Credo che un giovane autore che volesse scrivere o disegnare fumetti di supereroi dovrebbe usare Rat-Man come testo di studio, come una specie di trattato dei luoghi comuni che fanno riconoscere il genere, non solo quelli tematici ma anche per il montaggio e il ritmo delle scene. Poi il giovane autore deciderà…
Il resto del post è qui, sul nuovo sito di Rat-Man.
Un Igort di passione e ironia
Il Sole 24 Ore, 1 agosto 1993
Sono almeno tre le occasioni per parlare in questo momento di Igort, al secolo Igor Tuveri: la pubblicazione di un suo nuovo volume, e due mostre con relativi e notevoli cataloghi, curati in gran parte da lui stesso. Il volume raccoglie due storie a fumetti tra le più belle di questo autore, sotto il titolo Il letargo dei sentimenti. Le mostre, una di qualche mese fa, a Milano, dal titolo Mangarama, e l’altra ancora in corso a Reggio Emilia, That’s All, Folks, ci illustrano anche altri aspetti della personalità di questo artista poliedrico. Specialmente quest’ultima si presenta come particolmente esaustiva. Volume e cataloghi sono pubblicati dalla Granata Press di Bologna.
Il nome di Igort è ben noto a chi si occupi di fumetti di qualità. Dopo altre prove interessanti, è venuto decisamente alla luce nel 1983 con la fondazione del gruppo Valvoline, cui partecipavano, oltre a lui, Lorenzo Mattotti, Giorgio Carpinteri, Marcello Jori, Charles Burns, Jerry Kramsky e Daniele Brolli. Eterogeneo sotto altri aspetti, il gruppo condivideva con Igort la molteplicità degli interessi. Per gli autori di Valvoline essere autori di fumetti significava trovarsi al centro della tempesta dei media cavalcando contemporaneamente venti diversi. Non il fumetto come il parente povero dei media, dunque, ma come il punto di concrezione di esperienze artistiche diverse e lontane tra loro: la pittura, il racconto, la televisione, il cinema, la grafica, l’illustrazione… Per Valvoline esprimersi era utilizzare anche tutti questi mezzi di comunicazione.
Nella produzione di Igort, come in quella di diversi dei suoi antichi colleghi, troviamo dunque, oltre all’esperienza del fumetto, quella della scrittura, dell’arte figurativa, della scenografia teatrale, dell’illustrazione di moda, della grafica e del design. Nel suo caso particolare troviamo anche la musica, come compositore e cantante del gruppo post-moderno Slava Trudu.
La sua poetica è complessa, sentimentale e ironica fino al limite del paradossale. Le due storie raccolte ne Il letargo dei sentimenti sono sentite e commoventi, ma sono anche evidenti parodie dell’eccesso di sentimentalismo, delle grandi passioni e dell’eroismo. La sua grafica raffinata dipinge luoghi e situazioni eleganti, tra il Giappone e la Russia (due poli culturali tra i quali oscilla l’intera produzione di Igort); personaggi che sono al tempo stesso eroicamente pubblici e pateticamente privati, attraversati da mitologie che non riescono ad interpretare sino in fondo; segnati da un erotismo che si rivela, pur nella sua evidente conturbanza, solo una maschera per definitive delusioni. Il letargo dei sentimenti sembra essere la condizione da cui si esce solo per poi ritornarvi.
Ma Igort è un autore troppo ironico per proporre verità definitive sul sentimento, e sembra sempre revocare in dubbio con una mano le certezze che porge con l’altra. Presenta personaggi fisicamente iperbolici, e li mostra alla macchina da cucire a rammendarsi il costume. Costruisce utopie personali grandiose, e le manda a naufragare tra le braccia della prima astuta e procace avversaria.
Questo dualismo di passione e sarcasmo pervade tutta la sua produzione artistica, anche al di fuori del fumetto. In pittura, troviamo gli stilemi di un concettualismo giocato sui paradossi del naivismo portato all’estremo: un divertissement sulla stupidità mediologica, nei temi dell’eroico, dell’erotico e dell’eleganza. In grafica e scenografia è invece l’eleganza stessa a giocare il ruolo principale, e l’ironia vi appare come un leggero velo con funzione temperante. Nell’illustrazione di moda, che dell’eleganza è luogo ufficiale, l’ironia è invece pervasiva, pur senza travalicare le finalità illustrative.
Nei testi verbali, tra cui quelli scritti appositamente per i cataloghi, il dualismo diventa provocazione: si ostenta un aspetto e lo si brucia immediatamente per mezzo del suo opposto.
L’impressione complessiva che si ricava, per esempio, dalla mostra di Reggio Emilia, è quello di una produzione calda e fortemente vitale, mobile e instancabile. Lo stile raffinato di Igort passa con disinvoltura dalla passione alla parodia, ma senza mediazioni, come se non fosse possibile un terreno intermedio: l’una e l’altra devono essere percepite al massimo grado, ed è il loro rapporto a produrre l’effetto complessivo. La passione è tale perché è intensa e sentita, perché è travolgente ed eventualmente immorale. L’ironia, il sarcasmo, sono tali perché sono inesorabilmente razionali, destinati a condannare tutto ciò che possa essere messo in ridicolo. Ogni mediazione comprometterebbe entrambe i poli.
Da ammirare, nella mostra, sono non solo le opere compiute, più o meno già viste – per chi conosce Igort – in mostre e pubblicazioni precedenti, ma anche i numerosissimi schizzi, bozzetti, disegni, in cui le coordinate di questo amore per gli estremi emergono con vivace immediatezza.
Luther, l’eroe fantastorico
Il Sole 24 Ore, 16 maggio 1993
È un mito del fumetto britannico degli ultimi anni quello che le Edizioni Telemaco stanno pubblicando in versione italiana in questi mesi. The Adventures of Luther Arkwright di Bryan Talbot (anche la traduzione conserva il titolo in lingua inglese) è un singolare fumetto di fantascienza, degno erede di una tradizione di prodotti affascinanti e raffinati, che trova in Jeff Hawke il rappresentante più noto e duraturo.
Quando Talbot iniziò a realizzare Luther Arkwright, nel 1976, decise che quello che stava per fare avrebbe dovuto essere molto diverso dal fumetto americano che andava per la maggiore in Gran Bretagna in quegli anni. Il disegno avrebbe dovuto essere estremamente accurato, fino a ispirarsi – come poi è effettivamente accaduto – alle tecniche degli incisori vittoriani e di Doré ; i personaggi avrebbero accuratamente evitato le pose trionfalistiche e melodrammatiche che dominavano e sono tuttora frequenti nel fumetto americano; la narrazione avrebbe dovuto avere un ritmo di tipo letterario, con un’attenzione particolare a evitare effetti facilmente spettacolari.
Se si tralasciano alcuni primissimi episodi ancora di carattere sperimentale, senza collegamento con il seguito e non riportati nell’edizione italiana, Luther Arkwright si configura sin dall’esordio della storia principale come un testo intricato e complesso, dove a un’ambientazione fantascientifica fondata sull’esistenza di dimensioni parallele (un intero multiverso) corrisponde uno stile narrativo basato su un intricato e denso montaggio degli eventi. Nella prima parte del racconto l’evoluzione degli eventi si alterna anche a un recupero del passato, nel quale si raccontano la vita e i perché del protagonista. La difficoltà di cogliere una linea narrativa coerente in queste pagine è abbondantemente compensata dal fascino dell’immersione in un caleidoscopio di mondi e tempi, quasi un brodo narrativamente primordiale.
Poi, lentamente, a mano a mano che si incomincia a comprendere la situazione, anche la narrazione si fa più lineare. Nel sistema di universi paralleli, vi è una Terra (non la nostra) in cui l’esistenza delle dimensioni parallele è nota alla scienza (l’ha scoperta verso la fine dell’Ottocento il famoso fisico tedesco Karl Marx), ed è noto anche che si è innescato da qualche tempo un meccanismo che sta portando alla progressiva distruzione di ciascuna Terra, provocando in questa un disastro ecologico, in quella un olocausto nucleare, in altre ancora degenerazioni meno radicali ma progressive. Arkwright è un agente della Terra centrale che agisce in altre dimensioni per arginare o evitare l’incipiente catastrofe. La Terra cui Arkwright è affidato è piuttosto diversa sia da quella centrale che dalla nostra. Londra, dove l’azione si svolge, non è la capitale del Regno Unito, bensì del Commonwealth, sotto la dittatura puritana del Lord Protettore Nathaniel Cromwell, discendente ed erede di Oliver. Non c’è stato un Carlo II che abbia ripreso il trono, e il New Model Army è rimasto invitto a difendere il potere dei calvinisti, dalla metà del Seicento sino ai giorni nostri. La dinastia Stuart si è mantenuta in esilio e nella clandestinità, e Arkwright viene coinvolto nell’ennesima insurrezione antipuritana per cercare di restaurare la monarchia, contro la dittatura oppressiva e incancrenita dei Cromwell, una dittatura che mostra evidenti somiglianze con quella nazista del nostro mondo.
Al di là del fascino dell’ambientazione, che sposa temi tipicamente fantascientifici con temi storici (e un’implicita riflessione sulla storia britannica), vi sono pagine di intensa letterarietà. Talbot è un ottimo scrittore, oltre a essere un disegnatore di notevoli capacità. L’episodio della quasi-morte di Arkwright ci presenta uno stream of consciousness in cui la forza delle parole è moltiplicata da quella delle immagini, con una serie di effetti di scansione e progressione ritmica che mostrano davvero a quali limiti di espressività possa arrivare un linguaggio come quello del fumetto quando venga usato a fondo. D’altro canto, un fumetto pur così interessante ha scontato la propria complessità con una serie di difficoltà di pubblicazione, che hanno fatto trascorrere ben dieci anni tra l’uscita del primo gruppo di episodi e quella della loro prosecuzione. Dal 1978 al 1987 la lunghissima attesa degli sviluppi sembra però non aver scoraggiato gli affezionati. Tanto più che la seconda uscita, quando finalmente ha avuto luogo, ha conseguito un immediato e notevolissimo successo. Poi sono arrivati i premi della critica e il culto di una schiera di appassionati, nonché il riconoscimento di una certa paternità stilistica da parte di numerosi autori inglesi molto apprezzati sia in patria che negli Stati Uniti.
Luther Arkwright è attualmente in pubblicazione italiana in due diverse edizioni. La prima è destinata alle sole librerie specializzate del fumetto e contiene anche alcuni interessanti testi esplicativi dello stesso Talbot. La seconda è invece un’edizione da edicola ed è raccolta nei primi quattro albi mensili della “Collana Europa”, che prevede, a seguire, altri titoli interessanti come Bratpack di Rick Veitch.
Pistolero stanco ma multietnico
Il Sole 24 Ore, 4 aprile 1993
La definizione “western psicologico” può sembrare quasi un ossimoro: l’approfondimento interiore è di solito infatti un tema piuttosto estraneo a questo genere, quali che siano stati o che siano i media in cui trovava o trova espressione. D’altro canto, l’approfondimento psicologico non è in generale appannaggio dell’epica, antica o moderna che sia, e il western è certamente un tipo di epica moderna.
Neppure nel fumetto popolare italiano l’esplorazione psicologica dei personaggi ha mai costituito un tema particolarmente centrale. Tantomeno, quindi, nel western italiano a fumetti. Personaggi tutti d’un pezzo, buoni o cattivi, seri o ridicoli che fossero, si sono sempre presentati al pubblico come entità monolitiche e preformate, istanze narrative ben chiare e definite, con il proprio ruolo e la propria missione. Tra i personaggi che hanno allietato le letture semiclandestine di molti ragazzi e adolescenti italiani degli anni dai Trenta ai Sessanta si ricordano Pecos Bill, il Piccolo Sceriffo, Blek Macigno, Capitan Miki, tutti recentemente riproposti in nostalgiche ristampe per amatori. Più avanti sarebbe arrivato Zagor, lo “spirito con la scure”, pubblicato da quelle stesse edizioni Bonelli cui appartiene il più amato dei personaggi a fumetti italiani, il ranger Tex Willer.
Poca psicologia e molta azione, indiani ora cattivi ora buoni (sempre più buoni con il passare degli anni), congiure e agguati sventati, mandrie scortate al mercato, talvolta un pizzico di stregoneria: ingredienti per confezionare prodotti seriali ora più ora meno gradevoli. Qualche serie va ricordata per puro dovere di cronaca; qualche altra per aver saputo mettere su carta l’immaginario avventuroso di diverse generazioni di italiani.
Sicuramente il nome di Ken Parker è meno noto dei precedenti alla maggior parte dei lettori del nostro paese, e non solo per il fatto di essere nato nella seconda metà degli anni Settanta. La serie Ken Parker era pubblicata dalle edizioni Bonelli, ma era diversa anche graficamente dagli albi di Tex, Zagor ecc. Gli autori, Giancarlo Berardi per i testi e Ivo Milazzo per i disegni, la curavano sotto tutti gli aspetti, anche nell’organizzazione grafica, e proseguirono per quasi cinque anni a pubblicare mensilmente nuovi episodi. Poi, l’impegno richiesto si rivelò eccessivo per la cura e l’attenzione che gli autori ci mettevano, nonostante i collaboratori fossero intanto aumentati, e la serie editoriale chiuse.
Non chiuse però la serie narrativa, e nuovi episodi continuarono a uscire su riviste cosiddette di fumetto d’autore per numerosi anni, pur con una cadenza abbastanza blanda. Nel frattempo le ristampe della serie originale si sono susseguite – l’ultima è tutt’ora in corso – pubblicate non più dalla Bonelli ma da una nuova casa editrice, costituita dagli stessi autori, la “Parker Editore”. E questa stessa casa editrice, qualche mese fa, ha finalmente dato alla luce una nuova rivista, Ken Parker Magazine, che assieme ad alcuni recuperi di bel materiale classico americano e francese, ci presenta una nuova serie del personaggio.
Limitarsi a dire che Ken Parker è un western atipico non rende giustizia a questa serie. La definizione “western psicologico”, per quanto paradossale e ossimorica appaia, può essere una buona prima approssimazione. Ma da sola non basta a dare un’idea della ricchezza di temi delle storie: senza perdere affatto il senso mitico del West, sfondo costante di ogni racconto di questo genere, Berardi e Milazzo ci raccontano infatti la vita quotidiana dell’Ottocento americano, la politica e i contrasti sociali, le differenze ambientali e culturali tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest. Il tutto, sempre popolato da personaggi a tutto tondo.
E’ interessante, per esempio, come Berardi e Milazzo riescano a dare nuova vita ai numerosi stereotipi che popolano la scena dei racconti del West: il pistolero, il mandriano, il proprietario terriero con pochi scrupoli, il pioniere, l’ufficiale di cavalleria, l’indiano buono, l’indiano cattivo, la maestra, la donnina allegra, il bandito, il cacciatore di taglie, la brava moglie, la guida indiana, lo scout… Per ciascuna di queste figure la rappresentazione stereotipica è continua occasione di indagine e approfondimento psicologico, è il punto di partenza, la base su cui costruire delle storie. Compaiono inoltre personaggi e situazioni desuete per il genere western, di fronte ai quali i motivi più tipici si stagliano per contrasto ancora di più; come nella breve serie di episodi in cui Parker arriva in una grande città dell’Est, civile e moderna come lo potevano essere le città europee del secolo scorso. In quel contesto l’uomo della frontiera si muove come un pesce fuor d’acqua, e lo sviluppo degli eventi lo vede goffo e impacciato, alle prese con una realtà che non è la sua – coinvolto anche in uno sciopero, in cui la durezza della lotta sindacale di quegli anni appare curiosamente irreale a confronto con la durezza mitologizzata della vita del West.
Temi assolutamente contemporanei sono ben riconoscibili negli sviluppi narrativi di questo western revisionista: lotta sindacale, ecologismo, animalismo, difesa dei diritti umani, antimilitarismo, problemi razziali e differenze etniche. Ma anche se il West di Berardi e Milazzo si rivela come una splendida arena per metafore della contemporaneità, tutti questi motivi emergono con naturalezza all’interno di storie che non hanno mai l’aria di essere costruite apposta per esporli. Le storie sono prima di tutto intrecci fascinosi e godibili; mai espliciti discorsi ideologici.
A questo proposito, Ken Parker ha presentato fin dall’inizio una quantità di aspetti innovativi anche dal punto di vista del modo di raccontare. Abolizione di didascalie e di “balloon di pensiero”, ispirata a un realismo di matrice cinematografica. Un tratto grafico veloce e conciso, adatto a una lettura centrata sugli eventi, ma pregnante a sufficienza da non far dimenticare che si tratta di un fumetto. Un ritmo narrativo sempre giustamente cadenzato, di solito abbastanza lento da permettere al lettore di immergersi appieno nella situazione – con abbondanza di dettagli ed eventi marginali, che, anche quando non contribuiscono direttamente alla storia, interessano e divertono.
Con la nuova rivista, Berardi e Milazzo riprendono finalmente oggi l’intensità di questo discorso narrativo, mai abbandonato, ma certamente allentato negli anni trascorsi dalla chiusura della prima serie.
Mattotti impasta colore e solitudine
Il Sole 24 Ore, 15 marzo 1993
Chi ha avuto la fortuna di vedere dal vero le tavole di Lorenzo Mattotti si è probabilmente reso conto del valore dell’intensità dei rapporti cromatici, e dell’importanza della grana della carta e del pastello che le è stato steso sopra; tutte qualità che in molte riproduzioni a stampa scompaiono in parte o addirittura del tutto – talora offuscate da un approssimativo trattamento del colore, talora rimosse dal glamour della carta patinata. Ma per chi non abbia avuto questa fortuna le edizioni Nuages hanno proposto da poco un volume in cui la scelta della carta e la resa del colore rendono onore alle potenzialità dell’arte di Mattotti.
Si tratta di un breve romanzo di Robert Louis Stevenson, Il padiglione sulle dune, di cui Mattotti ha curato le illustrazioni. La cura per la veste grafica e l’attenzione alla riproduzione delle immagini rendono evidente che l’interesse per gli editori è rivolto più alla parte visiva che non al testo narrativo. Nella stessa collana, una piccola serie di testi sette-ottocenteschi è illustrata da autori come Emanuele Luzzati, Altan, Flavio Costantini, Giuseppe Giannini, Hugo Pratt e Folon.
Il padiglione sulle dune è certamente un’opera intonata allo stile di Lorenzo Mattotti. Ambientato su una spiaggia scozzese, dove un unico edificio sorge di fronte al mare tra le dune e le macchie d’erba, sovrastato da un cielo percorso da nuvole non di rado tempestose, il romanzo di Stevenson sembra quasi scritto apposta per queste illustrazioni. In molte delle storie a fumetti di Mattotti il tema dell’edificio isolato in mezzo alla brughiera e di fronte al mare ritorna come un ossessione. Lo troviamo in Fuochi, in Doctor Nefasto, in La zona fatua, e in una serie di storie più brevi. Si tratta sempre del centro, del luogo fondamentale della storia.
Come sempre, il tema visivo delle immagini di Mattotti è la luce. Si tratta di una luce materica, densa, che rende i colori intensi e vivaci, anche quando le tonalità sono cupe e l’atmosfera è notturna. Con l’utilizzo dei pastelli a olio, le campiture di colore sono tendenzialmente uniformi o uniformemente sfumate, e il gioco cromatico è basato soprattutto sul contrasto tra colori puri.
Per chi voglia scoprire Mattotti, oltre alla sua recente partecipazione a uno splendido (e molto costoso) volume a cura delle Ferrovie dello Stato (Quel fantastico treno, già recensito su queste pagine), le edizioni Granata Press stanno ristampando gran parte delle sue produzioni. Sono usciti nel 1992 Fuochi e Doctor Nefasto, e si attendono per i prossimi mesi La zona fatua e Il Signor Spartaco. Si tratta di storie a fumetti che in Italia o sono state pubblicate in volume da molto tempo oppure sono uscite solo su rivista, e che sono quindi poco conosciute al grande pubblico. Paradossalmente, è molto più facile acquistare testi di Mattotti in Francia e negli Stati Uniti che non in Italia. Fuochi, la sua opera più nota, è stata pubblicata in quasi tutti i paesi d’Europa.
Il tema della solitudine è ricorrente in queste storie, raccontato come può farlo un grande narratore che usa i pastelli invece della macchina da scrivere. Quello che colpisce nei racconti di Mattotti è come la rappresentazione per immagini possa rivelarsi potente quanto la scrittura nel descrivere sentimenti e sensazioni, e come la matericità del colore sia spesso lo strumento di questa esplorazione dell’interiorità. Quando lo strumento non è il colore, lo è il rapporto tra le masse di bianco, definito da una linea sottile di pennino, come accade in L’uomo alla finestra, il romanzo per immagini pubblicato da Feltrinelli nel 1992.
Storia di un uomo solo è anche Il padiglione sulle dune, un romanzo che mostra numerose affinità con le storie a fumetti di Mattotti. In Fuochi, un ufficiale di marina viene travolto dalle proprie emozioni all’approdo di un’isola abitata da strane e irrazionali presenze, e continua a rimescolarle dentro di sé fino a un folle atto finale. Nel Signor Spartaco (realizzato con Jerry Kramsky), un personaggio pavido e timido ricorda episodi del proprio passato sino ad arrivare a liberarsi della propria incapacità di agire. La zona fatua (anch’essa con Kramsky), ancora di più, racconta di un’incapacità di distinguere tra il proprio mondo e quello in cui vivono tutti. Il romanzo di Stevenson presenta una singolare amicizia tra due persone gelose della propria solitudine, e un ancora più strano amore che sottrae il protagonista alla propria lontananza dal mondo degli altri.
Vi sono forti l’odore del sale, il silenzio, il vento: tutte cose difficili da rendere per immagini. Le illustrazioni di Lorenzo Mattotti ci riescono benissimo.
Tra i sopravvissuti di una fantapocalissi
Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 1993
Quanti anni sono che la fantascienza si è trasformata, dalla space opera, o dalle “meraviglie del progresso” con cui era iniziata, in un cupo oracolo di inferni urbani e apocalissi? Nel mondo del fumetto, specchio fedele, e talora anticipatore, delle trasformazioni della science fiction letteraria, fanno sorridere oggi il futuro postmoderno di Buck Rogers e quello tecnologico di Dan Dare. Persino Jeff Hawke, fumetto d’ altra levatura rispetto ai precedenti, conduce gran parte della propria esistenza seriale in un futuro tecnologico e tranquillo, attraversato sì da singolari e talvolta drammatici eventi, ma nel complesso flemmatico e delicato come ogni anglosassone che si rispetti.
Eppure le medesime storie di Jeff Hawke subiscono intorno alla metà degli anni Settanta una trasformazione, e il loro protagonista si trova sbalzato stabilmente qualche decennio più avanti, in piena era post-catastrofica. La luna si è spaccata ed enormi frammenti di essa sono precipitati sul nostro pianeta: l’ umanità lotta per sopravvivere e riorganizzarsi. Il demone del futuro negativo ha contaminato persino questa serie “illuminista”.
Tra i profeti dei futuri negativi che a un certo punto hanno incominciato a moltiplicarsi tra gli autori di science fiction, Philip K. Dick è probabilmente quello che più ha lasciato il segno sulla generazione successiva. Non è solamente l’ impatto duro e crudo dei suoi mondi narrativi, ma anche il suo continuo e sempre presente oscillare tra allucinazione e realtà ; da L’occhio nel cielo a Scrutare nel buio il divario tra il mondo esteriore e quello interno si fa sempre più sottile, fino a scomparire del tutto. Il cyberpunk parte da qui, recuperando come possibilità tecnologiche quello che per Dick era semplice deragliamento dei sensi, autoillusione da Lsd. Il cyberspazio teorizzato da William Gibson è dunque il mondo dove i sogni si incontrano, dove l’ immaterialità del pensiero non coincide più con la solitudine del sognatore: una realtà immateriale, ma non meno rischiosa di quella più consueta fatta di carne. Nel mondo del fumetto americano il ribaltamento in negativo è arrivato con gli anni Ottanta e con la crisi dei supereroi. Con autori quali Frank Miller, Alan Moore e anche, meno noto, Rick Veitch, il fumetto di supereroi, un genere assai particolare di fantascienza, ha sostituito il pessimismo e il timore dell’ apocalisse al buonumore da favoletta che da sempre lo aveva caratterizzato. È da molto prima di questa recente e annunciata morte di Superman che uno spirito sinistro aleggia negli universi del comic book.
Più vicino a noi, e alla nostra sensibilità , il futuro negativo impera nel fumetto francese degli anni Settanta, da Metal Hurlant in qua, e in tutti i suoi epigoni. A differenza che nella fantascienza americana, qui la negatività è accompagnata sovente dall’ ironia, e le apocalissi aspettate si rivelano talvolta tempeste in un bicchier d’ acqua, salvo poi rivelarsi nuovamente come apocalissi, una volta che anche il secondo velo è stato sollevato. Da Moebius a Druillet, a Tardi, a Bilal, le costanti del futuro imperfetto arrivano in seguito fino in Italia, nelle pagine provocatorie di Cannibale e di Frigidaire, dove l’ ironia diventa sarcasmo e l’ evidente negatività della fantascienza critica sociale e politica.
Gli autori di Cyborg partono oggi da tutte e quattro queste esperienze. Cyborg è una rivista di fumetti che ha ripreso da poco le pubblicazioni. Dopo una prima serie nel 1991, chiusa per dissidi con l’ editore, è rinata da qualche mese in proprio. Fatto più unico che raro, per il tipo di pubblicazioni cui questa rivista fa riferimento, gli autori che vi partecipano sono tutti italiani. Non solo: a differenza di tutte le altre riviste a fumetti, che appaiono come contenitori di materiali diversi, più o meno riconducibili a una linea editoriale decifrabile, Cyborg è progettata da un team di autori che realizzano testi pieni di reciproci rimandi. La superficie e l’ occasione sono cyberpunk, con un certo odore di fumetto americano, ma le radici e lo spirito ora ironico ora disperatamente malinconico sono del tutto europei. La dirige Daniele Brolli, già gruppo Valvoline, già collaboratore di Linus e di Frigidaire, fumettista, scrittore, saggista, ora anche editore. La fanno con lui un gruppo di autori più giovani, molti dei quali sono usciti, anni fa, da quella scuola del fumetto, il Centro di Applicazione Zio Feininger, che era stata l’ espressione didattica del cosiddetto Nuovo Fumetto Italiano degli anni Settanta e dei primi Ottanta. Tra questi Francesca Ghermandi, Onofrio Catacchio, Giuseppe Palumbo, Massimo Semerano, Otto Gabos e poi Davide Toffolo, Marco Nizzoli, Davide Fabbri e alcuni altri.
Cyborg è un fenomeno singolare. Si rivolge a un pubblico sostanzialmente giovanile attraendolo con storie dure e violente, di quando in quando fin eccessive nella crudezza dei particolari. Eppure, le storie sono tutt’ altro che semplici da seguire, le immagini tutt’ altro che di immediata decifrazione. In questo, la lezione cyberpunk di Gibson viene seguita sino in fondo. Ma il pericolo che corre lo stesso scrittore di Neuromancer, quello di invischiarsi nella propria stessa retorica, attraversa un po’ tutta la poetica della rivista. Se ne salvano proprio quegli autori che sono più lontani dalle tematiche della realtà virtuale, vuoi perché giocano più sui toni ironici che su quelli epici, vuoi perché gli argomenti delle storie sono diversi da quelli tipici del cyberpunk.
Al contrario che nella prima serie, sono questi gli autori che sembrano venire privilegiati nella seconda. Cyborg si allontana dal cyberpunk? Nonostante titolo e rubriche, sembrerebbe di sì. Anche le realtà virtuali incominciano a invecchiare.
Bilal che bell’anacronismo
Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 1993
Quando, circa dieci anni fa, la rivista Alter Alter pubblicò anche in Italia “La fiera degli Immortali”, dell’autore francese Enki Bilal, il mondo dei lettori di fumetti fu attraversato da un brivido. È vero che Bilal era già ben conosciuto nel nostro paese, poiché molte sue produzioni erano state pubblicate su quella stessa e anche su altre riviste. È vero che il futuro di disfacimento, di anarchia e autoritarismo al tempo stesso, in cui la vicenda era ambientata era quasi un luogo comune nelle produzioni, specialmente francesi, di quel periodo. Ma la storia di Bilal mostrava una capacità sia narrativa che grafica e un’inventività nell’individuare gli elementi del gioco davvero non comuni. E giustamente qualche mese fa la rivista Il Grifo l’ha ripubblicata, così da farla conoscere anche ai lettori che allora erano troppo giovani per poterla apprezzare.
L’ambiente della storia è una Parigi del prossimo secolo, fortezza miserabile separata da un mondo ancora più miserabile, sofferente dei postumi di una catastrofe nucleare. Fortezza nella fortezza, il luogo del potere, detenuto da un dittatore fascisteggiante, mentre per le vie della città l’anarchia viene appena smussata da una polizia tanto brutale quanto inutile. In questo contesto la coincidenza di due eventi straordinari dà inizio alla storia.
Il primo è il ritorno dallo spazio di una navicella partita cinquant’anni prima, da cui viene catapultato fuori un astronauta surgelato, che si sveglierà nel nuovo ambiente, del tutto ignaro di quanto gli è successo e delle trasformazioni avvenute in sua assenza nel mondo. Il secondo evento è l’arrivo di un’astronave aliena, a forma di piramide, abitata dagli Immortali, ovvero dagli dei della mitologia egizia – una fermata tecnica, dovuta sia alla mancanza di carburante (e il rifornimento viene domandato-imposto al governante di Parigi) sia a una feroce lotta intestina, che vede contrapposto Horus, il dio dalla testa di falco, agli altri dei. Horus fugge e scende in città, nascondendosi nel corpo di Alcide Nikopol, l’astronauta, alieno ormai non meno di lui. Tra i due si crea così un sodalizio, che porta sì Nikopol a rovesciare il governatore e ad assumere il potere, ma anche alla pazzia: troppi e troppo diversi dal suo modo di comprendere il mondo sono gli eventi che gli accadono. Finirà per prendere il suo posto di comando il figlio-sosia, identico al padre anche per età, visti gli anni passati in ibernazione da quest’ultimo.
Nel 1986 Bilal ha scritto un seguito alla “Fiera degli Immortali”. Ne “La donna-trappola”, un Nikopol che ha riacquistato una precaria stabilità mentale, ora unito ora separato da Horus, vive un’angosciosa storia d’amore e allucinazione con una giornalista venuta dal futuro, in preda a visioni omicide a causa di un dosaggio sbagliato di medicinali. Come sfondo l’intera Europa, focalizzata su Berlino, una città in guerra costante.
Ed ecco, finalmente, dopo altri sei anni, una terza e forse conclusiva parte della saga. “Freddo Equatore” è stato da poco pubblicato a Parigi da Les Humanoides Associés, e in Italia ha iniziato una pubblicazione a puntate (poche e corpose, sembra, a giudicare dalla prima) sulla rivista Il Grifo. Protagonista, almeno all’inizio, non è più Nikopol, ma suo figlio, alla ricerca del padre attraverso un’Africa popolata di animali senzienti.
Nell’attuale contesto del fumetto in Italia, dominato dalla produzione americana, nonostante la sua incipiente crisi, e dalla crescita delle produzioni giapponesi, l’opera di Bilal appare un po’ come un prezioso anacronismo. Anacronistica appare un po’, oggi, tutta la produzione francese, ma l’appellativo di “prezioso” si addice a ben poche opere.
Questo “Freddo Equatore” si inserisce per molti aspetti nella migliore tradizione degli Umanoidi Associati, una tradizione iniziata verso la fine degli anni sessanta e che ha avuto nei settanta la sua massima espressione, per poi adagiarsi progressivamente nel corso del decennio successivo, contestualmente alla crisi dell’intero fumetto francese. Facevano parte del gruppo autori come Moebius, Druillet, Forest, Tardi, Dionnet, tutti ben noti in Italia, almeno prima che cambiasse la tendenza e il successo editoriale del fumetto non venisse ricostruito su nuove basi, tanto poco francesi quanto prima lo erano.
Enki Bilal, un po’ più giovane degli altri, comparve sulla scena degli Umanoidi qualche anno dopo gli inizi, ma con un’immediata notorietà. Mentre Moebius e Druillet stavano ancora distruggendo la forma-racconto tradizionale, costruendo fumetti in cui la storia era spesso solo un tortuoso pretesto per mettere a fuoco relazioni tra zone remote dell’immaginario collettivo, Bilal aveva già ripreso a raccontare davvero, ma con lo spirito di chi viene dopo la rivoluzione, e ritiene sia ora di ricostruire, una volta che si è imparato che cosa era stato giusto distruggere. Anche dal punto di vista grafico, alla leggerezza di Moebius e ai barocchismi di Druillet, Bilal contrappone uno stile solido e materiale, un disegno narrativo fino in fondo.
Forse proprio per questa sua diversità, le storie di Bilal hanno avuto le caratteristiche (ora più ora meno rilevanti) di “preziosi anacronismi” sin dall’inizio. Testardamente consistenti quando dominava l'”immaginazione al potere”, appaiono oggi come oggetti di inusuale densità e conclusività, di fronte ai modelli di narrativa seriale che vanno per la maggiore. Ma forse proprio per questa loro persistenza della diversità non condividono l’impressione che gran parte dei grandi classici autori francesi, Moebius in testa, provocano da qualche anno con le loro nuove storie: l’impressione cioè di arrivare da un’epoca conclusa, continuando a ripetere modalità espressive di cui noi lettori ci domandiamo – e solo di quando in quando – se davvero hanno ancora senso per la nostra sensibilità di oggi.
I fumetti di Bilal non sono mai stati una lettura facile – il disegno è complesso, il testo verbale è abbondante, le vicende sono intricate. Continuano anche oggi ad avere però lo spessore e la profondità del grande romanzo, quello che si produce in un’epoca e ne è chiaramente figlio, ma si continua a rileggerlo con gusto anche dopo molti anni che quell’epoca è tramontata.
Strisce d’oltre Manica con vocazione letteraria
Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 1993
Chi è o è stato lettore di Jeff Hawke conosce la vocazione letteraria del fumetto britannico. Jeff Hawke, di Sydney Jordan, è un serial di fantascienza che accompagna in forma di strip da quasi quarant’ anni l’ uscita di molti quotidiani dell’ isola e d’ altrove. In Italia, dove la striscia pubblicata giorno dopo giorno non ha mai riscosso grande successo, lo abbiamo conosciuto grazie alla rivista Linus, e alla successiva pubblicazione in una lunghissima serie di volumi.
C’ è un filone visionario, d’ altra parte, nella stessa letteratura britannica, da Shakespeare e Marlowe (e chissà da quanto prima) a Milton, a Blake, a Byron, a De Quincey, a Joyce. Non si tratta di un fenomeno prettamente letterario, o perlomeno non di qualcosa che riguardi solamente la alta letteratura: una vena di fantastico attraversa con un’ intensità non indifferente l’ intero contesto culturale britannico. Attraverso di essa, alta cultura e cultura popolare si ritrovano singolarmente solidali.
Il fumetto, che ha una storica vocazione al fantastico e al visionario, e che nel Regno Unito è arrivato e cresciuto rapidamente (anche grazie all’ identità linguistica con gli Stati Uniti), ha trovato in questa eredità culturale un terreno fertile. Con tradizioni letterarie e popolari che sul tema del fantastico si trovano così vicine, è stato del tutto naturale per il fumetto britannico, a partire da un certo momento della sua evoluzione, accogliere nel proprio universo di riferimento tanta letteratura che in altre tradizioni nazionali rimane di solito lontana dal gusto di un pubblico di massa.
L’ effetto di questo recupero è sensibile soprattutto negli ultimi vent’ anni, ma è rintracciabile anche in numerose produzioni precedenti, come ben sanno gli appassionati di Jeff Hawke. Non è che il fumetto britannico copi o riproduca modi letterari (l’ influsso del cinema rimane di sicuro più evidente); è che la letteratura fa comunque parte del suo background di riferimento in un modo che in altre nazioni si incontra solo in fumetti rivolti espressamente a un pubblico colto. Basta considerare quello che succede negli anni Settanta, quando la americanissima Marvel (Uomo-Ragno, Fantastici Quattro, Hulk…) crea per il mercato locale un supereroe britannico, Captain Britain, e lo affida ad autori locali: persino un simile campione di superomismo americano diventa in Gran Bretagna il malinconico e problematico protagonista di una saga in cui elfi, streghe e buffoni non riescono a perdere una eco di shakespeariana vivacità .
Il momento di particolare successo che il fumetto britannico sta vivendo in questi anni deve molto all’ interesse della cultura americana. Una nutrita schiera di giovani sceneggiatori e disegnatori, che sino a qualche anno fa vivacchiavano in patria senza troppi riconoscimenti, è stata scoperta negli anni Ottanta dal mercato statunitense. Le case Usa più importanti hanno affidato loro parti sempre crescenti della propria produzione, ed essi si sono trovati a realizzare storie di supereroi senza, spesso, essere cresciuti avvolti dal mito di Superman, come accade invece normalmente ai giovani disegnatori d’ oltre oceano. E l’ effetto, sulla produzione americana, si è visto, sia per qualità che per vendite. In questo momento, un’ ampia maggioranza delle serie migliori della Dc Comics è realizzata in tutto o in parte da autori britannici. Il successo americano ha avuto come effetto collaterale quello di rilanciare la produzione nella madrepatria. Fattisi conoscere sugli albi statunitensi, i medesimi autori hanno potuto pubblicare in Gran Bretagna; il mercato si è aperto e ha lasciato spazi anche per autori che, quanto a carattere e tipo di produzione, non avrebbero mai potuto sperare in una cooptazione d’ oltre oceano. Chris Reynolds è tra questi.
In Italia, gli autori britannici sono arrivati per la via traversa del comic book americano, ma su riviste come Corto Maltese e Nova Express è da qualche tempo possibile trovare ampi e interessanti esempi anche di quella produzione che non è mediata dal mercato Usa. Tra i libri, che pure si iniziano a pubblicare, due sono recentissimi.
Uno di questi è un saggio critico sulle tendenze del fumetto britannico contemporaneo, dedicato in modo particolare a quegli autori che si sono imposti sul mercato americano, autori come Alan Moore, Neil Gaiman, Pat Mills, Kevin Ò Neill, David Lloyd, Grant Morrison, John Bolton e altri ancora. Si tratta di Nuvole britanniche, di Federico A. Amico, edito dalla Granata Press di Bologna, un libro preciso e dettagliato, ricco di analisi ancor più che di informazioni. Esce da questo libro un quadro piuttosto chiaro della situazione, anche se forse un po’ troppo focalizzato sui singoli autori cui lo studio è dedicato, mentre restano a margine una serie di aspetti contestuali cui sarebbe forse valsa la pena di dedicare più spazio.
Ne restano per esempio fuori (ma l’ esclusione è dichiarata) tutti gli aspetti un po’ underground della produzione d’ oltre Manica, anche quando si tratti di personaggi significativi come Hunt Emerson di cui qualche anno fa, per qualche tempo, “il Manifesto” pubblicò quotidianamente una striscia esilarante: Calculus Cat. E ne resta fuori Chris Reynolds, l’ autore di Mauretania, da poco pubblicato in Italia da Feltrinelli nella collana “I Canguri”.
Mauretania è il secondo romanzo per immagini di questa collana – che normalmente pubblica letteratura – dopo L’ uomo alla finestra di Lorenzo Mattotti. Con la storia di Mattotti, quella di Reynolds condivide l’accento sulla dimensione interiore, sulle sfumature emotive, sui silenzi e sulle contemplazioni. Diversissimo è invece il carattere grafico dei due testi, perché di fronte alla ricchezza del pennino di Mattotti, agilissimo nell’ esprimere tutti i colori delle emozioni, Reynolds non sembra offrire niente di più che una semplicità di segno che pare sconfinare nella banalità. Ma si tratta di un’ impressione solo superficiale. A mano a mano che si entra nel romanzo, questa essenzialità , questa povertà grafica, diventa progressivamente meno rilevante, lasciando emergere al suo posto il ritmo lento, gentile, profondo, con cui questi segni abbozzati disegnano una vita cui la monotona ripetizione degli atti di ogni giorno non arriva a togliere senso e interesse. Tanto più che quando questa vita uniforme viene smossa dagli eventi che il romanzo racconta, il suo essere raccontata con la medesima povertà di segno lascia il lettore con il dubbio se gli eventi fantastici che l’ hanno movimentata siano in fin dei conti davvero differenti dal tornare a casa, dal parlare con la madre, dall’ avere un lavoro in un ufficio, dallo sposarsi o meno.
Il fantastico – qui nella forma della paradossale relazione tra un minuscolo evento nella campagna inglese e il destino del mondo – non è, per Reynolds, nulla di strano o eccezionale, nulla che richieda spettacolarizzazione o stupore. Di quello che accade in Mauretania sembra non stupirsi nessuno dei personaggi: tutto è sempre, ed è destinato a rimanere, malinconica ma anche serena quotidianità .
Intellettuali a fumetti
Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 1992
Nella pletora di pubblicazioni precotte e riscaldate che caratterizza l’editoria americana a fumetti, accanto a un numero non particolarmente ampio di produzioni cucinate a puntino, si distingue una rivista in cui abbondano i piatti crudi, con una nouvelle cuisine fumettistica particolarmente invitante. Si tratta di Raw, un magazine newyorkese dalla periodicità incerta, dalla evidente cura artigianale, rivolto esplicitamente (e ironicamente) ai “damned intellectuals” della Grande Mela e del resto del mondo. In Italia Raw non è facile da trovare, ma vale la pena di parlarne lo stesso. Oltre che per le sue qualità, vale la pena di parlarne perché ultimamente si è molto parlato del suo direttore e fondatore: Art Spiegelman.
Art Spiegelman è l’autore di Maus, un romanzo grafico il cui secondo volume è stato recentemente pubblicato in italiano dalla Milano Libri (e recensito su queste pagine alcune settimane fa). Con Maus, Spiegelman ha creato un’opera piena di fascino e culturalmente importante, ma ha anche costituito un precedente, sia negli Stati Uniti che in Italia: là come qui Maus è stato il primo libro a fumetti che stampa e pubblico hanno trattato con lo stesso tono con cui normalmente trattano i romanzi, invece che con l’accondiscendenza un poco ironica che viene spesso riservata a queste pubblicazioni. Storia drammatica dell’olocausto ebraico, storia ironica (e un po’ tragica) del rapporto con un padre chiuso nel proprio mondo, storia di un’umanità brulicante e resa ancor più umana dall’aver assunto l’aspetto di piccoli animali (topi, gatti, maialini, cani), Maus merita tutti gli elogi che gli sono stati fatti, e un successo presso il pubblico italiano come quello (notevole) cha ha già avuto in America.
Anche se il suo autore non è molto conosciuto al grande pubblico – e non lo era nemmeno a quello americano – Maus non è un opera prima. Spiegelman è arrivato a concepirlo e realizzarlo (con impegno e fatica) dopo una lunga militanza nel fumetto underground, e dopo molti precedenti, anche se nessuno di una portata paragonabile. Inoltre, non è davvero un caso che sia stata quest’opera la prima a uscire dal ghetto culturale in cui sono di solito relegati i comics negli USA. Se c’è qualcuno in America che ha creduto nel fumetto come strumento di espressione artistica di grandi potenzialità, e che ha lavorato e combattuto per diffonderne l’idea, questo è proprio lui. E Raw è stata la sua spada.
Quando Raw è nata, nel 1980, il fumetto underground americano si trovava già da tempo su un lungo, lunghissimo viale del tramonto. Negli anni sessanta e settanta l’underground aveva rappresentato la risposta dell’intellettualità di ambiente universitario al monopolio delle grandi case editrici di fumetti. Negli Stati Uniti, il fumetto che non fosse comic strip, cioè che non fosse di quel genere che si trova pubblicato ogni giorno sui quotidiani, era (ed è tuttora) in larga parte fumetto di supereroi. Sino a tutti gli anni settanta, il pubblico dei fumetti di supereroi era certamente tutt’altro che acculturato, o polemico nei confronti della società. Così, degli outsider come Robert Crumb (“Fritz the Cat”) e Gilbert Shelton (“The Fabulous Furry Freak Brothers”) trovarono un pubblico per i loro disegni e le loro storie dissacranti in quell’ambiente studentesco da cui essi stessi provenivano: un ambiente insofferente, contestatore, pacifista, ecologista ante litteram, talora non lontano dal movimento hippy.
Contro la logica dei monopoli editoriali, il fumetto underground veniva stampato e prodotto artigianalmente, diffondendosi e facendosi conoscere più tramite il tamtam personale degli ambienti studenteschi che non avvalendosi di operazioni commerciali vere e proprie. Negli anni settanta il suo successo e il suo peso culturale fu tale da ingenerare una vera crisi nella grande editoria.
Ma l’underground, per quanto intelligente e sarcastico, mancava della raffinatezza necessaria a farsi accettare dalla classe intellettuale americana in un modo che andasse al di là dalla semplice dissacrazione politica o sessuale. E soprattutto si proponeva con discorsi, e modalità di costruirli, diversi da quelli che la cosiddetta “alta cultura” riconosceva come propri. Tanto più significativo, questo, in un ambiente culturale come quello USA, con tutte le sue essenziali ripartizioni e classificazioni accademiche di generi e linguaggi.
Nel 1980 dell’undeground rimaneva tanto poco quanto della contestazione studentesca. I suoi effetti più forti si sarebbero visti, di lì a poco e paradossalmente, proprio su quel fumetto di supereroi del quale aveva già provocato la crisi, ma che in quel momento incominciava a dare chiari segni di ripresa. Raw fu inventata da Spiegelman, insieme con la moglie Françoise Mouly, con l’idea di una rivista evidentemente underground, per marginalità e provocatorietà, ma molto diversa dalle altre per stile e intensità del discorso. Ambedue i fondatori appartenevano a quello stesso ambiente intellettuale cui si rivolgevano, ma intendevano aprirlo a un modo di comunicare diverso, che non fosse né quello della pittura e delle arti visive né quello della letteratura, ma che potesse ugualmente comunicare con entrambe.
Il risultato è che Raw è da tredici anni oggi una rivista unica al mondo, per qualità e continuità, e rappresenta per molte persone una specie di mito. Spiegelman e Mouly vi hanno alternato autori americani, europei e giapponesi, con una sapiente e calibrata riproposta di classici un po’ dimenticati. Non so quanto dicano ai lettori italiani i nomi di Sue Coe, Jerry Moriarty e Mark Beyer, autori forse un po’ troppo legati a quell’espressionismo crudo ed emotivamente violento tipico di molta arte newyorkese per essere davvero amati in Europa. Probabilmente il nome di Charles Burns è già più noto, vista anche la sua lunga permanenza in Italia e la sua partecipazione al gruppo italiano Valvoline nei primi anni ottanta. Joost Swarte, Ever Meulen e Lorenzo Mattotti sono tra gli europei che compaiono su Raw.
Uno degli aspetti più affascinanti della rivista è la sua alternanza tra autori così diversi. Spesso impressionante è il contrasto – non di rado da una pagina all’altra – tra il caos pollockiano di Gary Panter e l’ironia elegante di Swarte, tra l’intensità narrativa di José Muñoz e l’irriverenza grafica di Pascal Doury, tra la sensualità materica di Mattotti e il concettualismo underground di Kim Deitch. Eppure, l’insieme tiene, senza dare in alcun modo l’idea di un contenitore neutro. La linea intellettuale è chiara e coerente. Complessa, questo sì, come un pranzo di nouvelle cuisine, in cui lo chef accosti sapori tradizionalmente lontanissimi, alla ricerca di nuove relazioni tra loro, e di altri sapori che emergano dalla relazione.
Spiegelman ha trovato questi nuovi sapori. La contaminazione di tragedia e ironia che rende grande il suo romanzo, Maus, mostra altre facce, altri modi di essere, in Raw. Con la sua rivista, questo altro piccolo ebreo newyorkese dimostra di non essere solamente un grande solista, ma anche un sapiente direttore d’orchestra.
Se ne è accorta, tra gli altri, la casa editrice Penguin, che dal 1990 si è presa carico della pubblicazione e distribuzione, dopo dieci anni di ostinato e intenso lavoro casalingo.
Snoopy, il fantastico fatto a bracchetto
Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 1992
Giocatore di hockey, tennista di grido, esploratore, romanziere, pilota della Grande Guerra, avvoltoio, serpente a sonagli: il bracchetto Snoopy è tutto tranne quello che dovrebbe essere. Come cane da guardia non è senz’altro da raccomandare, ma come personaggio di comic strip è probabilmente quanto di più riuscito il nostro secolo abbia prodotto.
Sono in questi giorni quarantadue anni che il fantasioso bracchetto è uscito per la prima volta dalla penna di Charles Monroe Schulz: le prime strisce dei Peanuts comparvero infatti sui quotidiani americani nell’ottobre del 1950. Non era previsto che si chiamassero così: il nome doveva essere Li’l folks, “Piccola gente”, ma qualcuno cui Schulz aveva presentato la striscia commentò “Sembrano noccioline”; e così si chiamarono: “noccioline”, “peanuts”.
Il successo di questo comic, che raccontava di bambini con trasfigurati problemi di adulti, fu notevole sin dall’inizio. In un’America in cui la psicoanalisi incominciava a furoreggiare, la striscia di Schulz faceva sorridere dei luoghi comuni della quotidianità, e delle debolezze di ciascuno. Il mondo di bambini che vi veniva rappresentato era scopertamente una metafora del mondo degli adulti, ma permetteva al racconto di rendere palese quello che nella vita è implicito, attraverso l’ingenuità comunicativa (ma niente affatto psicologica) dei suoi personaggi. In altre parole, Charlie Brown, Linus, Lucy e compagnia erano dei bambini con la psicologia dei grandi e la facilità comunicativa dei piccoli.
Ma i Peanuts del 1950 erano ancora piuttosto diversi da quelli di oggi. Al posto dello stile grafico un poco tremolante e dalle linee essenziali che ben conosciamo tutti, c’erano delle linee perfette e curate, un po’ fredde nella loro regolarità. E poi Snoopy era quasi irriconoscibile: molto più cane di quanto non sia ora, nel 1950 Snoopy era davvero un cucciolo di bracchetto, impegnato a correre dietro alle persone e a recuperare bastoncini, senza il minimo accenno di fantasia simil-umana.
Lo Snoopy che conosciamo noi si forma piano piano durante gli anni cinquanta, ed è già del tutto lui quando i Peanuts sbarcano in Italia. Siamo nei primi anni sessanta, all’epoca della pubblicazione dei libri di Charlie Brown da parte delle edizioni Milano Libri. A testimoniare l’importanza che venne data sin dall’inizio a queste pubblicazioni potrebbe bastare l’introduzione di Umberto Eco al primo volume, introduzione poi ripresa per un famoso articolo in Apocalittici e integrati. Qualche anno dopo, poi, un’edizione Mondadori delle strisce di Schulz sarebbe stata titolata Il bambino a una dimensione, con evidente riferimento (e niente affatto a sproposito) all’opera di Herbert Marcuse.
Le problematiche di interazione psicologica ironicamente affrontate nei Peanuts trovarono presto un discreto terreno in Italia, ma il personaggio che in quegli anni godeva della massima attenzione non era Snoopy, bensì il frustrato Charlie Brown. Negli anni dell’esistenzialismo e dei primi fermenti della sinistra non storica, Charlie Brown era lo specchio in cui ciascuno poteva veder riflessa la propria epocale incapacità di vivere: un sentimento che era allora molto di moda.
Nonostante questo, la rivista che nacque nel 1965 si chiamò Linus, e non Charlie Brown. Contribuirono sicuramente alla decisione anche ragioni di semplicità del nome, ma non si può trascurare il ruolo fondamentalmente positivo e ragionevole che il personaggio Linus gioca nel mondo di Schulz. Era forse già scritto in questa scelta che qualche anno più tardi la rivista Linus sarebbe passata dall’intellettuale proposta di fumetti del presente e del passato, alla critica politica impegnata e a una quasi militanza nella sinistra giovanile degli anni settanta.
Snoopy in tutto ciò non è mai stato marginale, ma la sua dimensione fantastica e dolcemente demenziale si trovava forse un po’ fuori sintonia con le tendenze di quegli anni. Il mondo di Snoopy è un mondo a parte persino all’interno del mondo dei Peanuts: della “poesia ininterrotta” (definizione di Eco) che caratterizza la narrazione dei Peanuts, le vicende di Snoopy sono un po’ la parte da teatro dell’assurdo, da “deragliamento dei sensi”. Sul palcoscenico della striscia, dove si alternano illusioni e frustrazioni (tutte filtrate attraverso una luce ingentilente e ironica che le spoglia dell’angoscia senza vuotarle di significato), Snoopy è l’unico a non conoscere né le une né le altre.
Il suo fascino è quello di vivere un’illusione così perfetta da non patire alcun confronto con la realtà, col risultato di non essere nemmeno più vera illusione. Nulla può distogliere Snoopy dal suo mondo irreale, perché tutto quello che gli succede viene subito tradotto nei suoi termini, ed entra immediatamente a farne parte: deludere Snoopy è impossibile. Snoopy incarna la fuga dalla realtà, è il fantastico fatto bracchetto.
Oggi, anni novanta, è ormai da tempo che Snoopy rappresenta il personaggio-simbolo dei Peanuts, quello che più di tutti incarna lo spirito di Schulz, quello più amato dal grande pubblico. Giustamente perciò la mostra che celebra il quarantennio dei Peanuts è intitolata a lui. Dopo essere stata, in forma molto più ridotta, a Parigi, la mostra “Il mondo di Snoopy” è approdata a Roma, presso lo Spazio Flaminio, dove è stata inaugurata venerdì 16 ottobre.
Non vi si trovano soltanto le tavole originali di Schulz (e l’autore in persona, almeno sino a ieri), che ne costituiscono comunque il cuore. Ad esse si aggiungono molte altre sezioni, tra cui quella che contiene una serie di omaggi a Snoopy da parte di pittori, architetti, designer e fumettisti, quella con la sfilata di moda per Snoopy, un’aula didattica con brevi lezioni sulla comunicazione, una mostra del merchandising di Snoopy (un aspetto del successo di Schulz da non trascurare), film, interviste registrate, videogiochi… Un mondo di Snoopy che non è solamente il mondo suo, interiore, ma anche tutto quello, esteriore, che si è sviluppato col tempo e che ha contribuito a fare del bracchetto fantasioso un mito di oggi, il mito del bambino che può permettersi di non crescere mai, persino quando un intero universo ruota attorno a lui.
La mostra è organizzata dal Gruppo Prospettive, di Roma, e conta prestigiose collaborazioni di enti e persone. Resterà aperta sino al 17 gennaio. Tappe successive in Italia Milano e Venezia, poi Europa e Stati Uniti.
E l’Uomo-pipistrello risorge dalle ceneri
Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 1992
Non è trascorso molto tempo da quando era la norma che un film tratto o ispirato a un fumetto americano fosse un prodotto non solo di consumo, ma anche di scarse pretese estetiche e poche o nulle velleità artistiche. Forse qualcuno ricorderà alcuni film del dopoguerra o degli anni cinquanta ispirati a Batman o a Superman, a Dick Tracy o a Flash Gordon; e quasi tutti ricorderanno le infelici pellicole di Superman di qualche anno fa. Ma l’inversione di tendenza avvenuta quattro anni or sono con il primo Batman di Tim Burton, poi confermata dal Dick Tracy di Warren Beatty e ora nuovamente dal secondo Batman, è stata troppo netta e forte da rimanere inosservata: tre film decisamente interessanti, tre esempi ben riusciti di cinema antinaturalistico e surreale. Ma non so quante persone siano riuscite a darsi una risposta sul perché di questo cambiamento.
La spiegazione superficiale è che, dopo tanto tempo, solo oggi dei registi intelligenti e sensibili come Burton e Beatty hanno deciso di manifestare la propria passione per un universo di personaggi cui nessuno aveva mai prestato interesse nel cinema, se non per ragioni di semplice cassetta: osservazione vera ma insufficiente. Per capire qualche cosa di più è necessario sapere che nel mondo del comic book americano gli anni ottanta sono stati segnati da un’enorme trasformazione, e che il personaggio del Batman ne è stato al centro.
Il comic book, fascicoletto mensile a colori su carta povera, rappresenta da lungo tempo uno dei due principali modi di pubblicazione del fumetto americano; l’altro è la strip, la striscia che compare ogni giorno sui quotidiani. Tradizionalmente strip e comic book si sono rivolti a pubblici differenti, adulto la prima (i lettori dei quotidiani), bambino o adolescente il secondo. I cosiddetti supereroi, da Superman all’Uomo-Ragno al Batman, sono personaggi da comic book, mentre sui quotidiani troviamo sia strisce umoristiche come i Peanuts, Doonesbury, B.C. e Calvin & Hobbes, sia strisce di carattere più avventuroso, a puntate, come Dick Tracy.
Fino a una decina di anni fa la situazione del fumetto americano è rimasta descrivibile sostanzialmente in questi termini. Ma una serie di fattori, economici e culturali, hanno spinto, da quel momento in poi, verso il cambiamento: da un lato il comic book si è trovato con l’esigenza di una crescita del mercato, appena ripresosi dalla paurosa crisi degli anni settanta, e dall’altro gli autori più giovani hanno spesso agito sotto l’influsso delle novità occorse nel frattempo in Europa, dove, soprattutto in Francia e in Italia, si era intanto imposto un fumetto molto più colto, decisamente destinato a un pubblico adulto e consapevole. Si aggiunga che la crisi del comic book di supereroi degli anni settanta ha annoverato tra le sue ragioni anche il successo del fumetto underground, vicino alla contestazione studentesca – e quindi a sua volta innovativo, irriverente, slegato dai vecchi schemi. E c’è stato infine il fatto, tutt’altro che trascurabile, che i personaggi del comic book sono conosciuti ai lettori americani (e non americani) ormai da decenni, ed esiste di conseguenza un potenziale pubblico adulto che li conosce per averli frequentati in età più giovane.
Una serie di circostanze che sarebbero forse rimaste senza alcun collegamento, senza sortire conseguenze rilevanti, se non fosse stato per un giovane autore, Frank Miller. Fu lui che nel 1985, dopo una serie di prove personali di crescente successo, decise di creare una miniserie in quattro parti sul Batman, su basi completamente nuove rispetto al passato. Slegata dalla serie regolare dove si raccontano le avventure dell’uomo-pipistrello, Batman – The Dark Knight (pubblicato in Italia dalla Milano Libri) racconta il ritorno sulle scene di un Batman invecchiato, ultracinquantenne, in un contesto umano e sociale che fatica a riaccettarlo, in un contesto politico sull’orlo della guerra mondiale, e alle prese con i peggiori tra i nemici di sempre, ora più mortali che mai. Robin è morto sul campo anni prima, i supereroi insieme con cui egli combatteva sono banditi dalla legge, mentre il solo Superman agisce in incognito come braccio armato del Presidente, ligio al potere come sempre.
La storia raccontata da Miller ha la complessità, la profondità, l’impatto emotivo dei migliori esempi di letteratura americana, cinematografica e non. Si rivolge a un pubblico di adulti che sono stati ragazzi e che come ragazzi hanno letto, conosciuto e amato quei personaggi. Richiede al suo lettore l’accettazione di un mito, e glie ne presenta in cambio la versione adulta, problematica, complessa, articolata in mille facce dall’aspetto differente. L’eroe Batman è sì il simbolo della purezza morale, ma evoca ora le pericolose sembianze del cittadino che si pone al di sopra della legge, ora il fulgore oscuro del combattente misconosciuto, ora l’ansimo patetico di chi ha messo in moto un meccanismo destinato a schiacciarlo, ora la coinvolgente euforia di chi sa trovare la soluzione non convenzionale al problema impossibile, ora, infine, la malinconia di chi vive un tempo che non è più il suo.
Quando The Dark Knight viene pubblicato, nel 1986, il successo è clamoroso: le ristampe si succedono alle ristampe in tempi brevissimi – e, cosa più importante, la maggior parte dei nuovi lettori sono adulti, spesso adulti acculturati. E’ un nuovo mercato che si è aperto al comic book, un mercato più difficile e di umori alterni, ma sufficiente a risollevare le sorti del settore. A partire da questo episodio i comic book di supereroi per adulti, già nati da qualche anno, diventano una forte realtà editoriale: prodotti strani, soprattutto quando visti con gli occhi dell’Europa, per la loro acerba contaminazione tra temi che qui da noi possono sembrare eccessivi (come quello, reiterato, del superuomo) e modalità narrative e stilistiche decisamente raffinate.
Con il passare degli anni, il comic book per adulti è passato dal momento esplosivo a una più assestata fase di routine. Oggi è difficile dire dove finiscano i prodotti dedicati ai ragazzi e inizino quelli destinati ai grandi. Se allora il valore estetico delle storie per gli adulti era un fatto evidente, oggi la differenza sta forse più nel modo di scrivere che nella qualità. Inoltre, l’intero mondo del fumetto di supereroi ha subito il contraccolpo della storia di Miller e di alcune altre che nel medesimo periodo, con minore fortuna editoriale, ne hanno condiviso lo spirito.
Così, il mito del supereroe campione di virtù, perfetto e immortale, si è trasformato nella critica del mito (che non ne cancella la presenza, anzi, semmai, la rende ancora più accettabile), e l’immobilità temporale dei personaggi è divenuta un’apparente ma vorticosa trasformazione. Gli ultimi anni hanno visto una serie di avvenimenti nel mondo fatato degli eroi del comic book che non sarebbero stati nemmeno pensabili in passato: abbiamo assistito in diretta alla morte di Robin, aiutante e pupillo del Batman, abbiamo assistito al matrimonio dell’Uomo-Ragno e al frazionamento degli X-Men; una pletora di eroi minori, ma pur sempre eroi e protagonisti, sono caduti sul campo e usciti di scena. Qualche anno fa è stata pubblicata addirittura una serie i cui eroi erano destinati a morire dopo breve tempo a causa dello stesso procedimento che donava loro i super-poteri. In questo contesto l’annunciata morte di Superman non stupisce affatto, oggi; e come sa ogni buon lettore di supereroi, la morte del personaggio non è la morte del mito, poiché le sue avventure possono continuare in una miriade di modi, senza nemmeno ricorrere all’obsoleto (ma non del tutto abbandonato) trucco della resurrezione o della falsa morte: vi sono infinite avventure al passato dello scomparso Superman che devono ancora essere raccontate, e vi sono infiniti eredi nel presente che ne possono evocare la grandezza agendo nel suo nome…
Insomma, i bei film sul Batman che Tim Burton ci ha regalato hanno radici nello stesso retroscena che sta condannando Superman a gloriosa (e remunerativa) morte. Forse tutto questo visto dall’Europa fa sorridere un poco, e getta ombre di fanciullezza sull’intera cultura americana. Ma davanti allo schermo cinematografico ogni tanto anche la vecchia Europa può ben apprezzare quest’aura di giovanile mitologismo, per quanto alieno esso le possa sembrare.
Sono un po’ stanco di scervellarmi per i post di questo blog. Stanchezza estiva. Voglia di ferie.
E ferie siano. Da lunedì.
Ma ho fatto una pensata per non lasciare sguarnite queste pagine. Tra il 1992 e il 2005 ho scritto numerose recensioni per il Domenicale de Il Sole 24 Ore. Non è un materiale che abbia molto senso ripubblicare in volume, perché si tratta davvero di cose d’occasione, legate all’attualità del momento. Ma possono ben apparire qui, d’estate, a tempo perso.
Se a qualcuno interessano, tanto meglio. Se invece no, non sarà molto diverso che se avessi lasciato il blog sguarnito.
Da lunedì 11 luglio, dal lunedì al venerdì, pubblicherò, al ritmo di una al giorno, queste Recensioni d’annata, così come sono, senza toccare una virgola, magari anche senza rileggerle. Era quello che scrivevo allora, sia chiaro.
Poi, se capita l’occasione, la voglia e il tempo, potrebbe apparire anche qualche post attuale.
Buona estate!
Magnus, Le femmine incantate, pag11
Volevo parlare di tempo raccontato e tempo del racconto nel fumetto, ma nel cercare l’esempio giusto mi sono reso conto che le cose sono molto più complicate di quello che mi preparavo a dire. L’opposizione tra tempo raccontato e tempo del racconto è tradizionale in narratologia, e contrappone il tempo che trascorre nell’universo dei fatti narrati a quello che trascorre nell’universo reale, impegnato nel corso della lettura.
Volevo dire che il tempo del racconto non è solo un fatto empirico, ma che è tipicamente organizzato in modo da costruire nel lettore una durata interiore dell’evento che si sta raccontando. In altre parole, posso raccontare brevemente o a lungo un evento di durata narrata breve oppure lunga, senza nessun vincolo di corrispondenza; ma un evento che richiede un tempo di lettura maggiore impegnerà l’attenzione del lettore più a lungo, e sarà perciò sentito come più importante.
Così esposto, tuttavia, il principio non è corretto. In una sequenza narrativa complessiva, un evento può richiedere un tempo del racconto maggiore di un altro anche solo perché corrisponde a un tempo raccontato maggiore. In questo caso, la maggiore attenzione che richiede non rimanda a una sua maggiore importanza, ma solo a una sua maggiore durata. Quando invece si allunga il tempo di lettura (più tempo del racconto) a parità di tempo raccontato, allora è evidente che si sta dando particolare rilievo all’evento, perché il tempo psicologico (insieme con l’attenzione) che esso richiede/induce non è giustificato dal solo tempo raccontato.
Guardando questa tavola di Magnus, mi rendo però conto che anche questa formulazione non è ancora del tutto corretta. Infatti è evidente che l’evento di maggior rilievo qui è quello della vignetta centrale, ma possiamo davvero dubitare del fatto che il pure evidente rilievo visivo di cui essa gode abbia come effetto una sua maggiore durata percettiva da parte del lettore: in altre parole, la vignetta centrale chiederà certamente maggiore attenzione, ma non è affatto detto che richieda maggiore durata di lettura.
Forse dobbiamo riformulare il principio in questo modo: non è semplicemente il rapporto tra il tempo del racconto e il tempo raccontato a costruire in noi un’esperienza percettiva di maggior durata e intensità. Probabilmente è sufficiente il suggerimento che quel pezzo di racconto sia particolarmente importante, e che dunque andrebbe fruito più a lungo per meglio coglierne il valore. Non una durata effettiva della percezione è dunque in gioco, bensì il suggerimento dell’opportunità di una durata.
In questa pagina sono molti i fattori che concorrono alla valorizzazione della vignetta centrale: c’è la sua dimensione maggiore, la posizione centrale stessa, l’effetto passepartout attorno ai due volti centrali; e poi, narrativamente, essa contiene l’evento preparato nelle vignette precedenti; e poi, subito dopo di essa, il tono del racconto (e anche dei neri della pagina) cambia di colpo: dalle figure simmetriche ed eleganti e statiche delle prime vignette si passa a quelle asimmetriche e mosse e in apprensione delle ultime vignette.
Ma questa pagina non è fatta per essere letta solo in sequenza. Tutta la serie de Le femmine incantate è fatta per una rilettura ripetuta, destinata a nuove scoperte visive e narrative a ogni visita successiva. Leggendo e rileggendo questa pagina, il tempo del racconto dell’immagine centrale, ovvero la durata percettiva che le dedichiamo, finisce per essere molto maggiore di quella delle altre, non foss’altro perché l’occhio corre sempre lì, una volta che la curiosità del “come va a finire” che caratterizza ogni prima lettura si sia esaurita.
Così, l’evento dell’atto d’amore tra l’uomo e la dea, per quanto rinchiuso in una sola immagine, dura psicologicamente quanto il resto della storia, perché tutta la storia gira intorno a quello, prima preparandolo e poi traendone le conseguenze. Raccontare non è riportare dei fatti: è costruire un andamento ritmico dell’anima in cui le nostre stesse passioni si possano riconoscere, trovando in questo forma nuova.
Lorena Canottiere, Oche, pag.11
Trovo questa bella grande vignetta (a piena pagina) dentro Oche, di Lorena Canottiere, da poco uscito per Coconino. La trovo bella, molto ben disegnata e con un tratto originale. Apre, dopo una specie di prologo, una storia che mantiene le promesse delle prime pagine, forse con un pelino di buonismo di troppo. Non è però della storia o del libro che voglio parlare, ma di questa medesima immagine, che trovo a sua volta un ottimo esempio di focalizzazione complessa.
Ci sono quattro figure umane in questa immagine, una molto vicina a noi, grande, una più piccola e più scura in secondo piano, e due ancora più piccole, sul fondo. L’immagine della ragazza, vicina e grande, è fatta per richiamare per prima l’attenzione, per posizione e dimensione. Poiché però non mantiene le promesse percettive (nonostante sia in primo piano la sua figura è molto meno definita di tutto quello che le sta attorno), l’attenzione la abbandona immediatamente, e si sposta sulla seconda figura umana disponibile, quella del ragazzo sotto l’albero, e qui si ferma. Sappiamo che questa è una vignetta di una storia a fumetti, e cioè di un racconto; e un racconto ha dei personaggi, i quali sono di solito umani: anche l’albero è infatti molto ben definito, e la sua chioma si trova pure nella posizione privilegiata per iniziare la lettura, in alto a sinistra, tuttavia è molto improbabile che l’albero possa essere un personaggio – perciò lo ignoriamo, se non come contorno, contestualizzazione.
La figura del ragazzo sotto l’albero ha invece diverse caratteristiche per essere focalizzata, e mantenere sufficientemente a lungo la nostra attenzione. Non si trova al centro, ma nemmeno troppo lontano dal centro, e, soprattutto, la dominanza di tonalità scure e di figure definite a sinistra ha spostato il centro percettivo dell’immagine verso quella parte. Ancora di più conta però il fatto che il disegno della figura del ragazzo sia molto più definito di quello della figura della ragazza: più contrastato, più fitto di segni e di dettagli, insomma tanto più carico di informazioni da chiederci di osservarlo con cura, perché probabilmente quelle informazioni serviranno. Infine, e non è un dettaglio trascurabile, il ragazzo guarda verso di noi, o forse guarda la ragazza in primo piano (la quale invece guarda altrove, fuori campo, a destra).
Lo sguardo del ragazzo, non potendo noi decidere se sia rivolto a noi o alla ragazza, ci interpella e insieme definisce una relazione potenzialmente significativa per il racconto. Si tratta di due ragioni diverse e concorrenti di interesse (anche se remano nella stessa direzione): la prima più generica, basata sul fatto che è frequente che il soggetto di una foto guardi in macchina; la seconda più narrativamente specifica, perché in quello sguardo su di lei c’è già un pezzo di racconto. Proprio attraverso quello sguardo la nostra attenzione può tornare adesso su di lei, memorizzandola come un potenziale altro personaggio (e sarà davvero così, già poche pagine dopo). Ora ci accorgiamo che la sua posizione in primo piano le ha comunque fornito un privilegio: anche se la prima focalizzazione su di lei è stata sfuggente, questa seconda focalizzazione non lo è. Certo, a giudicare da questa immagine, il protagonista della storia rimane lui, anche se lei potrebbe avere un ruolo di rilievo. In seguito, come scoprirà chi si leggerà la storia della Canottiere, entrambi saranno in verità protagonisti a pari grado, come anche un terzo personaggio, già introdotto nel prologo.
E i due personaggi sul fondo? Forse quelli nemmeno li si nota: quando lo sguardo arriva sino a loro ha già compiuto il percorso di andata e ritorno tra la ragazza in primo piano e il ragazzo sotto l’albero, e la storia ha già, sin da ora, preso una piega che non li riguarda. Naturalmente il seguito di una storia può sempre ribaltare le premesse; tuttavia se qui facesse così avremmo ragione di sentirci portati volutamente sulla strada sbagliata – cosa che si può fare, certo, ma bisogna che se ne capisca il motivo. Inoltre i due personaggini sul fondo sembrano immersi in una loro specifica conversazione, che niente ha a che fare con gli altri personaggi, comunque maggiormente focalizzati. Insomma, anche loro, alla fine, proprio come l’albero, non sono che contorno, contesto.
Se questo fosse un film, anziché una storia a fumetti, avremmo probabilmente una prima inquadratura che mostra la ragazza a destra troppo vicina per essere davvero focalizzata, proprio mentre sta uscendo di scena, lasciando solo il ragazzo sotto l’albero a popolare l’immagine. A questo punto l’inquadratura dovrebbe durare abbastanza da permetterci di concentrare la nostra attenzione sul suo sguardo (e un po’ di zoom potrebbe aiutare questa focalizzazione), mentre per rivelarne l’oggetto dovremmo avere a questo punto un controcampo che inquadri la ragazza che si allontana.
Questa immagine, così ben costruita, fa tutta da sola il lavoro di queste tre inquadrature cinematografiche, giocando sul percorso della nostra focalizzazione. Nel cinema, questo percorso deve essere reso almeno in parte più esplicito (naturalmente anche il cinema ha i suoi margini di manovra, come dimostra il fatto che nella seconda – ipotetica – inquadratura, non è necessario lo zoom perché la focalizzazione si porti sul ragazzo sotto l’albero); ma il cinema è legato a tempi reali, quelli dello scorrimento della pellicola, mentre il fumetto costruisce dei tempi ideali attraverso la conduzione dell’attenzione e dello sguardo. In più, la traduzione cinematografica che ipotizziamo sarebbe già più definitoria, perché il controcampo sulla ragazza che si allontana espliciterebbe inevitabilmente una relazione tra i due che in questa immagine rimane assai più suggerita.
Le immagini durano, e il tempo della loro percezione può facilmente trasformarsi, nel racconto a fumetti, in durata raccontata. Ma di questo torneremo a parlare.
P.S. Per fortunata coincidenza (o focalizzazione parallela), nel tempo che intercorre tra la stesura di questo post e la sua uscita è uscito anche un post di Marco D che tratta una questione piuttosto simile di focalizzazione, però in fotografia.
Andrea Queirolo mi domanda di dire la mia sul suo sempre interessante blog a proposito della critica fumettistica, facendo seguito all’intervento di Marco Pellitteri pubblicato il 20 giugno. Posso partire proprio da lì, perché le cose che dice Marco mi sembrano…
Il post di oggi ha cambiato blog: è qui, su Conversazioni sul fumetto.
Sto (Sergio Tofano), Il miracolo di don Luciano Zimmardo, 1917
Anche questo disegno di Sergio Tofano proviene dal Fondo Gregotti. È del 1917, l’anno in cui debutta il Signor Bonaventura. Non sono riuscito a capire di che cosa faccia parte. L’immagine completa, di cui questo è un dettaglio, contiene il titolo. Forse è la testata illustrata di un racconto, o per una locandina.
Comunque sia, mi interessa qui solo come esempio del tratto di Tofano, il cui interesse sta probabilmente proprio nella sua essenzialità. È il tratto di un pennino duro, quasi per nulla modulato, che definisce le figure con poche linee tendenzialmente rettilinee, o poco poco curve (per questo, l’unico luogo del disegno in cui le curve abbondano – cioè il volto del malato – riceve poi tanto rilievo). Persino la mano al centro dell’immagine è un susseguirsi di frammenti di retta.
Con questa omogeneità e leggerezza, bisogna poi essere molto bravi a costruire l’immagine, perché, in assenza di dettagli, quello che emerge è inevitabilmente l’insieme, con le piccole discrepanze: il bellissimo dettaglio delle due dita ravvicinate nella mano al centro, che rende gentile il gesto; la piega dell’altra mano, che la mostra abbandonata; la tensione dei bottoni della federa, dentro cui il cuscino sembra quasi esplodere…
La leggerezza e irrealtà del tratto rende altrettanto leggera e irreale la situazione, e ci rivela la vocazione teatrale di Tofano. Non è la realtà che interessa a Sto, ma la sua evocazione, l’allusione alle cose, il loro racconto. La sua è una linea chiara qualche anno prima di Hergé, ma più matura e intellettuale e disillusa di quella del grande belga. Nel creare Bonaventura, darà presto vita a un anti-anti-eroe, uno che vince per sottrazione di doti: non perché sia bello, o forte o intelligente, ma perché è sgraziato, inetto e un po’ stupido.
Insomma, solo nella stilizzazione del teatro e della sua ironia ci può essere salvezza. Solo nel distillare la realtà in queste linee essenziali, costruite con cura e destinate a mettere in evidenza le opportune sfumature c’è davvero l’arte, se mai arte ci può essere. Il futurismo, ultima spiaggia della genialità italiana, sembra essere l’unica direzione possibile da prendere, ma è ben lontano dal bastare, ben lontano dal salvarci. Tofano se ne ride anche di Marinetti. Non gli piace il fracasso. Le sue linee e i suoi disegni sembrano evocare una voce bassa anche quando ci fanno ridere a voce alta. Oppure, come qui, si accompagnano a un gesto delicato, con eguale gentilezza.
Barcellona, facciata di una casa vicino all'Arc de Triomf
Ho scattato questa foto, insieme a molte altre, a Barcellona, mentre quello che vedevo mi ispirava una riflessione sulle posizioni espresse nel 1908 da Adolf Loos, in un suo testo famoso e influentissimo, Ornamento e delitto (è un articolo breve; lo potete leggere interamente, per esempio, qui). Come è noto, la tesi di Loos, che sarebbe stata ben presto fatta propria e anche oltrepassata dalle correnti funzionaliste, era che sostanzialmente l’architettura (anzi, tutto il campo di ciò che oggi chiameremmo design) doveva fare a meno degli ornamenti, perché la sua bellezza si poteva (anzi, si doveva) trovare nei puri rapporti formali, quelli che esprimono le funzioni stesse dell’edificio o dell’oggetto. Il resto è un sovrappiù, e un sovrappiù colpevole, perché ci nasconde la realtà essenziale delle cose. L’architettura (e non solo) deve essere sincera, e trovare in questa sincerità la sua bellezza – mentre l’ornamento è un imbroglio, una falsità, un delitto, uno spreco di tempo, un diletto infantile, un’attitudine popolare e primitiva.
Non si può negare che la posizione espressa da Loos sia stata fertile, e che il funzionalismo abbia in seguito espresso numerosi capolavori, a partire dai lavori di Wright, Gropius, Le Corbusier… Ma siamo anche costretti a riconoscere che i medesimi principi, una volta applicati senza l’intelligenza di questi (e ancora molti altri) grandi maestri, hanno prodotto pure un intero universo di periferie di gelidi orrori; e che i principi dello stile internazionale si sono facilmente involgariti producendo mostri di cemento senza senso e senz’anima – nel complesso assai peggiori delle vezzose e superficiali case e oggetti ornati aborriti da Loos.
Loos aveva dunque torto? Sì e no. Certo, si può prima di tutto capire bene la sua posizione in un’epoca in cui il bello in architettura doveva essere ornato, e l’ornamento aveva certe regole e certe ricorrenze. Da questo punto di vista Loos aveva sicuramente ragione: l’ornamento non è necessario. E tuttavia la sua è, in fin dei conti, una posizione fondamentalmente aristocratica; e Loos, nel suo scritto, non lo nasconde affatto (anzi, a rileggerlo oggi, a un secolo di distanza, Loos finisce per restarci persino antipatico).
Creare degli edifici interessanti, notevoli, piacevoli da guardare e da vivere seguendo i principi del funzionalismo non è in realtà facile. Lo può sembrare per qualche decennio, sino a quando cioè l’assenza di ornamento appare alla gente come una novità, e l’assenza si nota in quanto tale: sino a quando, cioè, gli stili ornati restano la norma, l’assenza di ornamenti è la presenza di un’assenza, e un edificio senza ornamenti si trova ornato da questa assenza. Ma quando questo diventa a sua volta la norma, l’assenza è assenza e basta, anzi nemmeno quello, perché non c’è più una presenza di riferimento che la faccia sentire.
A questo punto, davvero, gli edifici restano gradevoli solo se sono stati costruiti con un gusto particolarmente sviluppato, e lo sono perché continuano a essere interessanti i loro rapporti formali. Ma gli edifici che godono di queste qualità sono davvero pochi! Solo i grandi architetti ne hanno prodotti.
È un po’ come dire che tutti sono capaci di tirare delle linee nere orizzontali e verticali su una tela, ma solo Mondrian riesce a farne dei capolavori. Solo che abbiamo molto più bisogno di case che di dipinti.
L’ornamento sarà pure accusabile di falsità (non sempre però, in verità), perché una casa ornata distrae l’attenzione dall’insieme richiamandola sui dettagli, cioè sugli ornamenti stessi – ma proprio per questo, è più facile costruire degli edifici il cui interesse resista un poco al tempo. Sarà magari un interesse nei confronti del curioso e del pittoresco – come spesso accade a Barcellona, dove mica tutti gli edifici sono stati progettati da Gaudí – ma è comunque un interesse che c’è, e rimane.
È che l’ornamento, nella sua infinita varietà, finisce per essere meno aristocratico perché le soluzioni accettabili, anche se magari nascondono errori maggiori, sono infinitamente di più di quelle che permette il funzionalismo. Sarà pure pittoresco, vernacolare, curioso, ma in qualche modo funziona.
E nel momento in cui ritorna, storicamente, a imporsi, produce a sua volta un effetto singolare, per cui anche lo stile funzionalista diventa esso stesso uno stile, cioè una forma di ornamento, e l’idea che la forma architettonica debba esprimere la funzione si rivela per quel grande bluff ideologico che è stata. Basta approfondire l’idea di funzione per capirlo e rendersi conto che tra le funzioni di un edificio e di un oggetto ci sono pure quelle simboliche, che non sono affatto meno importanti delle altre.
Nel fascino di Barcellona c’è anche il fatto che la città sembra avere saltato proprio quella fase, quella del funzionalismo. Non del tutto, in verità, specie nei suoi aspetti peggiori – ma sono le cose che si notano meno. Perché a Barcellona c’è un sacco di architettura moderna che si fa notare: c’è quella che precede o ignora l’anatema di Loos, con Gaudí e il modernismo catalano in testa, e c’è quella che segue il tramonto dell’ideologia formalista, quella che si è resa conto che l’ornamento ci può benissimo essere, se serve, ma che non siamo limitati al campionario degli ornamenti storici, e possiamo sbizzarrirci a inventare qualsiasi cosa, purché se ne possa comprendere il senso, purché ci faccia sognare, purché ci faccia sentire parte di qualcosa che vive, e che comunica se stesso.
Armin Hofmann, poster "Giselle", 1959
Questo è un manifesto importante per la storia della comunicazione visiva. È stato realizzato negli anni d’oro della grafica svizzera, quella grafica da cui sarebbe derivato il cosiddetto international style, un modo di pensare la comunicazione visiva che continua a restare influentissimo anche oggi, ed è comunque alla base di qualunque ragionamento grafico, anche quelli che le si sono (anche molto sensatamente) contrapposti. In altre parole, nella Svizzera di quegli anni si gettavano le basi di un discorso visivo e della sua grammatica; queste basi possono essere anche state negate, in seguito, ma non dimenticate. Come dire che la comunicazione visiva ha percorso, da allora, anche strade molto diverse da quelle proposte dai grafici svizzeri, ma inevitabilmente confrontandosi con la loro lezione.
Questo manifesto è stato prodotto a Basilea, però, e non a Zurigo, ovvero in una situazione culturale già leggermente dissidente, leggermente eretica rispetto alle direttive che, dall’anno prima, si trovavano espresse sulle pagine rigorose di Neue Grafik / New Graphic Design, la rivista di tendenza, quella che stava facendo la storia del graphic design in quel momento. Anche per questo, non voglio percorrere il manifesto di Hofmann come esempio di uno stile, ma interrogarmi piuttosto sulle ragioni della sua efficacia – non molto diversa, in effetti, oggi da allora; segno che questo tipo di impostazione comunicativa ha ancora largo spazio nel nostro presente.
Il poster pubblicizza un balletto, Giselle, il cui titolo è anche il nome della protagonista della vicenda. È nero, come il contesto, notturno, in cui si suppone avrà luogo lo spettacolo. Da questo nero emergono due figure verticali, a destra la foto mossa di una ballerina in tutù, nel corso di un movimento rotatorio, presa piuttosto da vicino, in modo che restino tagliati fuori sia il piede basso che la testa; a sinistra le scritte, quelle piccole in alto con i dettagli, e quella grande, verticale, con il titolo.
È impossibile non associare tra loro le due figure, che, oltre a essere piuttosto analoghe visivamente, sono legate semanticamente tra loro in almeno due modi: “Giselle” è infatti il nome dello spettacolo di cui vediamo a destra un dettaglio, ma è anche il nome della protagonista dello spettacolo, che stiamo qui vedendo danzare. Dal punto di vista visivo, Hofmann ha rafforzato l’analogia con molta sottigliezza, giocando su alcune caratteristiche del carattere scelto, l’Akzidenz Grotesk (il must della grafica svizzera di quegli anni, in seguito sostituito dal similissimo Helvetica). Se si guarda la lettera G, per esempio, è facile vederla anche come un vettore circolare, con tanto di freccia a un’estremità, e dunque rappresentazione schematica del medesimo movimento che caratterizza la figura della ballerina.
Ma Hofmann ha anche alterato lo spazio tra i caratteri di questo titolo, riducendolo al minimo possibile per non confondere le lettere, o addirittura annullandolo, quando possibile. Questo fornisce alla scritta verticale una compattezza complessiva che la rende formalmente molto simile alla figura danzante alla destra, caratterizzata da una sottile struttura verticale centrale con le due emergenze laterali delle braccia e del tutù – qui corrispondenti alle emergenze della “i” e della doppia “l”.
Infine, il puntino della “i”, che dovrebbe essere quadrato e vicino alla stanghetta verticale (come si può osservare nelle scritte piccole in alto), è stato sostituito da un cerchio piuttosto lontano, sospeso nello spazio nero proprio come quella macchia di luce ovale a cui è ridotto il braccio rotante della ballerina poco più in alto. E persino la scritta piccola in alto, con la sua forte irregolarità sul lato destro, sembra rinviare all’irregolarità e all’aspetto sfrangiato della figura mossa della ballerina.
Insomma, il parallelismo è così forte e insistito da apparire immediatamente evidente, mettendo a sua volta in evidenza le diversità: a sinistra la geometria, nitida, immobile e schematica, a cui il vettore insito nella G fornisce un accenno di movimento, ma ugualmente suggerito e simbolico; a destra il corpo, sfumato, mobile e dalle forme poco riconducibili a schemi semplici, a cui però il movimento dona una certa geometricità, quella del cerchio; a sinistra la parola, che rinvia simbolicamente alla realtà, attraverso una mediazione razionale; a destra l’immagine, che rinvia analogicamente alla realtà, attraverso una mediazione percettiva. Nitido e sfumato, geometrico e naturale, fermo e in movimento, simbolico e analogico, nominato e mostrato, primo piano e secondo piano: tutti gli elementi di queste opposizioni si trovano a essere messi in scena, e in qualche misura identificati.
Sono separati, certo, perché i primi elementi di ogni coppia sono relativi alla forma di sinistra, mentre i secondi sono relativi a quella di destra. Ma le due forme hanno il medesimo riferimento, sono due modi di rimandare alla stessa cosa; e l’analogia tra le loro forme visive ne rafforza il senso di identità.
Quello che succede dunque, a chi guarda questo manifesto, è che l’attenzione passa continuamente dalla forma di sinistra a quella di destra, e da quella di destra a quella di sinistra, e poi ancora da sinistra a destra, e così via, senza potersi risolvere, se non per stanchezza. Ma quando si smette, è già stato innestato un meccanismo ritmico, in cui in primo piano passa nel secondo e il secondo nel primo, il nitido passa nello sfumato e lo sfumato nel nitido, il geometrico nel naturale e il naturale nel geometrico, l’immobile nel mobile e viceversa, il simbolico nell’analogico e viceversa, il nominato nel mostrato e il mostrato nel nominato. L’immagine complessiva ha acquisto durata, e ritmo; ci ha preso con sé e ci ha fatto per qualche attimo danzare. E poiché i ritmi sono virtualmente senza fine, e rimandano al loro proseguimento all’infinito, pure questa immagine rimanda a un’eternità di danza anche sulla base di pochi secondi di fruizione.
Non è il suo significato a renderla indimenticabile: in fondo non è che la pubblicità di uno spettacolo! È piuttosto quello che essa ci induce a fare; è piuttosto questa danza dell’attenzione in cui ci trascina, portandoci a vedere oggetti fermi come mobili e oggetti simbolici come analogici e così via e anche viceversa.
Alludendo all’infinita varietà del senso, e alla sua continua trasmutabilità, Hofmann ci rende protagonisti di un’azione trascinante, per quanto breve, un atto di interpretazione che non può aver fine, una danza dell’identità e della differenza, in cui il non essere capaci di risolversi in un senso o nell’altro ci costringe a continuare, virtualmente senza smettere mai. Un po’ come quando danziamo per davvero, e smettiamo solo per stanchezza, o perché è tardi – non, certo, perché la cosa in sé abbia esaurito il suo piacere.
Alex Raymond, Jungle Jim, 1934
Mica male come esordio per il ventiquattrenne Alex Raymond! Era nato il 2 ottobre 1909 e questa tavola, apparsa all’inizio del 1934, era probabilmente stata disegnata con qualche anticipo. La scansione proviene, al solito, dal deposito ziopaperonesco del Fondo Enrico Gregotti.
Forse il leone è ancora un po’ legnoso (gli mancava un buon modello, evidentemente), e sembra un po’ una statuetta sospesa per aria – ma il nostro Jim è già disegnato con una maestria dinamica stupefacente. Molto fa la scelta della posizione, ovviamente, insieme all’angolo di inquadratura (occhio dell’osservatore basso, all’altezza della cintura): questo scatto (lui sì, a differenza del leone) felino, con la gamba destra a terra, la sinistra sospesa e seminascosta dal braccio abbassato per afferrare la frusta, mentre il braccio sinistro cerca di mantenere l’equilibrio…
Ma la fluidità, la tridimensionalità, lo spessore di questo corpo dinamico sono poi dovuti alla sapienza degli inchiostri di questo giovanissimo Raymond. In seguito diventerà ancora più bravo, ma già qui c’è un bel po’ di pane per i nostri denti. Ingrandite l’immagine in un’altra finestra, dunque, e guardate da vicino le linee.
Le linee sono lunghe e molto modulate. Magari qualcuno più esperto di me mi saprà dire se sono segni di pennello o di un pennino molto morbido. Il pennello c’è senza dubbio, intorno: le pieghe del pantalone verso l’inguine sembrano testimoniarlo (ma potrebbero essere anche tracce di pennino ripassate due o più volte), e certamente è realizzata col pennello l’mbra di Jim in basso, così come le foglie in alto a destra.
Comunque siano state realizzate, sono queste linee lunghe e modulate a creare la fluidità del movimento del personaggio, un po’ come se la fluidità del gesto del disegnatore si ripercuotesse sull’effetto di fluidità di quello che rappresenta. Ma non è una boutade: la fluidità del gesto da sola non basta, ma associata alla forma giusta ne diventa un amplificatore potente. Qui non si sta costruendo l’effetto di un gesto improvviso e nervoso, ma quello di un’azione rapidissima, fluida e consapevole – proprio come il gesto grafico del disegnatore.
Persino l’uso del pennello (o del pennino) un po’ a secco, nelle tessiture delle ombre (del braccio sinistro e delle gambe), contribuisce all’effetto di rapidità. E lo fanno anche i colpi rapidi che descrivono i capelli, insieme con i tratti più sottili del deltoide destro o del polso sinistro.
L’immagine non è particolarmente dettagliata, né lo dovrebbe essere, visto che deve rendere l’impressione della rapidità. Però è comunque molto più definita del paesaggio che le sta attorno, ridotto davvero a poche linee e macchie. Anche questa povertà grafica dell’insieme (e perfino il tratto un po’ insulso del leone) contribuiscono a concentrare l’attenzione sul gesto del personaggio centrale.
Ora, indubbiamente, Raymond sta raccontando per immagini. Però ciò che costruisce l’effetto dinamico non è solo quello che lui ci mostra, ma anche la dinamicità stessa del suo tratto, insieme con l’evocazione di rapidità e sicurezza che esso esprime. Il che non vuol dire che Raymond fosse davvero rapido e sicuro nel disegnare; probabilmente lo era anche, ma l’essenziale è che il suo segno lo mostri tale.
Per questo è tanto più difficile dare l’idea del movimento in un’immagine fotografica, dove non puoi evocarlo attraverso la dinamicità del gesto pittorico. Disegnare è molto di più che riprodurre la realtà: nelle giuste condizioni, il dinamismo del segno stesso può valere ancora di più del dinamismo delle figure rappresentate.
Guido Crepax, Emmanuelle, 1978
Lo confesso: ho sempre considerato Crepax un disegnatore da moda e pubblicità, troppo milanese (in questo senso) per essere davvero bravo a lavorare a fumetti. Poi, certo, era un ottimo narratore, e, soprattutto, le sue invenzioni di taglio delle inquadrature e delle vignette, e le sue invenzioni di montaggio, sono state davvero importanti. Nel complesso, quindi, mi piaceva, e a volte anche moltissimo – almeno sino a quando non ha incominciato a imitare se stesso, e a buttarla tutta sull’estetismo e sull’eros; e lì io l’ho lasciato perdere.
Ingrandendo questa comunque bella immagine si vede abbastanza bene quello che Crepax sapeva e non sapeva fare. Di certo, non aveva una mano sicura; non ci sono infatti linee lunghe, qui, e tutto è ottenuto attraverso un intreccio, una tessitura di linee brevi e un po’ incerte. Persino quella che qui appare come una bella modulazione della linea che definisce le spalle dell’elegante signora, a guardarla da vicina si rivela una linea composita, fatta di linee brevi intrecciate.
Quali che fossero i suoi limiti come disegnatore, Crepax li conosceva comunque bene, e sapeva altrettanto bene giocarci. A linee incerte corrispondevano vicende di incertezza; e dove la linea non era ottimale per definire i corpi femminili, Crepax era straordinario a giocare di situazioni psicologiche, inquadrature e giochi d’insieme.
Non è però sempre stato così. La linea delle prime storie di Neutron è molto più pulita, netta, definitoria, anche se, forse, povera di capacità di diversificarsi. Le singole vignette di quegli anni sono forse più belle, più incisive, di quelle successive – ma è come se la tavolozza di Crepax vi fosse troppo limitata. Volendo espandere le proprie capacità narrative, e non essendo sorretto dalla qualità del tratto grafico, Crepax ha quindi, da un certo momento in poi, puntato su altro – facendo una scelta vincente, in fin dei conti. Il tratto si è impoverito e un po’ standardizzato, ma l’invenzione visiva è comunque cresciuta, insieme con il virtuosismo narrativo.
Per quanto importante sia la linea, evidentemente c’è, nel fumetto, molto altro su cui giocare.
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