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Della serie: mappe, estate e vacanze.
17 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Come e’ faticoso viaggiare in questo paese! Abbiamo lasciato ieri il grosso dei bagagli ad Almora e siamo partiti per stare via due notti, e vedere alcuni posti nel raggio di 75 km. Qui 75 km vogliono dire o 3 ore abbondanti di bus, oppure 2 e mezza di taxi collettivo. Si puo’ pensare che il taxi collettivo, che costa di piu’ ed e’ piu’ veloce, sia preferibile al bus; ma non e’ cosi’. Il taxi collettivo e’ una grossa jeep: tre posti davanti, tre in mezzo e quattro dietro di traverso. Totale apparente 10 persone. Oggi (e anche altre volte) eravamo in 17: immaginate come, e capirete perche’ sia comunque meglio il bus. Ma di bus ce n’e’ pochi qui, e non vanno dappertutto come le jeep.
Ieri siamo stati a Kausani, dove c’e’ un ashram dedicato a Gandhi, che vi risiedette qualche tempo negli anni Trenta per scrivere il suo commento alla Bagavadgita. Io il testo di Gandhi non l’ho letto, ma so che la Gita e’ un testo molto amato dagli Indiani, e che riguarda (anche) la decisione morale e politica. Tutto torna, direi.
C’e’ un piccolo museo sul Mahatma, una sua statua, e un’atmosfera molto intima. Si aggiunga che eravamo avvolti dalle nuvole (o dalla nebbia, se si preferisce), e il tutto assumeva un’aria anche un po’ misteriosa. Eravamo gia’ stati fermi tre ore perche’ si era messo a piovere a dirotto.
Stamattina, col sole, abbiamo preso il solito shared taxi e siamo andati nella vicina Baijnath, per vedere un complesso di templi del IX/X secolo, che mi aspettavo simile a quello di Jageswar. Purtroppo era molto piu’ piccolo, e meno emozionante. Bello, comunque; posto su un’ansa del fiume, una decina di edifici, e quasi nessuno intorno.
Mancato il bus per un pelo, di nuovo col taxi a Bageshwar. Li’ c’e’ un tempio ancora piu’ piccolo (seppur fascinoso pure lui). Non c’e’ piu’ niente da fare ed e’ ancora mezzogiorno. Allora studiamo la possibilita’ di fare un colpo di vita e fare un salto di due giorni a nord, tra le montagne grandi, che da qui non si riescono a vedere a causa delle nuvole del monsone. Ma l’ultimo bus diretto e’ gia’ partito, e non ci sono taxi che ci vadano.
Quindi, si torna a casa, ad Almora, in anticipo. Troviamo con facilita’ lo shared taxi, ma il viaggio sembra non finire mai, stretti come sardine in questa scatola di latta ballonzolante sulle incerte strade indiane, con buche e torrenti.
Almeno non fa caldo. Buonanotte.
15 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Oggi siamo stati a Jageshwar, un posto in mezzo alla foresta dove c’e’ un tempio del VII secolo (e un villaggio gli e’ ovviamente cresciuto di fianco per accogliere i pellegrini).
Devo dire che e’ abbastanza impressionante. Siamo arrivati stamattina verso le 10, con tempo molto nuvoloso, molto umido. In mezzo a questi giganteschi cedri himalayani, c’era questo groviglio di piccoli e grandi edifici di culto, dentro il recinto generale. Tutti in pietra spesso coperta di muschio, generalmente a pianta quadrata (talvolta con un piccolo atrio, quelli grandi) con sopra una alta copertura a forma di piramide tronca bombata, con uno strano fastigio rotondo in cima.
Dietro al recinto un cedro doppio davvero gigantesco, e una colonna di fumo che gli saliva di fianco. Dentro al recinto un sacco di gente (e’ in corso un festival religioso), che cammina, fa cerimonie, cerca di coinvolgerti, ti annoda un braccialetto di corda (segno votivo – ma gli devi dare qualche rupia). Nel recinto, tra piccoli e grandi, ci sono piu’ di 110 edifici; hanno tutti la stessa forma a base quadrata, ma ci sono quelli alti un metro e mezzo e quelli di 15 metri. Le decorazioni sono affascinanti, e ne ho scattato un sacco di foto.
Ma quello che non si puo’ fotografare e’ la fascinazione complessiva di questo luogo con la foresta sullo sfondo, del colore grigio della roccia, con tutti i colori vivaci dei vestiti delle donne, gli odori, i suoni delle cerimonie (tamburi, campane, voci salmodianti…), il coinvolgimento collettivo che finisce per prenderti talmente tanto che a un certo punto ti senti quasi soffocare, come fossi arrivato alla saturazione dei sensi…
Ho capito perche’ gli indiani sono cosi’ indifferenti al frastuono infernale del traffico nelle loro citta’. Nel tempio e’ lo stesso, anche se le voci e i suoni sono quelli piu’ armoniosi (se presi uno per uno) delle cerimonie: l’effetto d’insieme e’ comunque quello di una stranamente coinvolgente cacofonia.
Quando siamo usciti, dopo almeno tre ore, da questo labirinto di templi tempietti templini, siamo entrati in un “ristorante” dove abbiamo pranzato con 60 rupie a testa (75 centesimi di euro). Poi siamo usciti dal paese per andare a vedere l’altro tempio, quello “solo” del IX secolo, a circa un kilometro.
Un recinto molto piu’ piccolo, con appena una decina di edifici. Ma li’ non c’era quasi nessuno. Altro fascino, ma pure quello molto apprezzabile. E poi, qualcuno sa se sia solo un caso che le decorazioni di questi templi hanno vari punti di contatto con le decorazioni dei templi dei Maya? Deve essere un caso, pero’ la somiglianza, qua’ e la’, non e’ piccola.
Un piccolo dettaglio contingente, per cambiare registro. Quando discutete sul prezzo col taxista, attenti a non capire six hundred, quando lui dice sixteen hundred. Non e’ la prima volta che ci casco. L’inglese di molte persone qui e’ cosi’ approssimativo che ci si intende alla bene meglio. Ma in qualche caso nascono anche dei problemi…
14 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Diciamo che le condizioni in cui si scrive questo diario non sono sempre delle piu’ favorevoli. Ora ci troviamo ad Almora (che e’ qui), a 2000 metri, in mezzo alle montagne himalayane (dopo – va detto – una giornata di viaggio in bus senza fine, ieri).
Il clima e’ piacevolissimo, dopo i grandi caldi dei giorni scorsi. Il paesaggio e’ alpino, con pini, boschi e aria pura. La differenza piu’ notevole e’ che qui il cespuglio infestante e’ la canapa indiana; si’, proprio quella, la cannabis indica, quella che si fuma. Ne ho visto piu’ oggi che in tutta la mia vita.
Pero’ sta li’, e non e’ che posso farci qualcosa direttamente. Quindi la guardo, e basta. Anzi, no, la annuso e assaggio. Ma non funziona.
Abbiamo visitato un piccolo tempio dove Vivekananda ha passato del tempo a meditare. E Vivekananda e’ stato un grande personaggio. Senza di lui probabilmente niente Gandhi…
Poi abbiamo camminato dal posto dove stiamo, in alto su un crinale, giu’ fino alla citta’, Almora, a 8km, piu’ in basso. All’inizio non sembrava nemmeno di essere in India, tanto tutto era pulito e perfetto. Poi, piano piano, l’India e’ arrivata, con tutti i suoi pregi e difetti.
Abbiamo fatto un po’ di shopping e poi abbiamo cercato di informarci su come tornare su in taxi. Ci hanno detto che ci sono dei taxi collettivi per 30 rupie, che si prendono li’, a 50 metri. Andiamo li’, ma taxi non se ne vedono. Aspettiamo, chiediamo. Ci dicono che non sono li’, ma piu’ avanti, 50 metri. Andiamo avanti anche di 100, pero’ niente. Chiediamo: si’ si’, avanti 50 metri. Insomma, di 50 metri in 50 metri avremo fatto quasi un km, pero’ alla fine il taxi c’era davvero.
Mi domando: cosa impedisce agli indiani di dire, che so?, “subito dopo la stazione di servizio”?
Qui l’architettura delle case e’ gia’ di tipo nepalese, e la gente e’ piccolina e porta i pesi sulla schiena con una cinghia sulla fronte. Non sembra di essere a Cortina, non solo perche’ manca la fighetteria, ma anche perche’ non siamo ancora in zona di rocce e cime. Qui e’ tutto verde di boschi e prati, anche se poi tutto e’ piuttosto ripido, e i torrenti sono fiumi.
Sono nell’albergo, una guest house di campagna con pochi ospiti occidentali. C’e’ una piccola festa perche’ il gestore compie gli anni. Sono arrivati altri ragazzi occidentali dalle guest house vicine. C’e’ un bel clima. Il fumo gira.
Domani, gita in un posto qui vicino, dove ci sono dei bei templi. Il taxi ci passa a prendere alle 8. Buona notte.
12 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Post brevissimo, che il tempo fugge. Rishikesh, dove mi trovo, sta sul Gange appena dentro le montagne dell’Himalaya. Il Gange e’ gia’ un grande fiume, qui, e la sua corrente ha la velocita’ di un torrente.
Qui e’ pieno di ashram dove fare yoga, e di giovani e meno giovani occidentali che inseguono il proprio mito – e magari quello dei Beatles, che inaugurarono la stagione negli anni Sessanta.
Il posto e’ molto bello, molto turistico, ma anche molto spirituale. Un sacco di gente si bagna, non proprio nel fiume (che ti porta via) ma almeno con la sua acqua.
C’e’ un’umidita’ pazzesca, anche se il caldo non e’ terribile. Ma basta per essere sempre sudati, grondanti.
Domani altro lungo viaggio in bus. Qui non finiscono mai.
Ovviamente c’e’ un sacco di sporco anche qui, come dappertutto. Prima o poi trovero’ il tempo di scrivere la riflessioni che ho fatto sul rapporto tra sporcizia diffusa e giustizia sociale. Non adesso.
Rispetto a Delhi e’ un altro vivere, comunque. Domani ci inoltreremo tra le montagne. Pero’ non da qui, dove l’inondazione ha distrutto le strade. Dobbiamo tornare giu’ e risalire da un’altra parte. Cercate Almora su google.
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Funzionalismo da agriturismo?
10 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Delhi non mi vuole bene. Ieri, dopo aver riposato un po’, sono uscito. Destinazione: Red Fort, il grande Forte Rosso dei Moghul e poi degli Inglesi e poi ora simbolo dell’India libera. Chiuso.Non ho capito bene il motivo. Qualcuno ha parlato (o cosi’ ho capito) di una festa dove i musulmani mangiano (in effetti sul grande prato davanti ci sono i preparativi di quello che potrebbe anche essere un immenso banchetto – e siamo alla fine del Ramadan; una guardia mi dice che sara’ chiuso fino al 15 agosto. Ok, niente forte rosso.
Pero’ qui davanti c’e’ il tempio dei jainisti, quello grande dove curano gli uccelli feriti. Il cancello e’ aperto. Entro e ci giro attorno. Ma il tempio e’ chiuso: apre solo la mattina. Ok, niente tempio jainista.
Consulto la guida e vedo che a poca distanza c’e’ Jama Masjid, la piu’ grande moschea dell’India. Andiamo. Da fuori e’ davvero imponente. L’avevo gia’ vista mooolti anni fa. Gli orari sembrano compatibili, e non ho voglia di entrare subito. Mi siedo un po’ sui gradini davanti, e mi guardo attorno.
Quando decido che e’ il momento di entrare, mi avvicino all’ingresso e faccio per togliermi i sandali. Ma il guardiano mi fa segno di no, che non posso entrare, e di sedermi su una delle sedie che sono li’. Sono proprio davanti a un cartello con il regolamento; vi si dice che i non musulmani possono entrare fino al tramonto, eccetto che nei momenti di preghiera. Il tramonto e’ lontano, quindi sara’ un momento di preghiera, penso.
Aspetto. Osservo il guardiano e la sua mimica. Mi rendo conto che ha un viso e una gestualita’ molto espressivi, ma che emette sempre lo stesso suono rauco. Dopo un po’ capisco che e’ muto. Ma sembra simpatico, e scherza con gli altri guardiani. Aspetto ancora, poi provo a avvicinarmi. Seduto li’! sembra gridare lui, coi gesti. Poi fa anche un gesto come dire (o almeno a me sembra): due minuti.
Aspetto. Aspetto. La stessa scena si ripete altre tre volte, a lunghi intervalli di tempo. Alla fine, in un momento in cui lui si e’ allontanato, chiedo a un altro guardiano quando potro’ entrare. Domattina, mi risponde, da adesso in poi e’ solo per fedeli. Ma come, l’altro guardiano mi ha detto di aspettare! No. Non ti ha detto di aspettare. Ti ha detto di sedere li’!
Ecco: Delhi non mi vuole bene. Fatico a ritrovare la strada per la metro Decido che c’e’ ancora tempo. Vado a Connaught Place, il centro di New Delhi. Magari trovo qualche info sui bus. Magari mangio li’. Quando arrivo mi rendo conto che non c’e’ luogo dove raccogliere info sui bus. Giro un po’ e poi consulto la guida per un ristorante. Nelle immediate vicinanze ce n’e’ solo di ultracari. Io mangerei un pollo, o della carne: fare il vegetariano per troppi giorni di seguito mi fa male.
Alla fine trovo un ristorante tamil. Va bene. La cucina tamil e’ buona. Ma e’ ovviamente strettamente vegetariana. Delhi non mi vuole bene. Ne’ io voglio bene a lei: troppo grande, caotica. Rivoglio Jodhpur o Udaipur, e la loro tranquillita’.
Stamattina sono andato al Museo Nazionale, dove ho visto tante belle cose, dal 2500 a.C. sino ad oggi. All’una avevo fame e mi sono guardato intorno alla ricerca di una caffetteria. Ho seguito quelle che mi sembravano le indicazioni e mi sono ritrovato in una specie di mensa, con solo indiani. Ma il cartello parlava chiaramente di prezzi (che erano cancellati) per i dipendenti e per i visitatori. Cosi’, ordino un piatto. Quando il tizio mi dice il prezzo non ci credo: 15 rupie (ce ne vogliono 80 per fare un euro), come dire 20 centesimi. Non e’ una montagna di roba, ma mi sfamo. Nell’intingolo c’e’ persino qualche pezzetto di ciccia!
Pensando che Delhi mi detesti un po’ meno arrivo a piedi di nuovo a Connaught Place, con l’intenzione di sfruttarne il parco per riposarmi. Dopo un po’ di ricerche trovo un prato sotto un albero, e sto li’.
Sono proprio a due passi dalla metro, e cosi’ scendo. Stamattina, all’andata, non c’era nessuno, ed e’ stata comodissima. Ma la fila inizia gia’ in fondo alle scale, e io dovrei persino fare il biglietto (10 rupie). Allora torno su e contratto con un riscio’ il passaggio per ben 50 rupie.
Ed eccomi qua. Ora vado a mangiare, e poi all’aeroporto a prendere mio figlio. Domattina bus per Rishikesh. Non so quando potro’ continuare questo diario. Se tutto va bene i prossimi giorni saro’ in montagna, e non so quanti Internet point riusciro’ a trovare, o se avro’ il tempo di scrivere.
Non saro’ piu’ a Delhi per un po’, almeno. Evviva!
9 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Delhi alle 10 di mattina, piove lento e sottile ma fitto. Fanghiglia dappertutto. Ho passato la notte in treno dopo aver salutato Udaipur. La compagnia degli indiani, quando non hanno secondi fini, e’ molto piacevole. In scompartimento con me c’era una famiglia con una bambina di circa 6 anni, con cui il padre giocava (qui i genitori, anche i padri, sono sempre molto teneri con i bambini), un altro uomo giovane che e’ arrivato elegantissimo in giacca cravatta e scarpe nere, e dopo un po’ e’ andato a cambiarsi (maglietta, pantaloncini e ciabatte), e una signora di mezza eta’ che fa la medica omeopatica, e mi ha spiegato un sacco di cose dell’omeopatia (mentre l’ayurvedica e’ solo una medicina normale un po’ vecchiotta), e mi ha detto che in India l’omeopatia e’ diffusissima.
Tutto benissimo finche’ siamo stati svegli, dunque. Poi si preparano le cuccette, e in realta’ non si dorme: c’e’ chi parla al telefono (l’omeopata), chi accende la luce, chi e’ salito in una stazione intermedia e deve fare il letto; il controllore entra un minuto per controllare non so cosa, accende la luce, ci guarda, conta, spegne la luce e se ne va. Insomma, dormire e’ un’opzione che si puo’ esercitare solo a piccoli tratti. E poi verso le 5 la luce viene accesa stabilmente e la notte e’ formalmente terminata.
Arrivo a Delhi alle 6.45 e trovo subito l’hotel (ma siccome voglio una camera con la finestra, me la daranno solo alle 11). Allora vado in stazione di New Delhi per fare due biglietti di treno, uno per me e uno per mio figlio che arriva domani. Meraviglie della burocrazia indiana: il biglietto per lui non lo posso fare, perche’ non c’e’ il passaporto. E per quel treno li’ non si potra’ fare nemmeno subito prima, perche’ parte troppo presto la mattina. Ho capito: si va in bus, come sempre…
Adesso sono quasi le 11. Vado in hotel, mi faccio una doccia e vado a letto.
7 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Una cosa che si impara in India e’ non avere fretta. Fondamentalmente non ho molto da fare. Le cose da vedere sono in numero limitato a Udaipur, almeno quelle citate sulla bibbia del turista. Pero’, siccome si sta bene, ci si muove un po’, si va a vedere una cosa senza fretta, poi si incontrano i francesi con cui avevi chiacchierato ieri sera dopo cena, e poi gli spagnoli gia’ incontrati a Jaipur e poi a Pushkar, e poi gli italiani che fanno casino, e poi tutti gli indiani che ti domandano ueriufrom e uotsiorneim, e quando gli dici italiano loro dicono “150 la galina canta” (tutti). E poi piove e il primo rifugio che trovi e’ un negozio di vestiti dove il gestore ti offre una sedia e due chiacchiere e ti dice che si ricorda quando giravano “Natale in India” (Natale in India! mica La dolce vita) proprio li’ davanti al suo negozio, e avevano sempre bisogno di qualcosa. E cosi’ ti viene in mente che hai bisogno di un paio di pantaloni e una camicia, e dopo un po’ di contrattazione li acquisti entrambi per 900 rupie (11,25Euro), ma ti resta il dubbio di esserti fatto fregare dalla prontezza con cui lui ha smesso di discutere.
E poi vai a vedere il tempio di Vishnu, quello bello del XVII secolo, il primo tempio decente in questa terra dove i musulmani hanno prima o poi distrutto tutti i templi antichi induisti. E questo e’ proprio bello, non grande ma fittissimo di decorazioni, bello architettonicamente, e molto sacrale. A me sta piu’ simpatico Shiva di Vishnu, ma non si puo’ chiedere tutto. Ci sono persino, nel lungo fregio di figurine scolpite alla base, quelle in posizioni erotiche, quelle che ti domandi dove siano finite nelle nostre chiese (e c’erano, sino a sei-sette secoli fa, andare a Modena per credere). Insomma, e’ vita pure quella: perche’ non puo’ essere sacralizzata?
Poi c’e’ il rito di Internet (questo), che fa parte della giornata, e il ritiro in qualche angolo o sulla bella terrazza dell’hotel a scrivere i pensierini della sera sul quadernino. Insomma, perche’ uno devrebbe avere fretta?
Dino Buzzati. Le tavole inquietanti
Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2002
A trent’anni dalla morte, Dino Buzzati continua oggi a inquietare i suoi lettori. Personaggio atipico della letteratura italiana è stato nel corso della sua vita, e tale rimane ancora oggi, legato a una visione fantastica della realtà che in Italia, a parte lui e pochissimi, non ha mai avuto grande fortuna.
Ma la diversità di Buzzati non si esaurisce con la sua differenza come letterato: tra il 1966 e il 68 egli lavorò infatti a una strana opera, nella quale la storia non viene raccontata soltanto attraverso le parole, e in cui la sua passione per il disegno e la pittura poteva esprimersi narrativamente. Poema a fumetti fu così pubblicato da Mondadori l’anno seguente, il 1969, e nonostante i commenti imbarazzati della critica (che faticava ad accettarne l’idea ed era imbarazzata dai numerosi nudi che vi comparivano) fu un clamoroso successo di pubblico (esaurito in pochi giorni e ristampato dopo meno di due mesi) e fruttò a Buzzati un premio letterario.
Nonostante il titolo, non si trattava di una normale storia a fumetti. Buzzati era sì un grande consumatore e conoscitore di racconti per immagini, come testimonia la sua biblioteca personale e come dimostra una sua nota foto che lo ritrae mentre disegna in casa propria – e alle sue spalle si vede benissimo, appesa agli scaffali, una locandina di Diabolik. Ma non era certo un fumettista; e quello che portò a compimento nei due anni di lavoro finì per essere un fumetto assolutamente anomalo, in cui un geniale dilettante ricostruiva a modo suo le tecniche di rappresentazione e di montaggio visivo e narrativo.
Nel convegno “Buzzati, fumetti e altre visioni”, che si è tenuto a Belluno e a Feltre dal 12 al 14 settembre è serpeggiata infatti, tra le molte altre cose, la confessione di un’esperienza comune a molti (compreso chi scrive): delusi da una prima lettura e poi lentamente conquistati e affascinati durante le successive. Buzzati sapeva benissimo di aver prodotto un’opera inconsueta, al punto che ne fece dono alla moglie dicendole che non la si sarebbe pubblicata prima di vent’anni – e fu solo lei a insistere con Mondadori, a sua volta un po’ perplesso. Se si trattava di un’opera a fumetti – e certamente lo era – era comunque anomala persino per i lettori abituali di racconti per immagini; figuriamoci poi come doveva apparire per il pubblico più tradizionalmente letterario!
Questa anomalia è stato uno dei temi ricorrenti del convegno, organizzato dai Comuni di Belluno e Feltre e dall’Associazione Internazionale Dino Buzzati diretta da Nella Giannetto. Nei tre giorni di lavoro si è esplorato l’universo culturale degli anni Sessanta a cui Buzzati faceva riferimento, tra letteratura colta, pittura, fumetto, fotoromanzo e pubblicazioni erotiche, di livello sia raffinato che popolare – e ne è uscita l’immagine di una persona controcorrente, interessata e attenta sia alle forme di comunicazione consacrate dall’accademia e dalle consuetudini intellettuali, sia a quelle emergenti o del tutto sotterranee, se non talvolta palesemente osteggiate persino dalla giustizia.
La bella mostra “Buzzati 1969: il laboratorio di Poema a fumetti”, curata da Mariateresa Ferrari, è stato l’inevitabile punto di partenza di queste riflessioni. La mostra infatti documenta, tavola per tavola, quali siano state le fonti di Buzzati, e come sia proceduto l’attento lavoro di costruzione visiva – gli studi grafici, la scelta dei modelli, le riprese fotografiche, il passaggio dalle fotografie ai disegni… E scopriamo così davvero dal vivo la varietà dei suoi interessi visivi, e la sua capacità di integrare nel racconto suggestioni apparentemente lontanissime – comprese le proprie, quelle che nel corso della sua attività di pittore si erano già materializzate sulla carta o sulla tela negli anni precedenti.
La mostra, pure molto ben allestita, è aperta a Palazzo Crepadona, a Belluno, sino al 31 ottobre – ma per chi non avesse modo di arrivarvi esiste anche un ottimo catalogo, pubblicato da Mazzotta, con i saggi di Alessandro Del Puppo e Roberto Roda, oltre a quelli della curatrice. Una seconda mostra, più piccola ma non priva di interesse, centrata sui dipinti di Buzzati e di alcuni “buzzatiani”, è aperta sino alla stessa data presso la Galleria d’Arte Moderna di Feltre.
6 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Post breve. Giornata contemplativa. Il lago si lascia guardare.
Ho anche visto il palazzo del Maharaja locale, bellissimo come al solito, tutto bianco, appollaiato sulla riva del lago. E poi ho fatto persino una gita in barca, per vedere il mondo dall’acqua, visitare un’isolotto elegante (con una bella torre antica) ed essere sorpresi dal monsone in tutto il suo splendore.
Piu’ sto qua e piu’ mi sembra che le giornate diventino brevi. Forse e’ solo che mi sto abituando ai ritmi indiani, e tutto si fa con tale calma che alla fine e’ passato un sacco di tempo.
E poi ci sono un sacco di templi in questa citta’, piu’ che in qualsiasi altra che abbia visitato in questi giorni. E moltissimi sono templi di Shiva (o parenti), come si capisce dal tipico Toro Nandi in adorazione davanti al lingam. Sulla riva del lago c’e’ una piccola area dove ne ho contati almeno otto, uno dopo l’altro, piccolini e tutti differenti, ma tutti con il Toro Nandi e il lingam.
Namaste’.
5 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Sono arrivato da poco a Udaipur, citta’ magica sulle sponde di un bel lago quasi alpino. In effetti, arrivando col bus, abbiamo attraversato un bel po’ di montagna, e qui siamo dall’altra parte, appena sotto.
C’e’ poco da raccontare, oggi, salvo 8 ore di bus. Le montagne erano molto belle. Mi veniva voglia di scendere e fermarmi li’ per un po’. E’ comunque finalmente un paesaggio diverso.
Ora c’e’ il sole, ma per quasi tutto il viaggio ha piovuto. Mi domando come debba essere questa bella campagna verde (quella prima delle montagne) dopo nove mesi che non piove…
Jodhpur l’ho salutata con un sospiro, ieri dera dalla terrazza dell’hotel, guardando in alto il forte. Sino a poco prima avevo chiacchierato con due studiosi di sanscrito (lei svizzera italiana, lui francese), che vivono un po’ qua un po’ la’ per l’Europa dove trovano una borsa di studio. Dev’essere dura la vita degli studiosi di Sanscrito in Europa! Ma anche fascinosa. Lui ha vissuto due anni a Pondicherry, lei uno a Delhi. Ci sono vite peggiori.
Male di vivere, una telenovela
Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2001
Non so se sia corretto definire Daniel Clowes un autore minimalista. Certo le tematiche più o meno sono quelle, ma a differenza degli autori minimalisti, che assai spesso sono in grado di suscitare in me una noia mortale, le storie di Clowes, nonostante la dimensione sottilissima degli eventi che vi vengono narrati, hanno la portata ritmica ed emotiva di storie serrate di azione.
E’ una strana, singolare ricetta. I personaggi di Clowes sono spesso persone normali, semplicemente minate ciascuno dal proprio specifico male di vivere. Vivono una vita qualsiasi, fatta di eventi che sembrerebbe non valga la pena di raccontare – eppure, quando è Clowes a raccontarli, sono altrettante tragedie classiche, o shakespeariane.
Forse il bandolo della matassa, per capire come questo materiale umano così irrilevante possa acquisire nelle sue mani tanto rilievo, sta nell’osservare l’altro tipo di personaggi che ricorrono nell’universo di Clowes. E qui la memoria corre alle opere di una grande protagonista della rappresentazione del male di vivere americano: Diane Arbus. Tutti ricordiamo le sue foto di persone comuni, una galleria di orrori festivi, di inconsapevoli depravazioni da party, di tristezze in vacanza: tanto più terribili quanto più ostentanti questa inconfondibile marca di normalità.
Clowes è probabilmente meno maniacale e meno terribile della Arbus, ma solo perché un’ombra di ironia scende sempre a rendere più lieve la sua mano, e l’orrore si trasforma nelle sue storie in malinconia, la depravazione in semplice infelicità, spesso neppure compresa sino in fondo dal soggetto che la vive. A differenza della Arbus, poi, che trovava i propri soggetti e li eternava con la fotografia, Clowes adopera lo strumento assai più mediato del disegno; e all’icastica immobilità della narrazione fotografica sostituisce la fluidità articolata di un autentico raccontare, sviluppato nel tempo. Insomma: un autentico fumettista, e di grande, autentico talento.
Negli Stati Uniti, dove vive e lavora, Clowes pubblica una rivista aperiodica, Eightball. Eightball è realizzata interamente da lui, e contiene, a puntate, le storie da lui scritte e disegnate. Queste storie vengono spesso raccolte in volumi, e ne sono usciti parecchi in lingua originale. I lettori italiani ne possono trovare invece solo tre: L’antologia ufficiale di Lloyd Llewellyn, pubblicato da Telemaco nel 1992, Ghost World, pubblicato da Phoenix nel 1999, e David Boring, in uscita in questi giorni da Coconino Press. E’ di quest’ultimo volume che intendo parlare.
David Boring rappresenta indubbiamente un punto di arrivo, il prodotto della maturità di un vero narratore, che compie quest’anno i suoi quaranta. Il tipo di storia non è diverso dalle storie che Clowes ha sempre raccontato: solo viene in qualche misura accentuata qui una vena lievemente surreale che è spesso presente anche altrove, e aggiunge alle storie sfumature vagamente oniriche.
David Boring, il protagonista di questa storia, è un giovane tra i venti e i trent’anni. Un giovane con delle capacità, che riesce in quello che fa, e gode di un successo particolare con le donne. Ma appare ammalato di una singolare forma di atarassia, che non gli impedisce tutto sommato di agire, ma è come se un velo separasse le sue azione dalla possibilità di viverle davvero. Poi David si innamora, e lei pare ricambiarlo ma insieme gli si nega. E alla fine, dopo esserglisi finalmente concessa, scompare. Alla disperazione di David si aggiunge ora il colpo di scena: uno sconosciuto gli spara alla testa, ferendolo gravemente.
Durante la convalescenza, assistito dalla madre e da un piccolo gruppo di amici, ritirato su un isolotto senza contatto col mondo, David incomincia a esplorare i propri ricordi. E incomincia, in particolare, a cercare di ricostruire l’immagine di un padre che lui non ha mai conosciuto: la madre, infatti, arrivata per gelosia a detestarlo, ne ha cancellata ogni traccia. Ma David aveva trovato, qualche tempo prima, una storia a fumetti che aveva realizzato suo padre, disegnatore minore del genere supereroi. In questa storia (una tipica storia di genere con tutti i luoghi comuni dei supereroi anni sessanta) e nelle sue evoluzioni, che ci vengono presentate piano piano, David cerca l’immagine del padre. E’ come un puzzle da ricostruire, un puzzle che diventa ancora più complesso quando sua madre gli trova la rivista e la straccia in mille pezzi.
David guarirà e ritroverà le tracce dell’amata solo una volta che si sarà ricostruito una vita sentimentale con un’altra, e allora ancora una volta la pressione della memoria lo porterà nelle direzioni più strane. La storia continua a lungo, come una telenovela di grande qualità, in cui colpi di scena che altrove potrebbero apparire tipiche mosse di genere vengono raccontati con tale intensità da restituirci la loro vivezza primaria, la loro carica emotiva autentica – quella che il mestiere degli sceneggiatori televisivi non è più (non è mai?) stata capace di restituire ai loro – nonostante questo – innumerevoli spettatori.
I lettori di David Boring saranno probabilmente assai meno di quelli di Beautiful, ma in fondo non si tratta davvero di una storia per tutti. Non che Clowes sia complicato da leggere, ma forse questo mondo di sfumature emotive richiede un’attenzione di cui non tutti i lettori sono disposti a fare uso. Un’attenzione, comunque, assai ben ricompensata.
Daniel Clowes
David Boring
Coconino Press, Bologna, 2001
128 pp. £.28.000
4 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Jodhpur si sta rivelando sorprendente. Sto persino facendo la pace con il Rajastan. Ha un centro storico bellissimo, e anche sorprendentemente tranquillo (per gli standard indiani, ovviamente). Se non fosse per l’onnipresente sporcizia e immondizia sparsa da tutte le parti, sarebbe decisamente gradevole.
E poi c’e’ il forte. Da fuori e’ impressionante. Da dentro e’ bello, sicuramente, ma e’ un po’ reggia, e questo mi stufa. Ma l’architettura e’ davvero particolare, diversa da tutto quello che conosco. Il Forte di Amber a Jaipur resta meglio, ma pure questo si difende bene.
Devo dire che pero’ quello che ho goduto di piu’ sono una serie di cose attorno e non dentro al forte. Per esempio il giardino, molto curato e incantevole, col “giardino di giorno” pieno di fiori dai colori brillanti, e il “giardino di notte” con i fiori che si aprono col buio e spargono i profumi con l’umidita’ della notte, e insieme a loro una massa di piante dalla vegetazione fitta e scura. Da restarci a lungo, cosa che ho fatto.
Da quel lato si scende all’altra parte della citta’ vecchia, con i quartieri dei bramini, pieni di palazzi antichi e bizzarri, piazzette con piante enormi che fanno ombra, templi e nessun occidentale in giro. Pero’, per questo, anche nessun ristorante.
Preso dai morsi della fame ho finito per comperare due cosette fritte, che in India sarebbero da evitare. In verita’ erano buonissime (meglio di qualsiasi altra cosa abbia mangiato qui), pero’ bisogna augurarsi che l’olio in cui hanno fritto non fosse in uso da troppe settimane. Per ora lo stomaco non ha reagito malamente, per cui probabilmente mi e’ andata bene.
Ritornando verso il forte ho voluto provare una via diversa, e mi sono ritrovato per ben due volte di fronte a un lago (due laghi diversi). Erano insieme riserve d’acqua e ostacoli per il nemico. Tutti e due incantevoli, persino puliti (qui l’acqua e’ di solito sozza). Stavo facendo una strada ripida e mi aspettavo, alla sommita’, una svolta o una discesa, e invece mi sono ritrovato quasi coi piedi nell’acqua, col lago che strabordava leggermente e ne usciva un ruscello che scendeva per la strada. Io avevo visto il ruscello, ma quando vedi dell’acqua che corre pensi di solito a un tubo aperto, non a un lago che trabocca.
Attorno e’ tutto verde, rocce e mura di fortificazione. Nell’acqua un sacco di pesci e cormorani che pescano. Poi e’ arrivato un uomo che si e’ seduto e ha incominciato a buttare pasta di pane ai pesci. Sono stato li’ un bel po’. Poi sono uscito e ho preso un’altra strada che credevo mi riportasse nel forte. Invece sono finito sul secondo lago, molto simile al primo, ma con qualche bella architettura sui lati, e un sacco di gente a dar da mangiare ai pesci.
Ho poi trovato la strada giusta. Sono risalito al forte e sceso dal mio lato della citta’, quello del mercato. Poi, eccomi qui. Domani, Udaipur.
Un po’ di turisti europei ci sono, pero’ non tanti, e davvero si perdono nella massa strabordante dei locali. Persino al forte il rapporto era 1 a 10. Molti spagnoli, francesi, italiani, meno tedeschi e inglesi. Ieri seri ho fatto due chiacchiere con una coppia israeliana che si sta facendo un giro di quattro mesi, una settimana ogni posto. Quando ho chiesto che cosa trovano da fare tanto tempo nello stesso posto hanno riso, e hanno detto che di solito gli Israeliani stanno un mese in ogni posto, non una settimana: loro sono quelli veloci.
Dettagli (59)
Catenella o serpente. O solo una foto molto mossa…
3 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Sono da poco arrivato a Jodhpur, e sono qui, un po’ sotto il forte, che ha l’aria di essere favoloso. Il viaggio e’ stato un po’ stancante: a Pushkar me l’hanno spacciato per un fast bus, e invece di fast non c’era proprio niente. Eravamo pigiati come sardine. Ha fatto tutte le fermate di campagna possibili, ha fatto tutte le stradine (persino sterrate) possibili. In compenso ho visto tanta campagna indiana, ora verde per il monsone, ma chissa’ come quando il monsone non c’e’.
Sul bus salivano ogni tanto delle file di donne che a me sembravano elegantissime, pero’ avevano con loro la zappa, e poco dopo ne ho viste altre al lavoro nei campi. Sembrano regine anche con la zappa in mano, eleganti anche nei gesti…
Alla fine Pushkar mi ha conquistato. Ho passato due giornate contemplative, con poca confusione (che ne avevo bisogno). Sono salito a un tempio su una collina, la mattina quando faceva piu’ fresco, e su c’era la brezza e un gran bel panorama. C’erano anche le scimmie, un’intera tribu’, a cui veniva data un sacco di roba da mangiare…
Ah, ieri l’altro, nel tempio di Brahma, ho visto una scena buffissima. Qualcuno ha dato una un macaco una caramellina bianca di quelle che si fanno benedire. Lui stava li’ con l’aria perplessa perche’ non riusciva a masticarla. La tirava fuori di bocca, la guardava, tornava a metterla in bocca. Pero’, evidentemente gli piaceva, perche’ improvvisamente ha fatto un salto, si e’ fiondato da una signora davanti all’altare, e le ha strappato di mano un intero sacchetto di caramelle, correndo subito dopo al sicuro. La signora ha fatto uno strilletto, e poi tutti si sono messi a ridere.
Ho anche intravisto le volpi volanti, ieri sera, quei pipistrelloni che arrivano a oltre un metro di apertura alare…
Adesso mi giro un po’ Jodhpur, e poi domattina salgo al forte.
1 Agosto 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Oggi cerchiamo di essere brevi. Qui la connessione va e viene (piu’ va che viene).
Questo e’ un bel posto, stranamente tranquillo per gli standard indiani. Il piccolo lago e’ incantevole, ed e’ indubbiamente una citta’ sacra, con tutta la gente che va a bagnarsi nel lago e a fare piccole cerimonie. In una mi sono lasciato coinvolgere anch’io, e bisogna dire che, di tutta l’India, questo e’ il luogo in cui ti intomellano meglio (lascio ai non bolognesi il compito di interpretare la parola – i bolognesi sanno). C’e’ stata persino una donna, che parlava un inglese discreto (fatto gia’ di per se’ notevole) che mi ha abbordato dicendo che non voleva soldi, ma latte per far crescere il bimbo che teneva in braccio (ultimo di 9, mi ha spiegato – ma gli altri non stanno in strada, che non va bene, oppure sono a scuola), e mi ha indicato il negozio dove prendere il latte. Ok, ho detto. Poi salta fuori che era latte in polvere del costo di 350 rupie, ma non potevo piu’ tirarmi indietro. Ci davo 70 elemosine da 5 rupie con quello. Almeno spero che il pargolo cresca robusto.
Il tempio di Brahma non e’ niente di che, se non fosse che e’ praticamente l’unico al mondo: nessuno adora Brahma, in India. E anche quando gli fanno un tempio, non si sprecano. Qui c’e’ perche’ il lago l’ha fatto lui, facendo cadere il petalo di un fiore (push) dalla mano (kar).
Ieri, poi, dopo aver visto tutta la carne esposta dai muslim, ho deciso che non posso farmi credere di essere vegetariano e ho colto la palla al balzo prima di arrivare in posti esclusivamente vegetariani. Cosi’ mi sono fatto un pollo tandoori e ho visuto un attimo di felicita’. Poi pero’ ero cosi’ stanco che alle 7 ero in stanza e alle 8 dormivo.
Stamattina ero qui a Pushkar alle 10 e ho trovato un hotel economico e carino, in un palazzo antico e con una bella terrazza.
Ho in programma di star qui due giorni. Solo che ho gia’ quasi terminato le cose da vedere. Cosa faro’? Ma non mi va proprio di ottimizzare il mio tempo viaggiando tutti i giorni. Mi stanco gia’ abbastanza cosi’.
31 Luglio 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | Ecco. Sto scendendo verso sud. Adesso pero’ mi sono fatto furbo e cerco i bus veloci con le poltrone comode, anche se costano di piu’ (da Jaipur ad Ajmer ben 260 rupie, circa Euri 3,50, contro le probabili 150 del bus normale). Cosi’, alle 10.30 ero gia’ qui. Ho trovato subito l’albergo; pulito ma un po’ squallido, ma ci devo stare una notte sola. Domattina proseguo per Pushkar, che e’ vicinissima.
Qui sono venuto per vedere musulmani e jainisti. C’e’ un bel tempio jainista, ma soprattutto contiene uno straordinario diorama che illustra la concezione del mondo dei jainisti. Un oggetto tutto dorato, m.15×10, che va guardato attraverso delle finestre da un corridoio tutt’attorno, che prosegue per due piani. Anche perche’ c’e’ pure una parte aerea del diorama, con tante navicelle volanti a forma di anatra (e qui ci sta) o di elefante (e qui un po’ meno, ma sono bellissime). Ho fatto un sacco di foto. Prima o poi ne pubblichero’ qualcuna. Da qui e’ impossibile.
I jainisti sono una strana setta religiosa, una versione atea dell’induismo: c’e’ la reincarnazione e il samsara e il nirvana, ma non esistono ne’ gli dei ne’ nessun dio. E qui vivono fianco a fianco con i musulmani, per i quali questa e’ una citta’ sacra, perche’ contiene il santuario di un monaco sufi considerato santo, e ci sono un sacco di pellegrini. Il quartiere islamico attorno al santuario e’ davvero particolare. Ci sono persino le macellerie, che in India non avevo ancora visto. Senza frigo, ovviamente, ma con tanto di migliaia di mosche sulla carne esposta. Speriamo sia fresca.
Lo strano e’ che, dentro al santuario poi, la devozione islamica non era per nulla diversa da quella induista. Gente che si riposa, gente che gironzola o chiacchiera. Aree di musica, con raccolta offerte; e un’eccitazione crescente avvicinandosi al santuario, dove il samadhi e’ coperto di fiori, e ne vengono buttati sopra continuamente, portati come offerta dai fedeli. Uguale ai templi di Shiva insomma. Evidentemente il rito lo fa la cultura, e non la religione: stessi gesti, un senso di fondo differente.
Ancora piu’ bella e’ pero’ la rovina della moschea antica, XII secolo. Un merletto islamico costruito attorno a un cuore induista. Era anticamente una scuola di sanscrito (e la parte centrale e’ chiaramente in stile induista) che un conquistatore ha poi trasformato in moschea, aggiungendo parti. In seguito e’ stata abbandonata, ed e’ andata in rovina. Adesso e’ monumento nazionale, ma non e’ piu’ adibita al culto. Un luogo incantevole. Siccome sono un po’ stanchino, tra levatacce e camminate, mi sono seduto sulla pietra appoggiato a una colonna e addormento per un po’. Qui attorno ci sono colline rocciose, ed e’ un gran bel vedere.
Ora sono in un Internet point minuscolo, in un vicolo minuscolo di una via del bazar, pullulante di tutto come sempre. Qui la vita non manca, decisamente, e si fa sentire. Il livello di rumore e’ altissimo.
Ah, prima ho fatto un errore clamoroso. Uscendo dal santuario ho guardato per un’attimo una bambina (8-9 anni) che mi sembrava elegantissima. Un attimo dopo e’ venuta a chiedermi l’elemosina. Ho resistito un po’, poi le ho dato qualcosa. Un attimo dopo ero circondato di mendicanti, insistenti e insistenti, e molto appiccicosi. Non sapevo piu’ come fare. Qualcuno mi ha seguito per quasi mezz’ora. Se il principio e’: ogni volta che dai a uno ne arrivano otto, cosa succede se dai a otto?
Pittura e fumetto in dialogo
Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2000
Colpisce, nella produzione di Lorenzo Mattotti, la varietà della anime che vi si possono incontrare. C’è il Mattotti fumettista, attento a utilizzare la materia del colore e la luce (o la linea sinuosa del pennino) per riempire di spessore i suoi racconti, vignette che sarebbero dipinti, se il Mattotti pittore non fosse ben consapevole che la pittura è una cosa diversa, che si confronta con una storia ed esigenze comunicative differenti. Per questo, nel Mattotti pittore, il racconto o l’episodio scivola delicatamente sullo sfondo, diventa mera occasione per un gioco di rapporti di colore, un’evanescenza del reale a vantaggio della pura visione, un dialogo di campiture che sono omogenee solo a prima vista – e sulle quali, occasionalmente, il racconto ritorna a posteriori, istoriando quegli spettri di figure con graffiti di vaga memoria orientale.
E c’è il Mattotti illustratore, quello più noto, forse, e ancora diverso. In cui due concezioni opposte dell’illustrazione convivono lasciando ora più forza all’una ora all’altra: da un lato l’illustrazione come – appunto – immagine che “illustra”, presentando o raccontando in nuce una situazione; dall’altra l’illustrazione come invenzione grafica, idea visiva che cattura l’occhio per i rapporti cromatici e le forme. Si potrebbe pensare che questa opposizione, tra il narrativo e il visivo, riassuma nel Mattotti illustratore il fumettista e il pittore; ma si andrebbe fuori strada.
Il narrare dell’illustratore è fatto dell’inventare la situazione emblematica, del coglierne il momento cruciale, dell’avvicinare i simboli in modo da trasformarli in discorso – un agire ben diverso dal narrare del fumettista, che si basa sulla sequenza, sul lento e progressivo disvelamento delle passioni e delle tensioni, e in cui ogni vignetta è carica di tutti i significati trasmessi dalle vignette che l’hanno preceduta.
D’altro canto, le costruzioni visive del Mattotti illustratore potrebbero ben trovare spazio pure nella sua pittura, e invece in questa quasi non ve n’è traccia. C’è un non troppo velato esprit de géometrie in queste illustrazioni, in cui diagonali e ortogonali organizzano lo spazio visivo con tale rigore che persino le curve, che restano comunque frequenti e rilevanti, sembrano adeguarsi alla loro icasticità. Sembra che con le sue rette Mattotti delinei un ordine del mondo sopra cui le sue curve disegnano variazioni visivamente ammalianti: ma sono le rette a dar senso alle curve! Come sono le campiture piatte a dar rilievo alle aree di colore sfumato e alle irregolarità presenti e frequenti nell’uniformità del colore…
Nel Mattotti pittore questa ferrea organizzazione del mondo è invece del tutto assente. Lo si vede bene nella serie straordinaria dei taccuini di pittura su carta nepalese, dove la porosità della carta diffonde il colore, e il gioco visivo sarebbe praticamente solo cromatico se non vi ritornasse, occhieggiante, lo spettro del racconto, il riferimento alla figurazione orientale. E il pennino, che negli spazi ampi delle tele non ha modo di essere utilizzato, trova finalmente qui il modo di agganciare il colore, di fargli come da controcanto. Quel pennino che abbiamo visto così fantasioso e insinuante nei 240 disegni in bianco e nero di Linea fragile, pubblicato qualche mese fa da Nuages di Milano.
Il percorso di segni e colori di Lorenzo Mattotti, dai fumetti degli anni Settanta a quelli degli anni Novanta, dalle illustrazioni per Vanity al manifesto di Cannes 2000, dai dipinti su tela e su carta al suo cinema d’animazione, si trova oggi in mostra ai Musei di Porta Romana di Milano, in una curata e ricca esposizione. Troppo affollata di immagini, ha suggerito qualcuno. A noi non è parso che ci fosse ragione per farne economia.
Lorenzo Mattotti, Segni e colori
Musei di Porta Romana, viale Sabotino 22, Milano
Dal 19 ottobre al 26 novembre
Catalogo stampato da Hazard Edizioni, 104 pp., £. 48.000
30 Luglio 2013 | Tags: diario d'India, India | Category: viaggi | In effetti, un po’ dopo che ho scritto il post di ieri, e’ incominciata ad andare meglio.
Mentre giravo con l’aria un po’ persa e foirse un po’ stravolta, mi viene incontro un signore indiano di mezza eta’, e, con spiccato accanto bolognese, mi chiede: “Tutto a posto?”. Io lo guardo incredulo, e balbetto “Come?”. “Tutto a posto? Va tutto bene?” “Sss…i'” “E di che parte dell’Italia e’?” “Di Bologna” “Ah, io sono spesso a Bologna. Mio cugino ci abita. Io vado alle fiere. Venga che le faccio vedere i nostri gioielli e le offro un caffe’ Lavazza.”
Lo seguo, attratto piu’ dallo stupore per l’indiano-bolognese che dall’interesse per i gioielli, avvisandolo che comunque non sono interessato a comperare. In ogni caso, il negozio e’ in una posizione strepitosa, proprio di fronte al Palazzo dei Venti – e non si puo’ perdere l’occasione di un caffe’ italiano fatto con una macchinetta italiana.
Vengo presentato al cugino, che mi dice che abita a Bologna da vent’anni, e in effetti non gli manca ne’ l’accento ne’ il modo di fare da bolognese un po’ fighetto. Mi racconta che abita in via Castiglione, e sta sei mesi all’anno a Bologna e sei mesi a Jaipur, per curare la produzione. Mi fa vedere delle cose bellissime, dicendomi che le vende a tizio e caio (tutti nomi grossi): per quel poco che capisco potrebbe essere vero.
Beviamo il caffe’ promesso sulla terrazza (intanto e’ diventato Illy), e poi ancora un te’, e poi ancora un altro te’. Poi arrivano altri due bolognesi (veri, di Argelato), raccattati dal cugino che occhieggia gli italiani per strada. Dopo un bel po’ me ne vado.
E li’, rinfrancato dal Lavazza-Illy, incomincio a vedere un sacco di cose interessanti. E’ che nel frattempo sono anche arrivato alla zona del palazzo del Maharaja, e li’ c’e’ il bello. Ma il bello c’e’ anche nei vicoletti che faccio al ritorno, che e’ quasi buio. I palazzi sono tutti fatiscenti, come ovvio, ma spesso bellissimi.
Stamattina sono tornato in zona. Il palazzo del Maharaja e’ bello, ma di solito a me le residenze reali mi annoiano, e questa non fa eccezione. Per fortuna li’ di fianco c’e’ l’Osservatorio Astronomico fatto costruire da un maharaja alla fine del Settecento, che e’ un luogo di costruzioni metafisiche. Sembra di stare in un quadro di De Chirico, con tutte queste architetture geometriche che sono in realta’ gigantesche meridiane e altri strumenti per calcolare con precisione la posizione degli astri.
E, poco piu’ in la’ c’e’ il Palazzo dei Venti (ora non mi ricordo il nome indiano), questo palazzo che non e’ un palazzo, ma solo un luogo per le mogli del Maharaja, da cui potessero vedere la citta’ senza essere viste. Di fatto e’ una alta facciata tutta traforata di finestre, con quattro piani aperti, e attorno a questi un vero labirinto di stanze, terrazze e corridoi.
Il vero labirinto -assai piu’ consistente – lo vedo pero’ due ore dopo, quando, dopo aver preso un bus, e mangiato qualcosa, arrivo all’Amber Fort, sulla montagna vicino a Jaipur. Un sogno da mille e una notte, un castello incredibile gia’ da fuori. Ma poi, quando entri, l’intrico di stanze, corridoi, scale, rampe, torri, verande, terrazze, cortili, tunnel, giardini, padiglioni… e’ davvero al di la’ di qualsiasi aspettativa.
Un sacco di volte mi sono perso in questo intrico assurdo, ritrovandomi poi dove non pensavo di essere. E poi credevo davvero di averlo visto tutto – ma una volta uscito mi sono accorto di almeno una lunga balconata in cui c’era gente e io non ero stato.
Il palazzo e’ vuoto. Solo muri. I maharaja lo abbandonarono nel Settecento per trasferirsi in quello nuovo, giu’ in citta’. Ma secondo me ci hanno perso nel cambio. Anche il panorama attorno e’ spettacolare.
Fa caldo, ma non piu’ che a Bologna d’estate, anzi forse un po’ meno. Ma l’umidita’ e’ altissima, e io sudo sette camicie, pur avendone indosso una sola. Si puo’ immaginare il risultato.
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