Case su case su case
L’ingresso della cantina, in baso a destra, è monumentale.
Presa qui.
La falesia lontana
Questa foto, presa ai confini del mondo (quello Vecchio, almeno) non mi piace solo perché è estiva (ma anche, ovviamente).
Mi piace soprattutto perché il suo vero soggetto è piccolo, lontano, acentrato e sul fondo, mentre l’oggetto centrale, grande, contrastato e in primo piano ne è soltanto la rima, o la prefazione, se preferite.
L’albero romantico
Un albero romantico, in mezzo a tanto classicismo.
(Il posto è, ovviamente, questo)
Gli eucalipti
Ci sarà senz’altro una ragione per cui di questi due alberi, in apparenza esattamente uguali e fratelli, uno ha le foglioline appena nate verdi mentre l’altro ce le ha rosse. Ci mancava che quello in mezzo le facesse bianche, e avremmo avuto una composizione nazionalista naturale.
Però la foto, generata qui, mi piace anche per la strana natura di sculture di questi poveri alberi troppo potati, quasi mani di dolore levate al cielo. Ahi!
Le case in diagonale
Di questa immagine, rubata esattamente qui, mi piace il fatto che il bordo marcato delle pareti, che ogni casa possiede in diversa maniera, crei una composizione di verticali e diagonali che si impone alla percezione un attimo prima di vedere la naturale prospettiva che giustifica spazialmente quelle medesime diagonali.
Per una frazione di secondo, dunque, questa è una composizione cubista alla Braque, in cui le diagonali si affastellano l’una sull’altra, creando uno spazio strano e complicato.
Il responsabile principale di questo effetto è la lunga linea bianca della parete rossiccia al centro, ma una volta focalizzata quella, anche le altre case hanno linee dello stesso tipo, di per sé meno evidenti, ma ora rese evidenti dalla pertinentizzazione operata dalla linea bianca.
Nella frazione di secondo che segue, abbiamo già ricostruito correttamente la terza dimensione, ma la prima impressione non scompare del tutto. Resta comunque un senso di disagio, di spazio incerto. Il fatto è che la casa sul fondo non è affatto parallela alla moschea in primo piano, mentre suggerisce di esserlo; e quindi il punto di fuga delle sue linee è divergente, anziché essere convergente, con quello delle linee della parete del primo piano.
E poi,a guardarli da vicino, ingrandendo la foto, questi muri, anche singolarmente, mi sembrano così interessanti. In particolare quello della casa sul fondo.
L’edificio nel campo
Non una chiesa, ma probabilmente un magazzino, un antico magazzino militare, visto che il luogo era un forte.
Quello che inquieta, magari proprio perché non lo si nota immediatamente, è il fatto che sopra questo bel campo non ci sia l’orizzonte. Come se il mondo finisse poco più in là dell’edificio bianco.
In verità, in un certo senso, è proprio così.
La spiaggia
Come si fa a non desiderarla, una spiaggia così?
In verità, il luogo è ancora più bello di quello che sembra, e questo è uno spot pubblicitario. Però bisogna svegliarsi alle sei, e farsi un’ora di strada terrificante, più mezz’ora a piedi, per essere in questo paradiso verso le otto, godersi un paio d’ore di meraviglia. Poi incomincia ad arrivare gente, e a mezzogiorno si scappa dalla bolgia, si fa mezz’ora a piedi, in salita sotto il sole, e un’altra ora di strada terrificante.
Ne vale la pena.
D’estate
Quando su ci si butta lei,
Si fa d’un triste colore di rosa
Il bel fogliame.
Strugge forre, beve fiumi,
Macina scogli, splende,
È furia che s’ostina, è l’implacabile,
Sparge spazio, acceca mete,
È l’estate e nei secoli
Con i suoi occhi calcinanti
Va della terra spogliando lo scheletro.
Giuseppe Ungaretti (da Sentimento del tempo, 1931)
(è la poesia che sempre mi viene in mente quando penso all’estate – anche se questa foto è meno apocalittica)
Il gabbiano e i ponti
I ponti si vedono. Il gabbiano (di sentinella) pure. La nostalgia emerge. Il fiume spaventa per la sua bellezza.
L’orizzonte ricurvo
Chi l’ha detto che l’orizzonte è dritto? Se si è nel posto giusto, la curvatura della lente dell’obiettivo aiuta, certamente, ma una buona parte il mondo la fa de sé, proprio come qui.
La bella in contemplazione
Sì, se ne stava lassù, contro questa bella facciata di azulejos, perlomeno singolare nel suo fare assorto.
Bambola di gomma, scultura in materiale leggero, carne?
I gabbiani
Quello che mi colpisce, e mi fa ridere, dei gabbiani è la loro aria stolida di sentinelle.
Presa qui.
Archi e diagonali
Dorata e grigioazzurra, scattata qui.
Saranno pure le mie solite geometrie, ma qui più in versione van Doesburg, piuttosto che Mondrian.
Insomma, c’è un sacco di movimento, persino ascensionale.
Una fine del mondo
Una volta, il mondo finiva qui. Potete scegliere se con “qui” si intende il punto da cui è stata scattata la foto, oppure il capo con il faro che si vede sul fondo. Non che cambi molto.
Oggi, evidentemente, non è difficile andare oltre. Ma questo posto continua ad avere il fascino di un posto dove il mondo finisce, dove al di là c’è altro.
Non è difficile percepire, stando qui, questi due speroni di roccia (quello dov’ero io, e l’altro sul fondo) come due estremi tentacoli d’Europa protesi sul nulla.
Non so se questa foto estiva riesca a rendere questa fascinazione…
La gente colorata
Questa foto è stata presa qui, lo stesso giorno di questa e questa e questa e questa e questa e ancora questa (sì, ho scattato varie foto quel giorno, ma diverse centinaia vi saranno risparmiate).
Mi piace perché la gente di sotto è colorata esattamente come i nastri e le bandierine di sopra, e il mondo del simbolico si rispecchia cromaticamente in quello del reale (e viceversa, naturalmente).
Tutti stanno guardando qualcosa, che qui è fuori quadro, ma il fotografo lo sapeva che il vero spettacolo erano loro, la gente, festiva quanto e più delle bandierine. E pure loro lo sapevano, quel giorno lì.
(Sì, è vero, ci ho dato su un pelino troppo di saturazione con Photoshop. Ma qui i colori sono tutto)
Da lontano
Da lontano, cioè da qui, una città può ben diventare una sorta di groviglio di volumi, quasi l’incubo di un funzionalista. Progettazione razionale su progettazione razionale, il risultato è un caos visivo, non privo, nell’insieme, di una certa confusa e irrazionale grazia (va be’, su questo deciderete voi).
Nel tempio di notte
Un po’ di India fa bene, ogni tanto. Qui, come è evidente dalla scritta, siamo in Tamil Nadu, esattamente qui.
Be’, indubbiamente, a fare la parte del leone, qui, sono i contrasti cromatici. I colori (data anche l’esposizione notturna) sono già così saturi che mi sono guardato bene dal caricarli ulteriormente. Un po’ per questi contrasti, un po’ per le luci comunque notturne, molti elementi di questa immagine sembrano quasi disegnati: i capitelli, il lungo fastigio con la divinità e il cartellone, persino i dettagli architettonici sulla sinistra.
Probabilmente è proprio questa ambivalenza tra realtà fotografica e irrealtà disegnata a dare fascino a questa foto, riflettendo visivamente la stessa ambivalenza sul piano narrativo: una tranquilla situazione di una calda sera indiana, in uno dei luoghi più sacri e mistici dell’India, il tempio di Annamalai, ovvero di Shiva, nella città di Tiruvannamalai, cioè la città di Shiva, ai piedi della collina di Arunachala, la Collina dell’Alba, che è Shiva in persona.
La presenza del dio terribile non sembra preoccupare molto i fedeli. Ma loro sanno di vivere in Shiva, e di esserne in qualche modo un avatar, proprio come lo è il tempio in cui si trovano e il mondo intero. Insomma, la realtà è disegnata, proprio come in questa immagine. È il velo di Maya a impedirci di distinguere le cose così come esse sono. Siamo tutti parte della lila, il gioco degli dei, insomma, il loro disegno – proprio come qui.
Verso il faro
Questa foto (scattata qui) mi piace perché il suo oggetto si trova in verità relegato nell’angolo in alto a sinistra, e tutto il resto funziona come un grande e diffuso puntatore. Qualunque sia il punto da cui il vostro sguardo inizia il suo percorso, non c’è dubbio che la fine del percorso sarà il faro.
Lo sguardo può correre avanti e indietro, verso l’alto e verso il basso, ma non dubiterà del fatto che in basso sta l’inizio e in alto la fine del percorso. Sarebbe così anche senza la figurina umana tagliata dal margine destro della foto, ma la sua presenza rafforza la sensazione.
Insomma, il faro è il punto statico, che si può riflettere placidamente nell’acqua, mentre tutto il resto si trova in tensione dinamica verso quello stesso punto, e dinamici sono pure gli altri riflessi.
E poi, persino le montagne in alto a destra puntano verso il faro. Sarà il rimando alla forma della punta di freccia, a creare questo effetto? Ciò che si assottiglia tende sempre a puntare verso la sua parte più acuta? Il faro, allora, punta verso il cielo?
Un po’ magari sì, ma il faro è più un cilindro che un cono. E poi, nella misura in cui lo fa, non fa che confermare la tensione verso l’alto che attraversa tutta la foto.
Riflessi
Avevo preso questa foto (proprio qui) perché mi aveva colpito il riflesso nel vetro della guglia modernista della torre, senza accorgermi che, in realtà, avevo scelto proprio quel punto di ripresa perché c’erano pure altri riflessi che mi stavano intrigando. Guardate per esempio la figura del generale Lavalle in alto sulla colonna, e ritrovatene a destra il riflesso parodiato proprio nella guglia (che a sua volta si riflette nel vetro). Più a sinistra della statua, in alto sopra una terrazza, c’è una strana architettura metallica che lancia la sua punta verso il cielo, proprio come la cipolla rossastra a destra sotto la guglia.
Non posso impedirmi di pensare, sorridendo, che quell’intrigo di cavi elettrici che collegano le case in alto, sia anche un intrico di legami simbolici, come a evidenziare il fatto che le cose si rimandano tra loro, e che una città non sia forse che un mostruoso labirinto, dove ciascuna cosa ci rinvia pervicacemente a un’altra, senza mai fine.
E non c’è dubbio che l’ombra (in questo luogo certamente pertinente) di Jorge Luis Borges stia aleggiando su queste parole. (oltre che su queste, e queste, e queste)
Gabriele Basilico
Certo, questa foto non l’ho fatta io, ma il debito mi sembra evidente; il mio debito, è ovvio.
Grazie, Gabriele.
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