La riflessione da cui è partito questo post si basa su una ricerca fallita, quella di un libro, anzi di un numero speciale della rivista L’illuminista, intitolato Poeti degli anni zero. Avrei voluto scrivere queste righe avendola letta, questa antologia di poeti del primo decennio, ma le librerie on line mi hanno illuso (prendendo l’ordine) e poi tradito (dichiarandosi impossibilitate a rinvenire il libro, qualche giorno dopo), nelle librerie reali neanche a parlarne, e quando un libraio intelligente mi ha consigliato di cercare sul sito dell’editore, ho scoperto che l’editore non ha nemmeno un sito.
Non parlerò quindi dei poeti, ma solo dell’introduzione, a disposizione di tutti sul sito di Nazione Indiana, intitolata “Poesia fuori del sé, poesia fuori di sé”, scritta dal curatore Vincenzo Ostuni. Mi colpisce, di questo scritto, il primo dei due criteri dichiarati per le esclusioni (anche se apprezzo e condivido che il criterio ci sia, e che venga pubblicamente dichiarato). Ecco le parole di Ostuni:
In primo luogo, si sono esclusi, forse con qualche rigore di troppo, rappresentanti del sempre risorgente fenomeno del poetese, per usare un termine caro a Sanguineti: quella sorta di koiné elegiaca, suicentrica, che populisticamente (di fronte a quale popolo, poi?) proclama di fondare la vitalità dell’arte poetica non già sulla tecnica e sulla materialità della scrittura, bensì sulla pretesa del poeta – ultrapostumo vate – di attingere direttamente a verità profonde, preferibilmente semplici o a volte insondabilmente oscure, ma comunque prive di ogni pur tenue capacità di spostamento delle attese, o anche solo di una minima sorpresa cognitiva o formale. Una metafisica del poeta (più che della poesia) che ha trovato nella generale celebrazione del tramonto delle neoavanguardie – fra gli anni Settanta e gli anni Novanta – un fecondissimo brodo di coltura. Bando dunque, per usare le parole di Enrico Testa, ad autori che si pongono entro gli angusti confini della «mitografia della figura dell’autore»– confini entro cui calza intera una certa dimessa elegia del quotidiano, forma perniciosa di preterizione narcisistica.
È possibile dare un’interpretazione positiva di queste parole, ma ahimé troppo banale: ovvero che si sono esclusi gli autori di poesie di bassa qualità. Certamente una poesia che risponde alla descrizione di Ostuni è una poesia di bassa qualità, visto che non è in grado di produrre “una minima sorpresa cognitiva o formale”. Ma questa interpretazione positiva non è accettabile, perché nessuno si aspetta che un’antologia selezioni e presenti poesie di bassa qualità.
D’altra parte, la citazione di Enrico Testa rende sufficientemente evidente che il senso di questa esclusione è un altro. Testa è curatore di una precedente antologia (2005), intitolata Dopo la lirica, ed è proprio la lirica il bersaglio di Ostuni, con il suo dominio del soggetto, la “dimessa elegia del quotidiano” e la sua «mitografia della figura dell’autore». Che la lirica sia in realtà un falso obiettivo ho già avuto diverse occasioni di scriverlo, in questi post; ma quello che mi colpisce qui è l’inevitabile contraddizione in cui è destinato a cadere chi, come Ostuni, cura un’antologia basando su questo criterio le proprie scelte.
Supponiamo di volere davvero evitare e superare il rischio di una «mitografia della figura dell’autore». Anche ammesso di poter davvero selezionare dei poeti non lirici (almeno la metà degli autori presenti nel Dopo la lirica di Testa sono decisamente lirici, e su molti altri si potrebbe discutere – ma non metto verbo sulle scelte di Ostuni, visto che il libro non ho potuto leggerlo) l’organizzazione stessa per autori dell’antologia finisce per costruire una «mitografia della figura dell’autore». È paradossale, ma non c’è scampo: un’antologia organizzata per autori finisce per incentivare, sostenere, coltivare un’immagine dell’autore centrata sul suo genio, sul suo essere (almeno in piccolo) un vate, sulla sua capacità di attingere a qualcosa di profondo. L’autore si trova lì, al centro dell’attenzione in quanto autore, con tanto di bibliografia e di testimonianze del suo genio! Come si fa poi a dire che non si vuole fare una mitografia della sua figura?
Mi si risponderà che è inevitabile, e che le antologie si fanno così. Certo: si fanno così perché l’immagine del poeta come personaggio simbolico (nella sua stessa persona) resta dominante per noi a dispetto di tutti i discorsi contro la lirica. Ma si potrebbero fare anche in altro modo, certo con molta maggiore difficoltà. Supponiamo di prendere le medesime poesie di un’antologia come questa e di organizzarle in maniera diversa da quella per autori. Non c’è bisogno di nasconderne la paternità: ogni componimento può portare indicato il nome del suo autore – non si vuole rubare niente a nessuno. Ma il fatto di essere organizzate in maniera differente porterà a leggerle indipendentemente dal confronto con le altre del medesimo autore, suggerendo piuttosto il confronto con altre poesie che si trovino accostate a quella al momento in lettura.
Si dirà che così facendo si perde la prospettiva del singolo autore, il suo discorso. Ma se voglio davvero evitarne la mitografia sarò disposto a questo svantaggio, compensato dalla possibilità di una migliore osservazione dello spirito del tempo, al di là delle personalità individuali che lo esprimono.
Non credo che sia facile agire in questo modo. Non è facile perché non piace agli autori, che sono i primi a pensarsi in termini mitografici, anche quando credono di evitare la lirica come il peccato. E non è facile perché ogni criterio organizzativo è discutibile – mentre quello per autori è assestato e comunemente accettato, quindi ormai non fa problema in sé (quello che fa problema sono poi la scelta e le esclusioni, come testimonia il divertente dibattito – 156 commenti – che segue il post di Ostuni).
E tuttavia, sinché le antologie continuano a essere organizzate per autori appare davvero ridicolo che se ne contesti poi la centralità. Ha ragione Guido Mazzoni quando dice che dalla centralità della lirica (cioè del soggettivismo) siamo ben lontani dall’uscire. Guardiamo le cose secondo questa prospettiva, e rileggiamo le caratteristiche del discorso dei nuovi poeti che vengono individuate da Enrico Testa e Paolo Zublena, e che Ostuni, nella sua Introduzione, cita (quasi) per esteso, caratteristiche che dovrebbero garantire “la tendenza alla disidentificazione della soggettività espressa nel testo poetico, e insieme l’opacità e quasi la resistenza del referente-mondo a costituirsi in un senso lineare: orizzonte postlirico che si contrappone a un mai domo e anzi ritornante lirismo, la cui natura difensiva prevede anche il rifugio nelle certezze della sintassi e della testualità tradizionali”. Credo che appaia piuttosto chiaramente come questo “mai domo e anzi ritornante lirismo” si situi anche al centro dell’operazione stessa che pretende di debellarlo.
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