Della definizione del fumetto (e di altri media)

Ally Slooper, 1867, dalla voce di Wikipedia

È rispuntata la polemica sulla data di nascita del fumetto, tra Matteo Stefanelli e me, qui. Ma non è di questo che voglio parlare, bensì di un tema correlato, ovvero l’annosa questione della definizione del fumetto. Il tema è correlato perché, se avessimo una definizione sufficientemente affidabile del fumetto, sarebbe assai più facile verificare da quale data in poi esistono testi che vi si attagliano – e il dibattito potrebbe vertere non su opinioni ma sulla verifica di documenti storici concreti.

Ma la definizione sfugge. Anche quella faticosamente costruita da Scott McCloud, “Immagini figurative e d’altro tipo giustapposte in sequenza deliberata mirate a trasmettere informazione e/o a produrre una reazione estetica nel fruitore”, lascia fuori innumerevoli esempi che ancora consideriamo fumetto, e ne ingloba altri che non sono tali (come le istruzioni di montaggio dei mobili IKEA, per esempio). Non è perciò una buona definizione, e non è utilizzabile per tracciare un confine storiografico. In particolare, per non correre il rischio di lasciare fuori degli esempi importanti, è volutamente e consapevolmente generica.

A questo punto abbiamo due strade (senza escludere che ne esistano altre). Potremmo lavorare come fa la teoria dei prototipi cercando una definizione che centri l’essenza di quello che consideriamo fumetto, cioè quello che è per noi il fumetto prototipale. È una via interessante per la creazione di voci di dizionario, perché permette di cogliere proprio quei tratti cruciali che mettono in grado la maggior parte delle persone di capire di che cosa si sta parlando. Ma è un pessimo candidato per definire un confine storiografico, perché la concezione prototipale del fumetto cambia anch’essa col tempo; e anzi, in particolare, tipicamente non si è ancora formata in quel momento iniziale che stiamo cercando di definire. Per cui il massimo a cui potremmo arrivare è qualcosa del tipo: secondo la concezione prototipale del fumetto nell’America degli anni Novanta il fumetto è nato nel 1896; secondo la concezione prototipale del fumetto della Francia del 2000 il fumetto è nato intorno al 1820, ecc. ecc. Cosa che può essere utile per una storia delle concezioni del fumetto, ma non direttamente per una storia del fumetto.

L’altra strada appare allora inevitabile, per il fumetto come per qualsiasi altro medium. Si tratta di capire che un medium non è qualcosa che esiste in natura, classificabile secondo leggi rigorose. È piuttosto il frutto di una serie di scambi tra le persone, e soprattutto di un continuo proporne, contrattarne e definirne i confini. Supponiamo che esista una rivista che pubblica solo fumetti, e supponiamo che su questa rivista appaia un oggetto anomalo, tipo una grande vignetta unica, o una serie di riquadri che contengono testo (e non disegni). Se questo oggetto comparisse in un altro contesto, nessuno si domanderebbe se sia fumetto; ma il fatto che compaia proprio in quel contesto significa che è stato proposto proprio come fumetto, ovvero inserito nel dialogo su come debba essere fatto il fumetto. Poi i lettori potranno approvarlo o meno. Magari diranno: “Bello, ma che ci fa qui?” Oppure lo accetteranno come una provocazione, riconoscendo implicitamente la sua appartenenza (provocatoria) all’ambito del fumetto.

Dovremo dire allora che ciò che rende qualcosa un fumetto è l’apparire su una rivista di fumetti? Mi pare che sarebbe, in sé, una proposta ridicola, se non fosse che possiede un germe (solo un germe) di verità. Diciamo che il confine tra ciò che è fumetto e ciò che non lo è sta nell’essere accettabile come tale o non esserlo, e il luogo di pubblicazione può anche costituire, a volte, l’elemento determinante.

Tuttavia, se possiamo discutere se qualcosa sia fumetto o meno (senza dimenticare che le provocazioni di oggi diventano a volte la normalità di domani) è perché, evidentemente, una qualche idea di fumetto l’abbiamo, e questa idea si esprime socialmente attraverso l’esistenza di un dialogo, cioè di testi che mostrano caratteristiche comuni sia da un punto di vista formale che dal punto di vista delle modalità di produzione/pubblicazione e di fruizione.

Ma un’idea che si esprime socialmente è qualcosa di diverso da una definizione tranciante, come quella che cercavamo sopra. Il confine storiografico che andiamo cercando non sarà allora dato dalla comparsa di opere che corrispondano alla definizione, ma dalla comparsa di un dialogo collettivo attorno ad alcuni elementi cruciali.

A titolo puramente di esempio, supponiamo – semplificando mostruosamente – di decidere che il medium fumetto è caratterizzato dalla presenza della nuvoletta a cui (in Italia) deve il nome. Se vediamo le cose in questo modo, il fumetto non nasce quando compare la prima nuvoletta di testo (cioè nel medioevo), ma quando si determina un intero settore di produzione e consumo basato su testi che presuppongono l’esistenza della nuvoletta, anche quando non ne fanno direttamente uso. In altre parole, una volta che questo settore si sia avviato, un testo che si rivolga ai medesimi lettori con altre caratteristiche simili di carattere formale e produttivo sarà un fumetto pure senza nuvolette: perché è comunque in dialogo, e fa riferimento, agli altri testi simili che la nuvoletta ce l’hanno. Viceversa, un testo pieno di nuvolette che risalga a un’epoca in cui questo settore di produzione e consumo non esiste, non sarà mai un fumetto (al massimo un suo precursore) perché in quell’epoca il fumetto non esiste.

Ho semplificato a titolo esplicativo, ma non si può ridurre a un solo aspetto ciò che caratterizza un medium. Si può però decidere che ci sono insiemi di caratteristiche che lo identificano meglio di altri. Per esempio, l’assenza di una narrazione verbale autonoma (ovvero comprensibile anche in assenza delle immagini che l’accompagnano) costringe il lettore a comprendere il racconto basandosi fondamentalmente sulle immagini, ovvero a leggere attraverso un imprescindibile guardare di base. Si noti che la narrazione verbale non è necessariamente scritta: la pittura del medioevo, anche quando sequenziale, e i protofumetti a stampa del Cinquecento tedesco prevedono una voce (orale) che li racconti, e un contesto di fruizione molto diverso dalla solitudine del lettore moderno. In quei casi, dunque, la narrazione verbale c’è, anche se non è scritta, e dunque non è arrivata a noi. Dobbiamo perciò limitare il nostro ambito non solo a un epoca di stampa avanzata, ma anche di alfabetizzazione avanzata, ovvero presupporre un pubblico in grado di ricostruire da sé (leggendo o guardando) le storie che si sviluppano sotto i suoi occhi.

Insomma, venendo allo specifico, se il fumetto nasce quando il guardare diventa la base del suo leggere narrativo, ovvero quando sono prima di tutto le immagini (e non il testo verbale) a costruire nel lettore la comprensione del flusso degli eventi, allora non dovremo andare a cercare i precursori per tracciare il nostro confine storiografico. Il fumetto ha origine quando si crea una tendenza, un ambiente, in cui la norma è una comprensione di questo tipo, visiva ancora prima che verbale. Ma sino all’epoca in cui sono normalmente presenti le didascalie narrative (ed è questa la norma), questa condizione non si verifica. Mentre, viceversa, una volta che la comprensione visiva sia diventata la norma, anche testi come il Prince Valiant di Foster e il Flash Gordon di Raymond sono fumetti, nonostante reintroducano le didascalie: lo sono perché ormai si rivolgono a un pubblico che è abituato a leggere fumetti, e che capisce la ragione di una scelta differente, senza tornare per questo indietro nel tempo di cinquant’anni.

Detto questo, è chiaro che non si potrà dare più a Richard Felton Outcault, autore di Yellow Kid, il merito di avere fondato il fumetto. Gli si riconoscerà semmai la fortuna di essere stato colui che ha aperto una porta che era già socchiusa, e che avrebbe potuto aprire chiunque altro in quel momento. Quello che importa è che il momento era giusto perché si potesse formare – anche esplosivamente, come è di fatto successo – una nuova consapevolezza tra autori, editori e lettori, quella che è possibile scrivere storie non solo molto accompagnate da immagini, ma proprio per immagini. La nuvoletta non è l’elemento discriminante, dunque, ma rimane un buon indizio; ha di buono che ribalta il rapporto tra immagine e testo: con le didascalie è il testo verbale che inquadra e ingloba l’immagine, con la nuvoletta è l’immagine che inquadra e ingloba il testo verbale.

Non pretendo di avere ragione, dunque, a continuare a situare intorno al 1896 la data di nascita del fumetto. Tuttavia per smentirmi non basta produrre esempi di testi per immagini precedenti a quella data, che esibiscano la nuvoletta, o che prevedano una modalità di fruizione principalmente visiva. Bisogna anche dimostrare che, nell’epoca in cui vengono prodotti, essi costituiscono la norma. A me non pare che sia così. Ma il bello della storiografia è che può sempre scoprire qualcosa di nuovo.

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P.S. Oggi, in tutt’altra veste e su altri temi, appaio anche nel rinato blog del mio stimato omonimo, con un intervento autoeterobiografico intitolato La solitudine del blogger. Buona lettura.

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Dei caratteri lineari e del razionalismo in tipografia

Da tempo volevo riprendere un tema che ritengo importante, quello del carattere tipografico, che avevo già aperto qualche mese fa in un post intitolato Del carattere lineare e del sublime nell’arte. È un tema importante perché di difficile definizione, e perché si trova ai confini del senso. Sono difficili da definire anche, singolarmente, i due corni stessi del problema, che potremmo denominare come la questione della leggibilità e quella dello stile. Parlare di leggibilità significa escludere che il carattere tipografico debba trasmettere autonomamente del senso: tra le sue proprietà vi sarà infatti anche quella di veicolare al meglio le parole scritte, alle quali spetta interamente la costruzione del significato, senza interferenze e distrazioni. Parlare di stile significa invece riconoscere al carattere tipografico una componente di senso, che andrà ad aggiungersi o combinarsi con quelle più propriamente verbali, anche a costo di togliere al lettore una qualche componente di attenzione.
Sono proprio questi i termini del dibattito che, nella Svizzera degli anni Cinquanta, patria di una rivoluzione nel campo della grafica, contrappongono Jan Tschichold a Max Bill e Emil Ruder. Tschichold era stato negli anni Trenta uno dei più attivi sostenitori del rinnovamento grafico ispirato dal Bauhaus, ma aveva poi assunto posizioni più umanistiche, a partire dalle quali aveva già avuto uno scontro molto duro con Bill, a sua volta allievo del Bauhaus, e fiero assertore di un design razionalistico. Ruder era a sua volta uno dei principali rappresentanti della nuova grafica svizzera, ispirata dalle posizioni di Bill.
Per Tschichold il carattere tipografico non deve esprimere nulla, tantomeno lo spirito del tempo, come vorrebbero invece i nuovi grafici svizzeri; deve piuttosto preoccuparsi di “essere adatto ai nostri occhi e al loro benessere”. Tschichold, proprio per questo, sostiene la migliore qualità dei caratteri aggraziati, mentre le scelte della nuova tipografia (comprese le sue stesse del passato) sono coerenti con una civiltà delle macchine sostanzialmente alienante – e, al limite, legate alla medesima radice oppressiva da cui è sorto il nazismo.
Trovo la posizione di Tschichold per molti versi condivisibile e per qualcuno un po’ eccessiva, anche se la verve polemica del momento probabilmente la giustifica un po’ di più di quanto non possa essere evidente oltre sessant’anni dopo. Voglio dedicare questo post a ripercorrere brevissimamente la storia di alcuni caratteri lineari di impostazione razionalista particolarmente significativi, e il loro uso.

 

Paul Renner Futura 1927

Paul Renner, il carattere Futura, 1927

 

Testo composto in Futura

Testo composto in Futura

 

Helvetica - Studio Haas 1953

Helvetica - Studio Haas 1953

Testo composto in Helvetica

Testo composto in Helvetica

Testo composto in Akzidenz Grotesk

Testo composto in Akzidenz Grotesk

È lo stesso difetto che ha portato, sui nostri computer, a sostituire l’Arial (pressoché identico all’Helvetica) con il Verdana, che è più largo e meno sensibile quindi alla concentrazione di linee verticali. (testo composto in Arial)

 

Univers di Adrian Frutiger 1954-57

Univers di Adrian Frutiger 1954-57

Testo composto in Univers

Testo composto in Univers

Frutiger - Adrian Frutiger 1973

Frutiger - Adrian Frutiger 1973

Testo composto in Frutiger

Testo composto in Frutiger

Testo composto in Gill Sans

Testo composto in Gill Sans

Insomma, non c’è nessuna sublime semplicità in loro, e non possono essere utilizzati come manifesto di una qualche posizione. La loro complessità deriva da un intelligente ripensamento della tradizione, con tutta la sua – a sua volta – complessità. Io credo che nessuna semplicità razionale, per quanto sublimemente razionale o progressista che sia, possa corrispondere a una natura complessa come quella umana, specie quando c’è di mezzo quel mondo ancora più complesso che è quello del significato.

P.S. Ho cercato, nelle figure e nei testi, di dare un’idea il più precisa possibile dei vari caratteri e del loro effetto nei blocchi di testo. Bisogna sempre tener presente, comunque, che l’effetto di un carattere a schermo dipende sempre non solo dalla sua invenzione originale,ma anche da come quella è stata poi resa nella versione del font digitale. Inoltre, per ragioni varie tra cui certamente anche la differente risoluzione, la resa a schermo dei caratteri è sempre differente di quella a stampa.

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Di Chris Ware, o della ripetizione tragica

Chris Ware, Jimmy Corrigan

Chris Ware, Jimmy Corrigan

Le osservazioni di Thierry Groensteen sono spesso preziose, e lo sono, almeno per me, perché mi stimolano ulteriori riflessioni. È stato proprio Groensteen ha farmi capire (al suo intervento al convegno La linea inquieta, 2004, poi raccolto nel volume omonimo da me curato) la natura del tragico nel fumetto, e in particolare la natura tragica dei fumetti di Ware. Ora, trovo sul blog Conversazioni sul fumetto la traduzione di un intervento di Groensteen ancora su Ware, sul tema della ripetizione e del cambio temporale.

Groensteen fa notare come in diversi casi nelle graphic novel di Ware i personaggi si assomiglino in maniera imbarazzante, specie se padri e figli. Sotto gli occhi di tutti è poi il suo frequente procedimento narrativo, consistente nel riprodurre un identico frammento di mondo (una stanza, una lampada, un’azione…) nella diversità della sua evoluzione storica, così che l’identità di visione enfatizzi le differenze, impossibili da non notare.

Ma se l’enfatizzazione delle differenza spiega (almeno in parte) la ripetizione degli ambienti e degli oggetti nel tempo, non spiega però la ripetizione dei volti tra personaggi diversi – come un padre e un figlio. In altre parole, Ware non è semplicemente un freddo minimalista.

Una risposta più convincente sta secondo me proprio in quella natura tragica di Ware che il medesimo Groensteen ha messo in evidenza nell’intervento del 2004. Io credo che la ripetizione sia un elemento chiave proprio di questa tragicità.

La tragedia dei personaggi di Ware non sta in una vita piena di dolore, bensì in un’incapacità a conquistare una vera differenza, un’incapacità a cambiare davvero la propria vita. Di questa incapacità, la ripetizione è il simbolo più immediatamente e ossessivamente evidente: le variazioni minime che l’identità delle inquadrature mette in evidenza sono infatti messe in evidenza proprio come variazioni minime, per nulla e in nessun caso sostanziali. Persino il nostro destino è dunque quello di riprodurre il destino di nostro padre, come se nulla mai potesse cambiare!

La tragedia sta dunque nella quotidianità stessa, nella ripetizione dei gesti, nel non poter sfuggire al ripetersi dell’identico. Ware è grandioso nel descrivere questo tipo di sentimenti – ma il mondo visto attraverso di lui è inevitabilmente gelido, distaccato, spogliato di emozioni: anche quelle che vengono di fatto raccontate finiscono per perdere il proprio valore, annullato dalla tragedia della ripetizione.

Chris Ware, da Quimby the Mouse

Chris Ware, da Quimby the Mouse

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Della palude nella palude

Francesca Ghermandi, Cronache dalla palude, pag. 16

Francesca Ghermandi, Cronache dalla palude, pag. 16

Cronache dalla palude è un non-horror che fa il verso al fumetto autobiografico, mescolando la realtà e i deliri autobiografici di Silvia, una fumettista brutta e complessata, che vive una vita grottesca in un mondo assai più grottesco di lei. Naturalmente, tutta l’autobiografia è immaginata, e non ci sono relazioni tra la protagonista e l’autrice – se non quelle, forse, inevitabili in qualsiasi storia, e che permettevano a Flaubert di dire: “Madame Bovary c’est moi”.

Dunque, se il fumetto d’autore oggi è pervaso dall’autobiografia, vera o finzionale che sia, la Ghermandi ce ne mette in scena questa parodia assurda, un vero delirio di personaggi, di cui spesso non si capisce quanto siano reali e quanto inventati da Silvia. Non che importi molto, in realtà. Se c’è un filo narrativo, in questa graphic novel, non è certo quello a spingere avanti il lettore. Da questo punto di vista, la Ghermandi sembra aver studiato e rielaborato a proprio modo l’idea di Daniel Clowes di un romanzo (a fumetti) fatto di strisce, o tavole, semi-autonome, come in Ice Haven, o nel recente Wilson. Qui è tutto meno regolare e strutturato che nei lavori di Clowes, e si passa spesso senza soluzione di continuità dalle storie nella storia alla storia principale (o a quello che sembra esserlo).

Insomma, un delirio, o meglio, la parodia di un delirio. Da quando ha iniziato a disegnare, la caratteristica davvero inimitabile della Ghermandi è stata quella della deformazione verso il grottesco di forme grafiche già semplificate verso l’infantile, associate al contempo a una ancora più grottesca accumulazione di figure nello spazio, come in un incubo persistente ispirato ai cartoni animati. Ora, la deformazione è arrivata a coinvolgere anche il racconto. Si ha sempre il sospetto, infatti, leggendo Cronache dalla palude, di essere sul punto di trovare il bandolo della matassa, il filo narrativo che ci condurrà fuori dal guado – e invece in questa palude narrativa si resta sino alla fine, e anche dopo la fine.

Potremmo dire che il mondo in cui Silvia vive, vero o immaginato che sia, è un mondo terribile, brutto, stupido, atroce. Se la Ghermandi sta dipingendo, attraverso questo, il nostro mondo, l’immagine che implicitamente ne dà è in egual misura terribile, brutta, stupida, atroce. Ma poiché il suo testo è anche la parodia di un fumetto autobiografico, forse questo mondo così (ridicolmente) cupo si trova solo (o principalmente) nella testa degli artisti (fumettisti, pittori, scrittori o altri che siano), destinati a vederlo così. Naturalmente anche la Ghermandi stessa appartiene, e sa di appartenere, a questa medesima categoria.

Ride di se stessa, dunque? Be’, sì, anche, di sicuro. Ma altrettanto certamente non soltanto. Comunque sia, nel leggere queste sue pagine ci sentiamo tutti turbati, oppressi, senza scampo, e insieme ferocemente ridanciani. Erano versi di De André quelli che dicevano: “Ci sarà allegria / anche in agonia / col vino forte / resterà sul viso / l’ombra di un sorriso / tra le braccia della morte”.

Cronache dalla palude è il vino forte prodotto da Francesca Ghermandi.

Francesca Ghermandi, Cronache dalla palude, pag. 164

Francesca Ghermandi, Cronache dalla palude, pag. 164

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Di quel leggere che è anche guardare

Infografica da feltron.com

Infografica da feltron.com

 

L’argomento di questo post mi si è per così dire imposto, come succede quando troppe coincidenze spingono negli stessi giorni sul medesimo tema. Proprio, infatti, mentre mi è ricapitato sotto mano La lettera uccide di Giovanni Lussu (il quale è a sua volta citato nel primissimo post di questo blog, intitolato appunto Guardare e leggere – esattamente come il libro che uscirà a gennaio da Carocci, e che era stato da me pensato in prima istanza per una collana diretta dallo stesso Lussu), leggo nel blog di Luisa Carrada una segnalazione di un altro post di Antonio Larizza intitolato Riscrivere la lettura, post che inizia citando Ivan Illich nel suo libro che mi è più caro (Nella vigna del testo). E mi accorgo poi che il primo degli articoli (suoi), collegati al tema, che la Carrada linka nel suo post è una specie di recensione del libro di Lussu; e il cerchio si chiude. Ed eccomi qui.

Il tema è la scrittura, ma non quella alfabetica. Chi conosce il lavoro della Schmandt-Besserat (di cui abbiamo parlato in questo post), sa che per diversi millenni il mondo antico ha utilizzato forme di scrittura senza associarle necessariamente alla parola, e sa di conseguenza che la scrittura alfabetica non è la scrittura tout court, ma solo un sistema che noi troviamo particolarmente comodo – ma anche il nostro giudizio è influenzato dal fatto che le nostre stesse attività grafico-scrittorie sono state condizionate a loro volta dalla scelta alfabetica, per cui c’è qualcosa di lapalissiano nel fatto che troviamo comodo un sistema di scrittura che ci permette di fare più facilmente quello che ci siamo abituati a fare attraverso quel medesimo sistema di scrittura! Proprio nel libro di Lussu, mi pare, ho ritrovato un’informazione che avevo già incontrato altrove, sul fatto che, a parità di anni di studio, i bambini inglesi imparano l’ortografia di un numero di parole inferiore a quello dei bambini cinesi. Se dunque il primato della scrittura alfabetica sta nella presunta semplicità di apprendimento, questo non vale davvero per tutte le lingue che ne fanno uso: inglesi e francesi ne sanno qualcosa.

Ma il punto sollevato da Larizza non è questo. È piuttosto che ci stiamo avviando (e sempre di più con le nuove tecnologie informatiche, iPad in prima linea) verso una scrittura visiva di tipo grafico, destinata ad accompagnare la scrittura alfabetica con la sua maggiore immediatezza e precisione (almeno per certi scopi). È il tema dell’infografica, cioè di come trasmettere l’informazione attraverso schemi, diagrammi e tabelle, grafici, grafi, o comunque figure facilmente e correttamente interpretabili, che siano anche nel contempo attraenti e interessanti alla vista.

Non c’è dubbio che la direzione sottolineata da Larizza sia corretta, anche se mi sembra eccessivo l’accento che (da giornalista) lui mette sulla novità della cosa. L’infografica (o i suoi predecessori) esiste in verità da quando esiste la comunicazione visiva – cioè da prima della scrittura. Ed è vero (come lui stesso ci ricorda) che le limitazioni dovute alla tecnica della stampa a caratteri mobili l’hanno portata, da Gutenberg in poi, un po’ in secondo piano – ma non l’hanno mai esclusa del tutto (basterebbe guardare cosa facevano i gesuiti tra Cinque e Seicento nei loro libri educativi – come ci spiega bene Andrea Catellani in un libro di cui parlerò prossimamente, Lo sguardo e la parola. Saggio di analisi della letteratura spirituale illustrata). Le condizioni di fruizione erano diverse (pochi e scelti lettori, lunga vita culturale della pubblicazione), ma questo non mi sembra così rilevante.

Il problema, secondo me, non sta tanto dalla parte della fruizione, bensì da quella della produzione. Una buona infografica, anche accompagnata da pochissime didascalie, è spesso più informativa e più immediatamente comprensibile delle parole che servirebbero per descrivere i medesimi dati. Certo, non qualsiasi discorso si presta alla visualizzazione grafica (e ci sono discorsi che si prestano benissimo a visualizzazioni che non sono infografiche – basta pensare ai fumetti), però indubbiamente se è opportuno usarla e ne abbiamo le capacità, dovremmo sentirci moralmente obbligati a farne uso; proprio come è moralmente giusto scrivere nella  maniera più semplice e comprensibile possibile, rispetto a quello che vogliamo esprimere.

Ma il punto sta proprio in questa capacità di fare uso della grafica. Gli esempi che porta Larizza (“i designer-giornalisti Andrew Vande Moere (www.infosthetics.com), Nicholas Feltron (http://feltron.com) e David McCandless (www.davidmccandless.com“) sono giornalisti che sono pure grafici di qualità, o che hanno il sostegno di grafici di qualità. Se l’argomento del discorso è la scrittura giornalistica, allora tutti dovrebbero fare come loro, ogni volta che sia opportuno.

Ma la scrittura investe ben altro universo, oltre al giornalismo. La sua corrispondenza (più convenzionale di quanto non si creda) con la lingua parlata può crearmi un’illusione di presenza rispetto alla voce di chi scrive, che rivela la sua efficacia, per esempio, nella posta, anche elettronica. Mi domando se i parlanti (e scriventi) cinesi percepiscano lo stesso effetto: in buona misura certamente sì, perché la scrittura cinese ha comunque una forte componente fonetica. Ma forse, in qualche altra misura, di meno, specie quando si sa che lo scrivente parla un dialetto differente dal nostro.

Ma lasciamo perdere anche i contesti in cui il legame della scrittura con la voce sono rilevanti. Possiamo immaginare, per sempio, una corrispondenza commerciale che accompagni a qualche formula verbale di cortesia e inquadramento del tema una serie di infografiche documentative o esplicative. Non c’è bisogno di aspettare il futuro o l’iPad per questo: già si fa.

Tuttavia, chi scrive una lettera commerciale di questo tipo non può sperare di avere a disposizione un grafico di qualità, se già non lo è lui stesso. Il problema diventa allora quello di poter disporre di strumenti grafici sufficientemente standard, facili da utilizzare e versatili nell’applicazione, così che il nostro scrivente se li ritrovi già nella propria competenza (avendoli comunque imparati a utilizzare, ma con lo stesso tipo di diligenza con cui si impara a scrivere).

Il vantaggio della scrittura non sta solo nella sua potenza espressiva, ma anche nella meccanicità (e quindi facilità) della sua applicazione. Scrivere bene è difficile, e anche produrre infografica di qualità lo è; ma così come per la stragrande maggioranza delle applicazioni quotidiane è sufficiente saper scrivere, bene o meno bene che sia, anche per la stragrande maggioranza delle applicazioni quotidiane di infografica dovrebbe essere sufficiente saper usare correttamente degli strumenti standard, di chiara comprensibilità.

Solo se questi strumenti standard esistono, ci si può riferire a loro con l’espressione “scrittura”, perché la scrittura è tale soltanto se si basa su una convenzione sufficientemente diffusa, e sulla quale si va a stagliare (magari per modificarla) qualsiasi novità si cerchi di introdurre.

Questi strumenti, nell’era informatica, esistono già in qualche misura. Il problema di chi li propone dovrebbe essere quello di pensarli all’origine come strumenti di qualità, efficienti e comprensibili, definendo anche una serie di varianti stilistiche comunicativamente equipotenti (proprio come i diversi font in cui è possibile scrivere i medesimi caratteri di scrittura).

Il grafico che inventa modalità nuove di comunicazione infografica per scopi informativi specifici è necessario e continuerà a esserlo – ma è ancora più importante che queste innovazioni si possano catacresizzare quando lo meritano e diventare a tutti gli effetti linguaggio, scrittura. Anche questo riconoscimento e diffusione di standard è un lavoro da grafico. Dalla sua qualità dipende l’universo visivo della scrittura di domani.

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Della traccia e del gesto, in pittura e fotografia

Ho concluso il post sulla fotografia di giovedì scorso con un’osservazione sulle tracce della procedura di produzione lasciate da Sarah Moon sulle sue fotografie. È un discorso molto più vasto di quanto si potrebbe pensare.

Anche in pittura le tracce del processo di produzione possono essere una componente importante del discorso di un dipinto. Nell’osservare un dipinto di Frans Hals, per esempio, è inevitabile restare sorpresi dal modo in cui il pittore costruisce effetti di realistica vivacità facendo uso di tratti di colore così grossi da rendere palesi i suoi stessi gesti col pennello. In altre parole, l’effetto complessivo dell’opera non è dato solo dall’oggetto raffigurato e dalla qualità della rappresentazione, ma anche dall’ostentazione del gesto del pittore, che non nasconde più la sua tecnica, ma anzi, da vero virtuoso, ce la sbatte davanti agli occhi.

Se guardiamo dei tratti intendendoli in questo modo, però, non stiamo più analizzando né le qualità figurative né quelle plastiche dell’immagine. I tratti vengono intesi come tracce, registrazioni di un movimento, impronte di gesti. Certo che, al contempo, essi vanno intesi anche per le loro qualità figurative e plastiche, ed è proprio la dialettica tra questi due differenti modi di considerare i medesimi tratti a caratterizzare (in diversa misura) la produzione pittorica di diversi secoli sino a noi.

Tradizionalmente, tuttavia, la pittura è quella che è proprio perché le considerazioni figurative e plastiche sono dominanti, rispetto a quelle che riguardano le tracce dei gesti pittorici. La rivoluzione dell’astrattismo cambia i rapporti tra figurativo e plastico, rendendo dominante quest’ultimo, ma non modifica la rilevanza delle tracce. È solo con l’invenzione del dripping di Jackson Pollock che i rapporti si ribaltano davvero, e il valore di traccia dei suoi segni diventa superiore al loro valore plastico (quello figurativo è pressoché nullo): un dipinto di Pollock va preso prima di tutto come traccia della danza del suo autore, attraverso le controllate sgocciolature del pennello.

La fotografia nasce già come traccia, impronta. La luce riflessa dagli oggetti del mondo lascia il suo segno sull’emulsione fotografica (o, oggi, sulla superficie sensibile delle macchine digitali). Per fare questo, però, c’è bisogno dell’operazione di qualcuno che inquadri la porzione di mondo da fotografare, e scatti nell’istante prescelto. La foto, di conseguenza, porta in sé non solo la traccia luminosa della parte di mondo fotografata, ma anche la traccia dello sguardo del fotografo, che ha scelto la porzione di spazio e di tempo a cui limitare il proprio sguardo. Proprio come in pittura la traccia del gesto può essere ostentata (Frans Hals) o nascosta (Jan van Eyck), pur essendo comunque presente, anche in fotografia la traccia della presenza e dell’atto di fotografare può essere resa più o meno evidente.

Però, messe le cose in questi termini, si deve sottolineare anche la differenza che emerge tra pittura e fotografia. Nell’una la traccia del gesto si associa a un’immagine che non comunica come traccia, bensì come ipoicona, cioè per somiglianza costruita. Nell’altra la traccia del gesto si associa a un’immagine che è a sua volta traccia, impronta del mondo.

Nel post su Sarah Moon abbiamo visto come la fotografa aggiunga particolari tracce gestuali alle tracce del mondo che sono le sue foto, in modo da rendere evidente la sua presenza, la presenza dell’autrice e delle sue scelte – insomma, per dirla in linguaggio semiotico, ostentando le marche del soggetto dell’enunciazione. Non è più solo l’occhio della fotografa a essere presente alle sue foto, ma l’intero controllo del processo: questa presenza, tuttavia, non viene mostrata, bensì “tracciata”. Paradossalmente, le foto della Moon appaiono dunque ancora più vere di qualsiasi foto “standard”; sono più vere perché, oltre a mostrarci l’oggetto e a darci traccia dello sguardo del fotografo sull’oggetto, ci esibiscono anche le tracce del processo di produzione della foto. Viceversa, un dipinto di Frans Hals non ci appare più vero per l’ostentazione della traccia della mano; magari più bello, efficace, vivace… Forse un Pollock invece ci appare più vero, ma questo succede proprio perché Pollock ha ribaltato la gerarchia di valori, e ha costruito una pittura più simile (nella modalità di comunicare) alla fotografia.

Ora, che ne sarà di tutto questo quando il fotoritocco digitale avrà eliminato non solo ogni implicazione di una presenza del fotografo alla scena fotografata (perché tutto potrebbe essere stato montato in postproduzione), ma anche ogni possibilità di lasciare delle tracce del processo produttivo (perché anche qualsiasi traccia potrebbe essere un falso)? L’elaborazione digitale delle immagini apre grandi possibilità, ma ne chiude anche: dove tutto è possibile con le stesse categorie di gesti, niente può più essere interpretato come traccia di un gesto specifico. Dove tutto può essere molto facilmente falsificato senza possibilità di verifica, la distinzione tra vero e falso perde qualsiasi senso.

Per chi ha letto Il fotografo di Guibert e Lefèvre, cosa ne sarebbe del fascino di un libro come questo, tutto giocato sul contrasto tra immagini costruite (le vignette disegnate) e immagini-testimonianza (le foto), se avessimo ragione di sospettare che queste ultime sono tutti fotomontaggi realizzati con Photoshop?

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Zuppa d'Anatra

Zuppa d'Anatra

Una comunicazione

Per chi abita a Bologna e dintorni, sabato 30 alle 15.30, presso laLibreria Edicola Pinakes (via Nazionale 38/2, Pianoro – in realtà a Carteria di Sesto, 5 minuti di macchina dalla città), discuterò sui due miei volumi Breve storia della letteratura a fumetti, e Il pensiero disegnato. Saggi sulla letteratura a fumetti europea.

Ci sarà anche (mi dicono) la Sacher Torte, che è una mia amica di buon gusto e che si concede a tutti.

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Degli inchiostri ossessivi di Charles Burns

 

Charles Burns, Black Hole

Charles Burns, Black Hole

 

Charles Burns abita stilisticamente un pericoloso interstizio tra l’horror e l’orrore. Dal lato di Scilla c’è l’horror, un genere letterario (cinematografico, fumettistico…) che ha i suoi stereotipi e i suoi passaggi obbligati, che ha prodotto capolavori e paccottiglia, ma che qualsiasi lettore ormai sa come affrontare, godendo di quel brividino, ridendo di quell’eccesso, ma comunque senza troppo coinvolgimento: tutto è davvero troppo irreale per crederci davvero. Dal lato di Cariddi c’è invece l’orrore, che è quel sentimento che proviamo davvero solo quando siamo davvero intimamente coinvolti, e non possiamo fare a meno di identificarci (se già non ne siamo la vittima).

Charles Burns non risiede, in verità, né presso Scilla né presso Cariddi. Sta invece lì, nel mezzo, oscillando pericolosamente ora verso un mostro ora verso l’altro. A volte quello che fa sembra horror, perché ne ritroviamo gli elementi, ma poi ci riconosciamo anche un’ironia troppo sottile, e un’angoscia troppo coinvolgente. A volte i suoi fumetti sembrano evocare l’orrore, ma poi non ci arrivano, e si fermano all’inquietudine, all’ansia del non capire quanto quello che vedo è realtà, quanto è sogno, quanto è delirio e quanto è metafora.

I suoi inchiostri sono magistrali, e determinanti per ottenere questo effetto oscillante: rendono le immagini oscure e pesanti, come nell’horror, ma sono poi troppo levigati e ossessivi per appartenergli. Sono gli inchiostri di uno sguardo lucido che osserva un abisso di orrore senza lasciarsi coinvolgere, ma con piena e sentita consapevolezza di quello che vede. Sono gli inchiostri iperrealistici, e insieme straniati, che corrispondono a racconti ugualmente iperrealistici e straniati, dove si rappresenta un mondo in cui non è il sonno bensì l’insonnia della ragione (e della quotidianità che ne consegue) a generare mostri. The American Way of Life, con il suo mito razionale e scientista, ha fatto figli, e sono i personaggi e le vicende messe in scena da Burns.

Se siete dalle parti di Parigi tra il 17 novembre e il 5 febbraio, fate un salto a Galerie Martel, e vedrete in diretta che cosa ne è di Tintin quando attraversa il sogno americano, in versione Burns.

 

Charles Burns, Black Hole

Charles Burns, Black Hole

 

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Della fotografia, della postproduzione e del realismo

Sarah Moon. Berlin 1995

Sarah Moon. Berlin 1995

La fotografia è un indice sul reale, si è detto. C’è del vero, ma a patto di valutarne le conseguenze. Se è un indice, c’è qualcuno che indica. E non si tratta solo di un indice, perché l’immagine è lì davanti a me, e il reale è in qualche misura riprodotto; e l’indicare, che indubbiamente c’è, è in realtà un guardare: il guardare del fotografo che ha deciso cosa inquadrare e ha scelto l’attimo giusto per scattare la foto, un guardare che corrisponde al mio guardare di fruitore, che si ritrova solidale nello sguardo con il fotografo.

Tuttavia, affinché io riconosca tutto questo, devo già sapere, almeno a grandi linee, qual è il processo di produzione di una foto. Se non lo so, non ho i mezzi per distinguere una foto da un dipinto, e posso pensare che si tratti di un dipinto particolarmente dettagliato: scompare dalla mia consapevolezza, quindi, tutta quella componente del discorso dell’immagine che si basa sul fatto di essere un’impronta del reale – per quanto mediata dall’azione del fotografo, che è quella che rende discorso questa impronta.

Nonostante tutto questo, e nonostante il fatto che l’atto cruciale della produzione di una foto sia la fissazione dello sguardo del fotografo (ben diverso da quello che succede con un dipinto, in cui lo sguardo del pittore è mediato dalla lenta procedura costruttiva manuale), ci sono foto a cui la postproduzione aggiunge molto, e che non si risolvono nel semplice essere un’impronta resa discorso dalle scelte di sguardo del fotografo.

La fotografia di Sarah Moon, per esempio, si basa su una serie di operazioni di postproduzione che alterano in varia misura l’effetto di realismo. La foto viene a volte sfocata, a volte mossa, a volte graffiata… Molto spesso le vengono lasciati (o aggiunti) i margini, che mostrano l’area di confine con la parte di pellicola non impressionata; e non di rado, come nella foto che ho messo come esempio, ci sono altre ricercate “imperfezioni”.

L’effetto cercato e ottenuto, spesso, è quella di una foto antica, primitiva, su cui la tecnica ancora incerta ha lasciato le tracce, come sui dagherrotipi dell’Ottocento. L’immagine, per quanto reale, ci sembra così provenire da un’antichità temporale favolosa, quasi appartenesse a un diverso dominio del reale.

Nelle sue foto, spesso struggenti, Sarah Moon mette in scena un’imperfezione tecnica (che è in realtà il frutto di una originale ricerca espressiva) che ci costringe a focalizzare non solo l’oggetto ritratto, ma anche le condizioni della sua presa. Non c’è solo la compresenza del soggetto con il fotografo: c’è anche questo favoloso distacco, questa irrealtà sovraimposta alla realtà.

Ma se – ignoranti di fotografia come non lo è ormai nessuno – scambiassimo le foto di Sarah Moon per dipinti, tutto questo non avrebbe modo di manifestarsi. È proprio perché conosciamo il procedimento tecnico della fotografia che possiamo capire le sue alterazioni e intuirne il senso. È proprio perché sappiamo che cosa succede a una foto quando invecchia, che possiamo riconoscere questa evocazione di antichità.

Sarah Moon costruisce il suo universo irreale combinando due effetti di realtà: quello standard e atteso della foto come impronta del reale, e quello della foto come esito di un procedimento pratico. Se nel primo effetto l’autore frequentemente resta nascosto (in quanto la foto può facilmente essere assunta come qualcosa di oggettivo: pura impronta del reale, come tipicamente avviene per le foto intese come testimonianza), nel secondo egli (ella) emerge invece con energia e passione.

Proprio come i dipinti di Pollock sono la traccia materiale della sua danza sopra la tela con il pennello che sgocciola, le foto della Moon sono la traccia del suo lavoro nello sviluppo e nella postproduzione. Comunque tracce, impronte, come in ogni foto che si rispetti. Impronte dell’autore, tuttavia, che non si possono ignorare.

Il tema è troppo succoso. Ci tornerò sopra presto.

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Della fotografia e dell’erotismo (segue)

 

Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538

Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538

 

 

Francisco Goya, La maja desnuda, c.a 1795

Francisco Goya, La maja desnuda, c.a 1795

 

 

Edward Weston, Nude. Oceano 1936

Edward Weston, Nude. Oceano 1936

 

Qualche giorno fa sono intervenuto al congresso dell’Associazione Nazionale di Studi Semiotici, dedicato a “La fotografia. Oggetto teorico e pratica sociale”, con un intervento dal titolo “L’indice indiscreto”, il cui argomento era l’erotismo in fotografia. L’intervento espandeva alcuni temi che ho già affrontato sinteticamente anche in questo blog, in due post dedicati ai nudi di Edward Weston (qui e qui).

L’intervento ha scatenato un certo dibattito, soprattutto da parte di alcuni partecipanti che si occupano di Storia dell’Arte, che mi hanno obiettato che anche la pittura implica la presenza, e che l’eventuale maggiore eroticità della foto di Weston non è data dalla presenza implicata del fotografo, e dalla coincidenza del suo sguardo con il mio di osservatore, come sostenevo io, bensì da altre caratteristiche della foto, come il fatto che la modella viene mostrata immersa nel proprio piacere (di corpo nudo al sole), o anche, in parte, per la presenza della sabbia.

Vorrei perciò aggiungere alcune osservazioni, che erano in parte implicite e in parte troppo poco sottolineate nel mio intervento, per chiarire la mia posizione, e perché penso che siano comunque interessanti per l’analisi del discorso della fotografia.

Intanto, io credo che ci sia qualcosa che distingue la fotografia dalla pittura, che rende le modalità del discorso dell’una differenti (in parte, ovviamente) da quelle del discorso dell’altra. Non so se sia corretto o opportuno definirlo uno specifico fotografico, che è un’espressione vecchia, che fa forse riferimento a modalità diverse di indagine sulle immagini. Certo, la fotografia costituisce un campo, perché ogni nuova proposta fotografica è sì in dialogo con le proposte del campo del visivo in generale, ma lo è molto più specificamente con le altre proproste del campo della fotografia stessa. D’altra parte, la fotografia è un campo piuttosto facile da definire, persino con una certa precisione, perché nella sua enorme varietà di pratiche e risultati resta accomunata dalla presenza di uno strumento tecnico, la macchina fotografica, che registra l’immagine del mondo su un supporto, quale che esso sia.

L’uso di questo strumento prevede delle procedure, la più ampiamente comune delle quali richiede che il momento cruciale della produzione sia quello in cui una persona, il fotografo, sceglie le condizioni ottiche, il quadro e il momento preciso in cui scattare la foto. Certo, potrà aver preparato la situazione prima (proprio come il pittore) o potrà lavorare di post-produzione dopo (in misura comunque largamente minore del pittore); tuttavia, mentre il gesto del pittore è un gesto costruttivo, che prevede una sequenza in cui qualsiasi microscelta è una scelta del pittore e della sua mano, il gesto del fotografo consiste sostanzialmente nella scelta di uno sguardo, sanzionato dal clic che lo blocca per sempre. Il pittore può alterare (migliorare o peggiorare) le fattezze e la posizione della modella in qualsiasi momento; il fotografo (se non usa Photoshop, ma qui stiamo ancora parlando di Weston e di una fotografia pre-digitale) no, o solo in misura molto ridotta, ed esponendosi al rischio di essere riconosciuto come qualcuno che sta operando un falso.

Per questo, anche se la compresenza di autore e modella nuda, con tutte le sue implicazioni erotiche, c’è in pittura proprio come in fotografia, la fotografia me la focalizza molto di più, perché coglie – per la sua stessa natura produttiva – esattamente quell’attimo in cui la relazione erotica di sguardo si produce, e di conseguenza riproduce nel clic per la futura fruizione. Una fruizione a cui l’identità di sguardo è inevitabilmente presente, potendo evocare, per questo, in maniera sineddochica, anche altre qualità della presenza: le sensazioni tattili (l’aria, la sabbia), olfattive e uditive, oltre a quelle psicologiche della vicinanza.

Se osserviamo adesso le due figure femminili ritratte da Tiziano e da Goya, ci possiamo accorgere con facilità che il loro sguardo è rivolto verso di noi. Questa è una situazione molto studiata dalla semiotica della pittura, e in particolare dalla teoria dell’enunciazione: lo sguardo della figura rivolto a noi ci mette in gioco, ci rende destinatari di un discorso di sguardi. E se il tema dell’immagine è erotico, questo sguardo è una inequivocabile chiamata in gioco.

La ragazza della foto di Weston invece non ci guarda. Appare immersa in sé, nel proprio piacere, richiamato anche dalla posizione delle gambe. Ma non ci guarda anche perché non ha bisogno di guardarci: infatti, poiché questa è una foto, è già implicato in essa uno sguardo che è quello del fotografo che coincide con il nostro. Se la modella ci guardasse (come peraltro succede in tante altre foto, anche di tema erotico) l’effetto sarebbe quello – molto più forte – di un incrocio di sguardi.

Ma a Weston non interessa un coinvolgimento erotico così forte. La bellezza delle sue foto sta in questa irrisolvibile oscillazione tra una comunque conturbante presenza erotica e una costruzione formale che rimanda a quelle della pittura, e che ha imparato da Stieglitz, cercando di arricchirla di elementi nuovi.

Quanto alla sabbia, e al suo valore, c’è, e sicuramente contribuisce alla sensazione di abbandono della modella. Ma la sabbia è anche un operatore di costruzione di forme, come si vede bene dall’accostamento di queste altre due foto (qui sotto) che provengono dalla stessa serie “Oceano” del 1936. Le curve delle dune della prima foto rinviano alle curve della modella nella seconda, e viceversa. L’erotismo si carica di un senso panico, di rimando alla natura. E anche la vicinanza fonetica (un facile anagramma) di dunes e nudes ha forse parte in questo.

 

 

Edward Weston, Dunes. Oceano, 1936

Edward Weston, Dunes. Oceano, 1936

 

 

Edward Weston, Nude. Oceano, 1936

Edward Weston, Nude. Oceano, 1936

 

Naturalmente anche per quest’ultima immagine c’è un riferimento classico. Ed eccolo qui sotto. (E pure qui lo “sguardo in macchina” della pittura scompare quando la “macchina” è davvero presente)

 

 

Diego Velazquez, Venere allo specchio, 1644

Diego Velazquez, Venere allo specchio, 1644

 

 

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Di un addio e del suo diario

 

Pietro Scarnera, Diario di un addio, pag. 52

Pietro Scarnera, Diario di un addio, pag. 52

 

Dev’essere davvero difficile raccontare di un dolore grande e che dura degli anni, come può essere l’agonia, in coma, di un padre. È così difficile che tendiamo a perdonare, in apparenza, a chi affronta questi problemi, le sbrodolature drammatiche e le cadute di tono. Comprendiamo che di fronte a un dolore così grande, qualche vaneggiamento o vacillamento dell’autore è del tutto comprensibile. In segno di rispetto, perciò, taciamo, anche di fronte a noi stessi.

Ma alla lunga, gli errori narrativi e le lungaggini restano tali. Al doveroso rispetto si sostituisce la dimenticanza, che è un modo soffice e indiretto di dichiarare che qualcosa, narrativamente, non va. Alla fine, dunque, narrare un grande dolore può essere un modo per ottenere un facile apprezzamento alla breve (al di là delle motivazioni psicologiche che ci spingono a farlo anche indipendentemente da quello), però alla lunga non è meno difficile che raccontare qualsiasi altra cosa – anzi di più, perché la necessaria distanza critica dell’autore dai fatti di cui parla è qui difficilissima.

Insomma, più volte ho preferito non esprimermi rispetto a lavori con queste caratteristiche, perché una nota negativa sarebbe sembrata non rispettosa del dolore – o sarebbe stato troppo complicato distinguere e spiegare…

Per questo sono invece contento di aver voglia di dire due parole sul Diario di un addio, opera prima di Pietro Scarnera (lo pubblica Comma 22). È un libro raccontato sottotono, con uno stile che non dimostra in apparenza una particolare originalità, ma che padroneggia comunque molto bene certi modi di raccontare a fumetti che caratterizzano il presente.

Però forse il segreto sta proprio qui, in questo non volersi distinguere stilisticamente, in questa narrazione piana, con un disegno molto semplice, dove solo a fatica ci si accorge che narrazione e disegno sono invece studiati con estrema cura per evitare i toni più tragici, o quelli più patetici – mentre emerge bene una dimensione affettuosa da cui la tragedia (quella vera) viene fuori quasi naturalmente, senza spinte.

Non ci sono, qui, le divagazioni oniriche che rendono favolosa l’epilessia di David B. C’è solo un quotidiano e triste confrontarsi con l’immobilità del coma, raccontato e disegnato con sensibilità, con una bella scelta di momenti rilevanti, senza pesantezza, senza cadute di tono.

Perché raccontare queste cose a fumetti, invece che attraverso un solido e assai meglio riconosciuto romanzo? Certo, non c’è dubbio che si può fare l’una come l’altra cosa; ma le sfumature di registro del fumetto sono inevitabilmente diverse da quelle del romanzo. Nel fumetto è richiesta al racconto maggiore concisione, e una serie di effetti espressivi sono demandati al segno grafico e alla sua ripetizione. Nel fumetto di Scarnera anche il segno grafico è “ospedaliero”, come tutto; e, come tutto, sembra appartenere a una realtà separata. E l’ostensione degli oggetti e delle situazioni (anziché la descrizione che avremmo in un romanzo) crea un distacco, un’oggettivizzazione, che alla parola è molto più difficile ottenere.

Il racconto a fumetti ha sempre (almeno) due voci, quella del racconto (che ha un soggetto narrante alle spalle) e quella dell’immagine (che invece non ce l’ha). Certo, ambedue sono prodotte dall’autore (o dagli autori), ma l’effetto di coinvolgimento di un soggetto narrante è differente, e il raccontare a fumetti è il risultato della loro continua giustapposizione e combinazione. Un effetto naturalmente polifonico, insomma; qualcosa che il romanzo può sì ottenere, ma non con la stessa naturalezza.

Tornando a Scarnera: adesso aspettiamo al varco l’opera seconda.

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P.S. Se volete informazioni isulla mostra che Komikazen sta dedicando al libro di Scarnera, potete guardare questa pagina de Lo Spazio Bianco.

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Delle interiora dei palazzi di Milano

Gabriella Giandelli, Interiorae pag. 16

Gabriella Giandelli, Interiorae pag. 16

Mi viene da dire che la cosa più bella dell’ultimo lavoro di Gabriella Giandelli sono le sue immagini dei palazzi di Milano. I palazzi sono quelli brutti, squallidi, anonimi, che pullulano non solo nel capoluogo lombardo, ma che lì hanno uno squallore ancora più ottenebrante che altrove. Lo dico proprio perché io davvero non sono un amante di quel tipo di squallore, e quelle zone di Milano mi mettono tristezza, depressione, angoscia. Tuttavia, quando li disegna la Giandelli, persino i palazzi milanesi sono belli.

Eppure non sono la cosa più bella di Interiorae, che, dopo alcuni album parziali, esce adesso finalmente nella sua completezza da Coconino. C’è ancora di meglio in quelle pagine; e i palazzi ne sono comunque una buona metafora. Se non le raccontasse la Giandelli, forse le storie che si agitano nelle interiora di uno di questi palazzi sarebbero brutte, squallide, tristi, angosciose, depressive proprio come il palazzo che le ospita. E invece appaiono, in questo libro, solo meravigliosamente, struggentemente malinconiche.

Persino il babau buzzatiano che si nasconde nelle viscere del palazzo, e vive dei sogni dei suoi abitanti, è diventato buono, come tutti.

Sarà il disegno, sarà il modo di raccontare, ma tutti i personaggi di questo libro appaiono buoni, in qualche modo dei miti soverchiati dal male di vivere. Eppure si intuisce che li si potrebbe raccontare anche in un altro modo, enfatizzando i loro aspetti negativi, perversi, cattivi – quello che fa, per esempio, nei suoi lavori, un Riccardo Mannelli, uno straordinario disegnatore del male, nei cui disegni tutto – ma davvero tutto – è perverso, e niente si salva.

La Giandelli, al contrario, sembra salvare tutto – e in questo sta la meraviglia del suo raccontare. Sarà il suo disegno vagamente bambineggiante, un po’ tendente a una straniante piattezza decorativa, dove imperversano i toni pastello. Ma non è il rosolio della vecchia zia, di buon sapore ma sempre troppo dolce. Qui l’amarezza serpeggia, e verrebbe fuori pesantemente se non ci fosse questo romorio continuo delle forme morbide, dei colori sfumati, del racconto sognante. E se non ci fosse questo Harvey affettuoso, che guarda e commenta, e si prende cura del babau buzzatiano nascosto.

È una storia gentile, mi viene da dire, una storia di affetti che resistono, a dispetto di tutto, a dispetto del dolore e della morte, che ci sono e si sentono, e vincono pure. Non una storia consolatrice, ma una storia, dicamo così, pensata a pastelli. Ecco, forse, sì: se siete capaci di pensare il dolore a pastelli, magari potete seguire la strada indicata da questo libro.

Gabriella Giandelli, Interiorae pag. 25

Gabriella Giandelli, Interiorae pag. 25

(È una strada che in questi giorni porta a Parigi, alla Galerie Martel, dove si è appena aperta una mostra dedicata a Gabriella Giandelli – dopo quelle di Thomas Ott, Robert Crumb, Roland Topor, José Muñoz, Lorenzo Mattotti, Tomi Ungerer, Art Spiegelman, Milton Glaser e Alberto Breccia. Se non vi convincono le mie parole, magari lo farà il confronto con questi bei nomi.)


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Grazie Charlie

Schulz, Peanuts, 1972

Schulz, Peanuts, 1972

Mi rattristo (con mio figlio) per la fine di Magico Vento. Mi entusiasmo per quasi ogni Moebius. Ho difeso il Dylan Dog dei tempi migliori. Quasi ogni numero di Julia lo commento con mia moglie. Continuo a pensare che alcune strisce di Mafalda a volte siano importanti almeno quanto i libri minori di Marx. Ancora mi commuovo per Alack Sinner. Se vedo un salame caduto in terra non penso a uno chef distratto ma voglio credere che sia passato di lì Jacovitti (dimostrazione che a volte i reazionari sono sovversivi). Come ogni giornalista anche io per un certo periodo ho creduto di essere Clak Kent… e voi capite di cosa sto parlando vero? Non è un uccello e neppure un aereo. Uno dei miei maestri di sarcasmo è Curls. Se provassi a indossare – non lo farò – gli orrendi panni dei militari argentini… capirei bene perchè diedero la caccia agli autori dei migliori fumetti. Altan a volte è il mio biglietto da visita ma ogni tanto potrebbe essere Pazienza. Passano gli anni ma Ellekappa resta divina ma la Bretecher scordar no, no, non si può. E quando facevo volantini politici ho usato persino Tex (ehi Rocco ti ricordi?). Di continuo scopro, riscopro, capisco in ritardo, uso, godo, consiglio, inquadro meglio, rileggo – o qualche volta detesto – fumetti, nuvole disegnate, le diversamente scritte storie.
Tutto questo non sarebbe stato possibile se un giorno in edicola non avessi visto spuntare una rivista che si chiamava Linus. Se non mi fossi subito innamorato in primo luogo di quella coperta, della ragazzina con i capelli rossi, del povero Ciccio (Brown), del cane più pazzo mai visto, della Lucy “psichiatra” e pertfida come di tutto il resto della banda di Schulz. Grazie Charlie (non Brown ma il papà di tutto)
Io sono nato il 3 ottobre 1948 mentre la prima striscia di Charlie Brown  usciva il 2 ottobre 1950. Siamo quasi coetanei ma soprattutto due bilance. Dunque te lo chiederò schiettamente Charlie: anche tu hai un omonimo che ti perseguita?

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Questo post è stato indubbiamente scritto da Daniele Barbieri, però non da me (credo).
Il mio post per il compleanno dei Peanuts si trova, in via eccezionale, qui, sul blog di Daniele Barbieri (con auguri di buon compleanno anche a lui – dopodomani, però).
Ovviamente, c’è un’altra ipotesi: esiste un danielebarbieri iperuraneo, che è l’idea platonica di tutti i danielebarbieri terreni. Se date credito a questa ipotesi, allora ambedue i post (iperuranei) li ha scritti lui.

P.S. Il db che scrive in questo blog celebrerà pubblicamente il compleanno dei Peanuts domenica 3 ottobre alle 18.30 a Milano, al teatro Tieffe Menotti (ex Teatro dell’Elfo) in via Ciro Menotti 11, insieme a Fulvia Serra, Sergio Staino, Annamaria Gandini, Bruno Cavallone (primo traduttore dei Peanuts) e Alessandro Brambilla (curatore dell’archivio di Gandini).

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Di Daniel Clowes e del ridicolo

Daniel Clowes - Wilson, pag. 36

Daniel Clowes - Wilson, pag. 36

Devo ringraziare ancora Daniele Brolli di avermi fatto conoscere, sul finire degli anni Ottanta, il lavoro di Daniel Clowes, e il suo Lloyd Llewellyn. Poi, sono andato avanti da solo. Ho amato Like a Velvet Glove Cast in Iron, con la normalità dei suoi incubi a occhi aperti; e ho adorato David Boring, che continuo a trovare tra le migliori graphic novel che il fumetto americano abbia prodotto.

Però tutti i libri di Clowes sono degni di interesse. Persino Ice Haven, che pure non raggiunge quelle vette, e che è stato forse l’unico che mi sia costato un po’ di fatica nella lettura.

L’ultimo lavoro di Clowes si chiama Wilson (pubblicato in Italia or ora da Coconino), ed è un ottimo esempio delle qualità medie di questo grande narratore per immagini. Potremmo dire che lo specifico di Clowes sta nell’esasperazione grottesca del quotidiano. Succede assai poco nelle sue storie, in genere, e il mondo che viene descritto è un mondo di depressi con difficoltà a relazionarsi, che si muovono in un ambiente dove gli altri non sono meglio di loro. Ma questa follia maniaco-depressiva che coinvolge tutti non contagia il lettore: stranamente, o forse, genialmente, l’eccesso genera il grottesco.

Non si può dire che davvero si rida, se non magari amaramente, a leggere Clowes; ma è tutto insieme così normale e così assurdo, che il risultato è insieme divertente e conturbante, triste e ridicolo, persino spassoso talvolta, e insieme mortifero. La parola chiave è, probabilmente, proprio ridicolo. Ridicolo è Wilson nella sua comunque manifesta umanità, ridicolo è quello che fa e che pensa; ma anche il contesto in cui vive, e le persone con cui si relaziona. Il ridicolo – si sa – è sempre una patina, sotto cui si nasconde il tragico; e i personaggi di Clowes sono tutti tragici. Ma è un tragico che ha deciso di non piangersi addosso, e di avere la dignità del riconoscersi, e del riconoscere che, comunque sia, non potrebbe essere diversamente.

Wilson è strutturato, in apparenza, in tavole comiche autoconclusive, con battuta finale, disegnate persino con stili e registri differenti. All’inizio della lettura sembra una collezione di battute slegate, ma poi, proseguendo, ci si accorge che un filo le lega, e che stiamo, insensibilmente, seguendo il dipanarsi di una storia; anzi, della storia di una vita. Magari dovremmo dire di un’esistenza, perché per Clowes il richiamo all’esistenzialismo non è forse del tutto peregrino.

C’è un meccanismo semiotico particolare dietro a tutto questo, un meccanismo in cui i diversi effetti di senso si rimandano tra loro, ma in maniera imperfetta, così che sempre nuove sfumature emergono ogni volta che l’uno rimanda all’altro: il monotono-ossessivo rimanda al grottesco, e il grottesco rinvia al ridicolo, che a sua volta rimanda al tragico; e la coppia ridicolo-tragico è conturbante, ma è un conturbante che riesce a essere divertente, ma in modo amaro… Il disegno che cambia continuamente registro, dal realistico all’appena caricaturato sino allo stilizzato-comico delle strip, corrisponde visivamente a questa strategia di rimandi. All’inizio della lettura ci domandiamo se siano davvero gli stessi personaggi che ricorrono, e fatichiamo a riconoscerli, ma poi ci rendiamo conto che sì, sono sempre loro, ma sotto diversi aspetti; e non è affatto detto che agli stili più comici corrispondano i momenti più divertenti; anzi, magari è viceversa.

Io trovo Clowes un autore profondo, e anche caldo, a dispetto del suo raggelante sarcasmo. Alla fin fine, sono assai più affezionato a lui che a Chris Ware.

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Dei settant’anni di The Spirit

Will Eisner, The Spirit, 1948

Will Eisner, The Spirit, 1948

Su Lo Spazio Bianco, Marco D’Angelo ci ricorda che quest’anno ricorrono i 70 anni dalla nascita di The Spirit. Lo fa scegliendo il tema della maschera, quell’orpello ridicolo che Eisner mette sul viso del suo personaggio perché in qualche modo gli viene imposto – ma poi, come ci spiega bene D’Angelo, diventa il simbolo stesso della natura grottesca delle storie di The Spirit.

Settant’anni sono tanti e sono pochi. Io scoprii The Spirit sulle pagine di Eureka, verso la fine degli anni Sessanta, mi pare, o poco dopo – intorno ai suoi trent’anni, insomma. Essendo io molto giovane, molto più giovane di lui, mi pareva che provenisse davvero da un’altra epoca; ed era così differente da tutto quello che si pubblicava in quegli anni a fumetti in Italia, che pareva che provenisse anche da un altro mondo. Eisner non produceva più fumetti da quasi vent’anni, e non avrebbe ripreso per ancora quindici. Nella mia ignoranza, io pensavo che fosse morto, o vecchissimo.

The Spirit dichiarava la sua alterità in tutto. Fumetto di un’altra epoca e di un altro mondo, era però stupefacente per la sua originalità anche rispetto a quel poco che sapevo della sua epoca e del suo mondo. Io, come tutti, credo, ero innamorato dei suoi frontespizi. Ancora venti anni dopo, ne I linguaggi del fumetto, ne ho fatti riprodurre parecchi, perché la fascinazione di quei frontespizi non era (non è) diminuita.

Il secondo Eisner, quello delle graphic novel, ci ha mostrato un altro mondo ancora, più maturo, più colto – ma forse un pelino più retorico. The Spirit colpiva, appassionava, divertiva anche chi – come me – non conosceva il mondo degli eroi pulp che erano il suo obbiettivo sarcastico diretto.

Questo è interessante: un fumetto (o un qualsiasi tipo di racconto, letterario, cinematografico…) che nasce come parodia di un genere, ma che riesce a colpire anche chi non conosce quel genere! Certo, in seguito, conoscendolo, e conoscendolo sempre di più, The Spirit diventava forse ancora più godibile; ma l’inprinting c’era già stato.

Diciamo che, forse, senza quelle storie di Eisner pubblicate nella rivista di Luciano Secchi, avrei avuto meno motivi per appassionarmi ai fumetti. Magari mi sarei occupato d’altro. Magari oggi terrei un blog di astrofisica o di gastronomia, che avrebbe 10 lettori, o magari 10.000. E magari è stato così come per me anche per tanti altri…

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Del freddo e del caldo, o di Chris Ware e Paolo Bacilieri

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 1 e 2

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 1 e 2

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 3 e 4

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 3 e 4

Tempi di Chris Ware. Tra poco, a Roma, anche giorni di Chris Ware. Sottile, acuto, innovatore, tragico (secondo l’analisi che ne fece Thierry Groensteen a Bologna nel 2004, interrogandosi proprio sul valore del tragico nel fumetto).

Non so quanto ci sia da dar credito alle sue stesse parole, secondo le quali lui non avrebbe tratto nessuna particolare ispirazione dai fumetti pubblicati dopo gli anni Trenta. Certo l’ombra di McCay è quella che aleggia più vivamente sui suoi lavori, anche se altrettanto vivamente mediata da quella di Frank King. Ma credo che, con un pizzico di snobismo, Ware si voglia soprattutto mantenere distaccato dagli universi avventurosi e superomistici che hanno imperversato negli USA dopo gli anni Trenta. Difficilmente si sarebbe verificata altrimenti la convergenza con quella costola particolare dell’underground che è stata la rivista di Art Spiegelman, Raw.

E d’altra parte l’underground stesso in generale, a partire da Crumb, si rifà a quei medesimi anni, e il mondo specifico di Raw non fa eccezione. Un mondo in cui i primi interventi di Ware si inseriscono in piena armonia.

Forse, è proprio questo pizzico di snobismo a impedire a Ware di essere ancora più bravo di quello che è. Mettiamo subito in chiaro che Ware è un narratore di grande qualità, che racconta storie originali dove dimostra un’estrema sensibilità, e che ha un modo ugualmente originale di affrontare la dimensione visiva – anzi, nello specifico, grafica (e una volta tanto l’italiano grafico traduce davvero l’inglese graphic, nonostante le differenze di senso non così trascurabili tra i due). Insomma: è fuori discussione che il suo posto di rilievo nella storia del fumetto Chris Ware ce lo debba avere.

Detto questo, va detto anche il resto.

Chris Ware è un autore gelido. Certo, so benissimo che questa sensazione di controllo intellettuale, enfatizzato dalla parcellizzazione del discorso in percorsi visivi inconsueti che l’occhio è obbligato a seguire, esasperato dalla riduzione di tutte le forme a semplicità geometriche, perentoriamente sancito dalla ripetizione ossessiva di forme che già richiamano a loro volta altre forme circostanti… so benissimo che tutto questo è un espediente narrativo, e che la gabbia dell’ossessività testuale rende magnificamente le ossessioni delle vite raccontate. Di questa poetica (tragica) del controllo Ware è davvero il maestro, e ha davvero inventato nuovi modi per esprimere il senso di una vita tenuta in ostaggio dai vincoli sociali

Però, mamma mia! che freddo! E come sono piccoli quei disegni in cui devo infilarmi anima e corpo, per sentire quella medesima oppressione che vivono i suoi personaggi, per sentirmi io stesso melanconico, ossessivo, devastato. E pure l’ironia, che certo a Ware non manca, è ugualmente nera, priva di speranza, gelata, glaciale.

Solo in apparenza i procedimenti di Paolo Bacilieri (che è pure figlio di quel medesimo underground, se pur di qua dall’oceano, e mediato da Pazienza) assomigliano a quelli di Chris Ware. In Bacilieri, potremmo dire, anche se il mondo è ugualmente brutto e tragico, è proprio l’ironia che ci salva, che ci scalda, che ci produce la risata o il sorriso.

Anche Bacilieri è (per dirla con Spiegelman) un damned intellectual, e probabilmente non meno di Ware. Però non mi viene mai freddo, a leggere i suoi fumetti arzigogolati.

Paolo Bacilieri - La magnifica desolazione, 2007

Paolo Bacilieri - La magnifica desolazione, 2007

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Della fine di Magico Vento

Magico Vento, n.1

Magico Vento, n.1

Ieri sera ho consumato un piccolo lutto, leggendo l’ultimo numero di Magico Vento, ultimo nel senso dell’inglese last, e non latest: cioè l’ultimo in assoluto, non semplicemente il più recente. Un saluto in sordina, un po’ sotto il livello di tante storie di Gianfranco Manfredi; ma, d’altra parte, c’erano troppi fili narrativi da chiudere in una volta sola, e ci voleva pure una risoluzione sufficientemente definitiva, tipo quelle che il protagonista muore, oppure si sposa e vissero per sempre felici e contenti.

Magico Vento si sposa, o tutto lascia pensare che accadrà. Quanto al vivere felici e contenti, c’è sempre tempo per uno special, o per una miniserie dove i problemi ritornano fuori. Pazienza per il finale in sordina; ma peccato perché sia stato necessario arrivare alla fine.

Confesso che quando Magico Vento fece la sua uscita nelle edicole, l’idea di coniugare il western con l’horror mi era sembrata un po’ balzana. Però, invece, Manfredi si era rivelato subito uno sceneggiatore di talento – e alla fin fine questo mondo magico non è poi così fuori luogo nel diciannovesimo secolo, specie se il co-protagonista si chiama Poe. È solo l’epopea western statunitense che ha cancellato dal nostro immaginario storico tutto il mondo magico che allora esisteva, fortissimo negli indiani, ma forte anche tra i bianchi.

Insomma, quell’apparente improbabile pastiche si rivelava invece un racconto con basi antropologiche (oltre che storiche) fondate, e davvero godibile – il più delle volte – come lettura narrativa.

Quando Manfredi cantava, negli anni Settanta, Ma chi ha detto che non c’è, mi ci scoprivo tra l’affascinato e lo scandalizzato. La canticchiavo e insieme dicevo: no, così non si può fare. Per chi non la ricorda, quel testo eccessivo si può leggere, per esempio, qui. Oggi la si leggerebbe come un inno alla violenza, ma allora non era affatto l’inno delle Brigate Rosse, e il suo valore metaforico e provocatorio era evidente a tutti. E comunque poneva il problema.

A modo suo, anche Magico Vento ha posto il problema. E Manfredi lo ha fatto varie volte, a fumetti e non. Perciò ci aspettiamo che lo rifaccia, speriamo presto.

Nel frattempo, certo più in piccolo, è come se se ne fosse andato un amico. Ciao Ned. Stammi bene.

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Passando ad altro. Il blog Conversazioni sul fumetto ha appena pubblicato un articolo di Bill Watterson sul proprio lavoro con Calvin e Hobbes. Dalla serietà che Watterson dimostra, si comprende anche l’entità dello sforzo che alla fine lo ha spinto a lasciare – insomma, quello di cui parlavo qualche giorno fa.

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Di Robin Wood e dello schema narrativo

Dago, di Robin Wood e Alberto Salinas

Dago, di Robin Wood e Alberto Salinas

Qualche giorno fa ho conosciuto Robin Wood (lo sceneggiatore di Dago, Nippur, Amanda, Martin Hel, Gilgamesh, Savarese, Mojado, Dax, Morgan e una quantità inverosimile di altri personaggi e serie). Tra le varie cose che ci ha raccontato c’è il fatto che “Robin Wood” non è uno pseudonimo, bensì un nome vero che gli ha tormentato l’infanzia, ma in seguito si è rivelato un vantaggio; c’è il fatto che ha fatto ben pochi anni di scuola, nonostante la competenza storica che dimostra nelle sue sceneggiature sia sempre esemplare; e c’è quella che mi ha colpito di più, ovvero il fatto che quando lui inizia a scrivere una storia non ha la più pallida idea di come proseguirà e di come andrà a finire.

Potrebbe sembrare una confutazione delle idee strutturaliste sul racconto, ovvero del principio che tutti i racconti si basano su schemi, ma non lo è affatto. Anzi, forse ne è una conferma: Wood avanza brillantemente nella stesura dei suoi racconti proprio perché questi schemi sono stati da lui interiorizzati, e anche molto bene, con tutta la casistica delle potenziali varianti canoniche e delle possibili variazioni non canoniche. Tanto più perché Wood è un maestro della narrativa seriale, e il lettore seriale ha bisogno di riconoscere gli schemi (magari, se è raffinato, per apprezzarne le variazioni) anche più del lettore non seriale.

Non è questo il punto, dunque. Se Wood progettasse le sue storie in maniera diversa, e magari più strutturale anche nella loro genesi, io non credo che vi si potrebbero trovare né più né meno schemi di quanti se ne possano trovare ora. Tuttavia, una differenza, e non da poco, potrebbe esserci lo stesso.

Pensiamo alla differenza che c’è tra il jazz e la tradizione musicale classica, o, per dirlo in maniera più esplicita, tra la musica che si basa sull’improvvisazione e quella che si basa sulla scrittura. La scrittura permette senz’altro alla musica un livello di complessità che l’improvvisazione non potrebbe mai raggiungere: non si possono far suonare insieme 90 strumentisti senza una partitura, a meno che non ci si basi su giri armonici stranoti e banali. Eppure c’è qualcosa nell’improvvisazione che la musica scritta non riesce mai a trovare: un livello di freschezza e di immediatezza che dipende proprio dall’entusiasmo dello stare trovando.

Trovare, tra l’altro, è una bella parola, che è entrata in italiano (come in francese) a partire dalla sua origine in campo musicale. Trovare voleva dire, in epoca medievale, inventare tropi, cioè variazioni, novità: era l’arte, appunto, dei trovatori. Trovare voleva dire avere l’intuizione improvvisa di un modo migliore per dire quella stessa cosa; l’arte di John Coltrane, insomma, il più grande trovatore del XX secolo.

Ora, certamente Coltrane conosceva benissimo tutti gli schemi possibili del suo campo musicale; eppure quando suonava, improvvisando, trovando, questi gli apparivano semplicemente come possibili prosecuzioni alternative, o come spunti per inventarne (dal latino invenio, che significa trovare) una nuova che solo assomigliasse alle vecchie; o anche per sceglierne una (vecchia) che nessuno aveva previsto che si potesse mettere lì.

I racconti, come la musica, sono certamente fatti per schemi. Ma quello che fa la differenza tra diversi livelli di qualità è il modo in cui questi schemi si combinano o si innestano tra loro. L’arte dell’improvvisazione ha certamente dei limiti, ma possiede il grande vantaggio dell’estemporaneità, del dover seguire il flusso che si sta implicitamente creando. E, qualche  volta, sono proprio questi limiti a costringerci a uscire dal prevedibile.

Insomma, non mi dispiace pensare a Robin Wood come a una specie di Coltrane della sceneggiatura, con i limiti, ma anche le potenziali fluidità che questo comporta. Poi, certo, Wood può sempre rivedere quello che ha scritto, correggere e limare, o buttare e riscrivere. Coltrane non poteva.

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Di una foto sul bus, a Cochin

Hari, Krishna

Hari, Krishna

La foto di questa bambina è stata scattata a Kochi, nel Kerala, sul bus che porta da Fort Cochin a una spiaggia poco più a nord. Io trovo in questa foto diversi motivi di interesse.

Prima di tutto, la composizione. C’è un accenno di costruzione ortogonale, fornito dai tubi di metallo e dai montanti dei finestrini del bus. Ma poi, in maniera molto indiana, tutto è bombato e rotondeggiante, e le finestre sono addirittura inclinate verso sinistra. Viceversa, le figure animate sono tutte inclinate verso destra: braccio della mamma, bimba e figurina di Krishna. A destra abbiamo il dominio della luce, a sinistra quello dell’ombra.

Su questo sfondo, poi, certamente quello che colpisce è il rapporto tra la figura della bambina (tutta di colori caldi, dal bruno della pelle screziata di sole al rosso del vestitino) e quella retrostante del dio Krishna, anche lui bambino, azzurro su fondo verde (tutti colori freddi, sopra l’ombra del fondo).

Krishna è l’ottavo avatar del dio Vishnu, e per alcuni vaishniti ne rappresenta addirittura la forma originaria, essendo in questo caso la divinità suprema. Il suo nome significa “scuro” o “blu-scuro”, e per questo viene rappresentato sempre con la pelle di questo colore. Un altro dei suoi nomi è Hari (da cui la formula Hare Krishna), che significa “colui che prende” o ancora “colui che distrugge il samsara“, cioè il ciclo doloroso dei ritorni dell’anima.

Krishna è sempre raffigurato giovane, e spesso, come qui, in figura di bambino, con riferimento ai miti che raccontano la sua infanzia terrena. Trovo molto bella, qui, con tutta l’ingenutà di questa icona, la variazione sul gesto di namasté, ovvero del ringraziare a mani giunte: salvo che qui una delle mani è sostituita dal piedino del bimbo.

Mi piace, dunque, questa giustapposizione di due infanzie: quella mitica, del dio sorridente che ci libera dal destino del dolore, e quella reale, della bambina forse appena malinconica, ma tutta presa dall’osservazione del mondo che fugge intorno all’autobus. Alla fin fine, tutte e due le figure sono figure di Hari, colui che prende, che ci ruba, che ci libera, sia che si trovino nella luce solare del reale sia che emergano dalla freschezza e dall’ombra eterna del mito.

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Del saggio Watterson, con Schulz e Herriman

Calvin e Watterson

Calvin e Watterson


Della personale intelligenza di Bill Watterson è assai difficile dubitare, vista la qualità del suo lavoro decennale su Calvin e Hobbes. Confesso però che, nonostante questo, ho trovato (piacevolmente) sorprendente ritrovarmelo in veste di critico in un paio di articoli (notevoli per sottigliezza e passione) riportati recentemente nel blog Conversazioni sul fumetto, dedicati rispettivamente a Charles M. Schulz e a George Herriman. È sempre un po’ strano quando un autore cambia campo, e parla di voce propria al di fuori dell’universo un po’ impacchettato delle interviste.

Naturalmente, la sorpresa più grossa prodotta da Watterson fu l’annuncio, nel 1995, di smettere di disegnare Calvin e Hobbes; un annuncio che coincideva con l’apice del successo (se ne può leggere il testo su Wikipedia, qui), e per questo tanto più inatteso. Ma, a rileggerlo oggi, insieme con i due articoli su Schulz e Herriman, si capiscono bene le sue ragioni, e la sorpresa (ora unificata) è che esista qualcuno che alle ragioni del successo preferisca quelle della serietà produttiva (o della serietà della vita). Se il successo mi richiede un ritmo produttivo alienante, che può andare a scapito non solo della qualità della mia vita ma anche di quella di ciò che produco, allora forse è meglio smettere di produrre.

Naturalmente Watterson aveva – per così dire – il culo parato. Il successo e le ristampe di Calvin e Hobbes gli assicuravano comunque un buon tenore di vita – ma se avesse continuato sarebbe diventato ricco quasi come Schulz, e certamente molto più di Herriman.

L’articolo su Herriman è del ’90, quando Watterson era in piena attività, mentre quello su Schulz è del ’99, con Watterson già ritirato, e giusto nell’occasione del ritiro del medesimo Schulz. In tutti e due si percepisce forse un po’ di invidia, e non tanto per la grandezza dei due autori (a cui Watterson fa decisamente concorrenza, che lui lo sappia o no) quanto per la loro capacità di resistere sino all’ultimo – quello che lui non si è sentito di fare. Per lui Schulz è “un perfezionista che veramente ama fare fumetti più che ogni altra cosa”.

Per Watterson – lo si capisce bene – Herriman e Schulz sono due grandi, due modelli da imitare, e che lui ha cercato davvero di imitare; ma c’è qualcosa di amaro nel confronto tra il suo tipo di decisione e il loro. Questo “amare fare fumetti più che ogni altra cosa” significa forse amare più il proprio lavoro che la propria moglie, i figli, la possibilità di vivere emozioni diverse da quelle (pur notevolissime) della creazione.

Davvero, non c’è una via di mezzo? Non si può amare sia il proprio lavoro che i propri cari? Forse sì, se il prezzo del successo non è lo stralavoro giornaliero di chi produce strisce quotidiane. Ma se lo è?

È per questo che abbiamo solo 10 anni di Calvin e Hobbes, e tanti di più di Krazy Kat e dei Peanuts. Peccato, per noi. E lunga vita al saggio Watterson.

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Di una foto di strada a Tiruchirapalli

Strada a Tiruchirapalli, sotto il Rock Fort

Strada a Tiruchirapalli, sotto il Rock Fort

Questa foto, scattata a Tiruchirapalli sotto il Rock Fort, mi piace perché lo spazio è tutto pieno. In basso c’è l’incredibile confusione della città, pedoni, motociclette, automobili, camion (tutti impegnatissimi a suonare il clacson); salendo, ci sono le case e tutto l’intreccio dei pali e dei fili della luce, che formano una specie di inestricabile reticolo. Sul fondo, la mole ascensionale del Rock Fort, il quale, manco a dirlo, è un tempio, e dalla sua sommità si può vedere tutta la città fino al fiume e fino all’enorme tempio di Ranganathaswamy, il più grande dell’India intera, forse del mondo.

Fa caldo, c’è rumore, la città è caotica, ma la montagna sullo sfondo è ugualmente parte di un sogno, un sogno che scende e si allarga fino a noi. Per quanto siamo immersi nei nodi e nella rete della vita di tutti giorni, il sogno rimane incredibilmente presente, pesante, materiale. Una roccia che continua tutto il tempo a essere antichissima nel cuore eccitato della città.

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di Daniele Barbieri

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