Questa foto giusto perché è primavera, e perché quello li sù è davvero un posto assurdo per vederci un prato.
Presa qui.
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Questa foto giusto perché è primavera, e perché quello li sù è davvero un posto assurdo per vederci un prato. Presa qui. A me questa immagine fa un po’ l’effetto che fanno le figure dette multistabili, come la papera/coniglio, il vaso/visi, o la vecchia megera/signorina elegante, o il profilo di Freud/ragazza nuda, o i ritratti con quattro occhi. Riesci sempre a guardarne solo un aspetto, oscillando tra i diversi possibili. Qui, io vedo alternatamente la strada verso destra e quella verso sinistra. So bene che ci sono tutte e due (ci sono anche stato in questo posto) ma è come se la mia mente si rifiutasse di tenerle insieme. Non è un semplice bivio. Una strada sale e l’altra scende, una è luminosa e l’altra oscura, una è deserta e nell’altra qualcuno si allontana, una è un dentro e l’altra è un fuori… Con tutta la mia buona volontà, continuo a vederci due immagini diverse, accostate lungo la linea del muro. Va bene. Accettiamo l’impasse. Ci sono due mondi in questa foto, che non dovrebbero stare insieme. La realtà ce li mette. Sono costretto a crederle, ma rimango inquieto. Fermi! Prima di passare oltre (che intendiate leggere il testo che segue o magari semplicemente abbandonare), ingrandite la foto a tutto schermo e concentratevi sulle due tanichette d’acqua contro il cielo. Adesso potete continuare. In questa foto i colori caldi sono in basso, e quelli freddi in alto. La luce del sole proviene dal basso. Le nuvole e il muro, grigi, organizzano lo spazio, dividendolo in quattro quadranti irregolari. Al centro c’è un vortice di nuvole e di luce. Ma nelle due tanichette d’acqua, anch’esse ortogonali, i rapporti cromatici sono invertiti. Le trasparenze del microcosmo riproducono il macrocosmo, ma a rovescio. È strano questo dettaglio d’acqua in mezzo a tutta questa aria e questa luce. E per questo che ho preso questa foto (scattata qui). Questa foto è stata presa in una di queste strade. Il lastricato era incredibile. Meglio delle più assurde geometrie deformi di un Klee. Era festa, grande festa. C’era una grande processione che saliva per la calle Baltasar Martin. A quell’altezza, per un lungo tratto, la calle Baltasar Martin è fiancheggiate da una serie di casette basse piuttosto antiche, non prive di una certa eleganza benché non signorili, le cui porte e finestre danno direttamente sul livello della strada. La gente che fluiva si confondeva con quella che partecipava guardando da casa, per poi, poco dopo, a sua volta confluire. Ricordo che quando siamo partiti dalla cattedrale ero stupito di quanta (relativamente) poca gente ci fosse in processione. È che la gente poi si andava aggregando man mano che si attraversavano i quartieri. Prima osservava la processione da casa (alcuni, tanti, persino dai tetti) e poi via, a far parte dello spettacolo! All’arrivo la gente era decuplicata. Gli interni festivi delle case apparivano quindi in continuità con l’esterno: lo stesso senso di ornato, la stessa eleganza domenicale, lo stesso fremito diffuso. Questa è, tra le tante foto che ho scattato, una di quelle che amo di più: la madre e la figlia, somigliantissime; lo sguardo da matrona di provincia dell’una, e quello vezzoso e raffinato dell’altra, incastonata, questa, nella finestra della porta, insieme dentro e fuori casa, insieme con noi che scorriamo, mentre si trova ancora dentro casa – nella mano il cellulare, forse in attesa di una qualche chiamata, un’aria disinvolta; e i sorrisi, simili ma diversi delle due donne, che rispondono al mio scatto. O forse no, semplicemente che rispondono alla gente che fluisce, di cui loro fanno parte, o stanno per farne parte. Una Spagna di provincia, un po’ diversa ma neanche tanto dall’Italia di provincia. Sufficientemente simile da sentirsi a casa. Sufficientemente diversa da non sentircisi troppo. Io non so esattamente cosa sia quella specie di articolata banderuola con in cima la mezzaluna, fotografata qui in orario evidentemente tardopomeridiano. Ma qualunque cosa sia è certamente un oggetto che colpisce, col suo richiamo d’oriente, e il camino di stile veneziano lì vicino. O sarà magari il contrasto tra il nero controluce della banderuola (o di quel che è) e il rossastro tardosoleggiato del camino; il tutto contro l’azzurrogrigio del cielo sopra, e il grigionocciola della casa sotto. (Ma anche finestre e finestrino e grondaia fanno discretamente la loro parte – senza farsi troppo notare, un po’ di sottecchi…) Il tutto è un po’ metafisico, ma un metafisico veneto, non romano. Di questa casetta, fotografata all’incirca qui, mi piace la combinazione di squisitezza e sciatteria. Insomma, le deliziose mattonelle e il marmo del basamento, insieme a tutto il resto: la posizione tra le strade, i fili elettrici abbondanti ed esposti, la griglia sulla porta, l’ombrellone appoggiato al parasole di vimini storto, i fili della biancheria. Il marmo del basamento è quello dei banchi dei macellai di una volta, e ha gli stessi colori della strada, ma le linee girate in modo diverso. Intorno la città vive. Il mare è vicinissimo. Non mi fa venir voglia di abitarci, ma magari di stare lì vicino, e di incrociarla tutti i giorni quando passo.
Dal link a Google Maps potete osservare in che razza di territorio vive questa gente. E poi, qui sotto, dopo aver letto il testo di Livio, guardate le foto. Arrivano da un altro tempo (cinquant’anni fa) e da un altro mondo. I colori e anche un po’ la nitidezza sono stati mangiati dagli anni. Ma forse anche per questo, guardandole, a me sembra di fare un tuffo in un’altra realtà. D’accordo: non è città. È solo fuori stagione, eppure sempre, lei, in stagione. Sarà anche per questo che sono così affezionato a questa foto. Scattata qui. Sì, certo: nelle foto mi piacciono gli spazi complicati. Ma qui, in particolare, ci sono anch’io, che sto scattando la foto. E questo rende lo spazio ancora più complicato. Scattata qui. Non so dove siete voi, ma io non sono qui. Peccato! Non sarebbe male come posto dove celebrare il cambio di anno. Di questa foto mi piace, a sinistra, il contrasto tra il giallo e l’azzurro, convergenti col cielo chiaro in mezzo; e poi, nel complesso il contrasto tra le tinte chiare a sinistra e quelle scure a destra. E poi ci sono una serie di echi: per esempio tra le forme chiare e brillanti degli ombrelloni e quelle scure e verdi delle sedie, riprese ancora dalle lampade bianche; o l’intreccio delle linee rette orizzontali e verticali, contraddetto dalla diagonale zigzagante che comincia proprio vicino, in basso a sinistra, e si perde in fondo; e il giallo degli ombrelloni si riflette sul reticolo delle tovaglie di plastica. Però più di tutto vorrei essere lì, a ordinare una birra e guardare il mare, e il muro bianco in fondo, occupando una frazione di quello spazio vuoto nell’ombra. Ancora altro giallo nel mio bicchiere. E fuori una luce davvero abbagliante. Io trovo questa foto inquietante. Penserete che l’aggettivo è eccessivo, perché non si vede nulla qui che possa spaventare o mettere ansia o preoccupare in qualche modo. Anch’io non capisco bene che cosa produca in me questo vago senso di disagio. Procedo perciò per osservazioni e per ipotesi. Potrei dire che, intanto, c’è questo senso di “fuori luogo” per l’oggetto in primo piano, che non è un oggetto da strada. Il senso di “fuori luogo” persiste anche se so che quest’oggetto si trova in strada in occasione di una processione religiosa, ed è portato a spalla da alcune persone (di cui si intravede appena la sommità della testa, a sinistra). Ma appare “fuori luogo” anche la casa azzurra che sta dietro al baldacchino, troppo perfettamente azzurra per essere un vero esterno urbano e antico (come lasciano pensare le finestre). Inoltre, l’elegante scritta “Orange” in basso a sinistra dà all’insieme una superficie da pagina di rivista, da pubblicità patinata. Eppure questa casa esiste davvero, ed è proprio così, in un posto specifico, e non ho nemmeno ritoccato il colore, neanche di un poco. Sono colpito – non posso negarlo – dagli intarsi dell’argento e dall’andamento eccessivo delle volute che sostengono i ceri, e anche, particolarmente, dal modo in cui questa preziosità di argento in primo piano trova seguito nella preziosità della lavorazione del legno delle finestre seminascoste dal baldacchino stesso. E poi c’è il cielo, bianco come la parete della casa a destra. Non posso fare a meno di pensare che il colore che manca, in quel cielo, è esattamente quello che, in versione artificiosa e da negozio elegante, abbonda nella parete della casa azzurra. Insomma, incominciano a delinearsi una serie di contrasti: sacro e profano, antico (permanente) e attuale (effimero), colorato e acromatico… Solo che i poli di queste opposizioni non si trovano dove dovrebbero stare: l’azzurro non è nel cielo, il bianco non è nel muro, l’effimero sta nel luogo del permanente, il sacro sta davanti all’effimero. E l’effimero è elegante: questa casa non è niente male, compreso il raffinato lettering della scritta, e il contrasto cromatico con le bande verticali ocra. Mentre il sacro appare eccessivo, quasi ridicolo. I colori sono tutti puri, a campiture piene, quasi senza sfumature; mentre le sfumature, quando ci sono, riguardano solo le zone in cui il colore non c’è, come l’argento del baldacchino. La sensazione complessiva è quella di un mondo senza colore, su cui si stagliano pochi oggetti uniformemente e artificiosamente colorati. Tra questi, quelli che emergono di più sono i fiori rossi, col loro peduncolo giallo, un tipo di fiore di cui non ho mai potuto fare a meno di osservare il forte richiamo sessuale, ma che qui, oltre al sesso, mi trasmette l’effetto di una diffusa macchia di sangue. Poiché sopra al baldacchino c’è una croce, strumento di tortura e di morte prima che simbolo religioso, la presenza del sangue non è affatto impertinente. Ecco quindi il quadro complessivo: un mondo smorto in bianco e nero su cui si staglia il contrasto vivacissimo a colori tra un profano effimero ed elegante e un sacro barocco e pieno di sangue, che innalza le sue luci bianche e a loro volta senza colore verso un alto ugualmente senza colore. Allora è forse questa l’inquietudine che questa fotografia mi suscita: il timore di ritrovarmi in un mondo senza colore e interesse, dove il colore e l’interesse stanno solo in due cose: in un’eleganza effimera e in una religione contorta e sanguinaria. È solo una foto. Meglio guardare altro. A meno che l’ansia non provenga, banalmente, dal richiamo alle spire dei tentacoli di Octopus che questi bracci contorti di candelabri suscitano nella mente ugualmente contorta di un lettore eccessivo di fumetti. Vedi te gli effetti che mi produce il Natale imminente. Auguri! Mi sono divertito un sacco a fare questa foto (e non solo perché ero in un bel posto). Lo studio consisteva nel trovare una linea da rendere orizzontale al posto dell’orizzonte, in modo da aiutare, con l’incrocio delle linee, la confusione sulla prospettiva. E d’altra parte, chi l’ha detto che l’orizzonte, in una foto, debba essere orizzontale? Ma il bello, qui, è che le colonnine della balaustra sul mare sono ugualmente verticali. Questo è un po’ inquietante. Me le sono trovate davanti affiancate per caso, e non ho potuto fare a meno di osservare una parentela, una rima, che vi ripropongo qui. La rima mi colpisce perché le due foto non potrebbero essere più diverse: una è stata presa in Algarve d’estate e l’altra sull’Appennino in inverno; in una le diagonali esprimono un pieno (le linee su un muro) nell’altra un vuoto (la fuga dei binari); in una convergono verso sinistra, nell’altra verso destra; in una il bianco è messo a contrasto con altri colori, nell’altra praticamente no. A dispetto di tutte queste diversità, la rima però si impone alla mia attenzione, e mi costringe a vedere delle altre somiglianze, che altrimenti riterrei irrilevanti: la presenza di un oggetto piatto che sporge dal muro (la base del lampione a sinistra, il cartello “Binario” a destra), la presenza di successioni ritmate in alto (le balaustre dei balconi a sinistra, gli elementi della linea elettrica a destra), il rapporto tra le diagonali e le linee verticali, insieme alla scarsità di orizzontali (salvo che nella casa a sinistra, in entrambe le foto). Tutte le scoperte del mondo iniziano così, osservando regolarità impreviste. Poi, dopo, si tratta di capire se il tutto è opera del caso, o se c’è una ragione interessante dietro alla regolarità. A volte la ragione interessante non la troviamo, ma continuiamo ad avere l’impressione che ci sia lo stesso, e l’accostamento ci affascina, e pensiamo che ci si debba riflettere sopra di più. Nel campo della comunicazione estetica l’esistenza di questa sensazione è decisiva: le opere che ci piacciono sono proprio quelle che la producono in noi, risvegliando la nostra attenzione con il loro essere interessanti, e non permettendoci di risolverle in una soluzione conclusa. Il mio esempio è piccolo, e magari funziona, un poco, solamente per me. Io però continuo a guardare e riguardare questo avvicinamento di due mondi, uno caldo e solare e l’altro freddo. Le diagonali bianche in rima me li rendono come due facce della stessa moneta. Non so però, ancora, che moneta sia. Il bello delle città è che le epoche si stratificano. Il bello delle diagonali è che danno l’idea del divenire. Questa foto, presa qui, lo stesso giorno della processione di cui la scorsa settimana, ne mostra – diciamo così – le retrovie, il percorso di chi, come me, ha preso la scorciatoia per riguardagnare la testa del corteo. Il che spiega perché tutti salgano. Ma io trovo che ci sia lo stesso qualcosa di surreale in questa figura. Che cosa? Sicuramente sono un po’ cattivo ad accostare questa foto, presa qui, il giorno della festa della risalita (la Subida) della Madonna al suo Santuario delle Nevi, con il dipinto di Bosch riportato qui sotto. Non c’è dubbio che i bravi spagnoli della processione assomiglino ben poco ai gaglioffi messi in scena da Bosch, ma ai meccanismi associativi non si comanda, e quando la foto mi è capitata sotto gli occhi la mia mente è subito corsa al dipinto fiammingo. Se lasciamo perdere la valutazione morale, probabilmente non pertinente, il legame tra le due immagini sta nella natura sacra dell’evento, nel suo essere comunque una processione, e nel fatto di cogliere tanti volti ciascuno preso nella propria specifica attività, nei propri pensieri. La processione era sterminata ed entusiasta, però mica si può essere sempre concentrati sull’evento sacro, che è anche (o soprattutto) un evento festivo, collettivo e spettacolare. Ed ecco questi volti divaganti o sorridenti, proprio vicinissimo al Sancta Sanctorum della processione, il baldacchino della Virgen appena dietro di loro. La foto va ingrandita e i volti osservati uno per uno, compresi quelli in alto a destra, un piccolo esempio dei grappoli di persone che dappertutto aspettavano la processione per vederla dall’alto dalle proprie finestre e balconi, per poi subito dopo scendere e accodarsi a loro volta. E infine (oltre alla scuola di musica) ci sono i fotografi, proprio come me, che prendono immagini da mostrare, come questa che state guardando – o come quella esibita dalla Veronica nel dipinto di Bosch. Quando si passa di lì, sull’autostrada della Provenza, poco dopo Aix-en-Provence in direzione dell’Italia, chi ha amato i dipinti di Cézanne non può fare a meno di guardare e riguardare la Montagne Saint Victoire. È una visione insieme affascinante e frustrante, perché non si può non comparare l’esperienza rilassata del pittore che ne godeva dai migliori punti di vista, e ricreava sulla tela quel fascino, con l’esperienza nostra, lanciati in velocità sull’autostrada, con la visione continuamente interrotta dalle emergenze sia naturali che dell’autostrada stessa. E poi, quella volta, non stavo nemmeno guidando io; quando guidi, è ovviamente ancora peggio. Non so (e stavolta non mi importa) se questa è una bella foto, in sé. A me piace perché è una foto che rappresenta un’esperienza, quella di chi cerca nel mondo attorno tracce dei propri miti senza poter uscire dai binari della vita che conduce. (C’era anche il parabrezza un po’ sporco, oltre ai cartelli, ponti, guard-rail, camion…) In questa città invisibile, che è la stessa di questa, le linee di terra dei campi da pallone per i bambini sono fatte con la luce del sole, mentre le porte sono colonne monumentali di pietra. Di questa foto, oltre alla nettezza della luce, e all’aria di giornata festiva che si respira, mi piace la rima tra la sequenza delle colonne a sinistra e quella delle colonne a destra, ciascuna disposta in una dimensione spaziale differente; e poi il modo in cui questa serietà geometrica e statica viene messa a contrasto con le posizioni casuali e dinamiche delle figure umane. Questa foto potrebbe legittimamente fare da pendant a quella della scorsa settimana, ed è pure stata scattata nella medesima città; solo che qui i colori non sono solamente sul fondo, inquadrati dalle quinte bianche e grigie. E le diagonali stanno anche nelle pareti di sfondo, così che non c’è un appoggio definitivo alla fuga dello sguardo. A me piace anche quell’ombra in alto, la cui diagonale viene ripresa dalla curva del muro proprio di fianco (di cui non riesco a capire il senso architettonico), perché fa parte di un gioco di zigzag che corre dappertutto, dal basso all’alto, dai lati al centro. E c’è persino il lampione, a sinistra, ad abbozzare un ulteriore ritorno. E poi mi piace che al giallo che sfuma verso il grigio si contrapponga quel cielo di un azzurro così uniforme, quasi irreale se comparato alle scrostature e sfumature dei muri. |
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