Della foto di un altro confine

I vivi e i morti alla Recoleta

I vivi e i morti alla Recoleta

I cimiteri monumentali sono sempre luoghi affascinanti. Non perché siano belli (da questo punto di vista, infatti, sono l’impero del kitsch), ma perché mi danno l’idea di testimoniare meglio di qualsiasi altro luogo lo spirito di un’epoca e di un paese. Questo qui, però, li batte davvero tutti.

Si trova nel mezzo della città, completamente circondato da architetture urbane e certamente moderne, non di rado già fatiscenti. Il cimitero è grande ma non grandissimo, e, ovunque tu sia, lo sfondo comprende sempre questi edifici molto più alti della compassata architettura cimiteriale, e in stridente contrasto con essa.

Dentro il cimitero c’è questo neoclassico pseudocanoviano, molto neogotico pseudomedievale, niente di dichiaratamente moderno. Il moderno viene sentito, evidentemente, come poco rispettoso per i morti; i quali appartengono piuttosto alla dimensione del passato, come quegli stili riesumati.

Ma attorno al cimitero, la città è viva e rumoreggiante, anche architettonicamente; e ci si trova continuamente a camminare presso il confine tra il regno esterno dei vivi e quello interno dei morti.

Non so se questa foto sia bella o brutta. A me piace molto quell’assurda facciata verde a sinistra, appena fuori dal confine, che fa un bel contrasto con le muffe e i licheni che ci sono qui attorno.

Solo riguardando ora questa foto mi sono invece reso conto che, proprio a fianco della facciata verde, si intravede un finestrone gotico, di cui, quando ero lì, non mi ero assolutamente accorto. Un po’ di esplorazione su Google Maps mi ha permesso di capire che si tratta dell’edificio della Facoltà di Ingegneria. Ma il gotico (pardon, il neogotico), in questa città dovrebbe stare soltanto dentro, e non fuori dalle mura del cimitero.

Qual è allora il recondito legame tra una facoltà universitaria e il recinto dei morti? Non è troppo difficile trovarlo, in realtà.


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Di una foto dei confini del mondo

La ringhiera e l'orizzonte

La ringhiera e l'orizzonte

Qui la città è davvero invisibile, alle mie spalle. Se guardate la mappa che vi rivela dove è stata scattata questa foto potete capire perché questi siano i confini del mondo. Se zoomate indietro abbastanza da vedere l’intera area, capirete che quest’acqua non è di mare, ma è quella della Ria, ovvero dell’estuario del fiume; e il mare è laggiù, dove ci sono quelle costruzioni all’orizzonte che vengono indicate dalla ringhiera.

Il fascino di questa foto non sta, secondo me, solo nell’inquadrare questo sperone estremo di urbanità incuneato in una natura evidentemente inospitale, inumana. È che la geometria che viene costruita qui dall’inquadratura, attraverso la prospettiva, rende geometrico l’intero mondo visibile, donando un’apparenza di umanità anche a questo confine inumano. È come se la città, insomma, attraverso questa geometria, si impadronisse anche di quello che non le appartiene affatto.

Anche di queste illusioni è fatta la cultura.

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Della foto di un battello ai confini del mondo

Il battello arenato

Il battello arenato

È un peccato che questa foto sia venuta un po’ sfocata. È stata presa qui, in uno dei luoghi più assurdi del mondo (nella foto di Google Maps si vede persino il medesimo battello dall’alto). Sarebbe stata una bella foto, senza il disturbo visivo della sfocatura. A me piace lo stesso, non solo per la rima visiva tra l’inclinazione del battello arrugginito a sinistra e quella delle gru lontane a destra.

Mi piace per la luce incredibile e per lo squallore di questa sorta di deserto. Quell’acqua che si vede non è il mare, ma l’estuario enorme di un fiume – un fiume in sé piccolo, minimo, che si rifà in questo modo alla foce. I punti bianchi sulla destra sono migliaia di gabbiani. Ancora più a destra, fuori dall’inquadratura, inizierebbe la città vera e propria, qui invisibile. Ma non è molto diversa, come tono, da quello che è visibile qui.

Si direbbe che ci troviamo ai confini del mondo, e che quella ruggine storta e arenata sulla spiaggia testimoni un passato più glorioso. In verità è proprio così. Persino il nome della regione a cui appartiene questo luogo sa di qualcosa di estremo, di favoloso, di remoto: si chiama Patagonia.

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Della foto di una sedia a sdraio

La sedia a sdraio

La sedia a sdraio

Forse questa non è una foto interessante in sé, ma in questo contesto un senso ce l’ha lo stesso. Faceva molto caldo in quel luogo, e così verso le cinque di mattina ero sempre già sveglio. Seduto su quello sdraio, in quella posizione, dalle cinque alle nove di mattina per un venti-venticinque giorni, ho scritto la prima metà del libro che dà il titolo a questo blog.

Alla mia sinistra vedevo il mare. Quando mi alzavo era ancora blu scuro, e quasi buio il cielo. Smettevo perché il sole stava diventando implacabile e la luce forte mi rendeva impossibile leggere lo schermo del computer.

Questa è dunque la città invisibile che dà origine materiale a tutte le città invisibili di cui si è fantasticato in questo luogo. Ormai non è né più né meno virtuale di quelle.

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Della foto di una tavola rossa

Il tavolo rosso

Il tavolo rosso

Di questa foto, scattata qui, mi piace l’incrocio di diagonali, e i diversi piani orizzontali e verticali. Mi piace anche il fatto che ciascun piano rimanda a una dimensione differente: la camminata, l’imbarco, il mare irrequieto, la necessità dell’ombra – e, ovviamente, al centro in rosso, la convivialità.

Ma quella tovaglia rossa è così chiassosa e irruente, che non ci accorgiamo subito che un po’ di rosso è sparso dappertutto, persino sulla testata del molo – perché è l’ora in cui questo succede.

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Di una foto bianca e azzurra

La terrazza

La terrazza

Anche questa foto è stata presa nello stesso luogo di quella di due sabati fa, ed evidentemente non nella stessa giornata.

A me piace per le sue linee verticali e orizzontali, per i suoi colori delicati, e perché mi fa pensare a Diomira:

Partendosi di la e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste anche in altre città. Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva in una sera di settembre, quando le giornate si accorciano e le lampade multicolori si accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: Uh!, gli viene da invidiare quelli che ora pensano di aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici.

Non dirò chi ha scritto questo breve testo (ma non è affatto difficile capirlo). Un gran filone e astuto giocoliere di parole. Un frammento indimenticabile.

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Della foto di una grondaia rossa in un mondo grigio

La grondaia rossa

La grondaia rossa

(questa foto è stata presa dalla medesima posizione di quella della scorsa settimana, solo girandosi dall’altro lato – non però nello stesso giorno)

Della foto di questa città invisibile, quello che mi resta in mente è la grondaia rossa. Non che sia bella in sé, è ovvio, ma in mezzo a tutti quei grigi è l’unica nota di speranza.

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Della foto di un abisso

L'abisso

L'abisso

Vi ricordate la scena finale del film Solaris, di Andrei Tarkowski? C’è lui che guarda dall’alto il mare che è il pianeta senziente, e questo mare è turbinoso e in continuo movimento.

Bene, ogni volta che io guardo un mare turbinoso da una qualche altezza, non posso fare a meno di pensare a quell’immagine; e il mio mare è quello del pianeta Solaris.

Qui, il mare turbinoso è inquadrato da questa specie di pozzo urbano, queste pareti verticali e orizzontali e lisce la cui quasi mancanza di colore fa risaltare il colore azzurro cupo. E la loro immobilità fa risaltare il suo movimento. La prospettiva urbana inquadra l’abisso turbinoso. L’al di qua è un po’ squallido e triste; l’al di là inquadrato è inquietante e sublime.

E poi mi sono divertito a realizzare una specie di dipinto funzionalista attraverso le linee del mondo reale.

(Non che sia molto rilevante, ma la foto di questa città invisibile è stata presa da qui.)

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Della foto di un altro mito

La torre con l'ogiva

La torre con l'ogiva

Un altro dettaglio delle mie città invisibili, preso da qui. Uno scorcio di un’utopia del moderno che potrebbe essere stato progettato da Antonio Sant’Elia o da Erich Mendelsohn, immerso in una caligine da leggenda. Un missile che non partirà mai, ma continuerà per sempre a evocare la propria partenza e il proprio clima primo-novecentesco.

Pure quel dettaglio rosso in basso mi piace. Mi sembra la variazione che mette in moto, visivamente, il tutto.

Anche sulla città dove questo scorcio si trova, e su questa medesima torre, mi sono scappati dei versi. Sono nella seconda delle due poesie che si possono leggere qui (sì, è lo stesso luogo della scorsa settimana).

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Della foto di una città d’oro

La città dorata

La città dorata

Le città invisibili, di Italo Calvino, è stato il romanzo della mia adolescenza. Lo è stato perché probabilmente il modo di Calvino di descrivere le sue città immaginarie corrisponde molto bene al mio modo di percepire le città reali. E così, mi rendo anche conto a posteriori che tantissime foto che ho fatto a tanti luoghi visitati nella mia vita rispecchiano quel medesimo spirito, rappresentando perciò le mie personali città invisibili – anzi, piuttosto, quelle visibili, e viste attraverso un occhio innamorato delle storie di Calvino.

Questa foto è stata scattata dall’aereo, all’incirca da qui. Mi piace non solo per la luce incredibile, ma anche per la sua intensa dinamica, che spinge verso destra, dalle nuvole in basso a sinistra, al percorso del fiume, al suo sbocco nel paradiso della luce in alto a destra. Questa immagine mi ha colpito così tanto che, qualche tempo fa, mi ci sono scappati anche dei versi, che si possono leggere qui.

P.S. Non siamo lontani dal luogo mostrato dal post della scorsa settimana. Quella foto era stata presa esattamente da qui.

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Di una foto di architetture sognate

Modernismo fantastico

Modernismo fantastico

No, non è l’India, stavolta. E lascerò indovinare a voi dove ho preso questa foto, che mi piace non solo per l’allineamento diagonale delle guglie, ma anche per l’assurdità di questa architettura, questo modernismo fantastico, o favoloso – che potrebbe crescere così rigoglioso sono in un paese che non abbia sufficiente storia per conto proprio da doversi inventare un mito del presente fatto del passato altrui.

La città dove ho preso questa foto è piena di scorci come questo, così pateticamente e fascinosamente antifunzionalisti, un post-moderno nel cuore stesso del moderno. Si può restare inorriditi, oppure felicemente stupefatti. E si può certo leggere tutto questo come ostentazione di ricchezza, e di gusto passatista.

Ma si può anche pensare che la logica utilitarista che sta alla base del funzionalismo (anche se, nei casi migliori, un utilitarismo utopico, che non ha a che fare in sé col denaro) non sempre è applicabile, o applicata. Non si costruiscono case solo per viverci, o per mostrarci ricchi e potenti. Qualche volta le si fa anche per sognare, o per raccontare sogni. (Scriverne, come fece Calvino, o come faccio più in piccolo io, non sempre basta)


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Di una foto del cielo a Tiruchirapalli

Il cielo a Tiruchirapalli

Il cielo a Tiruchirapalli

Scrivendo il post indiano della scorsa settimana ho avuto una intuizione. Vuoi mai che questa mia ossessione per le foto dei luoghi dell’India non sia legata alla mia antica e mai sopita passione per un romanzo di Italo Calvino, Le città invisibili, letto e riletto e amato al punto da aver provato più volte nella mia vita a scrivere le mie personali città invisibili? Vuoi mai che queste sono davvero le mie città invisibili, vale a dire quei luoghi che dispiegano in qualche modo il mio io nascosto, quelli che si raccontano a chi non c’è stato come luoghi favolosi, perché per noi lo sono, e lo sono profondamente?

René Magritte - Empire of Light

René Magritte - Empire of Light

Se così fosse, un cielo non sarebbe meno informativo (cioè meno evocativo) dell’architettura sottostante. C’è molto più cielo che architettura umana in questa foto scattata nel Ranganathaswamy Temple a Tiruchirapalli, quasi come in un famoso dipinto di Magritte (a sua volta altra città invisibile, senza dubbio). Lo spazio verde dentro il mandapam in basso sembra appartenere a un mondo diverso dallo spazio bianco-azzurro del cielo.

Eppure, quando ho scattato questa foto, c’erano tutti e due, quegli spazi di fronte a me. E mi piacciono molto anche quelle due frecce bianche a sinistra, che rimandano ai luoghi circostanti, quelli che qui, inevitabilmente, non ci sono, non si vedono. Come al solito, le cose intriganti non sono quelle che ci sono davvero, ma quelle che sembrano poterci essere, sulla base di quelle che ci sono (e anche questo, con altre parole, avrebbe potuto scriverlo Calvino).

(P.S. Magritte, Calvino: non sono il primo a percepire un legame tra loro. Chi progettò nel 1972 la copertina de Le città invisibili vi inserì un altro dipinto di Magritte. O forse la mia evocazione di oggi è soltanto vittima di quella scelta di allora.)

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di Daniele Barbieri

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