Ferenc Pintér, Tarocchi 15 e 18
Qualche giorno fa, risistemando uno scaffale della libreria, mi è caduto l’occhio su un oggetto che avevo lì, dimenticato da anni, i Tarocchi dell’immaginario di Ferenc Pintér, pubblicati nel 1991 da Lo Scarabeo. Della mia passione per il disegno di Pintér ho già avuto occasione di scrivere qui. Ma la scoperta mi ha fatto venir voglia di tornarci sopra ancora, perché un oggetto di affezione chiede sempre che si ritorni a scoprirvi qualcosa di nuovo.
Ne riporto una scelta significativa qui attorno, perché anche chi non conosce Pintér si renda conto di che cosa sto parlando (poi, nell’altro post, ci sono vari riferimenti per approfondire).
Come sempre, il mio problema è capire quali siano gli elementi del fascino di queste figure, almeno su di me – e se su di me, presumibilmente anche su altri.
Indubbiamente, un primo elemento è l’originalità dell’invenzione iconografica. Da questo punto di vista, ho messo per primo proprio Il diavolo perché questa idea di ridurre il volto del demonio a una mano, nel cui palmo oscuro si nasconde un occhio, che ci guarda, mi sembra davvero notevole. La mano, a giudicare dalle unghie, e dalla fattezza grossolana delle dita, è a sua volta la mano del diavolo. Ancora prima di capire a che cosa l’autore voglia alludere, questa figura ci ha preso, e inquietato.
La luna è l’elemento femminile, ed è l’erotismo, e l’acqua, e le maree. Forse questa scelta di elementi è più scontata della precedente, ma non è per nulla scontato il gesto della donna che avanza sull’acqua, con la luce tagliente da sinistra, e questo alzarsi del velo sulle sue rotondità a loro volta così lunari, e indubitabilmente erotiche, con il suo incedere verso l’orizzonte che non c’è, e questo punto di vista ribassato che ci induce a domandarci se si tratti di una figura femminile di dimensioni normali su piccole onde, o di una gigantessa mitica sopra dei cavalloni…
Ferenc Pintér, Tarocchi 2 e 4
Anche la Papessa ostenta i suoi attributi sessuali, sta seduta su uno scranno fatto di libri e tiene in mano un libro aperto da cui emerge ancora un oggetto erotico, stavolta maschile. Verso il basso la figura si fa evanescente, quasi una radiografia, e sempre quasi di intravedere una zampa di capra, come quella stessa del diavolo.
L’Imperatore sarebbe un normale cavaliere lanciato in carica, se non fosse per la presenza ancora erotica sul fondo, che lo rende immediatamente una sorta di Re Carlo tornato dalla guerra (lo accoglie la sua terra / cingendolo d’allor…), con la stessa evocazione del ridicolo che emerge dai versi di Villaggio e De André.
Potrei continuare, ma è facile anche riconoscerle da soli, queste idee…
Ma cosa c’è ne Il carro che ci affascina, visto che tutto sommato quella rappresentata non è una scena particolare, o memorabile per gli elementi messi in gioco? Tutto sommato non c’è che un cavallo che viene avvicinato alla barra del carro, presumibilmente per attaccarvelo e trascinarlo. Sarà la composizione, allora: questa verticale centrale definita dalle due figure umane, però messa subito in squilibrio dalle diagonali e dalle forze (le spinte, il vento), che vanno dal basso a destra verso l’alto a sinistra (ovvero in direzione contraria a quella naturale, con un certo accumulo di tensione); questo rapporto tra i colori chiari, o addirittura bianchi e sostanzialmente lisci, puliti, che affollano il basso a sinistra, e i colori scuri, del tutto neri in alto, screziati e materici nella zona in alto a destra; questo rapporto tra le due coppie in primo piano (uomo-cavallo e uomo-carro) ben definite, solide e in tensione, e lo sfondo indefinibile, vacuo più che vuoto, dove il cielo è appena più chiaro della terra. Sembra quasi una composizione di Burri, con i legni, i cretti, le plastiche bruciate – e insieme l’eleganza compositiva; questo associare l’astrazione compositiva con la matericità più grezza, il pensiero con la terra, la nitidezza dell’idea con la sporcizia della polvere, o dei materiali più poveri. Tutto questo, in più, qui si trova associato a una rappresentazione in cui il carro non sembra essere quello del vincitore, come sarebbe da canone, bensì un carro da duro lavoro nei campi, o il carro di fieno degli inquietanti dipinti di Bosch.
Ferenc Pintér, Tarocchi 7 e 11
Anche Il Papa è un fantastico oggetto visivo, questa grande ogiva giallastra sullo sfondo nero e la base rossa, da cui emergono la testa con la mitra, e la mano. Ma qui quello che colpisce sono la solitudine e l’oscurità in cui il personaggio sta entrando, a testa bassa. Il Papa, cioè, non è in trono, trionfante e potente, simbolo del potere divino in Terra. Qui, al contrario, è un vecchio stanco, che porta con fatica le sue insegne, e apre con dolore una porta che sarà pure quella di S.Pietro, ma sembra tanto quella della morte.
E ai colori scuri e terrigni de Il Papa si contrappongono quelli primaverili de Gli amanti, con quella intrigante X disegnata dall’intreccio dei due corpi rosati, che cercano di essere uno solo, in un mondo che è un tripudio di rinascite.
Ferenc Pintér, Tarocchi 5 e 6
Il Giudizio accosta due riferimenti diversissimi e immediatamente evidenti: il Michelangelo del medesimo Giudizio Universale, e il Salvador Dalí delle figure allungate o scarnificate su paesaggi desolati. Di nuovo, il punto di vista è molto basso, e tutta la parte inferiore, sotterranea, è scandita dalle linee sinuose della carne, quella stessa carne che è finalmente il Mondo nell’ultimo arcano, dove la figura della donna incinta ha le stesse tonalità, appena più chiare, del cielo alle sue spalle.
Mi piace pensare che questa donna sia la stessa donna de La Luna, dopo che il suo appeal erotico si è risolto in fertilità – e la Luna stessa, adesso, le gira attorno.
Pintér costruisce fascinosi racconti, ribaltando o arricchendo le figurazioni standard dei tarocchi, o prendendole come spunto per raccontare la sua visione dell’universo: l’erotismo, il potere, la morte, la vita, l’ironia. Ma il suo pennello sembra capace di arricchire ogni cosa, riempiendola di suggerimenti, di echi, di visioni appena accennate. Guardate e riguardate queste immagini: con l’attenzione ci vedrete molto altro. Le mie parole sono solo un inizio
Ferenc Pintér, Tarocchi 20 e 21
Ferenc Pintér, copertina di "Da Parker con furore" di Richard Stark, 1978
Non ho resistito molto a lungo. Dopo che una sera a Bilbolbul, quattro giorni fa, chiacchierando del più e del meno con Domenico Rosa, è venuto fuori il nome di Ferenc Pintér, che lui ha pure conosciuto di persona, e io no, non sono riuscito a resistere e mi sono messo a frugare. Ho trovato facilmente il sito a lui dedicato, da cui tutte queste immagini sono tratte (e là ce ne sono molte altre).
Pintér lavorava per la Mondadori. Era un dipendente, un impiegato, che al suo tavolino disegnava da modesto stipendiato le copertine degli Oscar, realizzando opere spesso memorabili. Per quanto mi riguarda, molto tempo prima di conoscere il suo nome, la mia adolescenza era già segnata dalle sue immagini e dalla loro forza.
Ho messo in questo post quattro esempi, che io trovo molto belli e significativi – anche se di sicuro non esaustivi nemmeno della varietà di stili che Pintér era in grado di adoperare, a seconda delle esigenze espressive richieste.
Nel primo esempio, una luce degna di Hopper illumina la nuca dell’uomo col mitra (gangster o poliziotto che sia). C’è una costruzione diagonale (e quindi sbilanciata in avanti) di linee ortogonali tra loro (e quindi, costruttive, rigide) – o meglio quasi ortogonali (e quindi quella stessa rigidità è in sé dinamica). La figura è scandita dal ricorrere delle aree scure, quelle nere dominanti, ma anche quella irregolare dell’ombra del viso, che prosegue poi in basso nella cravatta.
Il riferimento ai gangster degli anni Trenta è immediato, ma tutta questa rigidità evoca anche forza muscolare, mentre lo sbilanciamento evoca concitazione. Se provassimo a fare astrazione dal contenuto narrativo dell’immagine, e a guardarla come se fosse astratta, non sarebbe difficile ritrovarci il funzionalismo diagonalizzato di un van Doesburg o di uno Zwart, così lontano ormai dall’utopia spiritualistica di Mondrian. Quella macchia quadrata di luce appena a destra del mento, proprio al centro dell’immagine, ne è così il perno, e ci collega idealmente il personaggio rappresentato con il Dick Tracy di Chester Gould.
Ora, immaginiamo la copertina nel suo insieme, con le parole che formano il titolo e il nome dell’autore, e magari anche qualcos’altro. Queste parole saranno certamente orizzontali, e allineate verticalmente, a creare una tipica struttura ortogonale. Ecco quindi che la struttura quasi-ortogonale, ma diagonalizzata del disegno richiama, contrapponendovisi, quella ortogonale del testo, e mentre quello scorre verso destra, qui il movimento gli resiste, tendendo invece a sinistra.
Alla fin fine, la composizione riesce a essere ancora più forte della rappresentazione, che pure è intensa. Ancora prima che l’illustratore, Pintér sta facendo il grafico.
Ferenc Pintér, copertina di "Il paese delle nevi", di Yasunari Kawabata, 1980
Questa seconda copertina mi colpisce forse ancora di più. Qui ne vediamo l’interezza, compresi i titoli; e probabilmente l’intera impaginazione è stata progettata dallo stesso Pintér. La linea nera verticale che si trova al centro della composizione (che corrisponde alla fronte di lui) è infatti allineata alla seconda colonna di titoli, come a creare un rapporto tra le linee verticali della parte alta, e l’ingarbugliarsi di quelle stesse linee nel disegno in basso.
In questa immagine, ancora più che nella precedente, la composizione grafica si impone all’occhio assai prima della riconoscibilità delle figure. La linea nera sinuosa che divide la parte alta azzurra dalla parte bassa bianca è la prima forma a colpire la nostra attenzione, rafforzata com’è dalla cornice complessiva nera, e dal nero stesso delle parole dei titoli (ma anche il bianco del titolo centrale entra in gioco, richiamando il bianco al di là della linea). Poi ci vuole un po’ per capire che quella stessa linea identifica il profilo della pelle contro i capelli, e quindi definisce dei volti. E la stessa linea sottile del profilo di lui è, percettivamente, prima la prosecuzione mossa della linea verticale centrale, e solo dopo è la linea di un profilo.
In questo modo, è come se le figure uscissero progressivamente dall’ombra. Solo che non c’è ombra, ma la costruzione grafica della copertina di un libro; come dire, una forma grafica, astratta, da cui emergono progressivamente delle figure concrete – anche se non del tutto, rimanendo come sospese in un’atmosfera di evocazione. Un modo elegantissimo, mi pare, per alludere all’essenza stessa del raccontare: evocare figure e relazioni umane attraverso l’intreccio delle forme verbali, dando loro vita, magia – ma nell’impossibilità comunque di riportarle alla concretezza fisica.
Questa mi pare in generale la cifra stilistica di Pintér. Al cuore del suo discorso non sta la rappresentazione, ma la costruzione formale. È quella che colpisce, che ci attrae, che ci lega all’immagine. E poi, già legati, iniziamo a riconoscere le figure del mondo, quelle umane e naturali.
Si tratta di un bel ribaltamento rispetto al normale funzionamento del nostro apparato percettivo, calibrato geneticamente per riconoscere le figure, e in particolare quelle umane, e in particolare i volti. Quando e se arriviamo a valutare la forma dal punto di vista plastico, di solito il riconoscimento delle figure e della situazione raccontata ci ha già portato molto in là nella comprensione dell’immagine. Siamo fatti così perché la nostra vista è fatta prima di tutto per riconoscere il mondo in termini di figure (umane, animali, oggettuali) perché la nostra sopravvivenza deriva da quelle. E le immagini di solito si adeguano a questa gerarchia.
Il ribaltamento operato da Pintér invece ci spiazza. La forma plastica si impone. Le figure del mondo con le loro potenzialità narrative arrivano dopo, quando già abbiamo fatto molti passi nel percorso interpretativo.
Lo si vede anche nel manifesto qui sotto, dove quella macchia complessa rossa e bianca, scura e chiara, contro lo sfondo azzurrastro, a sua volta chiaro e scuro, viene riconosciuta con fatica come l’abbraccio tra un operaio e un minatore. E tuttavia, una volta che il riconoscimento è avvenuto, non ci lascia più; e continuiamo a guardare stupefatti nello scoprire e riscoprire che quell’area bianca è un braccio, e quella rossa pure, e l’altra rossa una nuca, e così via.
Ferenc Pintér, manifesto 1 maggio Solidarnosc, 1988
Le cose che più mi restano impresse nella memoria sin dalle mie prime frequentazioni del lavoro di Pintér sono però i suoi disegni al tratto, con quell’uso magistrale di un pennello grosso, spesso adoperato a secco – con inevitabile riferimento (ma non per me allora) alle calligrafie orientali.
Nell’immagine qui sotto, la figura forse emerge un po’ più rapidamente che nelle precedenti – ma si tratta di un’illustrazione, e non di una copertina o di un manifesto. Eppure anche qui le figure restano sospese nella magia dell’evocazione irrisolta. Certo, quella cornice attorno al viso della ragazza può essere davvero un elemento della scena (per esempio una finestra); ma ci viene naturale interpretarla piuttosto come il confine della vignetta, o dell’immagine; e quel confine viene rotto due volte, in basso a sinistra dal vuoto del busto della ragazza, e a destra dalle braccia che ne fuoriescono.
Così, ancora paradossalmente, entra in gioco una terza dimensione che sembra invece negata dalla raffinatezza calligrafica del gioco delle linee nere, e l’immagine rimane per questo oscillante tra pura piattezza e profondità evocata.
Forse, il mistero del fascino delle immagini di Pintér sta proprio sempre nella loro ambiguità. Le figure, che sono ciò che riconosciamo concettualmente, e che sappiamo di saper riconoscere (e per questo sono per noi tranquillizzanti), emergono solo dopo che siamo stati colpiti da una dimensione plastica formale nella quale è molto più difficile dire che cosa vi si riconosca – perché i suoi echi sono trasversali, e non così legati alla nostra sopravvivenza da renderci necessaria la comprensione immediata. L’approccio a ogni immagine di Pintér è dunque basato su un subitaneo cogliere senza comprendere, da un essere colpiti da qualcosa senza bene capire perché, dal riconoscere senza sapere di riconoscere. Quando poi riconosciamo anche le tranquillizzanti figure del mondo, è già troppo tardi, e pure loro finiscono, almeno in parte, ad abitare in quel mondo inquieto e indistinto, ma in Pintér potentissimo.
Ferenc Pintér, illustrazione per un racconto di Anais Nin, 1990
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