un tavolino, ma davanti a questa meravigliosa distesa di verde, come se fosse ovvio che eravamo capaci di apprezzarne la bellezza. Ma lo eravamo davvero, e quando il tè è arrivato ci ha fatto appena sorridere il fatto che i nostri ospiti si rendessero conto che non avevamo dove appoggiarlo. Si è rimediato con un’altra sedia.

Guardare davanti a noi era così coinvolgente che tutto il resto rimaneva in secondo piano. L’augurio da fare oggi, all’inizio dell’anno, sarebbe che guardare davanti a noi potesse essere ugualmente ispirante. Non viviamo nel paese giusto né nel periodo giusto, ma il primo dell’anno è fatto per illudersi felicemente.

Proprio come lo stare seduti su quella sedia.

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Di una foto a Shantivanam

Cristo tra gli angeli a Shantivanam, Kulittalai

Cristo tra gli angeli a Shantivanam, Kulittalai

Questa foto è stata presa presso il monastero camaldolese di Shantivanam, vicino a Kulittalai nel Tamil Nadu. Quel signore con tre teste al centro dell’immagine è Cristo, e quella davanti a lui è una croce. Alle spalle degli altrettanto cristianissimi angeli c’è invece un tempio, in classico stile tamil.

Il Cristo a tre teste non è un’immagine deviante della Trinità, ma semplicemente l’adeguamento a una consuetudine iconografica diffusa in India, dove spesso le divinità sono rappresentate con più teste, senza che questo debba implicare che le hanno per davvero.

Comunque, questo portale (è l’ingresso all’area della chiesa) dà bene l’idea del modo in cui i monaci di Shantivanam intendono il cristianesimo, anzi il cattolicesimo. Dal punto di vista della dottrina è un cattolicesimo sostanzialmente ortodosso, ma nel modo in cui si presenta, e persino nella liturgia, prende una serie di forme della tradizione religiosa induista, in modo da essere più accettabile per la popolazione locale.

Ho passato tre giorni a Shantivanam, in missione – diciamo così – antropologica, ma partecipando alla vita della comunità, liturgie comprese. Il luogo in cui si trova è incantevole, e sono stati giorni molto rilassanti e interessanti.

Devo dire, tuttavia, che, anche se i monaci camaldolesi meritano tutto il rispetto (perché sono camaldolesi, per la vicenda umana e spirituale che ha portato alla nascita di questo luogo, per la vita contemplativa che fanno e per il sostegno educativo e lavorativo che prestano alle popolazioni circostanti) questa isola di cattolicesimo camuffato mi sembra una sorta di piccolo tumore, con componenti benigne e maligne – ma comunque estraneo all’universo in cui si situa. È il prodotto di un sogno, fatto da alcuni Europei infatuati dell’India e del suo misticismo, che non hanno saputo rinunciare alla propria tradizione e hanno preferito cercare di impiantarla qui – per quanto riformata e adattata.

Con tutto l’onore che si può (si deve) tributare ai padri Henri Le Saux e Jules Monchanin, la sensazione oggi è che del loro sogno panreligioso non sia rimasta che questa piccola operazione imperialista cattolica, il cui fascino residuo sta anche nella sua impossibilità di crescere più di tanto. La spiritualità induista qui attorno sembra rigogliosa come la vegetazione che circonda il monastero. E magari qualche volta succede pure che chi si traveste finisce per diventare davvero quello che faceva finta di essere.

I dominatori inglesi consideravano l’induismo una forma di barbarie. Nel mio viaggio in India ho avuto spesso l’impressione, piuttosto, che i veri barbari siamo noi. Buon Natale.

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Di una foto nel giorno dell’Indipendenza

Indipendence Day tra i templi di Mamallapuram

Indipendence Day tra i templi di Mamallapuram

Questa foto è stata scattata a Mamallapuram il 15 agosto, Indipendence Day, nel parco archeologico dei Five Rathas, parte del complesso dei templi scolpiti, settimo secoli, i più antichi del Tamil Nadu (e tra i più antichi dell’India). Questi templi e le due sculture dell’elefante e del leone (proprio dietro l’elefante) sono realizzati ciascuno in un solo blocco di pietra, così come emergeva dal terreno. Non si possono quindi smontare: sono monoliti.

Mi piace, questa foto, perché tutti i turisti (meno uno) sono indiani, e tutti vestiti da festa, anche quello che ostenta, in primo piano a destra, soltanto un vezzoso straccio giallo. C’è una bella luce, una bella atmosfera di festa, un bello scorcio prospettico.

Forse avrei preferito visitare quel luogo in solitudine, di fronte a quelle antichità così struggenti. Ma anche questa festività era bella, ed era bene in sintonia con la luce del giorno.

Ovviamente, poco dopo, pure io mi sono fatto fotografare sotto la proboscide dell’elefante, magari senza eguagliare il fascino di quella bella ragazza indiana…

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di Daniele Barbieri

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