La stradina
Ho leggermente giocato di saturazione, con questa foto, proprio perché il grosso della foto è per sua natura in bianco e nero. Questa serie di tonalità di grigio, dal quasi bianco dominante ai vari grigi delle modanature e delle macchie sui muri, mette natualmente in evidenza le poche aree davvero colorate, cioè il cielo in alto, il muro giallo di fondo in basso, le linee azzurre della casa a sinistra, e qualche piccolo dettaglio qua e là. Tra questi dettagli, mi piace molto quella strisciolina gialla proprio alla base del cielo, che riprende e rilancia per un soffio il colore del muro più sotto.
Certo, l’organizzazione prospettica, un po’ a quinte, contribuisce molto a questo effetto. È come se una realtà in bianco e nero inquadrasse il proprio fondo vero, facendolo risaltare. Come quando ci si veste in nero e bianco (o grigio e bianco) per fare risaltare la cravatta colorata – che lei, davvero sì, ci rappresenta; mentre il resto è “come si deve essere”.
Per quanto riguarda lo specifico del luogo in cui la foto è stata scattata, magari si tratta di un caso: non è tutta così. Però un bel caso. Una città invisibile dove il colore è sempre laggiù, sul fondo. Lo puoi raggiungere quando vuoi; ma la vita è un’altra cosa, in bianco e nero?
L'albero e la torre
Tra chi mi legge, credo che molti siano in grado di riconoscere al primo sguardo questo luogo. Ma non è il luogo che mi interessa, quanto il contrasto tra l’albero e la torre.
L’albero, oggetto naturale, è pieno di punte, di irregolarità, di scabrosità. La torre, oggetto umano, è liscia, rotonda, lineare. L’albero è scuro e la torre è chiara, ma poi la luce gioca sull’uno come sull’altra.
Tra questi due pilastri contrapposti, si innalza la città, fatta di case (umane) con sprazzi di vegetazione (naturale). E il contrasto proposto da albero e torre si ritrova ovunque, qua e là.
Però non è tutto. Ero stato tentato di tagliare la foto a sinistra, ma quando l’ho fatto davvero qualcosa non funzionava più, qualcosa mancava. E così mi sono reso conto che anche il tronco all’estrema sinistra è importante, anche se nega i termini della contrapposizione, e pur essendo naturale è liscio come la superficie della torre, e, a sua volta, quasi chiaro.
E allora è come se albero liscio e torre fossero due quinte lineari che aprono il campo alla complessità del mondo che sta dietro di loro, contorto e liscio, lineare e sfaccettato.
Infine, tutto, qui, sale, a qualunque mondo appartenga: la torre come gli alberi come le case, dall’ombra del portico in basso alla luce del cielo. È un luogo che amo molto. Chissà se dalla foto si capisce.
Olhao, Algarve, Porte (e qualche finestra)
Prosegue il discorso della scorsa settimana, stessa città, stessa occasione.
Tra queste, sono particolarmente affascinato dalle due porte che non ci sono. Come fa una porta a essere affascinante quando non c’è? Basta che faccia notare la sua assenza, dovrebbe essere la risposta. Sì, ma c’è di più; e lo si capisce a guardare i colori di queste non-porte, rispetto a quello che hanno attorno.
Trovo bella anche quella fatta solo di assi, a sinistra nella seconda fila dal basso. Sarà grazie al muro attorno, ovviamente. Un’altra non-porta, di fatto.
Forse qualcuna ne ho ancora. Le devo cercare?
Olhao, Algarve, Porte (e qualche finestra)
Molti anni fa, quando viaggiare in autostop era possibile persino in Italia, avevo una fidanzata che studiava a Salisburgo, in Austria. Ero diventato un esperto dell’autostrada del Brennero, e della deviazione per Salzburg. Una volta mi prese su un tedesco dall’aria rockettara, che aveva una quindicina di anni più di me (ed era effettivamente anche il batterista di un gruppo rock). Si chiamava Wolfgang Lauter, e di mestiere faceva il grafico. Però, a parte il suonare, si era trovato un hobby molto conveniente: girava l’Europa facendo foto, e realizzava con quelle foto dei libriccini pubblicati dalla Taschen, che vendevano piuttosto bene; con il ricavato si pagava il prossimo viaggio, e così via. I libriccini erano monografici: Porte e finestre, Tetti, Scale, Gallerie urbane… Facemmo amicizia, e per il libro sulle scale venne in seguito a Bologna, dove fu mio ospite, perché gli avevo raccontato che nei palazzi bolognesi stavano nascoste (ed è vero) un sacco di magnifiche scalinate monumentali. Si chiamava, e si chiama ancora Wolfgang Lauter. Non l’ho più sentito da allora, ma ho trovato il suo sito Web, che è questo.
Ne parlo perché l’idea di fotografare ossessivamente un tipo di soggetto mi viene da lui, sostanzialmente. Tuttavia, le porte delle case di Olhao, una cittadina dell’Algarve, sono così belle, che magari ne avrei fotografato ugualmente centinaia, anche senza il suo esempio. Io le trovavo incantevoli, per colori e forma, persino quelle semplicissime, magari solo per il contrasto col colore del muro attorno; e persino quelle moderne, con ingenue (ma non troppo) forme funzionaliste.
Se le porte sono da intendere come altrettante promesse di quello che si può trovare varcandole, questa dev’essere una città dove la vita è dolce. Anche per quello che sono riuscito a vedere davvero, non sembrava comunque male.
A vela, a fiamma
Siate sinceri. Quanto vi ci è voluto per capire che cosa inquadra questa foto? Mezzo secondo almeno i più veloci, direi; un secondo e più gli altri, ammesso che alla fine l’abbiate capito. Se ancora non ci siete arrivati non è un disonore, anche se il faretto in basso a destra è una buona chiave per arrivarci.
Oggi questa meravigliosa volta a vela non è più così. C’è stato un restauro, i muri sono stati ridipinti con un colore più giallastro, le bocche di luce oscurate per permettere le proiezioni. Scelte estetiche (discutibili) e necessità funzionali (inevitabili – peccato!).
Francesco di Giorgio Martini era un genio. Il funzionalismo di 450 anni dopo non ha fatto che riscoprire quello che lui già sapeva – anche se modulato nelle forme del suo tempo. E tra le cose che il suo tempo gli insegnava c’è anche il fatto che nemmeno in architettura è necessario che la ripetizione debba avere necessariamente parametri omogenei. Qualche volta l’omogeneità ci vuole, ma in qualche altro caso possono cambiare distanze e dimensioni (e chissà cos’altro) purché non si perda il senso dell’iterazione e del ritmo – il quale anzi può persino risultarne arricchito.
È un po’ come con le onde del mare. Non possiamo certo sostenere che non definiscano un’iterazione e un ritmo, ma non ci sono due onde uguali o con il medesimo periodo. Lo stesso vale per queste straordinarie bocche di luce nella volta a vela, che sembrano altrettante fiammelle di candela incurvate dal vento.
D’altra parte, se cancellassi qualche dettaglio, e rendessi un po’ più indistinto il tutto in modo da far scomparire la grana dei muri, potrei ben spacciare questa immagine per un dipinto astratto, una sorta di Lucio Fontana curvilineo. Ma chi era fan di chi? Oppure è solo nella mia testa che si creano questi collegamenti?
Il riflesso
Certo l’hanno fatto apposta. In questo modo Sancos Seguros riesce a risiedere in un edificio moderno pur rivestendosi anche delle forme di uno più antico, inizio Novecento, dando così a chi passa un’idea di persistenza nel tempo e dunque di stabilità che a una compagnia di assicurazioni fa sicuramente comodo.
Bisogna essere maligni per far notare che il riflesso del passato è inevitabilmente deformato dalle modalità del presente, ed è tanto più fascinoso perché in realtà non si capisce bene come sia fatto e dobbiamo comunque aggiungerci del nostro, che sarà sempre come ci piace che sia (proprio come insegnava, già a suo tempo, il Gran Maestro di trucchi di questo genere, Gian Lorenzo Bernini).
Però la statua è vera, e gli alberi in parte anche. Me lo vedrei bene come occasione per una storia di Dylan Dog. E anche la città nel suo complesso forse gli si addirebbe, non meno di Londra.
Bianco, giallo e azzurro
Finita l’estate, le vacanze, questa foto presa in un luogo che ne potrebbe essere, per molte persone, una sorta di simbolo.
A doverla commentare, mi vengono riflessioni simili a quelle della scorsa settimana. C’è tutta questa geometria, tutti questi piani giustapposti, queste prospettive sfuggenti e appena accennate, queste tinte da quadro astratto.
Eppure, più forte di tutto questo, c’è il senso di luce e di caldo, di bello, di cielo e magari di mare (anche se non si vede); comunque di sud, di Mediterraneo. La geometria diventa solo il tramite visivo della passione – per quanto strano questo accostamento possa apparire.
Il triangolo rosso
Di questa foto, scattata proprio qui, mi piacciono certamente la composizione geometrica e quella cromatica. Ma ciò che davvero mi turba è quel triangolo rosso sotto l’arco, verso destra, a cui non sono capace di dare un senso reale.
Non ricordo che cosa ci fosse lì, e non capisco che cosa ci possa essere, di quel colore, in quel punto. Resta, ai miei occhi, come il triangolo di una composizione suprematista, piovuto quasi arbitrariamente in mezzo alle case. Eppure, d’altra parte, non smette neppure del tutto di avere un senso reale: magari c’è, lì, un pezzo di muro rosso illuminato, oppure è un pezzo di un’insegna rossa visto di sbieco.
In questa tensione irrisolta si condensa il senso dell’immagine nel suo insieme: è una foto, e quindi testimonia qualcosa che è stato davvero così; ma è anche, insieme, una composizione geometrica, e quindi rimanda a un universo visivo puramente umano, intellettuale e finzionale.
Chissà perché, a me queste cose danno moltissimo gusto. È come quando scopri la continuità dove prima vedevi solo rottura. E tutto acquista di colpo un sacco di altri sensi.
La torretta d'angolo
Siete stati costretti, per vedere questa foto nella sua interezza, a scrollare dall’alto verso il basso, proprio come se il vostro sguardo fosse dovuto discendere da quel cielo così bianco e pulito da confondersi con il bianco della pagina sino al frastuono del livello della strada, da cui quella figura umana con gli occhi bassi sembra cercare di sfuggire, affrettando il passo, ma anche chiudendosi in sé.
Ora, mentre leggete queste parole, riuscite a vedere, del mondo della foto, solo la parte del basso, il caos soverchiante della grande città. Ma se risalite un poco con lo sguardo (ovvero con la barra di scrolling) rivedrete quello che sta in mezzo, tra il vuoto del cielo e il pieno del livello terra. È una finzione architettonica, una torretta d’angolo in aggetto, con tanto di guglia: un intermezzo fantastico, davvero un po’ irreale, tra i due estremi del reale.
Magari è una metafora della cultura: una costruzione immaginifica che ci permette di vivere la nostra vita, a cavallo tra il nulla e il troppo. E che dà senso a entrambi.
Il San Giorgio diagonale
In verità credo che sia un San Giorgio: c’è l’uccisione e c’è il drago. Ma manca il cavallo, e non sono riuscito a trovare conferme. Lo vedo con una certa frequenza qui.
Ma la volta che ho scattato la foto è stato perché ho osservato per la prima volta questa singolare combinazione di diagonali. Se osservate il capitello con attenzione, vedrete che non è allineato con le linee delle grondaie, segno che la base della colonna non è allineata con la linea di quella strada. Ma il San Giorgio, e la sua gamba appoggiata sulla coda del mostro, e il mostro stesso, quelli sì che sono allineati con i bordi della strada azzurra al di sopra.
Piccole manie di un patito del guardare, e del trovare corrispondenze nascoste. Una ragione, poi, da qualche parte c’è sempre.
Le croci
È incredibile la varietà delle croci che è possibile incontrare in un qualsiasi cimitero!
È come la varietà delle forme degli alberi in un bosco. Però non è detto che ci facciamo caso. Il più delle volte siamo lì per altro.
La casa a squadri
Che questa casa esista e dove la si possa vedere dal vivo può essere verificato con questo clic. È buffo come la geometricità di questo incrocio rigoroso di ortogonali sia fortemente negata dal calore del vivere, dal disordine e rumore visivo di tutte quelle persiane mezzo avvolte, degli infissi un po’ invecchiati, e dai pensieri della signora che osserva le sue piante sulla terrazza in alto a sinistra.
Se pure mai c’è stato un sogno razionalista dietro al progetto di questa casa, quello che rende interessante questa figura è proprio la sua negazione. Ma, naturalmente, perché si capisca che c’è una negazione, si deve poter vedere quello che viene negato. Magari il senso del funzionalismo sta allora proprio in questo, nell’esistere per poter essere negato dalla storia e dalla vita lasciando comunque trasparire se stesso, e il sogno, che è stato, di controllo sul mondo attraverso la ragione. Un sogno che mostra il futuro del passato, però; non quello nostro, ahinoi!
La barriera rossa
Sarà il contrasto tra il rosso e l’azzurro, mediato da un accenno di verde; sarà il profilo irregolare delle montagne, ripetuto più lieve dalle colline, e poi ancora più leggero dalla plastica rossa; sarà la ripresa diagonale e verticale che ne fanno i muri attorno. Sarà la luce, il rapporto tra vicino e lontano, o non so che altro, ma a me questa foto fa venir voglia di tirare un grande respiro e di tuffarmi, volando come Superman, verso quella visione.
Mi contenterei anche, però, di essere lì, in un giorno così, con il tempo di stare. Magari pensando di prendere la macchina e andare proprio là, e lassù voltarmi indietro a cercare, laggiù, quel posto da cui stavo guardando prima.
Il pergolato
Dedico questa foto primaverile a tutti coloro che, come me, stanno soffrendo il caldo in un luogo che non assomiglia a questo.
Sogno di vacanza a parte, a me questa foto piace anche perché è leggermente storta, e l’orizzonte è pure lui una delle linee diagonali che definiscono il soffitto del pergolato. E ci si arriva dunque per questo zigzag aereo, che si riflette in quello, più tranquillo, dal lato basso. C’è molto movimento per questa immobilità.
È il bello dell’essere in vacanza: deleghi il movimento all’occhio, e al pensiero.
16 Luglio 2011 | Tags: città invisibili, fotografia | Category: fotografia | Il mondo con il semaforo
Questa città invisibile ha al suo centro un semaforo, rosso. Ma ho scattato questa foto (in questo luogo reale) perché mi inquietava la scritta Microsoft sulla sommità dell’edificio. Non so se sia una foto bella o brutta, o magari solo insignificante. A me continua a produrre una leggera inquietudine.
Sarà il cielo così intenso sopra la normalità cittadina, o sarà forse la torre (in uno stile di un moderno ormai d’epoca) che sta dietro all’edificio che porta la scritta, con tutte quelle antenne sopra – come se non bastasse l’altezza per poterlo fregiare del titolo di “grattacielo”, ma dovesse anche dettagliare il modo in cui il cielo va grattato. O magari sarà quella fila di pali con i lampioni, tutti verdi, stagliati contro degli alberi molto meno verdi di loro. O sarà banalmente il semaforo stesso, rosso a bloccarci nel centro esatto dell’immagine, contro un cielo che la città stessa nega, pur non potendolo nascondere.
Non so. Non so dire bene. A voi questa immagine dice qualcosa?
9 Luglio 2011 | Tags: città invisibili, fotografia | Category: fotografia | La casa bianca
Questa parete bianca contro il blu va comparata con quella della scorsa settimana. Non c’è dubbio, che, a differenza di quello, questo è un luogo in cui passeremmo volentieri almeno una parte della nostra vita, magari d’estate. Sarà anche la dimensione orizzontale dell’immagine a contribuire al clima decisamente più rilassato che in quella, drammatica e verticale.
Mi piace, qui, la rima visiva tra gli angoli del tetto e gli angoli del profilo dell’orizzonte, prodotti dalle due isole (che, per chi le sa riconoscere, danno un’idea piuttosto precisa del luogo in cui è stata presa questa foto). La rima funziona, e si fa notare, perché questa immagine è fatta di strisce orizzontali: di vegetazione, di muro in ombra, di tetto piatto al sole, di mare e di cielo..
È la voglia, anche per noi, di sdraiarci orizzontali al sole, a guardare magari quella piccola nuvola, proprio sopra l’isola minore..
2 Luglio 2011 | Tags: città invisibili, fotografia | Category: fotografia | Il condominio bianco
Questa specie di condominio-prigione rappresenta probabilmente l’esempio di un luogo in cui nessuno vorrebbe davvero abitare. Il suo squallore è così grande che non riesco decidermi se sia più terribile la zona a sinistra popolata di finestre, oppure la zona a destra tutta vuota e liscia.
Però, il modo in cui si staglia la luce contro questo bianco, e il modo in cui questo bianco si contrappone al blu intenso del cielo, e quindi complessivamente questa nettezza così intensa della luce, rendono stranamente profondo questo luogo.
Di sicuro non vorremo abitare tra queste mura, ma forse poco lontano da qui ci sarà modo di godere di questa nettezza festiva dell’aria e della luce senza patire quest’incubo. Eppure se guardiamo all’incubo non come un luogo da abitare, ma come una forma pura, astratta, un’idea suprematista, una macchia geometrica di bianco, modulata, a sinistra, dal ritmo uniforme delle finestre, forse allora ai nostri occhi questa visione cambierà aspetto, diventando persino bella e disponibile a essere vagamente presa in giro dai panni stesi qua e là, e dalle piccole imperfezioni dell’intonaco.
In verità, a suo tempo, più o meno qui, ho visto e scattato. Ero già consapevole sia del bene che del male che mi si stagliavano davanti.
18 Giugno 2011 | Tags: città invisibili, fotografia | Category: fotografia | Verticali e orizzontali, ombre e luci
La città invisibile mostrata in questa foto (scattata, nel mondo reale, esattamente da qui) è evidentemente una città dove è importante la luce. Non solo infatti ne definisce tutte le geometrie, ma i suoi simboli notturni ne costellano anche le immagini diurne, proprio come qui.
Questa foto mi piace anche perché mi ricorda le geometrie di De Chirico. Però io c’ero, là. Non è passata nessuna bambina con il cerchio. E le muse inquietanti le avevo dentro.
Auguro a chi se lo merita mille mattine come questa, in questa luce, a scendere le scale per raggiungere quelle ombre (e c’è anche il mare, qui vicino).
11 Giugno 2011 | Tags: città invisibili, fotografia | Category: fotografia | Il senso della distanza
Vicino, lontano. Dalla posizione da cui ho preso questa foto, il piccolo mito laggiù in fondo è ulteriormente separato dal velo dei rami. C’è il sole, è una bella giornata, ma lo stato dei rami rivela che siamo d’inverno, e c’è pure una leggera foschia nell’aria.
Quella roba della città ideale sta di casa proprio qui, e il piccolo mito laggiù in fondo ne è certamente parte. Di notte, viene illuminato, e sembra una bolla sospesa per aria, in mezzo al nero.
Inquadrato in questo modo, le sue linee ortogonali si trovano rispecchiate in quelle qui vicine, così come il suo colore, e l’inquadramento vegetale. Persino uno dei rami che si frappongono è proprio orizzontale.
Il fascino di queste città invisibili ideali è che se pur indubbiamente esprimono un razionalismo, un progetto, un’assolutezza di concezione, un’ideologia, tutto è così allo stato nascente, così aurorale, da ispirare tenerezza. I drammi della ragione irriducibile sono di là da venire; qui ci sono solo i suoi aspetti positivi, ingentiliti dal colore delicato e dal tempo.
Su questo posto mi era anche scappata una poesia, una volta. È qui.
4 Giugno 2011 | Tags: città invisibili, fotografia, India | Category: fotografia | Il cimitero ebraico, lontano
Ovunque tu sia, da qualche parte nella zona, qualunque sia la tua città invisibile, lì c’è un cimitero ebraico. Restiamo in tema cimiteriale, dopo la scorsa settimana – e anche qui, come là, nella foto c’è un interno, in basso, sovrastato dall’esterno, dietro, in alto. Un po’ diverso, senza dubbio, da quello della volta scorsa.
A Finale Emilia, dove sono nato, e poi ritornato per lunghi periodi da giovane, ce n’è uno bellissimo; come anche ad Ancona, in cima alla collina a strapiombo sul mare. Hanno sempre un’aria strana, misteriosa, come se insieme appartenessero e non appartenessero al luogo in cui sorgono.
Un fascino simile, tra i nostri, ce l’ha solo, un poco, il Cimitero degli Inglesi, quello che sta a Roma vicino alla Piramide; quello di Shelley, e delle ceneri di Gramsci, con tanto di spettro di Pasolini che si aggira. Ce l’ha forse, perché anche quello è un cimitero che a noi appare anormale, differente, stranamente fuori posto.
Questo specifico cimitero ebraico, qui nella foto, non avrebbe in sé niente di particolare. Sarebbe forse anche meno affascinante degli altri, se non fosse per il luogo in cui si trova, così lontano da essere sorprendente, e quindi anche sorprendentemente fuori luogo.
Sembra che gli ebrei siano arrivati qui ai primi del sedicesimo secolo, ma venivano da poco lontano (dove avevano litigato con il signore locale). Lì, però, ci abitavano già da oltre 1400 anni, cioè dall’epoca della diaspora. È questo che io continuo a trovare stupefacente: millequattrocento anni (e poi altri cinquecento) e sono ancora distinti, riconoscibili, differenti. Sono arrivati sin qui, in questo universo alieno, in questo altro mondo, e hanno continuato protervamente a essere loro.
Non mi stupisce che persino i loro cimiteri mi comunichino insieme familiarità e differenza. Provengono non solo da un altro luogo, ma anche da un altro tempo. E appaiono irreali anche quando ci sei dentro, li tocchi, li respiri.
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