Attraverso la finestra
E rieccoci alle mie amate geometrie. Evidentemente questa immagine mi piace perché amo Mondrian, ma mi piace anche perché detesto il suo ideologico purismo.
Attraverso la finestra si vedono geometrie ortogonali, ma anche la finestra stessa, e un’altra finestra che le fa eco. E poi si vede la grana dei muri, delle vernici e dei metalli; e quel cespuglio per nulla mondrianiano che cresce attorno a quei tubi anche loro per nulla mondrianiani. E poi c’è quel rametto luminoso che spunta da sinistra, unico oggetto carico di luce di sole; ma la cui luminosità trova subito eco nei riflessi (di finestre?) sul muro giallo in basso a destra.
E infine ci sono gli spazi: quello (il mio) della stanza da cui scatto, rivelata dalla finestra; quello limite della finestra stessa; quello aereo intermedio, dove si slancia il rametto; quello dei muri, della terrazza intuita; e poi, ancora, l’altro spazio limite dell’altra finestra; e quello del suo interno; e poi? E poi è buio: è una porta chiusa o una soglia aperta quella che si intravede?
C’è una storia raccontata qui? È generica e vaga, ma c’è: molte cose potremmo dire di questo luogo solo guardando ciò che vediamo. Ma non sarebbe così interessante, forse, o almeno non lo sarebbe ai miei occhi, se l’intersecarsi delle geometrie ortogonali non mi riportasse questa immagine a un universo figurativo che è il mio, con cui vivo in ammirazione e in polemica.
(dimenticavo: presa qui)
La casona sul mare
Questa casa degli spiriti si trova qui. Se la fissate un poco, potrà sembrare anche a voi che sia pure lei a fissarvi. Quel muro è, cromaticamente, bellissimo. Gli spalti, o contrafforti, ai due (quattro) angoli, la rendono qualcosa di più di una semplice casa, facendola già leggermente propendere per la dimensione del castello.
È evidentemente disabitata, eccetto per gli eventuali spiriti, recintata, probabilmente cadente. Ma non è del tutto trascurata: in alto, subito sotto il tetto, ci sono macchie di cemento fresco che dimostrano interventi umani recenti per tenerla su. Spero che sia una sorta di monumento, pubblicamente accudito, destinato a rimanere in questa condizione sospesa per sempre.
Pensate a cosa ne sarebbe se una famiglia americana la comperasse e restaurasse, per farne una casa delle vacanze sul mare, con bella vista e bel giardino! Siamo fatti strani: le cose che ci piacciono sono quelle che stanno percorrendo la propria storia, ma pretenderemmo ugualmente che il momento in cui le cogliamo non debba passare mai.
La spiaggia
(ingrandire per comprendere, meglio se al massimo)
Giusto perché siamo in agosto, giusto perché la memoria di questo luogo ideale mi è fresca, giusto perché l’idea di una spiaggia ideale può essere diversa per ognuno di noi, metto qui questa foto di acqua diafana, di un luogo che mi dava l’impressione ricorrente di essere sul set delle figure di Nell’acqua, di Lorenzo Mattotti (ma lui, interrogato in merito, ha negato di esservi mai stato – quindi è tutta una proiezione mia).
Giusto per farvi invidia, giusto per farmi tristezza, visto che io sono qui, davanti al computer, a casa mia; e non lì, a vivere di quello che mi vedrei davanti.
(in alternativa, potrei anche tagliarla così)
La spiaggia (2)
I camini
Questa foto è stata scattata nello stesso luogo di quest’altra. E il mio sguardo evidentemente mirava in alto.
Ma c’è qualcosa di antropomorfo in questi camini, che sembrano quasi avanzare, venirmi incontro. E poi c’è la luna, che allude a tante cose.
Tra queste c’è ovviamente lo spazio, e la mia testa corre, per associazioni fantascientifiche, a un vecchio romanzo di Stanislaw Lem, in cui il protagonista su un pianeta lontano incontra una razza aliena; ma è così aliena che lui non li riconosce, e solo alla fine forse capisce che i suoi alieni sono quella specie di camini che sbucano dal terreno. Non ne ricordo il titolo, e magari mi ricordo pure male quello che accade. Però questi camini sono per me gli alieni di Lem.
Il caldo fa strani scherzi.
La siepe, il cielo
Magari, a guardare una foto come questa, si può avere la presunzione di capire che cosa ci trovasse Mondrian (e noi con lui) in quelle sue righe monotone orizzontali e verticali. Qui c’è molto di più (quanto a dettagli) e probabilmente assai di meno (quanto a composizione). A me (che sono un critico parziale e inattendibile, essendo pure l’autore della foto) piace il contrasto tra i chiari e gli scuri, in particolare nel dettaglio dei due pali, che mi sembra riassumere, in piccolo e in verticale, il senso che, nell’immagine nel suo insieme, risulta dal grande e dall’orizzontale.
Quello che Mondrian non può ottenere, e che qui c’è, non dipende gran che da me. Io mi sono limitato a registrare quello che vedevo, il silenzio del luogo, l’uccello posato per un attimo sul filo, la laguna (o mare) là in fondo.
Luoghi simbolici
Le finisterrae sono luoghi evocativi per loro stessa natura, luoghi simbolici che rappresentano l’estremo, la fine, il punto oltre cui non si può andare. Tanto più lo sarà la finisterrae estrema di un paese in cui i simboli contano molto, come questa.
Vivekananda, Tiruvalluvar, e poi non ricordo che altro ancora: i simboli si accumulano naturalmente in un luogo così simbolico. Ci sono persino le ceneri di Gandhi disperse in quell’acqua lì.
Di questa foto a me piace la prospettiva, con il punto di fuga verso sinistra, con il conseguente disporsi dei monumenti in un ordine umano, l’ultimo di fronte al mare, che qui davanti è davvero senza fine. E poi mi piace quel gruppetto di persone che sta lì, a guardare, ad assorbire la potenza simbolica del luogo.
È sempre pieno di turisti indiani questo posto. Gli occidentali sono pochi. In realtà non c’è gran che da vedere, per un turista, specie se occidentale in cerca di meraviglie. È solo la potenza simbolica che è straordinaria.
La casa arancione
Naturalmente, vivere in una casa come questa sarebbe davvero un sogno; non ho ancora capito se un bel sogno, però, o un brutto sogno. Persino i colori delle scale gialle e del tendone azzurro stanno al gioco degli eccessi (o di quelli che a noi appaiono tali). D’altra parte, questi sono anche i colori di cui si vestono le donne, qui in zona; e se vestono una donna con eleganza, perché non un’abitazione?
In ogni caso, non è un luna park. È una cosa seria / una casa seria. E la foto comunque mi piace anche come costruzione plastica, con la grande area arancione a destra (e la finestrina in alto), che si trova interrotta, a sinistra, dai dettagli scuri, viola, azzurri e gialli. Il tutto poggia su un basamento chiaro, grigiastro. Le linee che sembrano rette, convergenti per la prospettiva dal basso, in verità non lo sono tutte quante.
Ho fatto la prova, con Photoshop, ad aumentare la saturazione di questa foto al massimo, e quasi non è cambiata! Questi colori sono già saturi così.
Comunque, se avete ambizioni immobiliari, la potete trovare (credo) qui (o comunque nella stessa città).
Mattoni, tegole, grondaie
Questa città invisibile mi è molto familiare e molto cara. Di questa immagine in particolare mi piace la giustapposizione dei piani, i colori diversi dei mattoni, quelli delle tegole e quelli delle grondaie, e poi il fatto che, dopo il primo sguardo, ci si accorge che di linee davvero orizzontali e verticali ce ne sono proprio poche. Tutto è lievemente inclinato. Forse è questo che fa la differenza tra il funzionalismo del Quattrocento e quello di mezzo millennio dopo.
Dai tetti
Stessa situazione che in questa foto, in questa e in questa. Stessa confusione, stesso fervore diffuso, con la gente persino sui tetti. Ma i tetti sono così piccoli, che per contrasto gli uomini sopra di loro sembrano enormi.
Qui le geometrie sono triangolari, piramidali. Tutto sale: la gente, le case, il nostro sguardo…
Però, salendo, tutti gli sguardi e gli andamenti vanno verso sinistra. Le geometrie, viceversa, spingono il nostro sguardo verso destra. Noi siamo gli osservatori, le persone ritratte i protagonisti. È giusto non confonderci troppo?
Davide Riboli - Urbino Maggio 2012
Non l’ho scattata io questa foto, ma il mio collega dell’ISIA di Urbino Davide Riboli, dal piazzaletto che funge da parcheggio all’istituto. È stata scattata con un iPad, il che giustifica la bassa risoluzione e la scarsa messa a fuoco di alcune parti.
Tuttavia, a ben guardare, questa scarsa messa a fuoco fa parte del fascino dell’immagine, che, così com’è, sembra quasi più un dipinto che una foto. Il paesaggio di fronte a Urbino, dal lato del Monastero di Santa Chiara (sede dell’ISIA) è comunque sempre un paesaggio leggendario, tra i più fantastici che si possano vedere – e sembra in ogni caso tratto da un dipinto medievale. Ma l’altra mattina Davide l’ha colto in un momento che lo rendeva ancora più particolare, con questo alternarsi di zone di luce e di ombra e con questo rispecchiarsi dell’ondeggiare verde chiaro e verde scuro della terra nel balenare grigio chiaro e grigio scuro del cielo.
A questo mondo raffigurato già di per sé così fascinoso, la sfocatura della foto aggiunge un effetto come di pennellate da dipinto ottocentesco, da macchiaiolo, quasi l’avesse dipinto Giovanni Segantini o Silvestro Lega – in particolare in quelle bellissime macchie di fiori (credo) sulla destra, con, sotto, il verde luminoso del cespuglio e, sopra, il verde scuro della collina lontana. Però, pur vedendo la mano di un pittore, si continua ancora a percepire che è una foto, e quindi si oscilla tra la percezione di un’immagine fotografica e quella di un dipinto – con differenti universi di riferimento evocati.
A chi devo attribuire il merito di questa immagine così intrigante? A Davide che, con lo strumento che aveva a mano, ha visto la scena, e ha comunque scelto l’inquadratura e l’attimo giusti? All’iPad e alla sua imperfezione? Al paesaggio urbinate? Al caso o alla combinazione di tutto questo?
Davide l’aveva poi postata su Google+, e lì l’ho trovata. Una volta le belle immagini finivano a decorare i muri delle nostre case. Per adesso ne ho fatto lo sfondo del desktop del mio computer. Fascinosa, ma persino un po’ inquietante, devo dire!
Lo specchio blu
Questa foto è stata presa grosso modo da qui, cioè dalla stessa posizione di quella della scorsa settimana. È solo una delle molto foto che ho scattato a questo oggetto mostruoso, affascinante e inquietante, che aggiunge alle parole di Borges anche la pretesa di incasellarlo, il mondo, oltre a farlo suo, quanto a forma e colore.
Le parole di Borges, eccole qui: “Desde el fondo remoto del corredor, el espejo nos acechaba. Descubrimos (en la alta noche ese descubrimiento es inevitable) que los espejos tienen algo monstruoso. Entonces Bioy Casares recordó que uno de los heresiarcas de Uqbar había declarado que los espejos y la cópula son abominables, porque multiplican el número de los hombres.” (dal racconto “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”)
Tradotto dallo spagnolo barocco di Jorge Luis, suonerebbe più o meno così: “Dal fondo remoto del corridoio, lo specchio ci osservava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. A quel punto Bioy Casares ricordò che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva dichiarato che gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini.”
E, poco più sotto, quando Borges e Bioy Casares vanno a verificare: “Él (Bioy Casares) había recordado: Copulation and mirrors are abominable. El texto de la Enciclopedia decía: Para uno de esos gnósticos, el visible universo era una ilusión o (más precisamente) un sofisma. Los espejos y la paternidad son abominables (mirrors and fatherhood are hateful) porque lo multiplican y lo divulgan.”
Insomma: “Lui aveva ricordato: Copulation and mirrors are abominable. Il testo dell’Enciclopedia diceva: Per uno di questi gnostici, l’universo visibile era un’illusione o (più precisamente) un sofisma. Gli specchi e la paternità sono abominevoli (mirrors and fatherhood are hateful) perché lo moltiplicano e lo divulgano“.
Ecco qui dunque la ragione della mia fascinazione per quello che vedevo davanti a me: gli specchi sono come il sesso. Essi moltiplicano le illusioni e perpetuano il sofisma che le sostiene. In fin dei conti, dunque, stavo scattando delle foto erotiche, forse addirittura pornografiche. Nei termini del puritano Borges, questo sarebbe anche, probabilmente, il massimo dell’erotismo possibile.
P.S. Aggiungo, a posteriori, un’osservazione, perché solo ora ho capito che cosa sia quella macchia arancione verso il centro dell’immagine. Eravamo al tramonto quando ho scattato la foto. Il sole si è riflesso sul parabrezza di un’auto di passaggio proprio mentre scattavo, e lo specchio un po’ deforme ha fatto il resto. Quella forma informe è quindi il riflesso di un riflesso, l’illusione dell’illusione di un’illusione, nei termini degli gnostici di Uqbar. Ci possiamo domandare che tipo di relazione (certamente abominevole) intratterrebbe con il sesso, nei termini di Borges.
La casa pastelli
Ha diritto, l’autore di una foto, di dire che quella foto gli piace moltissimo, che è proprio bella?
Del resto (visto anche il luogo in cui la foto è stata scattata) vale sempre il detto “ogni scarrafone è bbello a mamma sua”. Mi difendo seguendo due linee: la prima è quella per cui sono comunque tante le foto che ho scattato io che restano per me scarrafoni anche se io sono la loro mamma; la seconda è che, tutto sommato, l’occhio del fotografo non fa che selezionare e trasmettere qualcosa che nel mondo esiste ed è interessante pure senza di lui (qualche volta certo senza di lui non se ne accorgerebbe nessuno).
Perché questa foto mi piace così tanto? Be’, ci sono le solite geometrie, ma c’è anche quella spirale quasi al centro, e quei colori quasi a pastello, con appena qualche guizzo vivace qua e là, come se tutto l’insieme fosse in realtà disegnato da un Liotard magari stanco di fare ritratti o nature morte.
O è magari questo un po’ irreale giustapporsi di piani, quasi di scatole, rosa ma solcate di azzurro e di grigio. Se non sapessi che questo posto c’è, penserei davvero che si tratta di una città invisibile, disegnata dai pastelli di un pittore un po’ maniacale.
La bella cartolina
Una cartolina, più o meno, presa evidentemente da qui. Ma almeno, mi sembra, una bella cartolina.
Quand’è che una foto di paesaggio ci appare una cartolina? Direi: quando corrisponde ai dettami del pittoresco; quando la sua descrizione di un luogo è come i dettami del turismo ci fanno aspettare che debba essere. Poi, quando una cartolina è una bella cartolina vuol dire che ha un certo gusto costruttivo e magari dimostra una qualche originalità nel modo in cui si adegua a questi dettami.
Qui, forse, è il piccolo straniamento che deriva dal fatto (non immediatamente evidente) che la foto è stata presa d’inverno – stagione poco adatta al turismo culturale; e quindi il mondo descritto è un po’ meno meraviglioso dell’eterna primavera che una cartolina ideale dovrebbe sempre mostrare. E, forse, il rapporto tra linee orizzontali e verticali, rette e curve, cultura e natura, colori caldi e colori freddi, mantiene qualche interesse.
Insomma, la foto continua a piacermi, e insieme continuo a vederci la cartolina che è. Magari avrei un futuro nel campo.
Alberi cielo case e neon
Qui ci sono due ordini di cose che mi colpiscono: da un lato il contrasto tra l’azzurro apocalittico del cielo e quello, altrettanto apocalittico ma per tutt’altre ragioni, del neon in basso; dall’altro il rapporto tra le masse irregolari degli oggetti naturali (nuvole, alberi) e le geometrie di quelli umani.
Insomma, contrasti di luce e contrasti di forma; proprio quelle cose che la fotografia, qualche volta, è in grado di cogliere meglio dello sguardo naturale, troppo distrato dalle mille evenienze del presente. Anche quando la foto è un po’ fuori fuoco, magari persino in tantino mossa, come qui.
Sulla scena
È un po’ come essere a teatro, e guardare le cose di là dal sipario, sulla scena.
C’è anche una luce bassa e viva, un po’ drammatica, vari attori e un fondale dipinto. E, ai lati del sipario, decorazioni murali.
Ero qui.
Vari mondi
Questo posto si trova qui. Mi ha colpito, e mi continua a colpire, perché la parte bassa appartiene a un mondo differente dalla parte alta. In mezzo, una zona di mediazione, in cui le strutture umane hanno un aspetto e dei colori più simili a quelle naturali.
Sembra di essere in due posti diversi al tempo stesso. Però, poi, il grigio del muro si rispecchia in quello del cielo, e c’è un po’ di natura verde anche nella zona umana grigia. A parte questo, le zone rettilinee e grigie si contrappongono a quelle curvilinee e verdi. Ma poi c’è una rete grigia e rettilinea, a destra, e delle reti bianche e verdi curvilinee, a mezza altezza.
Natura e cultura, città e montagna, si contrappongono e si corrispondono. Ma magari è solo questa strana luce a turbarmi, in fin dei conti.
I camini
Bianco, rosso cupo, azzurro pieno. Le diagonali, le verticali, l’antenna parabolica, le antenne tradizionali, i cavi in basso e la rete in alto, i merletti che decorano i camini. Linee rette con qualche accenno di curva. Fa caldo, è estate, sono qui.
Lontano
Mah, forse questa foto parla da sé.
Mi basta dire che amo le sue geometrie non meno di quel mare che si confonde con il cielo.
(Il posto è questo)
Il nastro giallo
Sono le solite geometrie che fotografo sempre, indubbiamente, i soliti piani giustapposti, non sempre tra loro ortogonali, a complicare un po’ il gioco; con il piano di sfondo del cielo, quasi un po’ da coperchio (colorato) a chiudere la scatola (dalle pareti spesso vicine al bianco e nero).
Ma qui (qui) c’è questo festone giallo tutto sfrappettato come la giacca di un cowboy, tutto curvo, mosso e storto, che è il vero soggetto del mio sguardo. E prosegue a lungo oltre l’angolo, in mezzo alle case, un po’ come un raggio di sole da LSD in un intorno che si sforza di essere geometrico.
Nuvole
Questa foto mi piace perché è come un frammento di contrappunto.
In basso ci sono due note tenute profonde: un bordone uniforme grigio, e un altro grigio rossiccio con un lungo battimento.
Appena più sopra ci sono legioni di nuvole corpose, dense e scure, ma già bordate di bianco; e sopra queste ancora altre lontane, orizzontali, appena più luminose.
Poi c’è una lunga nota cristallina, di un celeste chiarissimo, su cui scorrono alcune nuvele piccole e già quasi bianche, e qualche nembo scurissimo, veloce, vaporoso, evidentemente in corsa.
In alto c’è la nota più potente di tutte, chiara a sinistra e sempre più scura verso destra e verso l’alto; ma con bordi luminossimi: una voce di soprano potente; oppure un contralto che prende una nota acuta, senza nascondere gli armonici bassi della voce.
Infine, sopra a tutto, un iperacuto statico celeste, assolutamente immobile.
Naturalmente, è perché sappiamo che le nuvole corrono orizzontalmente che possiamo vederci queste cose. Avete dato per scontato anche voi, come me, che la corsa fosse da sinistra verso destra?
Non so, in verità. Ero comunque qui.
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