30 Gennaio 2015 | Tags: poesia, Versante ripido | Category: poesia |
La poesia, l’immaginario e l’evoluzione sociale, editoriale di Daniele Barbieri.
C’era una volta la poesia. Va bene: non è proprio così; la poesia c’è ancora. Ma una volta c’era un ruolo sociale della poesia che da molto tempo non esiste più; del quale per lungo tempo è rimasto solo lo spettro, sinché è scomparso pure quello, e quello che resta oggi ne è forse lo spettro dello spettro.
Le parole di Omero e degli aedi che come lui recitavano a memoria dei versi epici lungo le strade della Grecia antica, spesso semi-inventandoli ogni volta, non servivano solo a divertire gli animi, anzi spesso non divertivano affatto. Quando Ulisse, alla corte di Antinoo, sente il racconto dell’aedo, si mette a piangere, coprendosi il volto col mantello. Certo in questo caso lo fa perché si accorge che si sta raccontando di lui stesso; ma evidentemente tra i greci non doveva essere un fatto così singolare che il racconto in versi di un aedo suscitasse commozione.
L’importanza sociale che i Greci attribuivano ai versi omerici era tale che essi adottarono i segni dei fenici per non correre il rischio di perderli. Il punto è che quello che quei versi cantavano non erano solo le imprese degli eroi, ma il senso stesso della civiltà greca, la quale – comunque – delle imprese degli eroi del mito era impregnata. I versi dei poeti costruivano l’immaginario della popolazione greca, e l’immaginario è ciò su cui si fonda il desiderio che dirige le nostre azioni. Il che non vuol dire che i Greci desiderassero comunque ripetere le gesta di Ulisse, ma che c’era in quel modo di agire e di vivere qualcosa che non poteva essere perduto, e che comunque influenzava l’azione dei singoli, e l’evoluzione della società. Per questo l’adozione della scrittura venne sentita come un evento cruciale, che permetteva ai Greci di mettere maggiormente al sicuro la propria identità futura, la propria specifica differenza rispetto ai barbari.
Proprio perché Augusto era consapevole di questo potere mitopoietico della poesia, chiese al massimo poeta della sua epoca, Virgilio, di scrivere un poema che glorificasse le ascendenze di Roma dando in questo modo un supporto mitologico al proprio impero. Nell’immagine di Roma costruita dall’immaginario dell’Eneide, un duce saggio e illuminato come Augusto diventa certamente più desiderabile delle litigiosità del Senato, che avevano condotto a quasi un secolo di lotte intestine e guerre civili.
Il potere mitopoietico della poesia, potere quindi di influenzare l’evoluzione della società, continua a lungo, e diminuisce progressivamente a mano a mano che aumenta il rilievo di altri strumenti di costruzione dell’immaginario…
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Aggiungo qualcosa alle mie riflessioni di mercoledì su Charlie Hebdo. Quando ho scritto quelle righe non avevo ancora visto questa copertina:
Che cos’è che fa ridere qui? Un lettore medio occidentale non può non cogliere il riferimento a un luogo comune di film e racconti specialmente western, quella Bibbia portata nel taschino che intercetta la pallottola diretta al cuore del protagonista salvandogli la vita (il luogo comune di cui Woody Allen fa la parodia dicendo, più o meno, “portavo sempre una pallottola nel taschino; un giorno uno mi ha tirato una bibbia, e la pallottola mi ha salvato la vita”). Se si capisce il riferimento, si ride perché si capisce che il vero obiettivo satirico di questa vignetta non è il Corano, bensì la presunzione di salvezza da parte dei libri sacri, e della Bibbia in particolare. Si tratta, insomma, di una vignetta anticristiana, non antimusulmana, mostrando, parodisticamente, la Bibbia come superiore al Corano, un libro sacro che nemmeno ferma le pallottole.
Ma per un arabo che non conosca questo riferimento, né sia particolarmente interessato alle questioni interne della cultura occidentale, questa vignetta dice tutt’altro, e non fa nemmeno particolarmente ridere…
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Nell’indignazione e nell’emozione che hanno colpito me come tutti, dopo i fatti della scorsa settimana, c’è qualcosa che continua a non quadrarmi, qualcosa di fuori posto nella messa a fuoco degli eventi.
Non sono le pacchianerie macroscopiche e vergognose: le strumentalizzazioni, si sa, ci sono sempre; sono irritanti, anche molto, specie per la loro pretestuosità. Ma fanno parte del gioco. Come l’annuncio visto di passaggio di un programma con dibattito televisivo, in cui il giornalista annunciava il tema “È scontro di religioni?”. Scontro di religioni!? Come se quelli di Charlie Hebdo fossero cristiani che prendevano in giro dei musulmani, o come se i terroristi che li hanno fatti fuori intendessero colpire il cristianesimo – quando sappiamo benissimo che tra gli obiettivi polemici di Charb & company c’era semmai proprio la religione in quanto tale, e quindi l’Islam, certo, ma non meno e non più del cristianesimo o dell’ebraismo.
Non è nemmeno la definizione in termini assoluti del nemico a non quadrarmi: i fondamentalisti islamici. Sì, certo, la manovalanza del terrorismo sono loro: questo sembra fuori discussione. Ma è così facile e così comodo influenzare dei massimalisti, infiltrando qualcuno che suggerisce gli obiettivi, scalda gli animi e fornisce strumenti logistici e armi, che sospettare un controllo da parte di servizi segreti (americani?, israeliani?, europei?) interessati a fomentare la tensione e a creare un nemico, è il minimo che si possa fare. Ci sono tante destre nel mondo occidentale che hanno bisogno…
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15 Dicembre 2014 | Tags: estetica, poesia, poetiche | Category: estetica, poesia | Ho appena partecipato a questo incontro interessante, organizzato da Bologna in Lettere, dove si è discusso sulla poesia contemporanea, e anch’io ho detto la mia. Me ne esco con un problema, legato a quello che ho detto in quella sede, ma più specificamente declinato sulle mie personali scelte di poetica. La mia riflessione si ricollega a quanto dice Biagio Cepollaro in un breve video che è stato mostrato in apertura dell’incontro, e che vi invito a guardare prima di continuare a leggere (sono solo 5 minuti).
Cepollaro ricorda quanto importante continui a essere l’opposizione adorniana tra arte conciliata e non conciliata, o pacificata e non pacificata (o anche, direi io, sempre riprendendo la terminologia di Adorno, tra un’arte che si rende conto di avere perso l’innocenza e un’arte che non se ne rende conto), e di come, sino agli anni Novanta, questo sia stato inteso dalla poesia italiana in termini di deriva del linguaggio e della sintassi, allontanamento da una naturale comprensibilità del discorso poetico. Sino a quando, dice ancora Cepollaro, questa strategia ha incominciato a ripetersi, a sclerotizzarsi, e c’è stato un diffuso rifiuto nei suoi confronti.
A partire da queste premesse, che condivido, il problema cui io, come autore, come poeta, mi trovo davanti è comunque quello di produrre un’arte non pacificata, consapevole della perdita della propria innocenza. Solo che non posso più utilizzare la formula della dissoluzione della sintassi, perché non funziona più – se mai ha funzionato in quanto tale. Oggi è invecchiata e a sua volta inserita nel meccanismo dell’industria culturale, almeno per quel poco che può succedere per il mondo un po’ estraniato e marginale della poesia.
Anzi, visto da oggi, io vedo quella strategia come una scorciatoia un po’ troppo comoda per arrivare al regno dell’arte non pacificata. Col che non intendo squalificare in sé il lavoro della neo-avanguardia, che ha comunque prodotto un certo numero di poeti di altissimo livello, e non solo nel gruppo ristretto dei Novissimi, ma cautelarmi rispetto alla loro maniera e soprattutto rispetto al loro epigonismo.
Tenderei ad annettere a questo insieme, ovvero a quello della scorciatoia, non solo le strategie di sovvertimento sintattico, ma anche quelle sostanzialmente neo-dadaiste di presentazione di objet trouvé, o di searched objects (leggasi googlism), in cui il distacco emotivo del poeta è messo in evidenza dal lavoro su materiali chiaramente esterni, chiaramente oggettivi, spesso utilizzati senza una particolare elaborazione – che correrebbe il rischio di inserire una marca di soggettività nel gioco – un po’ secondo il principio del collage.
Sto parlando in termini di poetica personale, non di estetica normativa. Cioè non escludo che queste strade possano ancora portare a risultati interessanti, e sono pronto ad accoglierli felicemente appena li incontro. Solo che, in primis, in linea di massima tendo a non incontrarli, cioè faccio fatica a trovarne, e, in secundis, non mi interessa personalmente percorrerle come autore. Da questo punto di vista, potrei dire, ho già dato, ho già fatto: sono cresciuto all’interno di quella temperie culturale, e tutta la mia produzione giovanile ne risente pesantemente.
Credo, oggi, che il lettore abbia diritto di avere un accesso immediato a quello che legge, ovvero che il componimento gli fornisca almeno un aggancio, un sospetto di comprensione alla prima lettura, che poi magari si rivelerà parziale, incompleto, o addirittura erroneo a una lettura più approfondita, ma che gli permetta sin dall’inizio un accesso ritmico, un ingresso in sintonia con il testo e le sue letture. In assenza di questa ricompensa immediata, per quale motivo il lettore dovrebbe impegnarsi, andare a cercare ulteriori ragioni di interesse, che si trovano soltanto con un vero e proprio lavoro di tipo critico, per quanto personale? L’impegno interpretativo è un investimento, che vale la pena di fare se il testo promette un’adeguata ricompensa, ovvero se abbiamo ragione di pensare che, oltrepassando l’ostica apparenza di prima lettura, troveremo un universo di affascinanti nessi significanti, con correlata emozione estetica. Ma se il testo non promette, oppure – peggio – se promette e poi non mantiene, perché dovremmo investire in termini di impegno e fatica interpretativa?
In tempi di vincente ideologia, come sono stati i decenni tra i Cinquanta e gli Ottanta del secolo scorso, questa disposizione all’impegno da parte del pubblico era più diffusa, perché più diffusa era l’idea che si dovesse investire intellettualmente per ottenere un risultato in termini di comprensione. Ma poi è stato il fallimento stesso di questo programma, che ha coinciso con il tramonto delle ideologie, che ha deluso il pubblico. Poetiche della complicazione sintattica o della citazione neo-dadaista, come furono quelle della neo-avanguardia, potevano funzionare in un contesto in cui l’impegno intellettuale era moneta corrente; ma funzionano molto meno quando questa stessa moneta è arrivata a svalutarsi pesantemente.
Queste strategie erano dunque scorciatoie per ottenere un’arte non pacificata, che funzionavano in quelle condizioni culturali. Oggi quelle condizioni non ci sono più, e la scorciatoia mi nausea un po’. La rispetto negli autori che l’hanno utilizzata in quegli anni in cui aveva senso utilizzarla. Ne diffido acutamente in chi continua a utilizzarla oggi.
Eccomi quindi di fronte al problema, che dovrebbe essere, io credo, il problema di chiunque scriva poesia oggi, anche se poi, la mia soluzione è semplicemente la mia, senza pretese di generalizzazione. Ma il problema, che è lo stesso per tutti, che uno se ne renda conto o no, è: come costruire un’arte non pacificata, senza utilizzare la scorciatoia asintattica o neodadaista? Come fornire un aggancio di comprensibilità al lettore senza rientrare nelle banalità di una tradizione, la quale non era banale in sé quando veniva prodotta, ma lo sarebbe oggi se riproposta nei medesimi termini?
Comprensibilità per il lettore non vuol dire soltanto che il lettore possa più o meno seguire la sequenza sintattica, ma che riceva anche la sensazione di essere di fronte a un testo poetico.
Un esempio di strategia alternativa (e un po’ meno scorciatoia) è quello dei poeti cosiddetti neo-metrici. In vari modi, con molte differenze tra loro, autori come Valduga, Frasca, Nove, costruiscono la poeticità con un esplicito riferimento al metro tradizionale, ma si mostrano non pacificati associando a questo recupero del metro tematiche e/o sintassi tutt’altro che tradizionali, in modo che il conseguente straniamento costruisca un effetto complessivo paradossale e un po’ provocatorio. Strategia interessante, che dà anche dei buoni risultati, ma che si lega comunque alla presenza di uno spirito dichiaratamente intellettualistico, quale quello che accompagna inevitabilmente le parodie. Restano escluse, da questa scelta, molte possibilità di registro, tra cui anche varie che interessano a me.
Altri poeti ancora si rifanno alla metrica tradizionale, in particolare all’endecasillabo, con spirito meno provocatorio, ma ugualmente utilizzandolo in maniera non convenzionale, come una sorta di macchina ossessiva e senza uscita. E’ il caso, per esempio, di Piersanti e di Fedele (ne parlo ampiamente nel saggio “Il vincolo e il rito”, sulla metrica della recente poesia italiana, uscito su L’Ulisse n.16 – anche più direttamente accessibile su Academia.edu). Pur apprezzando molto certi loro lavori, personalmente provo una certa paura nei confronti dell’endecasillabo, un verso troppo bello e troppo tradizionale per utilizzarlo senza un controllo continuo e faticoso, una continua attenzione al non renderlo tramite di forme antiquate e pacificate, nel senso adorniano di Cepollaro. Proprio per questo, io ho fatto sì una scelta metrica, ma studiata appositamente per non cadere inavvertitamente nelle maglie dell’endecasillabo, pur potendolo utilizzare trasversalmente, ma solo con studiata consapevolezza.
Il rapporto con la poeticità può riguardare temi, ricorrenza di formule, costruzioni ritmiche a qualsiasi livello (prosodico, fonetico, sintattico, lessicale, narrativo…). Il problema è che non se ne può fare a meno, se si vuole che il proprio testo possa essere riconosciuto come poetico, e possa entrare nel dialogo con altri testi poetici. D’altra parte, queste stesse forme portano con sé il rischio di un ritorno all’ingenuo, al pacificato, all’illusione dell’innocenza. La via per farne uso senza cadere nella trappola è stretta, e le scorciatoie non funzionano più.
Personalmente, ho fatto una scelta metrica, come riferimento di fondo; ma mi sono costruito un metro che potesse suonare non familiare a un orecchio italiano, un esadecasillabo che non è un doppio ottonario, ma che porta un accento obbligato sulla settima sillaba, oltre che, ovviamente, sulla quindicesima. Si costruisce in questo modo una regolarità prosodica che può essere recepita come tale, senza portare relazioni dirette con le sonorità dei versi tradizionali italiani. Il verso può essere usato sia come struttura chiusa e ossessivamente ripetuta, sia come struttura aperta con enjambement anche estremi, alla Rosselli, sia alternando i due modelli, a seconda delle necessità espressive, come una struttura musicale.
Su questa base, il discorso cerca di essere rigorosamente sintattico (anche se con possibilità occasionali di non chiusura di periodi, specie se lunghi e complessi), ma distaccato. Il lessico cerca di essere basso, colloquiale, o di innalzarsi verso lessici specialistici se necessario, ma evitando quelli poetichesi, a meno che una qualche formula tradizionalmente poetica non voglia diventare cuore stesso del discorso, e allora il distacco va manifestato straniandola, ripetendola, rendendola cellula di un’ossessione ritmica che la snatura. Questo permette di fare uso anche delle parole vietate e persino delle rime in cuore-fiore-amore-dolore.
L’esercizio sta in un periglioso equilibrio tra l’abbandono emotivo e il controllo intellettuale, tra il gioco stilistico e la partecipazione appassionata e profonda. Un’arte non pacificata, io credo, non è un’arte che evita le forme pacificate, standard, stereotipate, anche esaurite, ma che le usa mostrandole al contempo come tali, e sapendone estrarre quella cellula di vita vera che comunque ancora rimane in loro, come in ciascuno di noi, per quanto pervertito sia dalla vita nell’universo delle comunicazioni di massa di una società capitalistica avanzata.
Insomma, nella dicotomia adorniana tra Schoenberg e Strawinsky, là dove Adorno vedeva in Schoenberg il progressista, colui che si mantiene al di fuori della corruzione dell’industria culturale, e in Strawinsky un peccatore corrotto e contaminato, io vedo piuttosto nel primo un (comunque affascinante) aristocratico innamorato del passato e della tradizione, che cerca a tutti i costi le vie per innovarla conservandone l’essenza (quale Adorno stesso era, in fin dei conti), e nel secondo colui che ha davvero saputo costruire un’arte non pacificata, sporcandosi le mani con tutto quello con cui se le poteva sporcare, ma rimanendo sempre originale e in fin dei conti non compromesso, giocoso e appassionato.
10 Dicembre 2014 | Tags: fumetto, Roman Muradov | Category: fumetto |
Girando per BilBOlbul arriviamo alla mostra di questo giovane russo americanizzato, Roman Muradov, ed è subito un susseguirsi di “Oh!”, “Guarda!”, “Che bravo!”, “Questa è una copertina per Vogue!”, “Guarda come ha costruito questa prospettiva!”. Compro la sua graphic novel al volo (si vanno esaurendo rapidamente le copie) e mi faccio fare una dedicasse dall’autore diligentemente e felicemente presente. Mi riprometto di tornare a visitarlo il giorno dopo da Teiera, ma il giorno dopo (quarto ininterrotto di festival e altri impegni concomitanti) sono troppo distrutto e non ce la faccio.
Nell’osservarlo mentre disegna c’è qualcosa però che non mi quadra: sembra che tracci dei segni certo non a caso, ma con quella sorta di distratta concentrazione che si ha quando, magari ascoltando una conferenza o una lezione, si tracciano disegnini con la penna su un foglio volante. Linee curve e voluttuose, in apparenza scoordinate.
In realtà, alla fine, l’effetto è coordinatissimo, e decisamente elegante. Al ragazzo non manca la mano né lo stile; su questo è difficile avere dubbi. Ma qualcosa continua a non quadrarmi.
A casa mi leggo la graphic novel (In a Sense) Lost & Found. E’ stampata…
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8 Dicembre 2014 | Tags: poesia, Roberta Dapunt | Category: poesia | Roberta Dapunt, da “Le beatitudini della malattia”
Roberta Dapunt, da “Le beatitudini della malattia”
Roberta Dapunt, da “Le beatitudini della malattia”
Roberta Dapunt, da “Le beatitudini della malattia”
Questi versi di Roberta Dapunt (da Le beatitudini della malattia, Einaudi 2013) mi pongono un problema, etico, forse, più che estetico. Non ne è in questione la qualità stilistica, che è comunque alta (a parte, qua e là, qualche piccola aggettivazione forse di troppo, forse un tantino di maniera). Non è nemmeno questo dorato crepuscolarismo a farmi problema, ribadito componimento dopo componimento, quasi una discesa in un piccolo inferno senza dolore, fatto di piccole cose di campagna e di famiglia – certo non disforiche in sé, ma qui vissute quasi come se abbisognassero di una salvezza che non c’è. E si rimane a mezza luce, a mezza tristezza, a mezzo sentire, a mezzo patire. E sta tutto sommato proprio in questo l’aspetto godibile di queste poesie.
Mi fa problema però il troppo forte sentore di qualcosa che appartiene a un’altra epoca, quella dei Gatto, dei Bertolucci e dei Sereni (e con Sereni sto forse già eccedendo), ma non più in là di così. Intendiamoci: non ritengo affatto illegittimo rifarsi alla poesia di quegli anni. Quello che mi turba è che, attraverso questi componimenti, sembrerebbe che nella poesia italiana non sia mai più successo nulla dopo quegli anni. Quello che mi turba è che non c’è nessun dialogo con la poesia che è venuta dopo.
Sono abituato a pensare a un’opera d’arte come a qualcosa che è sempre anche un intervento in una conversazione con le opere precedenti o contemporanee, e (implicitamente e a posteriori) anche con quelle successive. Solo il lettore ingenuo la legge come qualcosa di assoluto, di intemporale, che ha valore esclusivamente nella misura in cui muove qualcosa al suo interno. In questi termini il lavoro della Dapunt sarebbe buono, indubbiamente, accostabile a quello dei suoi numi tutelari.
Ma per il lettore un po’ più scafato, la possibilità di essere mossi davvero, di essere com-mossi, dipende anche dalla relazione tra ciò che si sta leggendo e tutto ciò che si è già letto. In questo senso, nelle parole e nei versi pure sapienti della Dapunt, risuonano troppi echi già noti, ed è come se la sua voce mi arrivasse continuamente accompagnata dalla voce di poeti di un’altra epoca, senza nessuna distanza.
Se ci fosse, in qualche modo, una consapevolezza suggerita di questa vicinanza, una piccola gomitata, una strizzata d’occhio, già l’effetto sarebbe, per me, molto diverso. Potrebbe bastare una citazione esplicita, un qualche cambio occasionale di registro, un’uscita momentanea dal clima crepuscolare. Si manifesterebbe allora una distanza, cui basterebbe essere accennata. Nei termini del dialogo con i contemporanei, sarebbe come un accenno, fugace ma sufficiente, al fatto che si sa che cosa è successo dopo, ma lo si rifiuta. Potremmo concordare o meno con questa posizione, ma la poesia che la esprime comunque si posizionerebbe, manifestando la propria consapevolezza rispetto al presente.
Poiché questo qui non succede (o, almeno, io non sono in grado di trovarne traccia) non posso che leggere questi versi attraverso quella visione del mondo di sessanta e più anni fa, che era buona allora, ma rimane sospetta oggi. È del tutto lecito rifiutare quello che è successo dopo, ma bisognerebbe, implicitamente, dichiararlo. Altrimenti si rimane vittime di una fascinazione antistorica, come se la poesia di un’epoca, per il fatto semplice di essere buona poesia (e certamente lo era quella degli autori che ho citato) possa ergersi a modello della Buona Poesia in senso assoluto.
Il fatto è che le parole si consumano, negli anni. Per riprodurre la sua malinconia con quella stessa efficacia non si possono usare le parole che usava Bertolucci nei suoi anni. Altrimenti non solo i piccoli aggettivi eccessivi che abbiamo criticato qui, ma proprio il tutto è finzione, maniera – e passi la maniera dichiarata, esplicitata, per esempio, dei neo-metricisti, pur essendo spesso irritante e poco concludente. Se non si mostra consapevolezza, se si scrive così perché davvero si sente così, si è prigionieri di un sogno già passato, che non ci appartiene più – anche quando si è davvero bravi a farlo. Si è scambiato per universale qualcosa che ha avuto il suo tempo e il suo luogo.
C’è del nuovo e c’è del bello, editoriale di Daniele Barbieri.
Se avessimo nominato “il grande Bach” a un qualsiasi ascoltatore di musica di buona cultura della seconda metà del Settecento, la sua mente sarebbe probabilmente corsa, nella maggior parte dei casi a Carl Philipp Emanuel, in un’ampia minoranza (tra cui il giovane Mozart) a Johann Christian, e magari qualcuno, particolarmente colto, avrebbe persino pensato al loro fratello maggiore Wilhelm Friedemann, grande e sfortunato contrappuntista. A nessuno sarebbe venuto in mente il loro padre, il “vecchio parruccone” Johann Sebastian, buono al massimo per capire bene il contrappunto, certo non come musicista da eseguire per il pubblico godimento.
Per trovare qualcuno che apprezzi il vecchio Bach come musicista degno di essere pubblicamente eseguito, bisogna aspettare il pieno Romanticismo, quando Felix Mendelssohn Bartholdy ne fa eseguire per la prima volta da un secolo, nel 1829 a Lipsia, una versione abbreviata e dai tempi romanticamente lentissimi della Passione secondo Matteo. Da quel momento in poi la fama del “vecchio parruccone” non fa che crescere, sino a diventare, intorno al 1920, il modello dellanuova musica ipotizzata da Arnold Schoenberg, con una dodecafonia tutta costruita sui moduli compositivi bachiani. Anton Webern, pochi anni dopo (nel ’36) eseguirà persino una trascrizione, nel suo stile puntillista, di un ricercare a sei voci dall’Offerta Musicale. Nei seminari di Darmstadt, infine, dal 1946, non solo uno dei docenti sarà l’organista (e quindi anche solo per questo bachianamente ispirato) Olivier Messiaen, ma il più importante (negli anni successivi) degli allievi, cioè Pierre Boulez, svilupperà la propria, in seguito influentissima, teoria musicale, a partire dalle meditazioni bachiane di Schoenberg.
Se si conosce questa storia, la domanda sull’innovatività della musica di Johann Sebastian Bach diventa perlomeno imbarazzante. Per i suoi contemporanei e immediati successori, Bach è soltanto un grande tecnico, ma la sua musica è tutta rivolta al passato, senza scampo. Ci vuole quasi un secolo perché qualcuno si accorga degli elementi di (straordinaria) novità in essa contenuti, e da allora a oggi se ne è continuati a trovare sempre di nuovi. Si potrebbero però anche descrivere le cose in un altro modo, continuando a considerare il vecchio Bach come un musicista rivolto al passato, e separando la qualità (comunque straordinaria) della sua musica dal suo eventuale carattere di novità. Come dire: non c’è bisogno di pensare che Bach sia stato un grande innovatore (quali per esempio sono certamente stati Mozart e Beethoven) per considerarlo un grande musicista. Novità e grandezza sono due variabili indipendenti, e, come ebbe a dire crudelmente Rossini della musica di un giovane e imprudente postulante che lo disturbava per chiedergli un giudizio, “C’è del bello e c’è del nuovo nella sua musica, ma il bello non è nuovo, e il nuovo non è bello”.
Date queste premesse, possiamo davvero parlare del nuovo in poesia, come in qualsiasi altra arte?…
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24 Novembre 2014 | Tags: estetica, Omero, poesia | Category: estetica, poesia | 26 settembre 2014
Un altro pensierino. Quando ho visto questa foto, ho capito perché Omero era cieco.
La foto me l’ha fatta Valentina Gaglione, a una lettura-performance di Claudia Zironi, in cui intervenivo in veste di critico. Non sapevo di essere fotografato, non era in nessun modo nella mia mente in quel momento di poter apparire in un’immagine. La mia mente era interamente concentrata nel difficile compito di recitare a memoria un testo poetico in latino, che faceva parte del mio discorso. I miei occhi erano chiusi e l’espressione concentrata perché la mia attenzione era tutta lì, alle parole difficili che dovevano uscire una dopo l’altra con il ritmo giusto e la giusta espressione.
Credo che, agli occhi dei presenti, più o meno la stessa espressione la dovesse avere anche Omero, o gli aedi suoi compari, quando ricordavano semi-improvvisando i versi epici, tutti concentrati al proprio interno, sulla parola a venire e sulla sua espressione. E’ per questo che Omero era cieco: poeta non meno mitologico dei personaggi da lui cantati, non era possibile rappresentarselo che così, privo della vista, un organo inutile, anzi inutilmente distraente per qualcuno che esiste (almeno nel mito) solo per cantare versi.
19 Novembre 2014 | Tags: fumetto, horror, Suehiro Maruo | Category: fumetto |
Coconino Press torna alle origini pubblicando il seguito de Il vampiro che ride, di Suehiro Maruo, la cui prima parte è stata, nel 2000, il primo titolo della allora neonata casa editrice. Si tratta di un testo al tempo stesso raffinato e terribile, come nello stile di Maruo (su altri lavori di Maruo avevo scritto qui), che mette in scena sesso e violenza estrema, ma anche sentimenti sottili e un disegno raffinato e pieno di riferimenti colti.
All’estetismo del male Maruo non è affatto estraneo, perché è sempre attorno a questo che girano i suoi lavori. Non di rado mi viene da domandarmi il perché di questi eccessi e di questo godimento nel rappresentarli; ma poi è così evidente che si tratta (anche) di un gioco intellettuale, che mi viene da pensare che una condanna a sfondo moralistico del lavoro di Maruo sarebbe in realtà un cadere nella trappola stessa tesa dall’autore, il quale, in fin dei conti, lavora sempre un gradino più in là, e sembra sempre giocare appositamente sul limite dello scandaloso affinché il lettore si scandalizzi.
Ma non è questo ciò di cui voglio parlare nel post di oggi, anche se è proprio questo ciò che me ne dà l’occasione. Mi rendo cioè conto che una parte dell’efficacia della strategia di Maruo sta proprio nel suo raccontare per immagini. Se lo stesso racconto fosse contenuto in un romanzo (solo verbale) inevitabilmente l’impatto delle scene di uccisione e di sesso sarebbe più debole; certo, molto dipenderebbe dal modo in cui queste scene sarebbero raccontate; tuttavia, anche immaginando lo stile narrativo più crudo ed efficace possibile, una storia raccontata a parole presenta un livello di mediazione in più rispetto a una storia raccontata per immagini.
Proseguiamo l’analogia. Immaginiamo che la medesima storia…
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17 Novembre 2014 | Tags: fumetto, Manuele Fior | Category: fumetto |
“C’È NELLA VITA UN TEMPO IN CUI ESSA RALLENTA VISTOSAMENTE”: SU “L’INTERVISTA”, DI MANUELE FIOR
Mi era già capitato, scrivendo un post su Cinquemila chilometri al secondo, di trovare un riferimento all’ispirazione di Manuele Fior in una frase di Musil. È l’inizio di “Grigia”, la prima novella di Tre donne:
“C’è nella vita un tempo in cui essa rallenta vistosamente, come se esitasse a proseguire o volesse mutare direzione.”
L’intervista, pur raccontando una storia diversissima, funziona nel medesimo modo: i due protagonisti si trovano a incrociarsi quasi per caso, e ciascuno sta vivendo proprio quel momento di rallentamento, quello in cui la vita potrebbe anche fermarsi, o forse cambierà direzione: in più, anche la società in cui vivono si trova a vivere un momento dello stesso tipo, e gli eventi personali di lei avranno conseguenze per tutti, come si scopre al momento dell’intervista, alla fine del volume, oltre un secolo dopo i fatti raccontati nelle pagine precedenti.
La crisi sembra essere vissuta anche dai colori, scomparsi come sono…
Continua qui, sul blog di Bilbolbul.
17 Novembre 2014 | Tags: estetica, mito, Omero | Category: estetica | Pensierino di passaggio. Ero l’altro giorno a un incontro in cui si leggeva Omero, a proposito di Odisseo e delle sue lacrime, e di altre lacrime degli eroi. Nel pensare che quello che stavo ascoltando era bello, molto bello, qualcosa non mi quadrava. Come se la parola bello non fosse adeguata.
Poi mi sono reso conto del perché. Bella sarà semmai qualsiasi altra cosa, che abbia qualche tipo di relazione, per somiglianza o opposizione, con il mito greco. Ma il mito greco non può essere definito bello, perché ci siamo cresciuti dentro. Anche chi non lo conoscesse direttamente, in Occidente, sarebbe cresciuto comunque all’interno di una rete di storie che partono da lì, hanno origine lì.
Sarebbe come definire bella la propria mamma. Certo che lo è; non potrebbe che essere così. C’è forse qualche possibilità che non lo sia? Ma bella in senso proprio sarà semmai chi le assomiglia, o chi ne è così diversa da colpirci.
Insomma, la sensazione di bellezza deriverebbe da un qualche tipo di rapporto con l’archetipo. Ma l’archetipo è l’archetipo, bello per forza: come potrebbe non esserlo, essendo l’archetipo?
Non c’è da stupirsi che i Greci, ovvero l’Occidente, abbia adottato la scrittura, copiandola dai commercianti medioorientali, proprio per non correre il rischio di dimenticare l’archetipo, per far sì che Omero ed Esiodo e gli altri potessero essere tramandati senza i rischi della memoria orale.
Se il mito greco fosse andato dimenticato, l’archetipo sarebbe stato diverso, e l’immaginario dell’Occidente pure. Sarebbe stata diversa la sua storia, perché l’uomo fonda le proprie strutture, sociali e tecniche, a partire da un desiderio che si fonda sull’immaginario. Sarebbe perciò diversa la nostra società, la nostra cultura.
10 Novembre 2014 | Tags: Maurizio Cucchi, poesia | Category: poesia | Maurizio Cucchi, da “Malaspina”, Lo Specchio Mondadori 2013
Maurizio Cucchi, da “Malaspina”, Lo Specchio Mondadori 2013
Maurizio Cucchi, da “Malaspina”, Lo Specchio Mondadori 2013
Questo libro di Maurizio Cucchi mi pone un bel problema. Eccolo qui: mi è capitato di apprezzare i versi di Cucchi in passato, e per questo motivo ho recentemente investito ben 16€ per acquistare questo Malaspina (Mondadori, Lo Specchio, 2013). Poi l’ho letto, l’ho riletto qua e là per controllare, e gli ho dato un’ultima rilettura per sicurezza prima di scrivere questo post. In nessuna delle letture i componimenti di Cucchi hanno mosso qualcosa dentro di me che mi facesse pensare di poter esprimere parole di apprezzamento. In termini bassamente economici, uno spreco di denaro e di tempo.
Se fosse il libro di uno sconosciuto, l’avrei già messo via e probabilmente dimenticato. Ma si tratta di Cucchi, ed è questo a porre il problema: si tratta davvero di un libro inutile, oppure sono io che non capisco qualcosa di fondamentale? (mentre altri lettori, presumibilmente lo capiranno, e conseguentemente ne godranno)
Il libro è basato su una serie di ricordi, il che, in sé, non è né positivo né negativo. Un ricordo, come tanti altri temi, può scatenare il coinvolgimento del lettore. Ma qui, dopo neanche tante pagine, la sensazione dominante è simile a quella che si prova quando si è di fianco a qualcuno che ti racconta qualcosa in cui non riesci a trovare alcun motivo di interesse, e ti domandi: ma perché me la racconta? Deve solo sfogarsi (e allora, magari per amicizia, decidiamo di pazientare e comprendere) oppure ritiene davvero di poter risvegliare il mio interesse con questo? e in che modo?
Certo, i lettori non leggono poesia per amicizia, e nemmeno per sapere i casi personali del poeta. Qui il tutto appare così irrilevante che forse bisogna evocare lo spettro del minimalismo, ovvero pensare che l’operazione sia volutamente ininteressante, piana, fiacca, perché attraverso questa neutralità o scarsa significatività si intende far passare il vero discorso. Eppure, pure con questo escamotage, questo vero discorso non riesco proprio a coglierlo, e continuo ad annoiarmi.
Che cos’è che non colgo? C’è davvero qualcosa che non colgo? E che cosa c’è nella poesia che invece mi coinvolge (anche quella minimale, quotidiana, basata su minuzie) che qui radicalmente manca? Un esempio trasversale potrebbe essere la scrittura di Valerio Magrelli, la quale assai spesso non parla di nulla, e non dice nulla a proposito di alcunché salvo se stessa; eppure questo vuoto autoriflessivo riesce a essere, per me, coinvolgente. Magrelli mi fa arrabbiare a volte, perché tanto spesso il suo sembra un gioco sul giocare sul nulla, un inutile lancio di dadi; e tuttavia, nonostante tutto, questa inutilità riesce a sommuovermi, talvolta persino a commuovermi, e quindi inutilità non è, in verità. Solo sottigliezza, provocatoria sottigliezza.
Con questo Cucchi, l’interpretazione in questi termini non funziona, non regge. Continuo a ritrovarmi di fronte alla mancanza di interesse. Forse è davvero soltanto un libro sbagliato. Ma che cosa ci avrà visto l’autore? O non sarà solo la presunzione che ciò che è struggente per lui (come i ricordi d’infanzia) lo debba essere naturalmente per tutti? Insomma, un peccato di narcisismo del poeta; oppure, viceversa, la semplice incompetenza del lettore?
E poi: è questo il brutto? Non la semplice inconsistenza, ma l’inconsistenza di qualcosa da cui ti aspettavi una certa consistenza. Eppure non mi viene nemmeno da dire che è brutto, questo libro. Piuttosto, non è, non c’è, almeno per quanto mi riguarda.
Roman Jakobson ebbe a dire, parlando della poesia, anzi della funzione poetica, che ”la funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione” (Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli 2002, p. 189). Che sarebbe come dire che, nella costruzione del linguaggio poetico l’equivalenza o la similarità tra gli elementi – parole o sintagmi che siano – possono prevalere sulle regole stesse della successione dettate dalle esigenze sintattiche e narrative. Per cui, ancora in Jakobson, “in poesia l’equazione serve a costruire la successione” (ibidem, p. 192). Per esempio, una parola può essere scelta più per esigenze di rima che per esigenze di chiarezza espositiva e questo può andare benissimo perché la chiarezza espositiva è al massimo un fine marginale della poesia, mentre molto più centrale è il tentativo di creare una rete di rimandi (fonetici, prosodici, semantici…) che si sovrapponga alla sequenza lineare del discorso narrativo o espositivo, sovradeterminandola, ovvero caricandola di ulteriore e ulteriore senso. Certo la condizione ideale è quella in cui la parola-rima viene scelta così magistralmente da apparire anche come la parola migliore per esprimere il senso – ma a volte anche l’evidenza di una leggera forzatura può aggiungere interessanti sfumature di senso.
Perché parlo di funzione poetica proprio qui? Guardate questa tavola dal Little Nemo di Winsor McCay:
oppure quest’altra (famosissima):
Non è difficile accorgersi che la forma complessiva della tavola non dipende soltanto dalle esigenze espressive della narrazione. Nella tavola del 1907, per esempio, la coincidenza di posizione e forma tra le colonne della seconda striscia e gli alberi della terza è narrativamente irrilevante; cioè, per quanto riguarda le esigenze di un’efficace narrazione, non ve ne sarebbe alcun bisogno. In quella, sopra, del 1906, c’è una prima striscia in cui dominano le orizzontali, una seconda le diagonali discendenti verso destra, e una terza in cui dominano le diagonali discendenti verso sinistra (linee prospettiche incluse): anche qui questa articolata costruzione non sarebbe necessaria all’efficacia del racconto…
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Nel frattempo c’è stato Ex.it Materiali fuori contesto, ad Albinea, e questo porta nuova acqua al discorso dei post precedenti (sono gli ultimi tre – oltre a questo – sotto il tag identità). Nel corso del dibattito sugli spunti critici sono intervenuto due volte.
La prima volta riprendevo uno spunto di Paolo Giovannetti che esprimeva (tra altre interessanti considerazioni) una qualche stanchezza per una poesia che abbia sempre bisogno del supporto della critica (che interpreti e spieghi) per arrivare al suo pubblico. Mi è venuto da dire che non è così dappertutto. Non, per esempio, nel mondo di lingua spagnola, specie in America Latina, dove ci sono addirittura paesi, come il Nicaragua, in cui la poesia ha più lettori del romanzo. Mi verrebbe semmai da dire che l’Italia, con altri paesi europei, rimane vittima dell’osservazione di Adorno, per cui non potrebbe più esistere un’arte innocente, e non tanto perché c’è stata Auschwitz (come in una sua prima affermazione) quanto perché è la stessa struttura della produzione estetica di massa a renderla impossibile. Proprio per questo l’arte (tra cui evidentemente la poesia) sarebbe condannata a riflettere su di sé (una volta persa l’innocenza) per non diventare inautentica, falsa coscienza, credendo vanamente di poter recuperare un’irrecuperabile innocenza.
Riprendendo poi Paolo Zublena, che aveva contrapposto soggetto e soggettività, dicevo che l’opposizione andrebbe secondo me formulata piuttosto nei termini lacaniani, secondo cui intanto il soggetto è semplicemente il soggetto dell’inconscio, e quindi qualcosa che vive già in una dimensione pubblica, sociale (trovando la sua differenza specifica non in una identità autocosciente, ma semplicemente nel diverso modo in cui in ciascuno si organizzano specificamente delle istanze collettive). In secondo luogo, sempre per Lacan, l’io (il moi) è invece una sovrastruttura alienata, della quale, comunque, non si può fare a meno – e al massimo si può riconoscere la sua natura alienata.
Ma se l’io, pur alienato e sovrastrutturale, c’è, perché inibire alla poesia la facoltà di esprimerlo (fatto salvo che esprime sempre e comunque il soggetto – ma questo in sé non produce lirica)?
D’altra parte io stesso non ne posso più di una poesia che necessiti della critica per essere compresa, e mi piacerebbe tanto poter essere innocentemente lirici. Ma poi, quando guardo i prodotti che cercano di essere davvero tali, in verità mi sento raggelare, tanta è la falsa coscienza (di solito involontaria) che si aggira in loro. Da questa ambivalenza, come si esce? Oppure, da questa ambivalenza è possibile uscire?
Nel secondo intervento citavo inizialmente Alfredo Giuliani (lo cito un po’ troppo spesso, anche in queste pagine) che, nell’Introduzione alla edizione 1965 de I Novissimi, definiva la riduzione dell’io come “l’ultima occasione storica di esprimermi soggettivamente” – un’espressioni in cui vanno notati sia l’io che il soggettivamente, i quali fanno evidentemente riferimento a due entità differenti.
A questo punto, visto che qualcuno aveva parlato di musica, mi è venuta alla mente l’estetica di Eduard Hanslick, ovvero quell’estetica musicale sviluppata a fine Ottocento che ha fatto piazza pulita dell’idea romantica della musica come espressione delle emozioni e dei sentimenti dell’io, sostenendo non tanto che la musica non possa esprimere emozioni e sentimenti, quanto che non ha nessuna necessità di farlo, e può essere interessante anche senza esprimere alcunché. Non è un formalismo, come pure molti l’hanno interpretato, perché, anche se l’espressione non è più il cuore del problema, alla musica viene riconosciuta la possibilità di provocare in chi l’ascolta emozioni e sentimenti (indipendentemente dal fatto che sia o meno espressione delle emozioni del suo autore). L’accento, insomma, si sposta sulla ricezione e sugli effetti di senso prodotti dal testo musicale.
L’estetica di Hanslick è stata importante al punto da generare la pittura astratta, poiché Wassily Kandinsky ne era un appassionato lettore, ed è dall’idea di un’arte non figurativa (come la musica) in grado di produrre reazioni estetiche nel suo fruitore che può nascere quella di una pittura non figurativa che funzioni al medesimo modo. Nel mondo della poesia italiana sembra che, almeno sino agli anni Sessanta, non venga in mente a nessuno che la poesia potrebbe non essere letta come espressione del proprio autore; e anche dopo quella data le contrapposizioni sono ambigue. Per esempio la stessa espressione di Giuliani riportata qualche riga sopra sembra tradire una necessità di – comunque – esprimersi soggettivamente, per quanto con forme nuove e meno fruste.
Con un bel cambio di prospettiva, potremmo assumere oggi radicalmente la posizione di Hanslick e sostenere che la relazione tra testo poetico e soggettività (che in gioco sia il soggetto – quasi collettivo – dell’inconscio, oppure l’io alienato) è del tutto irrilevante, perché l’io è in poesia comunque un effetto testuale, la cui presenza è giustificata o meno dalla coerenza con il resto del discorso. In altre parole, l’io potrà essere assente o viceversa dominante, purché questo sia coerente con il resto della costruzione, e il testo produca su di me lettore qualche effetto emotivo interessante (dove emotivo va inteso nel senso più ampio possibile, che non esclude affatto l’emotività di natura intellettuale; e però nemmeno, d’altra parte, quella più istintiva e animale).
Se assumiamo questa posizione che privilegia l’effetto sul lettore, tutta la problematica della riduzione dell’io, o dell’espressione della soggettività appare ridursi sin quasi a scomparire, e con essa scompare anche il dilemma (l’ambivalenza) di cui parlavo alla fine del mio primo intervento. Questo ad Albinea non sono arrivato a dirlo, come non sono arrivato a dire le conclusioni a cui giungerò di qui in poi. Insomma, in questa prospettiva, soggettività o oggettività, espansione lirica o riduzione dell’io appaiono semplicemente come strumenti retorici per produrre effetti di senso (o effetti emotivi, il che non è molto diverso), strumenti a disposizione del poeta per la propria operazione di costruzione.
Attenzione! Questo non comporta che il testo poetico non possa più essere un testo spontaneo, dovendo piuttosto essere sempre progettato a tavolino con grande consapevolezza degli effetti di senso. A parte che l’idea stessa di spontaneità è un’espressione del pregiudizio romantico secondo cui la poesia sarebbe espressione dell’io – e perdere spontaneità sarebbe ridurla a calcolo. La dimensione progettuale, calcolata, non è in verità né implicata né esclusa da una visione della poesia che privilegi l’effetto sul lettore. Il poeta potrebbe anche aver scritto di getto, cercando di affiatarsi con lo Zeitgeist, e limitando l’intervento ragionato a qualche limatura successiva: questo, a priori, non renderebbe la sua poesia più soggettiva (e nemmeno più oggettiva, peraltro). Oppure potrebbe aver progettato tutto, come dichiarò Edgar Allan Poe (il più romantico dei Romantici) a proposito del suo poemetto The Raven.
Questa conclusione non coincide con quella del post di lunedì scorso, ma è comunque coerente o compatibile con quella. Là si riconosceva che la sensazione di presenza del noi (o di riduzione dell’io) è un effetto della qualità poetica, e non una sua causa o ragion d’essere. Qui si sostiene che si tratta di un effetto di senso del testo, non la testimonianza di un atteggiamento emotivo dell’autore. Certo, di per sé, la sensazione, prodotta dal testo, di presenza del noi (o di riduzione dell’io) non basta a garantirne la qualità; mentre una buona qualità del testo poetico, anche quando basata sulla costruzione di un effetto di presenza dell’io, richiama comunque la presenza del noi – perché trascende la dimensione semplicemente individuale.
Mi viene da dire, insomma, che il dibattito sulla riduzione dell’io, e sulla lirica e il suo eventuale oltrepassamento o negazione, è in verità basato su un equivoco tardoromantico, quello che Giuliani perdura parlando di “esprimersi soggettivamente”. Se l’io che si esprime attraverso un componimento poetico viene considerato soltanto come un effetto di senso testuale (e non come rappresentazione o testimonianza del poeta), che bisogno c’è di discuterne la legittimità? Sarà legittimo se retoricamente funziona; e sarà legittima la sua assenza se funziona quella.
Mi domando come ho potuto non accorgermene prima. In altri campi sostengo questa tesi da anni. Sembra che in poesia il dibattito dominante mi abbia accecato, mi abbia condotto nel suo alveo senza lasciarmi alternative se non quelle previste dei termini stessi del dibattito: ma sono i presupposti di questi termini ad essere sbagliati, e il dibattito stesso di conseguenza non lascia uscite.
Tornando alla falsa coscienza che emergerebbe da tanta (non tutta) poesia “innocente” o “ingenua”, certo anche quella è un effetto di senso, non c’è dubbio, e pure un pessimo effetto di senso. È naturale perciò che mi faccia raggelare.
Il discorso è incominciato qui, e proseguito qui, ma le domande non sono finite. Se assumiamo il soggetto come costruito dall’ambiente, e l’io come sovrastruttura alienata, nonché la scoperta di tutto ciò in un percorso filosofico che va da Peirce e Nietzsche, attraverso Freud, sino a Lacan e oltre, ci apparirà ancora più strano che la poesia della modernità, dall’Ottocento in poi, si sia caratterizzata attraverso un crescente dominio proprio dell’io.
Non è solo il Romanticismo a esaltare l’io. Lo stesso imporsi del verso libero è dovuto alla richiesta di un’espressione meno vincolata da regole, e in grado di utilizzare più liberamente il ritmo come elemento espressivo, anziché come gabbia di riferimento, ovvero metrica, come era stato nella tradizione. Di nuovo, l’espressione riguarda la possibilità dell’io di manifestarsi, come fa notare Guido Mazzoni a pagina 212 del suo Sulla poesia moderna (Il Mulino, 2005) (più ampiamente, della posizione di Mazzoni in merito ho parlato qui):
L’immagine del mondo che la maggior parte delle poesie moderne rinvia al lettore è di tipo narcisistico. Uso questo termine nell’accezione di Christopher Lasch: caratteristica del narcisismo, come istanza psichica e come atteggiamento esistenziale, è l’idea che il piacere, la felicità, il senso della vita non vadano ricercati nel confronto col mondo esterno, nella lotta per la conquista di beni materiali o simbolici, ma in una difesa tenace dell’indipendenza emotiva, ottenuta proteggendosi dalle passioni centrifughe, depotenziando i rapporti con gli altri e cercando di “essere se stessi” o, tutt’al più, di “esprimere se stessi”. Emanano un’immagine del mondo manifestamente narcisista il centro lirico e la periferia occupata dalla poesia pura: nei testi del primo, l’io racconta frammenti di vita personale in una forma carica di espressivismo; nei testi della seconda, l’io cerca di costruire una realtà soggettiva priva di contatti con il modo ordinario di fare esperienza delle cose. Ma anche la poesia dall’andamento narrativo o riflessivo, che pure sembrerebbe avere caratteristiche diverse, non potrebbe esistere senza una forte dose di quell’indecifrabilità che è il primo segno della chiusura egocentrica, come dimostra il fatto che due secoli di long poem antilirico non siano riusciti a scalfire, nel senso comune dei lettori, l’idea che il genere mimetico della letteratura moderna sia il romanzo, e non la scrittura in versi.
L’obiezione di Mazzoni investe assai più della “maggior parte delle poesie moderne”. Se assumiamo che “l’indecifrabilità” sia davvero “il primo segno della chiusura egocentrica”, anche buona parte della cosiddetta poesia di ricerca, compresa la Neoavanguardia e l’oggettivissimo Balestrini, finiranno a far la parte del narcisismo. Non vedo bene che cosa davvero ne possa restare fuori.
D’altra parte, uno degli aspetti che caratterizzano la modernità in generale, almeno in Occidente, è proprio la crescita del senso dell’io, narcisismo incluso. Una buona obiezione consisterebbe allora nel far notare che una poesia che esprima il proprio tempo non può esimersi dall’esprimere l’io, narcisismo alienato (alla Lacan) incluso. La (parziale) contro-obiezione sarebbe allora: d’accordo, la poesia dovrebbe sì esprimere l’io e il narcisismo, ma dal punto di vista di una consapevolezza del suo stato alienato. In alternativa, la poesia può anche esprimere altro dall’io, ma stando bene attenta a non reintrodurre attraverso le forme dell’espressione quello che tiene sotto controllo nelle forme del contenuto.
Non so. Ho l’impressione che da questa strettoia non si esca, e che il vicolo sia cieco. D’altra parte è lo stesso Lacan a definire sì l’io come un’alienazione, ma ammettendo insieme il fatto che si tratta di un’alienazione necessaria; ovvero che della sovrastruttura dell’io non possiamo in realtà fare a meno. E se non ne possiamo fare a meno nella vita, come potremmo farne a meno in poesia? Tanto più quando la poesia deve esprimere una realtà, la nostra, in cui l’io narcisistico è forte.
Proviamo allora a ribaltare i termini, e a pensare che quello che conta non sia tanto togliere di mezzo l’io, ma metterci dentro la comunità, rappresentare, o meglio esprimere la comunità. Uno dei ruoli della metrica nella poesia tradizionale era proprio quello di rappresentare la comunità, attraverso delle convenzioni diffuse di cantabilità, o attraverso l’implicita ritualità che la metrica tradizionale comporta. Peccato che la riproposizione della metrica tradizionale non funzionerebbe, oggi – se non dove la cantabilità è cruciale, ovvero ai confini della poesia, o appena fuori, cioè nella canzone musicale! Non funzionerebbe perché oggi quella metrica non ci rappresenta più, se non in casi molto particolari, o come parodia.
In questa prospettiva, non si tratterebbe più di ridurre l’io, tanto per citare il solito Giuliani, quanto di espandere il noi. La riduzione dell’io può essere una conseguenza di questa espansione del noi, ma può anche non esserlo, e l’io può benissimo far parte del noi. Insomma, non dobbiamo concentrarci sull’esclusione dell’io; perché non è quello il punto cruciale. Se l’attenzione è sul noi, l’io risulterà comunque inquadrato criticamente.
Ma che cosa vuol dire espandere il noi, o porre l’attenzione sul noi, in poesia? Una strategia a basso costo si chiama poesia civile: il noi ne è l’oggetto esplicito del discorso. Si tratta di una strategia a basso costo perché è anche, di per sé, a basso rendimento. Quello che rende affascinante i versi di Fortini, o quelli di Pasolini, non è il fatto che parlino di temi politici, ma il modo in cui lo fanno – e, per esempio, la particolare attenzione alla problematica metrica, alla ricerca di una strategia di identificazione con il collettivo. La maggior parte della poesia civile che si scrive oggi serve sostanzialmente a lavare la coscienza dei suoi autori: al di là del tema sociale, il narcisismo e i luoghi comuni la attraversano continuamente.
Rendere la poesia oscura, di difficile lettura, è un modo per nascondere il narcisismo e i luoghi comuni che a un occhio più attento non risultano affatto nascosti. Certo, così come non tutta la poesia civile è paccottiglia, nemmeno tutta la poesia oscura e difficile lo è; ma almeno la prima ha un noi come riferimento, ma la seconda? (giusto per dare qualche riferimento, nella poesia oscura e difficile non metterei nessuno del gruppo dei Novissimi, né ci metterei Adriano Spatola o Corrado Costa, ma ci starebbero benissimo vari epigoni della neo-avanguardia – come peraltro gran parte dell’ermetismo) In ogni caso, l’oscurità non è in sé un peccato mortale: solleva, però, dei legittimi sospetti. La poesia ha diritto di essere incomprensibile, anche se non è proprio opportuno che lo sia.
Forse abbiamo di nuovo bisogno di un ribaltamento di prospettiva. Vedendo le cose in un altro modo, forse quando la poesia funziona, quando è buona, quando possiamo definirla bella, è proprio quando è riuscita ad attingere alla dimensione del noi, comunque abbia trattato l’io. Se la poesia è buona, è perché ci possiamo identificare in lei; è perché esprime qualcosa che riguarda tutti, che siamo uno per uno (in quelli che ci paiono i nostri privati sentimenti) o che siamo tutti assieme.
In questo ribaltamento di prospettiva, allora non ha più senso cercare la ricetta per espandere il noi. Il noi si espande quando la poesia è buona, e non c’è una ricetta per questo. Ci sono corsi di scrittura, suggerimenti d’azione (tra cui l’aver letto tanta poesia di altri), dibattiti anche feroci: tutte cose utili, ma nessuna determinante.
Se questo è vero (e il se è d’obbligo), allora non serve la riduzione dell’io come programma, non serve la poesia civile come tema esplicito, non serve il sovvertimento della sintassi come tecnica. Sono possibilità che alla poesia restano (cioè non vanno escluse) ma è inutile utilizzarle programmaticamente, cioè come elementi della propria poetica di autore. La lezione di Peirce e Nietsche, Freud e Lacan, è recepita dalla poesia quando la sentiamo come collettivamente importante, non quando percepiamo l’espressione appassionata dell’io – la quale ci potrà anche essere, ma non è di per sé quello che conta. Non ha senso essere contro la lirica, ma nemmeno essere per la lirica; che una poesia sia lirica o meno è irrilevante per il giudizio se sia o meno una buona poesia. In questo senso siamo oltre la lirica.
Quanto ai confini del noi, io sto con Gregory Bateson (altro nome da aggiungere alla lista di cui sopra): non solo la comunità in cui viviamo è noi, non solo l’umanità, non solo la natura vivente.
Mi sono ritrovato a pormi una strana domanda, una di quelle che di solito non ci si pone perché le cose stanno così e non sentiamo un particolare desiderio di cambiarle – e di quello che per noi è normale, come ci insegna Wittgenstein, nemmeno ci accorgiamo più. In questo caso la domanda riguarda proprio ilperché le cose stiano così, e perché non sentiamo il desiderio di cambiarle, se non occasionalmente, in circostanze particolari o visibilmente eccezionali. A queste circostanze particolari appartengono i tre esempi che ho voluto mostrare qui.
Il problema, evidentemente, riguarda il lettering, e la domanda è: perché, con poche eccezioni, il lettering nel fumetto è da sempre così standardizzato? Certo, vi sono varianti individuali (come quello, bellissimo e personalissimo, di Dino Battaglia), però, all’interno di quella variante la standardizzazione agisce di nuovo. Perché, insomma, non si usano le innumerevoli varianti grafiche della scrittura che pure sarebbero possibili e facili da produrre per caratterizzare gli aspetti espressivi delle parole dei personaggi, che pure saranno espresse con qualche tono emotivo nel mondo rappresentato? Visto che, giustamente, il bravo disegnatore caratterizza le espressioni del viso e del corpo a seconda del tono emotivo del personaggio, perché mai (con rare eccezioni) il bravo letterista non fa lo stesso con le parole dei suoi balloon?…
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Nel post di lunedì scorso parlavo della visione del soggetto come costruzione di segni, un interno che in realtà è un esterno, nonché dell’io, o autocoscienza, come una sovrastruttura di questo soggetto, in cerca di un’impossibile auto-coerenza. Citavo al proposito Peirce e Lacan, ma poi potrei citare anche altri, più vicini a noi.
Questa visione del soggetto e dell’io si oppone, evidentemente, a quella antica e a quella cartesiana, che, in vario modo, contrappongono una res extensa, il mondo, la natura, a una res cogitans, l’autocoscienza, la mente. Questa dicotomia non esiste: la boutade di Rimbaud, “Io è un altro”, è preoccupantemente vera. Essere alienati, per Lacan, è non rendersene conto, e pensare di possedere davvero un’arena interna di cui si è padroni.
Ora la domanda è: la poesia può, o magari deve, recepire questa posizione rispetto all’io? Che senso ha parlare di lirica, cioè di espressione dell’io, se l’io è un’illusione? E chi ancora scrive lirica sta davvero sbagliando tutto? Oppure in che senso ha ancora senso scrivere lirica? Quando Alfredo Giuliani parlava di riduzione dell’io (come “l’ultima possibilità storica di esprimermi soggettivamente”) stava parlando di questo?
Proseguendo con le perplessità. La posizione di Peirce e Lacan non è storica. Il soggetto è sempre stato una costruzione, anche al tempo di Saffo. Questo vuol dire che la lirica greca è uno sbaglio? Presumibilmente no. Saffo scriveva, ovviamente, basandosi sulle convinzioni del suo tempo. Ma per noi, oggi, che lo sappiamo, allora la lirica è uno sbaglio? E se un poeta non ha studiato filosofia, e non sospetta nulla di tutto questo, continuando a crogiolarsi nella dominante vulgata cartesiana, è già solo per questo un cattivo poeta? Presumibilmente no, ma forse sarà un poeta un po’ anacronistico, o forse ci lascerà la facoltà di interpretarlo come se scrivesse da dentro l’illusione, come se potessimo ancora crederci davvero.
E cosa vuol dire, oggi, scrivere poesia essendo consapevoli della relatività del soggetto, e della superficialità alienata dell’io? C’è una forma specifica di questa post-lirica?
Aggiungiamo che, se l’io è un’illusione, allora si tratta di un’illusione progressivamente sempre più dominante in Occidente, di cui tutti in misura maggiore o minore, siamo vittime, anche quando dell’illusione siamo consapevoli. Una poesia che agisca dentro l’illusione, rendendone conto, ma senza consapevolezza del suo essere tale, sarà accettabile? Oltre certi limiti è certamente anacronistica, come dicevamo sopra (il che non significa, di per sé, che sia cattiva poesia); ma parlare dell’io è comunque anacronistico? Forse se la poesia ci permette di essere letta come se (nei termini di cui sopra) allora l’anacronismo scompare, o almeno si riduce?
Certo, gran parte della lirica del passato appare, se vista con questi occhi, ingenua. Ma tale, se ci leviamo il paraocchi dell’adorazione feticistica del passato, ci appare anche la statuaria della Grecia antica. Ma questo non toglie nulla alla grandezza di Fidia, che va comunque valutato pensando al suo tempo, e non si può trasfondere così com’è nel nostro. Ne era ben consapevole persino Antonio Canova, le cui capacità tecniche sono paragonabili a quelle di Fidia, e che viveva in un’epoca in cui riproporre il classicismo aveva senso; ma Canova sapeva benissimo che una bella statua neoclassica andava comunque interpretata in un modo differente da una bella statua classica – e che parte della differenza stava proprio nella perdita irreparabile di un’ingenuità.
Sul soggetto, oggi, non siamo più ingenui. Possiamo perdonare i poeti che continuano ad esserlo? E se possiamo, in che misura li possiamo perdonare? Certamente non del tutto. L’ignoranza, almeno in qualche misura, va pagata.
(altre riflessioni, di tono un po’ diverso, ma sullo stesso tema, si trovano qui)
Ho partecipato, la scorsa settimana (2-4 ottobre) a un convegno su Charles Sanders Peirce, a Bologna, tenuto in occasione dei cento anni dalla morte. Peirce è stato un filosofo straordinario, non solo perché ha fondato la semiotica nei saggi intorno al 1868 (quando non aveva ancora trent’anni), e il pragmatismo (poi da lui ribattezzato pragmaticismo perché non gli piaceva la piega che aveva preso nella vulgata e in William James). Nei saggi di Peirce la semiotica nasce con una vena profondamente anticartesiana, in cui non solo perde ogni senso la distinzione tradizionale tra mente e natura (interno ed esterno della coscienza definita dal cogito), ma la mente stessa diventa un concetto naturale, costruita da un sistema di segni che è già nel mondo.
Recentemente ho letto molto Lacan, scoprendovi con sorpresa un sacco di nozioni familiari, anche se spesso chiamate con nomi non familiari. Andando a cercare, su questa base, tracce di Peirce in Lacan, con mia iniziale sorpresa ne ho trovate parecchie, di cui molte assolutamente esplicite, a partire dal Seminario del ’61-62. Facendo un po’ di conti, anche a partire dagli anni di pubblicazione dei Collected Papers, si può ipotizzare che Lacan abbia letto Peirce nei tardi anni Cinquanta, quando già diversi elementi essenziali della sua teoria erano assestati, ma altri ancora dovevano venire.
La teoria del soggetto diviso, dell’io (moi) come fenomeno di superficie, e dell’inconscio strutturato come linguaggio erano già state sviluppate prima dell’incontro con Peirce, ma nel momento in cui l’incontro avviene Lacan trova in Peirce tutte le premesse che gli mancavano, essendosi basato sino ad allora sulla semiologia saussuriana e sul suo sviluppo strutturalista. La famosa formulazione “Il significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante” è chiaramente un calco dalla definizione peirceana di segno, e rimane oscura sino a quando non si prova a costruirla graficamente in maniera analoga a come normalmente si costruisce la fuga degli interpretanti in Peirce.
Ecco qui a destra il diagramma per Peirce:
Un representamen (cioè un segno) rimanda al suo oggetto solo attraverso la mediazione di un interpretante, il quale si trova a sua volta nella posizione del representamen iniziale e ha bisogno di un nuovo interpretante, per il quale vale la medesima necessità. Si genera in questo modo una fuga degli interpretanti, virtualmente infinita, ma che ha di fatto termine solo nella prassi (nel formarsi di un abito, ovvero di una disposizione al comportamento, dirà Peirce).
Ora, sostituiamo in questo diagramma i termini lacaniani a quelli peirceani, e scriviamo significante là dove c’è scritto representamen o interpretante, e scriviamo soggetto là dove c’è scritto oggetto. Così come in Peirce abbiamo l’immagine di un oggetto a cui di fatto la significazione non arriva, perché è sempre mediata dal passaggio a un altro interpretante, allo stesso modo avremmo in Lacan l’immagine di un soggetto a cui non si arriva (a cui l’analista non arriva) perché qualsiasi significante gli possa rimandare va comunque interpretato alla luce di un altro significante, e così via. Di fatto, il soggetto lacaniano è tutto costruito, per la sua determinante parte simbolica, da questa fuga dei significanti, e per Lacan il soggetto è l’inconscio, mentre l’autocoscienza è un ulteriore sovrastruttura, peraltro illusoria. Il reale lacaniano appare inoltre molto vicino al ground peirceano (per non dire di altro, su cui non scriverò qui).
Lacan è erede di una tradizione fenomenologica (quella husserliana-heideggeriana) diversa da quella peirceana, in cui il soggetto non si trova così dissolto. Lacan cresce tuttavia in una cornice anche hegeliana, in cui invece l’idea di un soggetto come epifenomeno è già presente. Anche Peirce ha un retaggio hegeliano, e sviluppa una propria fenomenologia (che lui chiamerà faneroscopia). Con presupposti simili, Lacan sviluppa quindi originalmente una serie di concetti che sono convergenti con quelli peirceani, sino a quando non incontra una fenomenologia diversa da quelle europee, in cui il soggetto è già implicitamente dissolto, e sono presenti da lungo tempo diverse delle sue scoperte (non tutte, certo).
Questo è parte di quello che ho raccontato al convegno di Bologna, con altre osservazioni sul Faust di Goethe (che su questo blog erano già comparse qui, e poi di nuovo qui, questa volta sviluppate in un discorso sulla poesia) e ancora altre su Gregory Bateson, che mostrano a loro volta come nemmeno l’idea peirceana che la semiosi sia già presente in natura sia una posizione metafisica, bensì a sua volta fenomenologica. Insomma, una fenomenologia senza soggetto, inquietante e affascinante.
Nel febbraio 1905, quando il cinema era ancora una specie di teatro su pellicola, uscito fresco fresco dalla testa di Méliès, e ancora qualche anno prima di diventare lui stesso uno dei protagonisti di quella rivoluzione narrativa, Winsor McCay si permise di anticipare una delle sue grandi potenzialità. C’è infatti una tavola del Dream of the Rarebit Fiend (Sogno del patito di fonduta al formaggio) interamente in soggettiva. Eccola qui:
Il cinema era ancora lontano da questa intuizione. In quegli anni era ancora lontano persino dall’alternanza di inquadrature come principio narrativo fondamentale. Il fumetto era ancora (e per molti anni sarebbe sostanzialmente rimasto) fumetto comico, a cui l’inquadratura a figura intera (o giù di lì) è in generale sufficiente. In pittura erano certamente presenti mezzibusti e facce, ma il tema del punto di vista dell’immagine non era tra quelli caldi e particolarmente discussi. Era semmai in fotografia che la tematica dell’inquadratura aveva già un senso forte….
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6 Ottobre 2014 | Tags: Dino Campana, enjambement, poesia | Category: poesia | Con l’enjambement, una clausola che noi sentiamo unitaria, da dire tutta di seguito, si trova divisa dall’acapo di fine verso. La clausola può essere sentita come unitaria perché ci sono un sostantivo o un aggettivo solitamente legati, perché c’è un nome preceduto da un dimostrativo o addirittura da un articolo, perché c’è una negazione seguita da un verbo o da un sostantivo, e così via. Oltre a questo modo di classificare gli enjambement, se ne può ipotizzare un altro, a seconda dell’effetto che si produce.
In questa prospettiva, ci sono due tipi di enjambement, a seconda che la prima parte della clausola separata abbia senso anche da sola (rivelando solo alla lettura del seguito la propria parzialità), oppure che l’irrisoluzione della clausola sia evidente da subito. Li chiameremo, rispettivamente, Tipo 1 e Tipo 2. Posso usare, per semplicità (mia) dei miei versi per esemplificare (presi da qui):
……sono dentro la foglia, ora, in questo
……microcosmo di peluzzi appetitosi,
……in questo verde grande, dappertutto,
……smeraldino, colmo così di luce,
5….mi muovo con prudenza, sorseggiando
……gocce micrometriche d’umore,
……preparandomi al primo grande morso,
……il primo affondo
……della mia fame all’universo, il primo
10…bacio al mondo, il primo essere
……quello che sono, e, da adesso in poi,
……che mangio
L’enjambement del verso 1 è di Tipo 2, perché la parola questo richiama con forza qualcosa che immediatamente la segua, e sempre di Tipo 2 è quello del verso 9, perché c’è un aggettivo (il primo) che aspetta un sostantivo. Sono di Tipo 1 invece gli enjambement dei versi 5, 8 (deboli) e 10 (forte).
Spesso gli enjambement di Tipo 1 sono più deboli di quelli di Tipo 2, ma non è sempre così. Al verso 10, per esempio, l’espressione il primo essere ha senso compiuto anche da sola, intendendo essere come un sostantivo (come a dire la prima creatura), ed è solo dopo l’acapo che se ne rivela la natura verbale e il legame tra copula e parte nominale del predicato.
Tutti gli enjambement danno rilievo all’espressione che si trova accavallata. In quelli di Tipo 2 la prima parte viene sottolineata dalla propria singolare incompletezza, e la seconda parte dall’attesa prodotta dal cambio di verso (attesa che normalmente non c’è). Ma il funzionamento degli enjambement di Tipo 1 è diverso, perché quando arriviamo alla fine della prima parte non abbiamo ancora notato niente di particolare, e il rilievo è quello consueto di fine verso. E’ con la scoperta all’inizio del verso successivo che ci accorgiamo di dover reinterpretare il tutto, e il rilievo (molto forte perché scaturito da una sorpresa) finisce per scaricarsi principalmente sulla seconda parte, visto che la prima è già trascorsa.
Poiché frequentemente gli enjambement di Tipo 1 sono deboli, il rilievo che si scarica sull’inizio del secondo verso finisce per essere normale; ma quando l’inarcatura è forte il rilievo sarà fortissimo.
Vediamo adesso questi versi di Dino Campana, da Viaggio a Montevideo:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Qui abbiamo, a prima vista, un enjambement di Tipo 1, piuttosto forte. Le cavalle potrebbero stare anche da sé, ma l’aggettivo vertiginose le qualifica strettamente, e lo si scopre immediatamente legato, ricevendo un fortissimo rilievo (oltre al fatto che la parola è già forte e lunga di per sé). Tuttavia, continuando nella lettura, questa interpretazione non quadra, e alla fine ci si rende conto che la frase andrebbe parafrasata così: “e vidi che le dune si scioglievano vertiginose come cavalle”. Sono cioè le dune nel loro sciogliersi a essere vertiginose, e non le cavalle.
Di conseguenza, l’enjambement, a rigore, non c’è. Ma l’attrazione tra cavalle e vertiginose resta forte, ed è forte anche l’iperbato, che dà un rilievo fortissimo a tutta l’espressione, perché, da un lato, la sorpresa della costruzione sintattica reale è molto forte, e, dall’altro, perché le inversioni concentrano tipicamente il rilievo sulle clausole che vengono posticipate: qui, e in crescendo, si scioglievano le dune. Aggiungete l’allitterazione insistita sulla v e sulle liquide (vidi, cavalle, vertiginose, scioglievano) che si ripete regolarmente (quasi ossessivamente), e avrete la formula di questa straordinaria coppia di versi.
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