Uno spettro si aggira per il mondo della poesia; è lo spettro della Bellezza. Si tratta di una parola e di un concetto davvero irritanti…
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Uno spettro si aggira per il mondo della poesia; è lo spettro della Bellezza. Si tratta di una parola e di un concetto davvero irritanti… Gli amici de Lo Spazio Bianco, stanchi di interventi e commenti demenziali sul tema della critica ai fumetti, hanno richiesto la mia autorevole voce, e mi hanno intervistato sul tema, facendomi le seguenti domande:
Segue su Lo Spazio Bianco nell’ambito dello Speciale: Superman: speciale 75° anniversario Segnalo che è on line il numero di E/C che contiene gli atti del convegno 2012 della Società di Filosofia del Linguaggio Senso e sensibile. Prospettive tra estetica e filosofia del linguaggio. Lo segnalo perché contiene un saggio mio: “Verità e vissuto del testo estetico: una tesi in nuce“. La nozione di “verità” di cui si parla nell’articolo è quella utilizzata in filosofia del linguaggio, e il mio articolo ne sostiene la non applicabilità ai testi estetici. L’articolo inizia prendendo come punto di partenza l’analisi critica di una poesia di Giuliano Mesa, sviluppando poi il discorso in maniera molto più generale. L’articolo (insieme a tutta la rivista) è interamente leggibile qui. Eccone le prime righe:
Nasce Hara-Kiri di Daniele Barbieri (*) Il primo numero di Hara-Kiri, rivista mensile di satira, autodefinentesi bête et mechant (stupida e cattiva), esce a Parigi nel settembre del 1960, probabilmente il 19. Ne sono responsabili François Cavanna e le professeur Choron (Georget Bernier). È un evento importantissimo per la storia della satira, sia per i suoi presupposti sia –soprattutto – per le sue conseguenze. Prosegue nel Blog di Daniele Barbieri (quello che non sono io). Ok. Direi che questa e’ l’ultima puntata del diario. Stamattina sono arrivato a Delhi da Khajuraho con un viaggio meno massacrante del solito. Delhi mi vuole meno male dell’altra volta, ma solo perche’ mi e’ diventata piu’ indifferente. Una volta raggiunto il limite, tutto scorre su di noi come acqua. Giornata di riposo e di shopping a Connaught Place. Mio figlio ha bisogno di scarpe sportive, e qui le stesse marche (Nike, per esempio) costano meno di un quarto che in Italia. Quindi si approfitta dei negozi fighi di qui, dove c’e’ il passeggio e lo struscio. Abbiamo anche preso un caffe’ freddo in una sorta di caffetteria italiana, e una fetta di torta. La fetta di torta messa in vetrina come esempio era grande il doppio di quella che ci hanno portato, e il tutto ci e’ costato come un pranzo per due in un ristorante dai prezzi alti, 500 rupie (insomma 6 euro, poco meno di quello che avremmo speso da noi). Infine, tuktuk per tornare. Sono distrutto. Domani ultimo giorno, e sono cosi’ sicuro che sara’ senza storia, dato l’approccio stanco con cui mi avvicino ormai all’India, che (salvo sorprese) il diario si conclude qui. Non vedo l’ora di bere un caffe’ vero. Sono proprio italiano. Namaste’. In attesa di abbandonare Khajuraho, con il treno per Delhi delle 18:20, qui piove, piove, piove, piove. Siamo arrivati ieri mattina verso le 6. Ci siamo sistemati in albergo. Abbiamo fatto colazione, e alle 8 eravamo gia’ a vedere i templi induisti piu’ belli del mondo. Cosi’ vengono presentati, e bisogna dire che la presentazione, eccessiva come tutte le presentazioni, non e’ pero’ molto lontana dal vero. Effettivamente questi templi sono i piu’ belli che io abbia visto, persino piu’ belli di quelli straordinari del Tamil Nadu. La differenza e’ che la’ ce ne sono tanti, mentre qui nel nord ci sono solo questi. Il resto l’hanno distrutto gli invasori islamici intorno al XII secolo. Questi si sono salvati perche’ stanno fuori dal mondo, all’epoca in mezzo alla jungla, nella quale sono poi rimasti dimenticati sino al 1830, quando qualcuno del luogo ci ha portato un archeologo inglese. Bellissimi come architetture, straordinarie le sculture. In tutto questo, le troppo celebrate sculture erotiche sono solo la ciliegina su una torta gia’ ricchissima. Ci abbiamo passato sei ore, e io ci sarei rimasto ancora. Ma morivamo di fame. E poi, mangiando, ha iniziato a piovere, e non ha ancora smesso. All’inizio ci siamo dimostrati impavidi: mantella impermeabile, e via. Tanto qui la pioggia raramente dura piu’ di mezz’ora. Abbiamo incontrato dei ragazzini, uno dei quali, incredibilmente, parlava un buon italiano; e questo ci ha proposto di visitare il villaggio vecchio, appena piu’ in la’. Di mezz’ora in mezz’ora la pioggia non solo non smetteva, ma diventava sempre piu’ fitta. Le nostre mantelline si dimostravano molto buone, pero’ alla lunga, iniziavano anche loro a toccare i loro limiti. Il ragazzino ci ha mostrato il quartiere degli intoccabili e il loro tempio (in campagna le caste sono ancora ben vive!), e poi quello dei commercianti, e poi le case piu’ ricche dei “guerrieri”, e infine quelle dei bramini. Il paese e’ diviso in aree, di vivibilita’ ben differente. E ci ha portato alla scuola, un piccolo capolavoro di volontariato civile, autofinanziata (anche grazie ai turisti come noi portati li’ da ragazzini come lui), dove si vedevano diverse classi fitte fitte di ragazzi di varie eta’. Non che non esista anche la scuola pubblica, ma la scuola pubblica non ti da’ gli strumenti materiali (quaderni, penne, libri) e molti non hanno i soldi per comperarseli da se’. Per questo preferiscono la scuola dei volontari, dove queste cose ci sono. Li’, ci spiegava orgoglioso ill direttore, non ci sono differenze di casta o di religione o di ceto sociale. E poi, via. Sotto il diluvio di nuovo, catinelle e catinelle, evitando le docce che scendevano dai tetti. Alla fine abbiamo dato qualche soldo anche al ragazzino e siamo tornati, fradici. Ieri sera, mio figlio aveva un attacco di dissenteria di quelli da India. Stamattina (dopo anche le notte passata ad assisterlo) mi sono alzato col mal di schiena. E piove. E non abbiamo voglia di uscire da qui sotto l’acqua. Tra poco arriva il riscio’ che ci porta in stazione. Peccato per il posto con i templi induisti piu’ belli del mondo. Non avevo ancora visto tanta acqua in India, specie da un monsone che virtualmente e’ gia’ finito. Città invisibili di Hugo Pratt Come Marco Polo, Hugo Pratt ha oscillato per tutta la sua vita tra Venezia e l’altrove. Più che a quello vero, Pratt assomiglia però al Marco Polo inventato da Calvino, che racconta al Gran Khan, una dopo l’altra, le sue città immaginarie e invisibili, tutte diverse e tutte parenti della propria, ben consapevole che Venezia è insieme l’oggetto della nostalgia e un altrove a sua volta. Immaginiamoci Pratt di passaggio a Milano, dove certamente andava spesso, dove certamente dormiva e mangiava, e scherzava col direttore del Corriere dei Piccoli. Quante Milano ci saranno state, nella vita di Pratt! E, viceversa, nei suoi disegni e nei suoi fumetti io non ne ricordo nessuna, e, se mai ce ne sono, devono essere davvero poche. Ciò che affascinava Pratt, ciò che intrigava la sua immaginazione era evidentemente altro, o meglio, altrove. Che cos’hanno Buenos Aires, Istanbul, Samarcanda, Hong Kong, che Milano non abbia? Certo, sono là, mentre Milano è qua. È là dunque anche Venezia, evidentemente. Non è la distanza fisica che conta, ma quanto un luogo sia un luogo dell’immaginario più che un luogo della realtà. Quando Umberto Eco si mette a vagare per la Ballata del Mare Salato, tenendo la mappa della Polinesia sotto gli occhi e la sua sterminata conoscenza a disposizione, si accorge con facilità che pure la geografia della Polinesia di Pratt è inventata, e risponde alla logica del mito più che a quella delle carte nautiche. Non meno inventate, posso supporre, sono tutte le geografie delle sue storie. Veridiche quel tanto che basta a farcele riconoscere; false quanto serve per farcele sognare. Luoghi significa anche persone, ed eventi. Quasi tutte le storie di Pratt si svolgono nel passato storico. La distanza temporale serve ad aumentare quella fisica, nell’immaginario. Pure le persone e gli eventi di altre epoche sono veridiche quel tanto che basta per farcele riconoscere, e dunque accettare. La capacità di Pratt è stata quella di rendere talmente concreto il suo altrove così straordinario, da permetterci di accettare insieme la quotidianità dei sentimenti e delle sensazioni e l’incredibilità dell’avventura. Il pubblico non ha apprezzato Corto Maltese per le sue vittorie più di quanto lo abbia amato per le sue malinconie, per la sua amarezza. Potendoci riconoscere in qualcuno così simile a noi, abbiamo potuto sognare di essere, con lui, nei suoi luoghi impossibili, insieme con maori, pirati, streghe e tesori. Ancora più di Joseph Conrad, che poteva solo descriverli a parole, Hugo Pratt ha potuto mostrarci i suoi luoghi e i loro personaggi. Lo ha fatto con il disegno del fumetto, per sua natura ellittico ed evocativo. Pennino e pennello intinti nell’inchiostro di china, usati per costruire immagini finalizzate al racconto, capaci di enfatizzare e minimizzare dettagli in un modo che né la fotografia né la pittura potranno mai fare con altrettanta disinvoltura. Queste immagini non sono il semplice sostituto della visione diretta. Ci mostrano invece un mondo che nasce già ricco di leggenda, già intriso di racconto e di favola: un mondo dunque che la capacità del narratore-disegnatore rende meraviglioso sin dalla sua origine. Non ha nessun interesse, Pratt, a scontrarsi con il reale, per fare ciò che faceva un Dino Buzzati, il quale non solo sognava remoti deserti dei tartari, ma riusciva a rendere favolosa persino Milano. L’immaginario di Pratt è interamente alieno, almeno per quanto riguarda i luoghi: sono le persone e la loro psicologia a rappresentare l’ancoraggio al reale. Il racconto, si sa, è ellittico per sua natura. Non si può raccontare tutto, e raccontare è sempre selezionare ciò che è rilevante. Per questo Pratt, intimamente narratore, sceglie la tecnica più indeterminata e sfuggente quando arriva a costruire immagini a colori: l’acquarello. Creare illustrazioni è diverso dal disegnare vignette per una storia a fumetti. La vignetta è un momento di transito, fatta per essere letta passando immediatamente oltre. Ogni illustrazione è invece un piccolo mondo, che richiede un’attenzione specifica, concentrata, senza vie di fuga. L’illustrazione, come il dipinto, deve contenere in sé tutti i riferimenti, deve riuscire a farci sognare da sola – anche se per farlo può fare riferimento a racconti che ci sono noti, magari racconti a fumetti del medesimo autore. E quando attorno al mondo immaginario di una storia iniziano a coagularsi centinaia di illustrazioni, quel mondo acquisisce un grado ulteriore di realtà. Proprio perché del nostro mondo, quello reale, si danno rappresentazioni visive (fotografie, dipinti, disegni), l’esistenza di rappresentazioni visive di un mondo immaginario ce lo fa sentire più reale, senza togliergli, però, l’alone mitico. E così il mito arriva a essere più vicino a noi. Gli acquarelli di Pratt inondano di ulteriore magia, dunque, un mondo che forse non ne avrebbe bisogno, perché già tanta ne ha di per sé, ma soprattutto traducono quel mondo magico dal reame remoto delle storie al dominio del familiare, di ciò che conosciamo e amiamo, e qui ci viene mostrato sotto nuova luce. La mostra organizzata a Siena dal Santa Maria della Scala permette oggi al pubblico di vedere dal vivo, se non proprio questo altrove, almeno un numero molto grande delle tracce lasciate direttamente dalla mano del suo autore, attraverso quello che è stato giustamente definito un Periplo immaginario. Tra l’altro, l’intera Ballata del Mare Salato vi è visibile nelle tavole originali. Un sontuoso catalogo (presentato, tra l’altro, come l’inizio di una serie dedicata all’intera opera di Pratt) permette di portarsi a casa quasi 500 acquarelli, realizzati da Pratt tra il 1965 e il ’95. Daniele Barbieri
Hugo Pratt. Periplo immaginario E infatti e’ piovuto. A scrosci da gran temporale, poi fino fino per un po’, e poi ancora a scrosci, e poi e’ calato in un gocciolamento sporadico che e’ proseguito tutto il giorno. La temperatura e’ scesa a un livello accettabile. Il livello di merda di vacca nelle stradine e’ salito perche’ l’acqua le ha gonfiate e semisciolte. Basta camminare due secondi ammirando la bella guglia di un tempietto li’ sopra, che il piede fa splosh nel bel mezzo di una grande merda di vacca. E allora le acque del Gange diventano salutari anche per noi occidentali schifiltosi, perche’ rispetto al resto sono davvero pulite e purificatrici. Anche ieri mattina lungo giro verso il centro citta’ evitando i vicoli inondati, poi un po’ di shopping, e due chiacchiere con una coppia di italiani che ci avverte che la Brown Bread Bakery segnalata dal Lonely Planet in cui abbiamo mangiato la sera prima (piuttosto deludente: il pollo tandoori mi ha girato nello stomaco tutta la notte) e’ un falso. La Brown Bread Bakery vera e’ 10 metri piu’ in la’. Insomma, evidentemente qui non c’e’ una legge che protegge i nomi commerciali, e questi hanno aperto un locale con lo stesso nome, lo stesso avviso (“Segnalato dal Lonely Planet”) e financo lo stesso menu’ (salvo avvisare, per gran parte delle portate, che questo non c’e’, arriva domani, e’ finito), 10 metri prima, e drenando quindi gran parte dei turisti che arrivano da li’ (che e’ la direzione da cui si arriva piu’ spesso). Hanno addirittura copiato la vetrina in basso. Siamo andati a mangiare alla vera Brown Bread Bakery, dove in effetti il cibo e’ molto migliore, e si sta in una terrazza all’ultimo piano, con gran veduta sul Gange, dentro una fitta gabbia. Intorno, infatti, vive un’agguerrita tribu’ di scimmie, che non darebbero pace a chi mangia se non fossero tagliate fuori. Quindi: umani in gabbia a mangiare, e scimmie fuori, a guardarci. (si paga anche molto di piu’, pero’ hanno persino il formaggio!) Niente tramonto. Il cielo e’ stato uniformemente coperto tutto il giorno, e verso sera e’ semplicemente calata progressivamente la luce. Alle sette io ero cotto. Ho preso un riscio’ e mi sono fatto portare all’hotel. Alle otto dormivo gia’. Non so che cose mi stanchi tanto in questa citta’. Tutto e’ molto forte. Abbiamo trovato, quasi per caso, un bellissimo tempio nepalese, sulla riva del fiume, tutto intagliato nel legno, con di fianco una scuola di sanscrito. Un monaco ci ha indicato un anziano signore alla finestra, dicendoci di fotografarlo, perche’ quello e’ uno swamiji, ovvero un santo, un saggio. Anche li’ c’erano un sacco di scimmie. A un certo punto una scimmia abbastanza giovane si e’ lanciata su un’anziana signora seduta e la ha abbracciata da dietro come se volesse aggrapparsi alla mamma. Grido di spavento della signora, e poi tutti a ridere – e i ragazzi a lanciare sassi alle scimmie. Da li’ qualcuno ci ha portato al ghat dove cremano i morti, quello piu’ importante. Ci voleva anche far prendere una barca, per vedere piu’ da vicino. A me e’ bastato arrivare dove sono arrivato, sulla riva dove c’era la fila dei cadaveri sulla barella di legno, tutti ricoperti di lustrini. In questa atmosfera surreale, mentre guardavo verso il fiume, mi sono sentito leggermente urtare e, girandomi, avevo il viso, scoperto, di un nuovo cadavere in arrivo proprio a pochi centimetri dai miei occhi. Questione di un attimo. Poi anche la sua barella e’ stata appoggiata per terra, a fare la fila. E io, via. Ho gia’ disturbato abbastanza i morti indiani e i riti dei vivi. Quasi mi meraviglio che tollerino la presenza di turisti. Basta cosi’. E basta cosi’, oggi, anche con Banaras (qui la chiamano tutti cosi’). Stasera si prende il treno per Khajuraho, che speriamo sia un po’ piu’ ridente. Sono un po’ soverchiato da questa esperienza. Forse non sono nemmeno del tutto in salute. Mangio poco. Direi che sono decisamente dimagrito. Mi mancano i miei, di riti. Anche scrivere queste righe e’ qualcosa che mi riporta a un contesto familiare, normale. Dopo magari mi manchera’ l’India. Per adesso mi manca casa. Qui la vacanza si avvia al termine, ma in crescendo. Il Gange e’ sempre un poco piu’ alto, e ieri sera, per raggiungere un ristorante un po’ lontano, siamo stati costretti a un’affascinante gimkana per vicoletti poco illuminati (sino a perderci), perche’ la via diretta era invasa dall’acqua del fiume, sino al ginocchio (e nei vicoletti l’acqua non e’ proprio quella del fiume: solo a immaginare il mefitico miscuglio la mia coscienza di occidentale rabbrividisce). Poi, il nostro maitre ha previsto che nel giro di due o tre giorni l’acqua arrivera’ alla main road, dove sta il nostro albergo. Andremo a prendere il treno in barca. In compenso, minaccia di piovere e non piove. Il maitre ha detto che quest’anno qui e’ piovuto molto poco. Il monsone si e’ sfogato sulle montagne, provocando questa piena inconsueta del fiume (quarant’anni, o piu’, che non era cosi’ alto). Quindi, fa un caldo bestia. Ieri, andando in un paese qui vicino di cui non riesco a tenere a mente il nome, visitando i luoghi in cui il Buddha fece la sua prima predicazione, il caldo era tale che mi scendevano le gocce di sudore dappertutto. Pero’, cacchio! (si puo’ dire cacchio?) eravamo li’, sotto un ficus religiosa cresciuto da un rametto di un albero che si trova a Sri Lanka (e che io vidi molti anni fa), a sua volta ricavato da un rametto del ficus sotto il quale Siddharta ebbe la sua prima illuminazione sul rapporto tra desiderio e dolore, in un luogo a pochi chilometri da qui. Siate buddisti o no (e io no) vi sfido a venore in un posto del genere senza che un brivido vi corra costantemente addosso. Siddharta e’ stato un uomo di una sottigliezza di pensiero ineguagliabile. Prima che Platone fondasse la filosofia occidentale, lui era arrivato a conclusioni che sotto certi aspetti non sono lontane da quelle della Dialettica Trascendentale di Kant. E, comunque la si pensi, quel primo discorso ai suoi discepoli ha fatto la storia. Attorno ci sono templi e santuari costruiti da tutte le nazioni buddiste dell’Asia: ovviamente i tibetani, i tailandesi, i giapponesi, Sri Lanka… Il discorso del Buddha, attorno al luogo sacro, e’ riportato molte volte in ciascuna lingua (e relativa scrittura) di tutte le nazioni in cui il buddismo e’ presente. Uno spettacolo di forme di scrittura differenti! (io sono piuttosto sensibile al tema) Poi ci sono le rovine dell’antica citta’, distrutta dagli invasori musulmani nel XII secolo (sempre loro), con tutti i monasteri e gli stupa. E poi il museo, dove sta il capitello con i leoni che e’ il simbolo dell’India, e sta sulle monete. L’altro ieri, invece, siamo stati oggetto di una ridicola truffa. Siamo partiti, per vedere la parte meridionale della citta’, e dopo poco abbiamo conosciuto un simpatico tipo, che parlava bene inglese, e si e’ presentato come bengalese, e (stranamente) non ci chiedeva dei soldi. Ci ha raccontato delle cose del posto in cui eravamo, della sua vita, del suo mestiere. Poi quando gli abbiamo detto che stavamo andando in un certo posto, ha detto che ci stava andando anche lui, e che ci accompagnava. In breve e’ diventato la nostra guida, e ci ha in effetti accompagnato in posti che non avremmo trovato senza di lui. Poi ci ha aiutato a prendere un riscio’ per arrivare al palazzo del maharaja di la’ dal fiume, contrattando sul prezzo, ci ha portato a mangiare, rifiutando l’offerta di mangiare con noi (perche’ aveva gia’ mangiato, e non voleva farci sperperare denaro), e alla fine, quando siamo andati a vedere un museo (che lui gia’ conosceva) si e’ offerto di andare lui a comperare un oggetto che sapeva che stavamo cercando, e che lui sapeva dove prendere a un costo piu’ basso. Cosi’ gli abbiamo affidato una piccola cifra, 400 rupie (5 euro), non sospettando nulla, anche perche’ non ci sembrava plausibile essere truffati per quell’importo. Piu’ probabile – ci sembrava – che ci chiedesse qualcosa alla fine per tutti i servizi (e tra quello, e un po’ di commissioni chieste nei posti dove ci aveva portato, probabilmente avrebbe guadagnato di piu’). E invece e’ scomparso. All’ora dell’appuntamento non si e’ visto. L’abbiamo aspettato mezz’ora e niente. Il taxista ci ha fatto una faccia come per dire: e’ ovvio! Potevate capirlo anche prima. Si’, va bene, siamo italiani, quindi anche un po’ napoletani: ma cinque ore di lavoro per truffare cinque euro e’ qualcosa a cui non potevamo credere. Troppo ridicolo per essere vero! Un’ultima osservazione. I vicoletti di Varanasi sono affollati, ma la dimensione e’ ancora umana. Ma le strade, specie verso sera, sembrano una specie di succo vischioso fatto di persone, vacche, cani, bici e motociclette, che scorrono in una direzione o nell’altra con un flusso localmente schizofrenico ma nel complesso regolare. E tu ci sei dentro e ne sei parte. Non avevo mai visto tanta gente stabilmente ammassata insieme. Stabilmente: cioe’ non in occasione di un particolare evento, ma perche’ questa e’ la norma. Un Gange di gente (e mucche, e cani, e biciclette, e riscio’ a pedali, e moto, e clacson, e clacson, e clacson…) Ah, i tori di Varanasi sono i piu’ grandi che abbia visto in India. Stanno li’, in mezzo alla strada, tranquilli ed enormi. Tutti li scansano. Sono sacri, e loro sanno benissimo di esserlo. Una babele onirico-grafica Quello che più inquieta dell’universo fantastico di David B. è la contiguità, quasi l’identità delle sue proiezioni straordinarie con il mondo della vita quotidiana, con le sue angosce e le sue ironie. E che il quotidiano sia al centro delle sue storie è evidente tanto nelle produzioni più esotiche ed esoteriche, (come Guerra di Demoni, Mare Nero 2000, una variazione sul giapponismo, o l’intrigante incubo da bouquiniste Les incidents de la nuit, Coconino Press, 2002) quanto in quelle più autobiografiche, come Il grande male, o Babel. Molti lettori italiani sono già familiari con questo modo ironico e sentito di trattare il quotidiano. Chi ha letto Persepolis, di Marjane Satrapi, ne ha un’idea: della Satrapi, infatti David B. non è stato solo l’editore (nella sua veste di fondatore de L’Association) ma palesemente anche l’ispiratore. E per quanto brava lei sia – e lo è davvero – non è questo un caso in cui l‘allievo abbia superato il maestro. Il grande male è l’opera autobiografica che ha accompagnato la vita del suo autore dal 1996 al 2003, in cui David B. racconta la propria infanzia e adolescenza, sino alla maturità, segnata dal rapporto con il fratello maggiore malato di epilessia. I sei volumi dell’edizione originale francese (raccolti ora in due in quella italiana) sono usciti con cadenza all’incirca annuale, con un rallentamento verso la fine, probabilmente dovuto alla maggiore difficoltà di raccontare eventi più vicini al presente. Quando inizia il racconto Pierre-François ha cinque anni, ma è già dotato di un’immaginazione fervida, che lo porta a rielaborare il suo piccolo quotidiano alla luce delle grandi storie, bibliche e mitologiche, che gli raccontano i genitori. Poi, un giorno, il fratello maggiore Jean-Christophe ha la prima crisi, proprio di fronte a lui. Da quel giorno, e sempre più imperiosamente man mano che il tempo passa e la malattia s’impone, l’immaginario guerresco del piccolo protagonista ha un nuovo personaggio, il Grande Male, l’Epilessia. Il calvario della famiglia attraverso mille tentativi di cura, scientifici ed esoterici, percorre tutte le cialtronerie della medicina ufficiale e i sogni impossibili di quelle alternative, disegnando una sorta di inutile catalogo dei miti salutistici e terapeutici degli anni Sessanta e Settanta. Al Grande Male non è possibile trovare una cura adeguata, e Jean-Christophe scende, passo dopo passo, la china verso l’abbrutimento fisico e morale. Mentre Pierre-François, trascinato ma non travolto dalle illusioni della propria famiglia, trova la propria via nelle letture e nei personaggi inventati, costruendosi una personale linea di difesa nella creazione di racconti e delle immagini per narrarli, dando vita ai propri incubi e stabilendo con loro una relazione quasi familiare. Si tratta di una storia a fumetti, è evidente – ma è altrettanto evidente che questo romanzo autobiografico così straordinario non potrebbe fare a meno delle immagini, e non ha nulla da invidiare alla letteratura verbale. È anzi probabilmente più profondo, più complesso, più ricco della maggior parte dei romanzi tout court usciti negli ultimi anni, su cui la critica spende le proprie baruffe. Sul tema autobiografico, David B. è tornato ancora, dopo Il Grande Male, con un’opera molto più breve, più grafica, a colori: Babel. È un racconto succinto, fatto per chi già conosce gli eventi, una sorta di rappresentazione onirico-grafica della vita a contatto con l’epilessia e i suoi mostri, un poemetto per immagini che ripresenta in forma di simboli visivi i medesimi temi del romanzo che l’ha preceduto.
David B.
… e poi segue, proprio come qui. Siamo arrivati nella citta’ piu’ sacra dell’India ieri mattina, dopo una massacrante notte in treno, che faceva seguito a una giornata di automobile (10 ore filate) per fare i 250 km di strada tra Pithoraghar (media montagna himalayana) a Bareilly (pianura – ci passa il treno che porta da Delhi a Varanasi). Dopo le giornate tranquille ad Almora, abbiamo cercato inutilmente un luogo diverso ma altrettanto fascinoso e rilassante. Pithoraghar sembrava il candidato giusto: all’incirca la stessa altitudine, ma un po’ piu’ vicino alle vette che da Almora non si riescono a vedere, causa nuvole (salvo qualche rarissimo momento, con qualche squarcio). In realta’ Pithoraghar si trova in una conca, bella ma cieca. E la passeggiata che abbiamo fatto su una delle montagne attorno e’ stata molto bella, ma non ci ha mostrato le vette. In compenso ci siamo quasi persi. Dando fede alle asserzioni di due persone diverse e indipendenti tra loro, abbiamo preso uno stradello molto spettacolare che doveva portare a valle. Dopo circa un’ora di cammino, abbiamo chiesto conferma a un vecchio pastore, dicendogli il nome del paese a cui pensavamo di arrivare, e lui si e’ sforzato in tutti i modi di farci capire che di li’ non ci si poteva arrivare. Molti dubbi; lui sembra molto convinto, ma capivamo bene quel che intendeva dirci? Avevamo due conferme contro una smentita. Per fortuna e’ passata una jeep piena di sardine, e abbiamo chiesto al conducente, che ci ha confermato le parole del pastore. Ma don’t worry, five kilomters and I’m back. Fantastico! Almeno abbiamo il ritorno assicurato. E cosi’ e’ stato, in 17 sulla jeep, con anche due persone in piedi attaccate fuori. Qui e’ ovviamente un altro mondo. Fa caldo, e il Gange e’ altissimo. I ghat, cioe’ le scalinate che scenderebbero al fiume, sono completamente sommersi. Qualche giovane ci dice che nella sua vita non ha mai visto il fiume cosi’ alto. Dall’acqua emergono le sommita’ dei lampioni che illuminano la passeggiata dei ghat. Bisogna andare per stradelli, ed emergere sul fiume ogni volta che si puo’. Qualche strada e’ del tutto sommersa, e ci arrivano le barche anziche’ le automobili. In un punto non possiamo che bagnarci i piedi sino alla caviglia per passare, in questo miscuglio di acqua del Gange (con tutte le sue virtu’) e acqua delle canalette cittadine (insomma, piccole fogne all’aperto). Su quel che emerge dei ghat ci sono molte persone, specie vecchi, che si immergono. Molti anziani vengono ad abitare a Varanasi per morirci, perche’ morire qui facilita il superamento del samsara, ovvero del ciclo doloroso delle reincarnazioni. Abbiamo visto anche le pire dove bruciano i morti, e una parte del rito funerario. C’e’ un ghat apposta. Ora e’ sommerso. Quindi tutto succede nel vicolo subito dietro. (solo uomini a operare ed assistere: le donne si commuovono troppo, e l’anima del defunto che gira li’ attorno sarebbe ostacolata al distacco definitivo, dal pianto di una persona cara). Ci portano a vedere un negozio di sete. Facciamo acquisti. Troppo belle. Ci portano qui e ci portano la’. Qui il turista e’ come il maiale: non si butta via niente. Tutte le sue parti sono buone da sfruttare. Stamattina ci hanno portato all’alba (ore 5) a fare un giro in barca, per un prezzo che e’ solo il doppio di quello indicato dal Lonely Planet. Suggestivo, ma solo in parte, e per troppo poco tempo: non arriviamo nemmeno ai ghat principali. E il Gange e’ altissimo. Oltre alle sommita’ dei fari di illuminazione, emergono le guglie dei tempietti sui ghat. E’ tutta un’altra cosa rispetto alla Varanasi delle foto turistiche, nelle quali, dal fiume, le case sopra sembrano quasi in collina. Qui il fiume stesso si trova all’altezza di quella collina. Mi immagino quello che sta sotto: siamo sospesi a mezz’aria, dieci metri sopra quello che si vede in quelle foto. La meraviglia e’ nascosta in quest’acqua bigia, che corre veloce portando via qualcosa ogni tanto (anche un cadavere abbiamo visto, ieri). Ma, nel complesso, Benares non e’ affatto un inferno. Rispetto alle grandi citta’ rumorose dell’India sembra sporca non piu’ che altrettanto, e persino meno rumorosa. C’e’ una bella atmosfera. Si capisce che qui succedono anche cose interessanti. E’ la capitale della musica indiana, e c’e’ l’universita’ piu’ importante del paese. L’esperienza davvero avvolgente la vivo in in tempio, durante un darshan, cioe’ una cerimonia, con il ritmo ossessionante delle campane al chiuso e fianco alle orecchie, e l’odore del fumo aromatico, e i gesti delle cerimonie, e il caldo, e le rondini che in tutto questo entrano ed escono dalla porta aperta verso il fiume. Macchine emotive per raccontare storie di nulla Sembrano provenire da un altrove remoto le cinque storie inedite che Gipi presenta in Esterno Notte, ma si tratta di un altrove interiore, come isole della coscienza o della memoria che escano d’improvviso dalle brume, per restare, quasi magicamente, fissate sulla carta. E di magia, in questi brevi testi narrativi per immagini, ce n’è parecchia. È il primo libro, questo, che Gipi pubblica, ma numerose storie sue erano già uscite su riviste – storie belle, intriganti, ben costruite. Eppure il salto di qualità che si incontra su queste pagine è stupefacente. Le si legge e rilegge, queste storie, alla ricerca del nocciolo della loro magia, cercando di capire come facciano a emozionare il lettore così tanto, a comunicare questa sensazione di profondità del ricordo, quasi di paura. Non è solo questione di invenzioni visive, ma anche nel semplice modo di rappresentare il suo mondo Gipi appare dalla prima tavola come un maestro. Ci sono questi monocromi dipinti a olio, che combinano la rappresentazione realista con una vaga parodia – messi a contrasto con immagini disegnate a pennino, ora per giustapposizione di vignette, ora addirittura sovrapposte alla pittura, quasi due realtà diverse nello stesso spazio. E poi c’è la parola, il racconto, le voci dei personaggi. Una costruzione di polifonie e contrasti, in cui una vena lirica molto intensa si trova temperata da un’ironia leggera e amara. Tre di queste storie sono frammenti autobiografici, storie di nulla, non-storie. O magari suggerimenti rispetto a quello che in seguito è accaduto davvero, che qui viene taciuto. Ma intanto si delinea il ritratto di un piccolo mondo e delle sue emozioni – che appaiono in questo modo come messe a nudo, liberate dalle pastoie narrative che rischierebbero di farle apparire convenzionali, già raccontate, come spesso accade, da milioni di storie. Poi ci sono altri due racconti, quello di un malavitoso colto da una sorta di crisi esistenziale in un momento di tensione (uno scambio di prigionieri tra bande rivali), e l’ultimo, il più lungo, “Muttererde”, l’incubo di una caccia ai clandestini a bordo di una petroliera, sull’oceano, d’inverno. E qui si riesce forse a individuare almeno una delle strategie di cui Gipi fa uso per costruire le proprie macchine emotive. Nella storia dei malavitosi è il contrasto tra due contesti narrativi tradizionalmente diversissimi, come il tormento interiore e la tensione per la situazione di pericolo. In “Muttererde” è il contrasto tra la grandiosità spaventosa dell’oceano ostile, e il tarlo di inumanità e idiozia che corrode la casa comune dei personaggi, la petroliera Muttererde (“Madre Terra”, in tedesco). Ma non si tratta di accostamenti facili. Come in ogni ricetta che avvicina ingredienti dai sapori lontani, la sapienza sta nella scelta degli altri elementi, che servono per farli “legare”. Qui sarà forse la maestria visiva, o la capacità di costruire un ritmo emotivo fatto di tanti elementi diversi; ma che non rallenta mai.
Gipi Siamo sempre qui perche’ e’ difficile staccarsene. Ieri giornata di relax totale, per smaltire lo stress delle jeep. Stamattina alle 8 finalmente le nuvole si sono squarciate, e abbiamo visto, laggiu’, le grandi cime imbiancate, quelle tra i 7000 e gli 8000 metri. Poi, partenza. Un viaggio piccolo piccolo per arrivare a Binsar, dove c’e’ una riserva protetta, detta (come sempre qui) Santuario della vita selvaggia. L’unico problema e’ che il Santuario si fa pagare la bellezza di 600 rupie a testa, il prezzo piu’ alto che io abbia mai pagato in India per un luogo pubblico – e il Lonely Planet parlava di un biglietto da 100 rupie… Pazienza. Paghiamo, entriamo e camminiamo. Oltre alla visita a questo bellissimo pezzo di foresta, questa gita ha un altro scopo. In una baita da qualche parte nel parco, Tiziano Terzani ha passato alcuni anni della sua vita, e ci piacerebbe vederla. Dopo un paio di ore di cammino arriviamo a un piccolo tempio di Lord Shiva, con un simpatico piccolo brahmino. Sta seduta li’ anche una signora, dall’aria distinta. Ci saluta con un saluto inconsueto, e ci mettiamo a parlare con lei. Ci dice che il tempio e’ del XIV secolo, e che lei e’ la proprietaria del resort in alto, quasi in cima alla montagna. Allora la chiediamo se sa qualcosa della casetta di Terzani, e lei sorride, e dice che Tisciano era un grande amico di suo padre, e che, nel libro che racconta l’esperienza; si riferisce a lui come “il vecchio” (lo dice in italiano). Poi ci dice che e’ stata anche a Firenze da lui, e conosce benissimo tutta la sua famiglia. Poi si ferma e dice: aspettate, adesso vi faccio guidare sino al resort, poi telefono che vi preparino il pranzo, e poi dico che vi facciano visitare la biblioteca di mio padre e la casetta di Tisciano. E poi verso le 5 c’e’ qualcuno dei miei che scende a Kazar Devi (dove stiamo noi) e se volete vi da’ un passaggio. Io pero’ non posso venire con voi perche’ devo andare a controllare come vanno le cose in fabbrica (una fabbrica di tessuti e scialli, dalla quale abbiamo gia’ fatto acquisti). E cosi’ eccoci accuditi da un gentile servitore che non parla una parola d’inglese, ma ci accompagna per un ripido sentiero sino al resort. Li’ ci offrono subito dell’acqua, poi un te’, e poi, dopo un po’, un ottimo pranzo – tutto con rilassati tempi indiani. Poi la biblioteca e poi ci portano per un altro sentiero poco lontano, a una casetta a due piani, piuttosto bella (ma molto piu’ spartana della lussuosa villa in alto). Ed ecco: lui stava li’, in questo bel posto a 2400 m, con veduta delle grandi cime (salvo nel periodo dei monsoni, cioe’ questo). Al ritorno facciamo una deviazione per arrivare in cima al monte, e quasi ci perdiamo. Soprattutto, perdiamo l’appuntamento con la macchina che ci deve portare a casa. E ci facciamo quindi a piedi gli altri 6 km del ritorno. Sulla strada in basso aspettiamo per un po’, ma non tanto, una scatola da sardine per tornare a casa. Fine. Stanchissimi. Ricordo di Guido Crepax. La sua matita disegnava il desiderio Guido Crepax è stato noto al grande pubblico italiano soprattutto come autore di fumetti fortemente e raffinatamente erotici, costruiti attorno ad alcune eroine, il nome di una delle quali è ormai universalmente associato al suo: Valentina. Ma solo i lettori appassionati di fumetti di valore sanno quanto importante sia stato il suo contributo al raggiungimento della maturità di quest’arte sottovalutata. Guido Crepax non è stato soltanto un narratore e disegnatore così bravo da permettere che venisse riconosciuta dignità culturale alle sue fantasie erotiche nell’Italia perbenista degli anni Sessanta e Settanta, ma anche uno che ha inventato un modo nuovo di raccontare a fumetti, sperimentando una quantità di tecniche espressive che sono in seguito entrate stabilmente nel linguaggio del fumetto d’autore. La sua storia di fumettista è legata a doppio filo a quella della rivista Linus, che nasce nel 1965 con l’esplicito programma di far conoscere agli italiani il fumetto di qualità, e gli pubblica dopo pochi mesi la sua prima storia: “La curva di Lesmo”. È la prima volta di Crepax fumettista, ma è anche la prima volta che Linus dedica tanto spazio a un autore italiano. È una storia centrata su un personaggio dotato di un ultrapotere, una versione un po’ particolare delle storie dei supereroi che arrivavano dagli USA o degli eroi negativi che stavano impazzando in Italia. La differenza, rispetto a questi modelli un po’ ingenui, era tuttavia evidente appena si incominciasse a leggere, sia per il disegno, raffinato e del tutto alieno agli effetti dinamici mirabolanti, sia per il modo di raccontare, attento alla psicologia dei personaggi e alle loro relazioni umane – al punto che il superpotere di Neutron, il protagonista, era fin dall’inizio un aspetto marginale delle vicende, assai poco influente nella dinamica complessiva. È all’interno di questa storia che fa la sua prima comparsa Valentina, destinata a innamorarsi di Philip Rembrandt, alias Neutron, e ben presto a sposarlo. E poi, negli anni successivi, storia dopo storia, destinata a diventare ben più importante di lui nell’economia dei racconti. Neutron perderà infatti progressivamente il suo potere, e finirà per scomparire anche fisicamente dalla vita di lei – mentre le storie di Valentina vireranno verso una costante contaminazione tra reale, memoria e immaginazione, in cui l’erotismo sarà, volta per volta, sempre più presente. Siamo quindi debitori a Crepax di aver dato all’erotismo per immagini un aspetto difficilmente attaccabile dai censori, che nei medesimi anni in cui si iniziavano a dispiegare le morbose fantasie di Valentina avevano gioco facile (e spesso non del tutto immotivato) a condannare molte altre produzioni visive. Il gioco condotto da Crepax era troppo evidentemente consapevole e intellettuale, troppo pieno di riferimenti culturali e – possiamo aggiungere noi – troppo graficamente innovativo, per poter essere assimilato a quello povero e pacchiano dei prodotti pornografici, a fumetti o di ogni altro tipo. Oggi non ci resta che salutare un maestro che se ne va, a settant’anni, dopo averci insegnato mille modi conturbanti di riconoscere e disegnare i nostri desideri più segreti, e mille nuovi modi di fermare il tempo sullo spazio della carta. |
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