Del pennello di Raymond e della resa a stampa

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio. Edizione Comic Art 1992

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio. Edizione Comic Art 1992

Ecco di nuovo il nostro Maciullatore, questa volta dalla striscia di Rip Kirby del 2 novembre 1946. Siamo nell’ultima striscia di una storia. Il nostro villain, dato poco prima per morto, riemerge dall’acqua e viene salvato da una nave con destinazione Sudafrica, buono per la prossima riapparizione, ma per il momento fuori gioco.

Ho scansionato questo dettaglio dall’edizione da edicola realizzata da Comic Art, pubblicata nel 1992. La potrei trovare anche una bella immagine, magari un po’ scura, se non avessi sotto mano il confronto con l’originale, che potete vedere qui sotto, alla fine del post – scansionato dalla tavola di Alex Raymond conservata presso il Fondo Gregotti. (Ho giocato un po’ di luminosità e contrasto con Photoshop, giusto per rendere bianco il fondo, e per scurire appena quei neri che nell’originale non sono pieni ma nella stampa lo diventerebbero: insomma, in modo da simulare l’effetto di una resa a stampa di buona qualità)

Non vi pare che la differenza sia impressionante? Confrontate gli occhi, o il naso, e il modo in cui – per esempio, le piccole ombreggiature tratteggiate dell’originale diventano una linea spessa di nero nella copia. L’edizione Comic Art è anche leggermente deformata: a parità di altezza, è un poco più stretta. Ma questo sarebbe davvero un peccato veniale, al confronto dello scempio a cui risultano sottoposte le pennellate affilate e intensamente modulate di Raymond, che finiscono per trasformarsi in un blob di melassa d’inchiostro, dove tutte le estremità sono arrotondate, e dove tutte le linee sottili diventano spesse, non di rado fondendosi con quelle vicine.

Come accade? Non è difficile capirlo: si usa una fotocopia della fotocopia di una fotocopia. Spesso con i fumetti storici non ci sono molte alternative; e per un’edizione a basso costo le alternative, anche quando ci sono, non sono economicamente percorribili.

La cosa che stupisce è che Rip Kirby resta molto godibile persino in queste condizioni di stampa; segno che la qualità del disegno non è fatta solo di finezze, ma anche di costruzione plastica complessiva – e quella, nonostante tutto, rimane. Però sarebbe come se, nel leggere un romanzo tradotto da un’altra lingua, l’editore italiano avesse tolto tutti gli aggettivi e tutte le descrizioni di contorno, lasciando solo quello che è essenziale per capire ambientazione e trama. Magari si legge lo stesso. Magari lo si apprezza lo stesso. Però si ignora davvero tutto quello che è andato perduto, e quanto più gratificante sarebbe stato leggerlo nella versione completa!

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio dall'originale

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio dall'originale

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Di Alex Raymond e del suo pennello

Alex Raymond, Rip Kirby, 3 maggio 1956

Alex Raymond, Rip Kirby, 3 maggio 1956

Quello che vedete qui a fianco è un dettaglio della striscia del 3 maggio 1956 di Rip Kirby, disegnata da Alex Raymond. Il personaggio raffigurato è the Mangler, o il Maciullatore, un sinistro villain ricorrente nella serie. L’immagine è stata scansionata direttamente dall’originale dell’autore, conservato presso il Fondo Gregotti.

Non è stato Raymond a introdurre l’uso del pennello tra i disegnatori americani di fumetti. L’onore va a Noel Sickles, compagno di viaggio e di lavoro di Milton Caniff. Sickles abbandona l’universo del fumetto nel 1936, subito prima che lo stile grafico adottato da lui e Caniff faccia epoca, per diventare lo stile con cui vanno disegnati i fumetti d’avventura in America. Ma nessuno, nemmeno Caniff stesso, o Will Eisner, è arrivato alla padronanza che Raymond ci mostra con questo strumento negli anni di Rip Kirby, e in particolare in questa immagine.

Certo, non è necessariamente tutto opera del pennello, quello che stiamo vedendo. Molti tratti sottili, specie nella zona del viso, potrebbero essere stati tracciati con un pennino – che meglio si presta a ottenere certe spigolosità dinamiche, che caratterizzano tutto il disegno di Rip Kirby (esattamente al contrario di quello che succedeva qualche anno prima con Flash Gordon). Ma poi, anche parecchi tratti sottili da pennino sono stati rafforzati col pennello, per dare più incisività alle ombre – come nella linea del profilo, che dal sopracciglio destro scende al naso e alla bocca.

E comunque, l’effetto drammatico di questa costruzione monumentale, enfatizzata dall’inquadratura con il punto di vista ribassato, è tutto giocato sulle grandi pennellate nere dell’abito e della manica, che creano l’effetto di luce radente, il quale a sua volta permette di vedere il personaggio come colto da una luce violenta e improvvisa mentre emerge dall’ombra.

Il lettore affezionato di Rip Kirby è in grado di riconoscere immediatamente questa figura sinistra, che è stata al centro già di altre avventure del nostro protagonista, e che – ovviamente – era dato per morto. A dire il vero, questa immagine procura un brivido anche se non sappiamo chi è il personaggio rappresentato; tanto più lo farà dunque, quando lo sappiamo.

Ci sono due punti di forza, in questa figura. Uno è ovviamente il viso, che si vede. L’altro è la mano, nascosta nella tasca, ma messa fortemente in evidenza dal gesto, a sua volta sottolineato dalle pennellate delle pieghe della manica. La tasca nasconde probabilmente qualcosa, magari un’arma, o forse solo una mano capace di colpire. Se seguiamo il percorso della manica, vediamo che c’è una linea con tendenza ovale accennata dalla spalla in alto alla tasca in basso. E, conversamente, se da lì risaliamo tenendoci un po’ più a sinistra, un secondo arco conduce alla zona del bavero e quindi al viso. L’attenzione viene in questo modo portata alternativamente dall’uno all’altro dei due luoghi nodali, attraverso due percorsi, uno, discendente, dalla luminosità al buio; l’altro, ascendente, attraverso il buio sino alla luce del bavero e del viso.

Al centro di quel viso, il Maciullatore sta guardando noi, più in basso di lui. Proprio come nella scena madre di un film hollywoodiano, come in un Terzo uomo decisamente più cattivo dell’originale.

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Di un nudo di Weston

Edward Weston, Nudo, 1934

Edward Weston, Nudo, 1934

Ci sono diversi modi per guardare questa foto di Edward Weston, scattata nel 1934. Si può osservare la composizione, non dissimile da quella di molta pittura astratta che si poteva vedere in quegli anni – quasi un Mondrian curvilineo, o un Malevich con più chiaroscuro. Si può vedere una singolare architettura naturale, una sorta di corta grotta di sasso liscio, con le sue ombre e qualche accenno di passaggio verso il buio delle sue cavità. O si può, ovviamente, vedere un corpo nudo femminile, colto, così da vicino, in un’intimità conturbante, quasi odorosa di pelle.

Ma se si vedono tutte queste cose, poi, non è più possibile separarle. Certo, come nell’esempio classico del coniglio-anatra della psicologia della Gestalt (o di Wittgenstein, a seconda di dove l’abbiamo incrociato), non possiamo vedere le diverse cose contemporaneamente: nello stesso istante, o si vede la pelle o si vede il sasso o emerge la composizione astratta. Tuttavia, se possiamo passare dall’uno all’altro – ed è così che facciamo – è perché queste diverse forme sono tutte contemporaneamente presenti alla nostra consapevolezza. E questo è insieme, per noi, un corpo un po’ conturbante di donna e un gruppo di sassi vicino al mare e una composizione suprematista o funzionalista.

D’altra parte, non solo la bellezza artistica, ma anche l’eros funziona così: qualcosa ci attrae perché è insieme se stesso e qualcos’altro, e produce l’improvvisa sensazione, in noi, di poter avere insieme il corpo e il mito, il piacere e il mondo. Sarà un’illusione, non c’è dubbio. Ma allora la realtà, cos’è?

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Di Jacques Geninasca

Consultando per altre ragioni il sito dell’AISS, apprendo della morte di Jacques Geninasca, avvenuta il 22 maggio a Neuchatel.

Ne sono molto colpito, perché ho conosciuto bene Geninasca e ho più volte discusso di semiotica con lui, anche su sviluppi miei di idee che avevo ricavato da lui. Chi ha letto il mio Nel corso del testo, sa del debito intellettuale che ho nei suoi confronti.

Oltre a essere un semiologo sottile, con cui si discuteva e anche si litigava molto volentieri, era una persona squisita, che sapeva farsi voler bene. A parte le discussioni, ricordo con piacere le cene con lui, e i suoi racconti, e la sua ironia.

Lo si può un poco rivedere in un video a cura di Leonardo Romei qui.

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Di una foto presso Tiruvannamalai

Pianura a Tiruvannamalai

Pianura a Tiruvannamalai, dalla collina di Arunachala

Non sono in grado di esprimere davvero un giudizio su questa immagine, presa dalla cima della collina rocciosa di Arunachala, la “collina dell’alba”, presso Tiruvannamalai, nel Tamil Nadu. Io la trovo bella, ma capisco benissimo che il mio giudizio possa essere ancora fortemente segnato dall’esperienza vissuta in quell’occasione.

Sono circa le nove di mattina. Sulla cima di Arunachala c’è una brezza piacevolissima. Ma sino a pochi minuti prima stavamo arrancando da oltre due ore nel caldo-umido dell’India del Sud, colmando quasi ottocento metri di dislivello dalla pianura sottostante, avvolta in una leggera bruma.

Tiruvannamalai, la città che si stende dall’altro lato della montagna, è un luogo sacro a Shiva (che in Tamil Nadu ha anche nome, appunto, Annamalai), e vuole il mito che la montagna stessa sia non solo un’incarnazione del dio, ma addirittura la prima di tutti i tempi. Per questo, una volta l’anno, si svolge qui un festival a cui accorre oltre un milione di persone, e questa cima di roccia a cui siamo arrivati è interamente annerita dal burro fuso dell’enorme falò che vi viene acceso l’ultima notte – per essere visto da chilometri attorno.

Camminare sopra Arunachala vuol dire camminare dunque sopra il dio Shiva, e per quanto si possa essere lontani dalla religione, la cosa trasmette comunque un certo brivido – anche perché la visione della città sottostante, con il suo tempio enorme – tra i più grandi dell’India – è veramente impressionante.

Paul Klee - Strada principale e strade secondarie, 1929

Paul Klee - Strada principale e strade secondarie, 1929

Ma quando si arriva in cima, e si vede finalmente dall’altra parte, il panorama cambia del tutto, e il mio occhio di Occidentale acculturato non può fare a meno di vedere quello che Paul Klee ha a suo tempo visto magari solo con gli occhi dell’immaginazione.

Per me l’impatto è stato fortissimo, e non riesco più a capire quanto questa foto lo renda, e quanto la parentela con il sogno di Klee ne salti fuori.

Se aggiungiamo che questo stesso dipinto di Klee è anche protagonista di un libro di Pierre Boulez sui rapporti tra Klee e la musica (Il paese fertile. Paul Klee e la musica, Leonardo Editore, Milano 1989) si capirà come il cortocircuito si faccia ancora più stretto e più ricco.

Misticismo e sublime hanno strane vie, talvolta, per manifestarsi.

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Di Dino Buzzati e Guy Peellaert

Buzzati Poema a fumetti pag.174

Dino Buzzati "Poema a fumetti" pag.174

In un bel post del suo bel blog, Thierry Groensteen celebra Guy Peellaert, autore, nel 1966 e 1968 di due albi che appartengono alla storia del fumetto della migliore qualità, gli unici che abbiano davvero portato nel fumetto l’universo dell’immagine psichedelica.

Guy Peellaert "Jodelle" p.34

Guy Peellaert "Jodelle" p.34

Alla fine del post Groensteen scrive:

Si può rimpiangere che questo stile sia rimasto senza un vero seguito. Dino Buzzati ne trae ispirazione per il suo Poema a fumetti. In Spagna, Eric Sió tenta una sintesi tra pop e realismo fotografico. Touïs (Le Sergent Laterreur) inventa il cartoon psichedelico. Al di là di questi sforzi sparsi, nulla o quasi. Il solo erede lontano di Peellaert al quale io riesca a pensare è Alex Varenne, in alcune delle sue composizioni erotiche.

Adesso che Groensteen l’ha detto, mi domando come ho fatto a non vederlo prima. Peellaert pubblica Jodelle nel 1966 e Pravda nel 1968; Buzzati lavora al Poema a fumetti nel 1968 per pubblicarlo poi nel 1969. Aveva certamente visto Jodelle, e probabilmente anche Pravda.

Dino Buzzati "Poema a fumetti" pagg. 74-75

Dino Buzzati "Poema a fumetti" pagg. 74-75

Sicuramente, quello stile fatto di linee semplici e forti e di forti contrasti era già congeniale a Buzzati ancora prima di incrociare Peellaert, come si può vedere dai suoi dipinti; ma non c’è solo quello a tradire l’ispirazione peellaertiana. L’erotismo ostentato e parodiato dei fumetti di Peellaert viene fuori tutto nel Poema a fumetti, in chiave più melanconica e meno dirompente – ma con la stessa carica provocatoria per la cultura bigotta di quegli anni.

Certo Buzzati non aveva la mano di Peellaert, e il suo viaggio nel fumetto era più da appassionato che da professionista. La sua ispirazione era più classica, indubbiamente. Ma Buzzati ci vedeva bene, e capiva dove prendere quello che gli serviva facendone l’uso migliore per i propri scopi.

Non voglio fare altri commenti. Penso che le immagini bastino.

Guy Peellaert "Pravda" pp.28-29

Guy Peellaert "Pravda" pp.28-29

Dino Buzzati "Poema a fumetti" pagg. 210-211

Dino Buzzati "Poema a fumetti" pagg. 210-211

Guy Peellaert "Jodelle" pag.44

Guy Peellaert "Jodelle" pag.44

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Di Mattotti, Andersen e la letteratura per l’infanzia

Mattotti Hänsel e Gretel

Lorenzo Mattotti, illustrazione da "Hänsel e Gretel", Orecchio Acerbo 2009

C’è qualcosa di ironico nel fatto che il premio Andersen di quest’anno sia andato a una fiaba di Jacob e Wilhelm Grimm illustrata da Lorenzo Mattotti. Da un lato, è evidente una certa coerenza nel fatto che un premio intitolato a un autore di fiabe sia andata all’edizione di una fiaba scritta da altri autori di fiabe. Dall’altro, bene ha fatto la giuria del premio a giustificare la propria scelta iniziando con le parole: “Per essere un libro illustrato veramente ‘per tutti’”.

Il premio Andersen è infatti il principale premio italiano per il libro per ragazzi, ma né Andersen né i Grimm né tantomeno Mattotti sono mai stati davvero degli autori per ragazzi. Mi colpisce questo fatto, proprio mentre, riguardandomi il volume illustrato da Mattotti, penso che il premio l’ha davvero meritato – e che va benissimo che il premio sia intitolato ad Andersen, mentre insieme faccio fatica a vederci un prodotto per l’infanzia. “Per tutti” va bene; ma il problema è che andrebbe altrettanto bene per il medesimo Andersen e per i fratelli Grimm, che operavano raccogliendo fiabe e favole avendo in mente un recupero della letteratura popolare come espressione di un’epica, di un mito – con forti caratteristiche nazionali.

Possiamo giustamente lasciar perdere l’aspetto nazionale, e le sue conseguenze nazionalistiche, poiché le fiabe hanno valore indipendentemente da quello. Ma l’epica e il mito sono basilari, e mi conducono a loro volta a un’altra domanda: come mai un’altra epica e un altro mito, quelli greci antichi, non sono mai stati toccati dalla riduzione all’infanzia che ha toccato le fiabe? E non vale rispondere: ma come! si vede che le fiabe sono per ragazzi e i miti greci no! Ma si vede perché questo è ciò che ci hanno insegnato, e siamo cresciuto pensando che questa sia la norma.

Non vale nemmeno la risposta: perché i miti greci hanno Omero, e le fiabe no. Solo alcuni miti greci, di fatto, hanno Omero. Per tanti altri non c’è stato nemmeno un Andersen.

Piuttosto, riflettiamo sul modo in cui i miti greci e le fiabe sono arrivati all’universo della cultura “alta”: da un lato c’è un recupero che è stato cólto fin da sempre, e da sempre legato al fascino degli antichi; dall’altro c’è la scoperta, in secoli recenti, dell’esistenza di una cultura popolare, e il tentativo della sua riabilitazione. Ma questo tentativo, evidentemente, si è scontrato con qualcosa, con un qualche pregiudizio troppo forte da sradicare, e così la letteratura popolare non è stata considerata epos, o mito, ma è stata assimilata alla letteratura per bambini, utilizzando un’equazione implicita del tipo popolare=immaturo.

Al fumetto, guarda caso, nel suo arrivare in Europa, è successa la stessa cosa. Solo in America poteva nascere davvero una forma di letteratura popolare che non venisse immediatamente assimilata alla letteratura per l’infanzia! E questo poteva succedere proprio perché la tradizione cólta americana era ovviamente più debole, meno paludata, più disposta a differenziarsi da quella della madre Europa.

Un secolo è passato da allora, e molte cose sono cambiate. Ma al fondo il pregiudizio rimane, e Mattotti resta, per la cultura “alta”, un autore per l’infanzia, o comunque destinato a un consumo in qualche modo “immaturo”. Il problema non riguarda dunque esclusivamente il fumetto: i pregiudizi nei confronti del fumetto non sono che una delle applicazioni nei confronti di tutto quello che ha radici popolari più prossime – indipendentemente da quanto maturo, raffinato, colto, complesso sia oggi.

A saper guardare le figure di Mattotti sul racconto di Grimm, ci si accorge facilmente di quanto più “alta” sia in realtà questa cultura di quella di tanta letteratura verbale osannata dai giornali e dai media, e che riempie i dibattiti culturali dei nostri giorni.

Ci sono delle eccezioni, ed è interessante valutarle: non è successa la medesima cosa per la musica, per esempio. Perché?

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Della Palus Putredinis

in te dormiva come un fibroma asciutto, come una magra tenia, un sogno;
ora pesta la ghiaia, ora scuote la propria ombra; ora stride,
deglutisce, orina, avendo atteso da sempre il gusto
della camomilla, la temperatura della lepre, il rumore della grandine,
la forma del tetto, il colore della paglia:
………………………………………………..………..senza rimedio il tempo
si è rivolto verso i suoi giorni; la terra offre immagini confuse;
saprà riconoscere la capra, il contadino, il cannone?
non queste forbici veramente sperava, non questa pera,
quando tremava in quel tuo sacco di membrane opache.

.

È morto il vecchiaccio, brutto come Marty Feldman e sgarbato come un vero poeta.
O forse dovremmo mettergli come epitaffio i primi versi della sua carriera:

composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis
riposa tenue Ellie e tu mio corpo tu infatti tenue Ellie eri il mio corpo
immaginoso quasi conclusione di una estatica dialettica spirituale
noi che riceviamo la qualità dai tempi
….

Con tutte le polemiche di questo mondo, comunque grazie, Sanguineti.

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Del fumetto, delle immagini, del racconto e del jazz

In almeno un post precedente ho introdotto il tema delle immagini finalizzate al racconto. Ma quella volta poi il discorso si spostò, grazie alla polemica con Stefanelli, sul tema dell’origine del fumetto. Voglio tornarci sopra ora, per vedere le cose da un altro punto di vista.

Riprendo da alcune parole scritte allora:

La narrazione per immagini è sempre esistita, sin da quando si dipingevano i bisonti sulle pareti della grotta di Altamira, per farne presumibilmente gli attori di una storia raccontata a voce nel corso di una cerimonia rituale. Con l’avvento della scrittura e l’abitudine alla sequenzialità legata alla lettura, la narrazione per immagini prende talvolta essa stessa la forma di una sequenza, oppure inserisce filatteri di testo verbale in un contesto figurativo. In un certo senso gran parte della pittura medievale non è che narrazione per immagini, e non mancano gli esempi di sequenze narrative vere e proprie.

I concetti importanti li avevo già scritti allora, ma non ne avevo tratto le dovute conseguenze. Ora li ho evidenziati col neretto. Se riguardiamo l’arte visiva occidentale sino a qualche secolo fa, ci accorgiamo che essa è sostanzialmente narrativa. Non lo è talvolta nella decorazione (ma la decorazione è appunto tale – cioè non è figurazione autonoma); non lo è talvolta quando rappresenta la divinità e i luoghi ad essa vicini (perché qui vuole esprimere proprio l’assenza del tempo, e quindi degli eventi). Come ci ricorda Lina Bolzoni (La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino, Einaudi 2002) le immagini prodotte nel medioevo erano addirittura pensate per essere fruite in presenza di una voce narrativa di accompagnamento. E in questo senso non erano molto diverse, quanto a funzione, dai bisonti dipinti sulle grotte di Altamira.

Ma se pensiamo alla pittura in questi termini, è inevitabile pensarla, sino a un certo momento della sua storia, come narrazione per immagini. La concezione moderna della pittura, formalistica e plastica, è quindi impensabile prima del tardo Rinascimento, ed è figlia, credo, della pittura di genere, che è il primo tipo di pittura (non decorativa) che possa fare a meno del racconto – anche se per molto tempo continua a faticare davvero a farne a meno. E la nascita della pittura di genere, a sua volta, è legata alla diffusione di un modo diverso di utilizzare la pittura, in cui il privato (e l’arredamento delle case) gioca un ruolo particolare.

Comunque sia, nel corso del Rinascimento la pittura impara a costruire il proprio discorso da sé, e a fare a meno della necessità di una parola che l’accompagni. Quando Velázquez dipinge Las Meninas, l’acquisizione è pienamente compiuta, e la pittura è già qualcosa di molto simile a quello che intendiamo oggi.

Ma se le cose stanno così, e la pittura è stata sino a tutto il medioevo sostanzialmente narrazione per immagini, allora il problema storico non è quando sia nata la narrazione per immagini, bensì semmai quando sia nata la pittura intesa in senso moderno. In questa prospettiva, il discendente diretto di (poniamo) Paolo Uccello non è Pablo Picasso, ma Winsor McCay!

Certo, il fumetto, inteso in senso stretto, non poteva nascere prima. Gli mancava la possibilità di riprodurre tecnicamente le immagini per il grande pubblico – ma soprattutto gli mancava l’abitudine nel pubblico alla lettura e di conseguenza alla sequenzialità ad essa legata. Quando nel corso del Rinascimento a una pittura legata alla parola si sostituisce progressivamente (e mai del tutto, come sanno bene i teorici visivi della Controriforma) una pittura autonoma, autoesplicativa, la percentuale di coloro che sono avvezzi alla lettura e alla sequenzialità è ancora minima rispetto alla totalità dei fruitori delle immagini. Un’arte visiva sequenziale autonoma non può davvero nascere se non c’è nel suo pubblico una competenza sequenziale sufficientemente evoluta.

Nei due secoli che seguono, la narrazione per immagini vive un’esistenza più sotterranea, mentre l’alfabetizzazione si diffonde, e la cultura stampata inizia ad assumere forme anche popolari. Ma è interessante che l’evento scatenante, quello da cui esplode davvero il fumetto in senso stretto, avvenga negli Stati Uniti, nel medesimo contesto in cui nasce anche l’altra grande creazione artistica originale americana: il jazz.

Le riflessioni che state leggendo provengono da un incontro fortuito che ho fatto oggi in rete, un articolo di Giorgio Rimondi sul jazz dove si dicono (con tre anni di anticipo) cose piuttosto simili a quelle che ho scritto anch’io in un post di qualche settimana fa sulla scrittura e sulla musica. Rimondi ritiene, come me, che il jazz sia nato come reazione dell’oralità (con tutte le sue potenzialità espressive) al dominio della scrittura in ambito musicale. Ovviamente, la scrittura ha permesso alla musica un’evoluzione che altrimenti le sarebbe stata impossibile; ma le ha anche chiuso una serie di possibilità, che hanno continuato ad esprimersi nelle tradizioni popolari, senza però possibilità di accesso alla sfera colta, pubblica, di grande diffusione. Il jazz rappresenta questa mediazione: quella delle istanze dell’oralità, dell’espressività diretta, portate in un contesto sia popolare che colto.

La coincidenza del contesto di nascita tra fumetto e jazz mi ha sempre colpito; ma solo alla luce di considerazioni come queste sul rapporto tra scrittura e oralità, si può capire come non si tratti di una semplice casualità. Tutte e due le nascite avvengono in America, a cavallo tra i due secoli, in un contesto di minoranze etniche alla ricerca dell’integrazione; in un mondo nuovo che, in quanto tale, è sufficientemente slegato dalla tradizione da poter accettare più facilmente le innovazioni; in un mondo nuovo che si gloria di essere la patria della democrazia, dove non esistono privilegi di casta né alcun tipo di nobiltà – ma anche in un contesto di ricchezza crescente, di fiducia nel futuro, e di volontà di sviluppare un’identità propria, sufficientemente distinta da quella della vecchia Europa, nonostante essa resti comunque l’inevitabile punto di riferimento.

È questa situazione particolare che permette il riemergere di istanze che in Europa sarebbero probabilmente rimaste ancora a lungo sommerse: quella di una musica meno intellettualmente legata ai rigori geometrici della scrittura musicale, e quella di una narrazione per immagini finalmente dotata di un pubblico e di una tecnologia riproduttiva adatti. Queste istanze spingevano dappertutto, nell’Occidente, ma in Europa l’inerzia della tradizione le avrebbe probabilmente tenute ancora sotto controllo a lungo, se non per sempre. In America, viceversa, erano funzionali a quel diverso contesto.

Detto questo, si potrebbe pure osservare che non solo nel jazz ma anche nel fumetto sono in realtà presenti delle istanze orali importanti, e che, se pure di una sorta di scrittura si tratta, il fumetto è una scrittura che riproduce in immagine i corpi e li dota di parola diretta, ricreando in qualche modo con la sequenza delle vignette la sequenzialità della dimensione orale. Qualche accenno a questo tema l’ho fatto anche qui. Più estesamente ne parlo invece in un saggio che dovrebbe essere in uscita sulla rivista Fictions. Studi sulla narratività, dal titolo “Disegni che parlano. Il fumetto tra oralità e scrittura”.

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Di una foto a Madras

Madras - Tempio di Kapaleeswarar a Mylapore

Madras - Tempio di Kapaleeswarar a Mylapore

Ho scattato questa foto a Madras (oggi Chennai), dentro al tempio di Kapaleeswarar a Mylapore. Ero affezionato a questa immagine anche prima che Elio di Raimondo la commentasse con termini lusinghieri, facendomi decidere di renderla pubblica.

Mi piace per via della composizione, con questo gioco di diagonali e di verticali. Mi piace per il gioco di piani diversi che si susseguono, dalla lamiera scura in primo piano in basso, alla statua della mucca, al lampione, alla cupoletta, fino alla bandiera dorata del tempio – senza contare altri piccoli dettagli. Mi piace per le rime visive: il rosso dello stendardo a sinistra col rosso del drappo sulla mucca, lo scuro della lamiera in basso con lo scuro della bandiera in alto, il bianco della mucca con il bianco della cupoletta, il giallo del muro in basso con il giallo dell’asta della bandiera, e l’altro giallo luminoso del lampione con l’angolo illuminato della cupoletta. Mi piace per il fondo di cielo piatto, quasi grigio.

E mi piace perché mi racconta di una prima sera appena arrivati in India (anche se questo non si vede), mentre i simboli della devozione (la mucca, la bandiera, la cupola) sono accostati a quelli della modernità (la lamiera, il filo elettrico che taglia a metà l’immagine, il lampione acceso). E che la belva sacra (come la definisce Elio) sia illuminata non dalla luce divina ma da quella elettrica mi pare così dolcemente ironico da essere davvero indiano, fino in fondo.

La malinconia della sera, l’ironia, il sacro, la tecnologia: tutto vi si trova insieme, e insieme è dolcemente trascurato. Come dire che tutto ha valore, ma niente ne ha troppo; e proprio per questo anche gli opposti possono convivere.


P.S. (del giorno dopo): Riguardando la foto mi sono reso conto che la belva sacra molto probabilmente non è una mucca, bensì un toro, anzi il toro Nandi. Di fronte alle immagini sacre di Shiva c’è sempre un toro Nandi in contemplazione e adorazione, e spesso attorno ce ne sono altri. Poiché il tempio in cui è stata scattata questa foto è un tempio dedicato al dio Shiva, è quindi probabile che si tratti proprio di lui.

Il toro Nandi è il simbolo della contemplazione mistica, è il proto-asceta, che si perde nella contemplazione del dio. Se lo riconosciamo in questo modo, la foto assume ancora altri significati, sia ironici sia appassionati. La luce che illumina l’estasi dell’asceta è infatti la povera luce elettrica di un lampione cittadino – ma per un indiano anche quella può essere luce divina, perché il divino è ovunque.

E il toro perso in contemplazione è anche l’immagine rispecchiata dell’occhio che ha visto questa scena, l’ha amata, e ha scattato la foto. Di nuovo, tutto è mistico, persino la contemplazione del turista, persino dentro l’inevitabile ironia della situazione. L’India è una specie di vortice da cui non si riesce a uscire.

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Di Frazetta e del perché dei sogni

Ieri ho commemorato troppo brevemente Frazetta utilizzando i pochi minuti che avevo a disposizione per farlo. Ho lodato l’originalità della sua donna-gatto, a dispetto del tema ormai troppe volte utilizzato da tanti. Voglio tornarci su ora, con più calma, per capire che cosa renda così intrigante quella immagine. Un po’ come cercare, attraverso un’attenta osservazione, di carpire qualche segreto dell’arte di Frazetta.

Osserviamo, dunque. L’immagine è complessivamente scura, ma i colori sono brillanti lo stesso. A parte la figura della donna, il colore che domina il primo piano è questo verde smeraldino, che sfuma ai lati verso il blu, con qualche macchia giallo-rossastra.

frankfrazetta-cat-girl

Frank Frazetta, Cat-girl

In quest’area che perde definizione man mano che ci si allontana dalla zona centrale sono nascoste le pantere, nere o maculate, che si rivelano allo sguardo progressivamente, una dopo l’altra, come se uscissero materialmente dall’oscurità in cui sono nascoste. Questo effetto è anche dovuto al fatto che l’attenzione di chi guarda è attirata verso il centro da diversi fattori, mentre la periferia gode qui di un privilegio decisamente minore. Questi fattori sono:

  • la presenza di una figura umana, in particolare femminile, con una certa carica erotica – nella quale si riconosce facilmente lo stereotipo inquietante della donna-gatto;
  • l’intreccio delle figure serpentine dei tronchi coperti di muschio, inanimati ma al tempo stesso contorti come se si stessero muovendo (quasi dei lunghi colli di dinosauri);
  • la minore definizione dell’immagine man mano che ci si allontana dal centro;
  • i colori poco saturi della figura femminile, contrapposti a quelli molto saturi attorno;
  • la luce improvvisa sul seno di lei, posto quasi al centro esatto dell’immagine;
  • lo sguardo della donna, rivolto verso di noi.

Al centro dell’immagine sta dunque l’elemento più palesemente erotico, il seno, che però è collegato allo sguardo della donna (anche per simmetria): l’attenzione viene catturata dal seno, per poi scivolare sullo sguardo. L’attenzione dello spettatore oscilla così tra questo centro ambivalente e i dettagli della periferia, dove la scoperta progressiva degli altri sguardi, quelli delle pantere, ribadisce sempre di più, momento dopo momento, il legame che lega i felini alla donna. Tutti ci stanno guardando, tutti emergono dall’ombra; ma gli occhi dei felini brillano, mentre quelli di lei sono della stessa ombra che circonda il suo viso. I suoi occhi oscuri si contrappongono ai suoi seni luminosi.

Questa è dunque la macchina retorica che guida l’attenzione di chi guarda, inquieta e oscillante. Il fulcro di questa attenzione è la donna stessa.

La donna è brevilinea e muscolosa, ma insieme anche morbida, rotonda: complessivamente all’opposto del modello longilineo che domina nell’immaginario del fumetto e del fantasy. È scura, dai capelli neri e dai lineamenti esotici, proprio come una pantera. Le sue gambe sono ancora più scure, o magari sporche di fanghiglia, proprio come quelle di un animale.

Nella zona illuminata spicca il dettaglio dell’asimmetria dei seni, essendo quello destro leggermente allungato dal sollevamento del braccio. Questa asimmetria, oltre a far risaltare la carnosità dei seni e della donna, rafforza la strategia antistatuaria. Se questa è una donna ideale, allora appartiene a un ideale che non è quello che normalmente ci aspetteremmo qui.

È quindi la sorpresa a rendere di colpo viva questa figura così volutamente imperfetta, e la sua carne immediatamente così vera che quasi ci sembra di poterla toccare. Ma se stiamo per toccarla, allora siamo lì, e quella che abbiamo davanti non è più donna di quanto non sia pantera, e ci sono i rami serpentini verde smeraldo, e le pantere immobili che respirano nell’ombra tutt’attorno. Se siamo lì, insomma, stiamo sospesi tra erotismo e pericolo mortale, e lo sguardo di lei promette insieme l’uno e l’altro; e lo stesso fa il suo gesto, di indifferenza e un po’ di sfida – come l’avessimo sorpresa, lei e le sue pantere, ma fossimo noi assai più sorpresi di lei, tutto di un tratto incerti tra il desiderio e lo spavento.

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Di Frazetta e dei sogni che persistono

Frank Frazetta, 1964, da Creepy

Frank Frazetta, 1964, da Creepy

Non è che Frank Frazetta sapesse solo disegnare. Ci sono tanti disegnatori dotati di tecnica strabiliante, al mondo. E poi i suoi debiti nei confronti di Alex Raymond sono stati davvero grandi come una casa.

Quello che Frazetta ha fatto, semmai, attraverso la sua sapienza di disegnatore, è stata la costruzione di innumerevoli mondi inquietanti, che restavano inquietanti anche a dispetto della banalità dei temi. Quanti guerrieri armati e possenti abbiamo già visto sulle copertine del fantasy? Quante donne da sognare abbiamo già sognato in innumerevoli illustrazioni di quel tipo?

Ma ci sono quelle che restano e quelle che no, quelle che vengono prima e quelle che cercano di riprodurre quel fascino impossibile. Frazetta è stato il disegnatore dei fascini impossibili, a dispetto del già visto, a dispetto del banale.

E’ stato quel disegnatore che mi permette ancora oggi di continuare a sognare sulla femmina-gatto come se non fosse ormai uno stereotipo fritto e rifritto. Nei suoi disegni, continua a non esserlo. Per sempre, suppongo.

frankfrazetta-cat-girl

Frank Frazetta, Cat-girl

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Di una foto a Mamallapuram

Mamallapuram-palme

Mamallapuram, palme

Ho scattato questa foto in India, l’anno scorso, a Mamallapuram (o Mahabalipuram), dalla collina rocciosa dove si trovano i templi del Settimo secolo scavati direttamente nella pietra, guardando non verso il mare, ma verso la pianura attraversata dal fiume. La trovo una bella foto, ed è passato ora abbastanza tempo da quel momento da darmi una sufficiente illusione di distacco nella valutazione.

La collina rocciosa di Mamallapuram non è più oggi un luogo sacro, ma lo è stato, certamente, per lungo tempo, e molto tempo fa. Ora è un ridente e affascinante parco pubblico. Quando ho scattato questa foto mi trovavo in India da un mese, ed ero a Mamallapuram per la seconda volta, in attesa dell’aereo da Chennai per l’Italia.

Questa foto mi piace perché rappresenta un altare, e al tempo stesso non lo rappresenta affatto. La roccia sotto i miei piedi non è il dio Shiva, come ad Arunachala, e il fiume che si intuisce non è la Kavery. Ma tutte le acque sono sacre in India, e quella stessa roccia, a pochi passi da me, porta intagliate figure divine di bellezza straordinaria.

Tutto questo nella foto non si vede. Quello che sostanzialmente si vede – credo – sono puri rapporti geometrici tra le verticali delle palme e l’orizzontale della pianura. Sono questi rapporti a richiamare, alla mente di chi guarda, l’altare che non c’è, il tempio che manca alla vista.

Al tempo stesso, però, le verticali restano palme, e l’orizzontale resta pianura, e dietro c’è il cielo e sotto ci sono le rocce e gli alberi, e questo è un luogo mitico e lontano, che ci racconta che il sacro esiste, indipendentemente dal fatto che Dio sia uno, nessuno o centomila.

Per questo questa foto continua a piacermi.

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Di Breccia, nella notte

Passando ieri notte davanti a una vetrina di Feltrinelli mi casca l’occhio su un libro esposto, appena uscito. Non posso non notarlo. È uno dei fumetti che hanno segnato la mia storia di lettore, uno di quelli a causa dei quali io ora sono qui a tenere un blog, scrivere libri, discutere di racconti per immagini, invece di occuparmi – che so – di calcolo dei predicati.

È L’Eternauta, di Héctor Oesterheld, ma non nella versione classica di Francisco Solano López della fine degli anni Cinquanta, bensì nel remake realizzato da Alberto Breccia nel 1969 e pubblicato in Italia su Linus nel 1972. Lo ripubblica oggi Comma22, all’interno di una serie tutta dedicata a Breccia.

Credo che quella di Linus fosse la prima comparsa del Breccia maturo in Italia. L’effetto di quelle chine istoriate e graffiate, di quelle composizioni calibrate, e soprattutto di quell’espressionismo – l’espressionismo di Breccia – fu spaventoso.

E anche la storia (riscritta da Oesterheld per Breccia con tinte ancora più cupe che nella sua versione originale) era di quelle che non si dimenticano – e insegnano drammaticamente che un fumetto di fantascienza può essere un fumetto politico.

Breccia e Oesterheld - L'Eternauta pag.02

Alberto Breccia e Héctor Oesterheld - L'Eternauta pag.02

Breccia e Oesterheld - L'Eternauta pag.12

Alberto Breccia e Héctor Oesterheld - L'Eternauta pag.12

Ci dice la cronaca che la versione Breccia dell’Eternauta non ebbe fortuna. Non piaceva all’editore della rivista su cui compariva. È un peccato per lui, e per noi tutti, a cui non è stata data la possibilità di leggere un seguito.

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Dei sublimi non-morti, nel fumetto occidentale

Sto scrivendo un articolo sull’horror a fumetti, per un’iniziativa di cui presto si saprà di più. Mi sono ripercorso a grandi linee le diverse stagioni dell’horror di qua e di là dall’oceano (solo l’Atlantico: per il Pacifico non avrei avuto spazio) e ho fatto alcune scoperte. Lasciando perdere i casi isolati, le stagioni principali dell’horror occidentale a fumetti, viste da qui (Italia, 2010), mi sembrano le seguenti:

  1. la stagione E.C., dal 1950 al ’54, tarpata dalle fisime del dr. Wertham
  2. la stagione Warren, dai tardi Cinquanta in poi, comprensiva di Vampirella (dal ’69)
  3. i porno-horror italiani anni Settanta (tipo Jacula, Sukia e Cimiteria)
  4. un po’ di Argentina sparsa, dal Mort Cinder di Breccia e Oesterheld in poi
  5. Dylan Dog e il post-Sclavi, dall’effimera esplosione horror italiana del ’90 ai successivi prodotti Bonelli, da Magico Vento a Brendon a Dampyr
  6. quello che potremmo chiamare il neo-gotico americano, ovvero Swamp Thing e discendenti più o meno diretti (Hellblazer, Sandman ecc.)

La domanda è: quanto di questo horror è fatto per fare davvero paura? Naturalmente, in quanto horror, tutto è fatto per fare almeno un po’ paura. Però, se lo osserviamo da vicino, ci accorgiamo che il più delle volte la paura è abbondantemente condita con altri ingredienti, che nell’impasto risultano assai più salaci.

Per esempio, tutta la produzione E.C. è giocata sul grottesco, ovvero su uno humor nero sarcastico e mortifero: e anche quando si sobbalza per lo spavento c’è sempre una voce più o meno fuori campo che propone di riderci su (magari amaramente – ma pur sempre riso è).

La produzione Warren degli anni Sessanta ripropone (con meno vivacità) esattamente lo stesso modello, ma si riscatta con Vampirella – su cui lavoravano fior di sceneggiatori e disegnatori. Con Vampirella entra in gioco una sorta di erotismo gotico, e anche una qualche dose di superomismo. Vampirella potrebbe forse fare davvero più paura, se non fosse che la protagonista è troppo carina e svestita, e il tutto troppo fantastico e buonistico.

L’erotismo di Vampirella è il punto di partenza per i porno-horror italiani, ma qui già la definizione dice tutto: l’horror è una scusa per condire meglio il sesso, attraverso la tradizionale combinata sesso-grandguignol.

Dylan Dog trova un altro modo, assolutamente originale, per esorcizzare la paura. Lo si capisce benissimo sin dal primo numero, quell’Alba dei morti viventi che è una citazione già nel titolo: l’horror diventa gioco intellettuale, un gioco che è spesso praticabile anche da chi abbia una cultura massmediatica popolare, ma non meno gioco e non meno intellettuale per questo. La paura non può essere vera, in questo contesto: sarà necessariamente un gioco di citazione, pure lei!

Sin qui dunque (e abbiamo già fatto fuori, quantitativamente, il grosso dell’horror a fumetti) di paura vera ce n’è stata poca. Proviamo a domandarci perché.

Ho accennato in altri due post (qui e qui) della nascita del romanzo gotico nell’Inghilterra del Settecento, e di quanto sia legata questa nascita alla diffusione della nozione di sublime, che, guarda caso, è la stessa che sta dietro alle concezioni Romantica e moderna dell’arte. Il romanzo gotico, ovvero il primo horror, rappresenta l’esito più popolare (ma non solo) di questa diffusione: il mistero e l’orrore sono la manifestazione più semplice ed evidente di quello che è soverchiante e incontrollabile.

La cultura alta ha spesso riso di questa manifestazione bassa dei propri medesimi ideali, anche se più volte vi ha attinto a piene mani (come si può leggere, tra l’altro in un intrigante volumetto di Renato Giovannoli, Il vampiro innominato. Il “Caso Manzoni-Dracula” e altri casi di vampirismo letterario, Medusa 2008). Del resto non è difficile trovare occasione di ridere di cose di questo genere, che diventano molto facilmente troppo poco credibili, persino in un’ottica di fiction.

Il grottesco, l’erotismo, il citazionismo sono quindi altrettante strategie per permettere di tollerare questa natura volgarissimamente sublime che è propria dell’horror. Insomma: fare davvero paura, e avvicinarsi in questo modo al sublime stesso, è cosa molto, molto difficile – quando non si possiedono gli strumenti realistici del cinema (fotografia, ovvero pseudo realtà, movimento e sonoro) e la comprensione dei fatti è inevitabilmente mediata da una serie di ricostruzioni intellettuali (decifrare i disegni, metterli in sequenza, ricostruire la dinamica, collegare le parole…). È più facile, e spesso anche più efficace, giocare in vario modo con gli stereotipi e con quel poco di paura che comunque essi si portano attaccata.

Non è però sempre così, e il nostro elenco iniziale non è stato del tutto esaurito. Resta fuori certamente Breccia e anche una parte del fumetto argentino (mentre tanto altro rientra in qualche modo nei casi già visti); resta fuori una parte della produzione Bonelli post-Sclavi, come nel caso di Dampyr, in cui il citazionismo è marginale rispetto ad altro, assai più pauroso; e resta fuori quello che ho chiamato neo-gotico americano, ovvero le conseguenze della ripresa compiuta da Alan Moore, nel 1984, di Swamp Thing.

È tra questi esempi che troviamo dei fumetti horror che fanno davvero paura. È evidente che appartengono a culture diverse e anche a momenti storici diversi. Che cos’hanno in comune, sempre che lo abbiano?

La mia personale suggestione è che le storie che questi fumetti mettono in scena parlano di me e del mondo in cui vivo – mentre tutte le altre storie di cui abbiamo parlato, di buona o cattiva qualità che siano, parlano sostanzialmente di mostri immaginari. Il male che circonda Swamp Thing nelle storie di Moore ha sì la faccia tradizionale dei non-morti, ma è evidentemente un male molto più vero e vicino a noi: è la bomba atomica, è la discriminazione sociale, è la voracità capitalistica, è la stupidità, l’arroganza, il potere che non vuole limiti…

Solo a queste condizioni la nostra paura può rinascere davvero. E solo una vera paura può generare una paura letteraria che non sia puro gioco. La paura vera può essere sublime, in qualche caso. Il gioco è invece gioco: può essere intelligente, di alta qualità, ma è un’altra cosa.

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Del razionalismo selvaggio

Non ho mai riletto La distruzione della ragione di György Lukács. Mi toccò studiarlo per un esame universitario molti anni fa, e mi sembrò un libro vergognoso. Poiché non l’ho riletto, non voglio parlare di Lukács ma solo dell’impressione che ne trassi allora e del perché questo fatto mi colpisca ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Quanto a Lukács, mi auguro davvero di essermi a suo tempo sbagliato, e che, a una rilettura più attenta della mia di allora, vi si possano trovare anche quei pregi che io allora non vi ho trovato.

Scritto dall’Ungheria socialista dei primi anni Cinquanta, il libro di Lukács descrive il modo in cui i filosofi occidentali hanno variamente messo in crisi (e poi distrutto, in una deriva verso il fascismo) l’idea di ragione. Quello che mi turbava nel leggerlo era che Lukács non mostrava mai (almeno ai miei occhi) il minimo dubbio sulla validità della propria concezione di ragione, che era poi quella hegeliano-marxista-leniniana di una dialettica storica inevitabilmente progressiva, destinata a culminare nella realizzazione del Comunismo.

Anch’io, all’epoca, mi reputavo comunista, ma ero orgoglioso dei miei dubbi sulla razionalità del processo storico, e delle mie incertezze su quale potesse essere il modo migliore e più razionale di costruire il Socialismo. Tanto più che Lukács sparava ad alzo zero non solo contro filosofi dichiaratamente e pacificamente irrazionalisti, ma anche contro Wittgenstein e chi ne derivava, contro la fenomenologia e gli esistenzialismi, e in generale contro posizioni che io ero abituato a considerare decisamente più razionali della sua.

Oggi credo di sapere perché le parole di Lukács mi dessero tanto fastidio. È che trovavo che quella fosse l’espressione più spavalda e prepotente di un atteggiamento fondazionalista che nella filosofia ha sempre avuto una certa diffusione, e che pretende di poter giustificare razionalmente il mondo, ovvero di poter trovare e descrivere una ragione filosofica fondamentale per cui le cose sono così e così, e non in un altro modo. (Si può immaginare quanto felice io sia stato, qualche anno dopo, il mio incontro con la filosofia di Richard Rorty, che è l’antitesi di tutto questo)

Il punto è che i razionalismi di questo tipo non si rendono conto che la ragione è semplicemente la regola di un pensiero funzionale, mentre non ha veramente un ruolo nelle questioni sostanziali. In altre parole, nella misura in cui ci proponiamo uno scopo, il pensiero razionale è lo strumento più potente che abbiamo per procedere verso la sua realizzazione; e nella misura in cui uno scopo dipende da un altro, è certamente il pensiero razionale quello che ci mette in grado di distinguere e organizzare. Ma gli scopi primari della nostra esistenza non sono razionali, e pertengono piuttosto alla regione del mito. La ragione potrà aiutarmi a trasformare il mito in mitologia, cioè esplicitazione del mito, parola del mito; ma io devo essere consapevole che anche dietro a questa trasformazione sta agendo certamente un altro mito, e che gli effetti delle mie comprensioni razionali modificano il mito sottostante sempre in maniera più rapida e incisiva di quanto possa mai recuperare quella medesima comprensione.

L’ideologia che stava alle spalle di Lukács, cioè il comunismo, ha fallito proprio perché non si è resa conto di questo, pensando di potere gestire razionalmente la società, mentre il suo agire razionale non faceva che enfatizzare il sottofondo incontrollato – e il dominio, una volta abolita la sua componente economica, veniva perpetuato in altre forme, politiche e ideologiche. L’ipertrofia della ragione le ha reso impossibile vedere i propri stessi limiti, e la dialettica hegeliana è diventata nella realtà una dialettica di forze oscure e incontrollate, rese nel loro operare potenti proprio da quello strumento, la razionalità, che le avrebbe dovute eliminare!

L’ipertrofia della ragione non ha caratterizzato soltanto le ideologie comuniste. In fondo Marx non ha fatto che sviluppare gli stessi presupposti razionalisti che stanno alla base dell’Illuminismo e dello sviluppo del capitalismo. L’economia capitalista è a sua volta fondata sul principio (capillarmente applicato dai suoi operatori) di un progetto razionale di sviluppo attraverso il controllo, cosa che presuppone, tendenzialmente, la prospettiva di un controllo totale della natura.

Naturalmente, senza un progetto razionale non c’è modo di costruire una società complessa, ma il razionalismo ipertrofico che non si accorge dei propri limiti tende a sopravvalutare il progetto rispetto alla sua verifica sul campo. In questo le società capitalistiche non sono meno ideologiche di quanto fossero a loro tempo quelle comuniste, ma il razionalismo vi si trova parcellizzato nell’azione di una miriade di soggetti, mossi dal mito soggiacente e resi potenti dallo strumento razionale.

Potremmo chiamare razionalismo selvaggio questa fiducia cieca e irrazionale nel potere totale della ragione, e in particolare della ragione scientifica – che costituisce la nuova forma di oggettivismo di cui i razionalismi economici si rivestono. E questo non perché la scienza abbia in sé qualcosa di sbagliato: anzi, nella misura in cui è applicato, il metodo sperimentale non permette che un’ipotesi possa fondare una teoria almeno finché non riceve sufficiente conferma dai fatti. È che la ragione è oggi soprattutto il mito di se stessa, un argomento sbandierabile da qualsiasi parte politica come emblema di ciò che ci salverà – e quindi incontrovertibile, incontestabile, miticamente vera.

Il razionalismo selvaggio è la maschera dei giochi del potere, dei giochi dell’inconscio. Ha dilagato anche nell’arte del Novecento, sotto forma di avanguardie, ovvero gruppi di artisti che pretendevano di sapere come dovesse essere l’arte, e che a volte utilizzavano la propria riconosciuta abilità artistica personale come prova del fatto che essi, proprio come Lukács, sapevano quale fosse la direzione indicata dalla storia. L’assurda vicenda della musica colta contemporanea è un evidente esempio di quanto il razionalismo selvaggio non sia stato che il supporto di una fazione musicale, quella di Darmstadt: tanto rivoluzionaria prima di prendere il potere quanto conservatrice e repressiva una volta che ha avuto il suo Palazzo d’Inverno.

Se la ragione usata entro i limiti della ragione ci può forse salvare, il razionalismo selvaggio, non riconoscendo i propri limiti e il proprio affondare i piedi nel mito e nell’irrazionale, ci consegna inesorabilmente ai demagoghi che hanno individuato benissimo i propri personalissimi scopi, e sfruttano molto razionalmente la potenza mitica delle televisioni per ottenere e conservare il potere. Come ci insegnò straordinariamente bene il nazismo, la ragione serve anche a pianificare la distruzione, o il dominio di qualcuno su qualcun altro. Basta che gli scopi siano sufficientemente precisi da non avere conflitti tra loro. Gli scopi di Berlusconi sono purtroppo precisissimi. Quelli degli esseri umani in generale lo sono molto meno. È per questo che lui, proprio come Lukács, sa qual è la verità.

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Della parola disincarnata

Con questo post mi limito a segnalare che è on line da oggi sul numero 2 (Corpo e linguaggio) della Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio un mio articolo dal titolo “La parola disincarnata: dal corpo alla scrittura“, in cui vengono sviluppati più ampiamente una serie di temi che sono stati affrontati anche in diversi post di questo blog (in generale quelli etichettati con il tag “sistemi di scrittura”). Un intero paragrafo era anche stato citato all’interno del post del 1 aprile “Della poesia in prosa”.

Riporto qui di seguito l’abstract dell’articolo (abstract che sulla rivista appare in inglese):

Non è possibile stabilire una corrispondenza diretta tra la parola orale, legata al suono, e la parola scritta, legata alla visione. Il suono scorre, fluisce, la visione resta; i suoni vibrano dentro di noi, le cose viste appaiono esternamente di fronte a noi: quando passa, storicamente, dalla prima dimensione alla seconda, la parola diventa astratta e disincarnata. Analizziamo qui in questi termini diverse forme di testualità, e il percorso storico seguito dalla parola per distaccarsi dalla corporeità. La poesia rimane ancora oggi il tipo di scrittura che mantiene i legami più forti con la dimensione orale: in poesia, infatti, continuano a giocare un ruolo determinante le dimensioni ritmica e rituale, vicine per loro natura all’universo del suono. Nella prosa la separazione è stata più netta, ma ha richiesto comunque un processo molto lungo, che ha avuto il suo momento cruciale nel trionfo della razionalità della Filosofia Scolastica. Nel passaggio dalla lettura ad alta voce dell’antichità alla lettura silenziosa, interiore, dei moderni, la parola scritta si separa radicalmente da quella orale, imponendo decisamente la propria forza di astrazione.

Mi piacerebbe approfittare di questo spazio di discussione per sentire qualche opinione e magari anche obiezioni sulle tesi che sviluppo in questo articolo.

Non ho ancora letto gli altri articoli presenti sulla rivista, ma dai titoli mi sembra che vi siano affrontati comunque diversi temi interessanti.

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Di Dino Buzzati, del fantastico, del fumetto e della musica

Sento alla radio che si parla di Dino Buzzati. Sono settant’anni quest’anno che è stato pubblicato Il deserto dei tartari. Buzzati è stato una delle grandi passioni della mia maturazione culturale, passione che ho poi ripreso in più occasioni in tempi recenti, scrivendo alcuni saggi sulle sue opere, e dedicando anche un capitolo di un mio libro all’analisi di un suo racconto.

Credo che il mio amore per Buzzati sia parente della mia passione per l’universo del fumetto. Non che si debba cercare una relazione di causa-effetto tra le due cose, ma probabilmente esiste per loro una ragione comune – sostenuta anche dal fatto concomitante che pure Buzzati è stato un grande lettore di fumetti, e un difensore del loro valore, in un’epoca in cui era davvero assai più difficile di oggi sostenerne la qualità.

Dino Buzzati, Piazza del Duomo di Milano, 1958

Dino Buzzati, Piazza del Duomo di Milano, 1958

Ho amato Buzzati, credo, per la sua capacità di vedere il fantastico nel quotidiano, e di raccontare il quotidiano attraverso il fantastico. Buzzati si dilettava di pittura, e anche se non era proprio un virtuoso del pennello, le sue invenzioni visive lasciavano spesso il segno, come quell’immagine di Piazza del Duomo, a Milano, rappresentata come se fosse un pascolo dolomitico, circondata da rocce discoscese, la principale delle quali è il medesimo Duomo – un’immagine che potrebbe essere presa a emblema del suo modo stesso di raccontare: il fantastico, l’inquietante, l’altrove, nascosti in quello che ci sta davanti tutti i giorni.

Questo medesimo amore per il fantastico ha spinto me, in quegli anni, a leggere tanta fantascienza, e a preferire quella in cui l’elemento immaginativo non rescindeva il legame con la quotidianità della vita. Ho sempre trovato che l’universo del fumetto contiene, ovviamente in diversa misura a seconda dei casi, questa medesima relazione – e non a caso ho finito per amare un autore come Lorenzo Mattotti, molto tempo prima di sapere dalla sua stessa voce che pure lui era una vittima della stessa fascinazione giovanile per Buzzati di cui ero stato preda io. Ma chissà quanto Buzzati è presente nel lavoro di David B.? Non sarebbe sorprendente scoprire che anche lì c’è stato un influsso, visto che Buzzati è diventato famoso in Francia prima che in Italia (una storia ricorrente, e particolarmente ricorrente nel mondo del fumetto, come lo stesso Mattotti ben sa).

Non mi ha stupito invece scoprire (non molti anni fa) che Buzzati era anche un ascoltatore appassionato di musica, e che ha anche scritto dei libretti musicali. Ma questo ci porta a domandarci se ci sia un legame anche tra questa passione musicale e quella per il fantastico e per il fumetto. Certo, non è detto che ci sia, perché non è corretto ricondurre la personalità di un essere umano a un solo principio: siamo interessanti anche perché siamo fatti di tanti pezzi diversi, a volte collegati ma a volte anche contraddittori! La passione per la musica può ben appartenere a un ambito differente della personalità da quella per il fumetto e da quella per il fantastico.

Tuttavia Buzzati ci ha fornito un motivo molto forte per vedere il collegamento tra loro, e questo motivo è il Poema a fumetti. Il protagonista di questo romanzo è Orfi, un cantautore, che scende agli inferi per farsi restituire la sua Eura, e oltrepassa tutti gli ostacoli (tranne l’ultimo) grazie alla commozione prodotta dalla sua musica. Il mito di riferimento è quello, evidentemente, di Orfeo ed Euridice, che è già un mito sulla musica e sul suo potere. Ma Buzzati aggiunge a questo il fatto di costruire il suo Poema a fumetti proprio come si costruisce un melodramma, e la musica non ne è solo l’argomento del discorso, ma anche, metaforicamente, ciò che accompagna e modula continuamente il racconto. Non potendo fare uso di note e di suoni in un’opera a stampa, Buzzati adopera la forma del fumetto per ricoprire questo ruolo di musica metaforica: così, la capacità fantasmatica ed emotivamente coinvolgente del raccontare a fumetti diventa metafora del potere descrittivo e trascinante della musica.

Dino Buzzati, due pagine da Poema a fumetti

Dino Buzzati, due pagine da Poema a fumetti

Poi, certo, Buzzati non era un disegnatore straordinario, e non era nemmeno un fumettista. Lo si capisce per la sua palese ignoranza di una serie di espedienti narrativo-visivi, che già negli anni Sessanta erano ampiamente usati. I lettori di fumetti dell’epoca non amarono Poema a fumetti, e credo che la ragione fosse proprio questo senso di estraneità alla norma che comunque, in quanto fumetto, questo romanzo (una prima graphic novel, qualche anno prima di Will Eisner) produce nel suo lettore. Ma non si può giudicare il lavoro di Buzzati con questi parametri.

Bisogna piuttosto capire che Buzzati ha cercato di ricostruire, con i propri mezzi e per le proprie necessità espressive, la narrazione a fumetti come un supporto narrativo potente, e legato all’idea di ritmo drammatico, con riferimento alla funzione della musica nel melodramma. Poema a fumetti è una proposta per un altro modo di fare fumetti – un modo che per gli anni Sessanta era troppo differente, ma che ha poi dato i suoi frutti dagli anni Ottanta in poi, quando autori con capacità grafiche e competenze fumettistiche decisamente superiori alle sue hanno scelto quella stessa strada.

Il legame suggerito da Buzzati tra fumetto, musica, racconto fantastico, e anche poesia (Orfi è un cantautore, che scrive testi poetici per la musica) è, guarda caso, anche al centro dei discorsi di questo blog. Anche questo è, dunque, uno dei frutti dei semi sparsi allora.

P.S. Se siete interessati a un discorso più approfondito sul legame tra musica (poesia) e fumetto nel Poema a fumetti, potete leggere qui l’intervento che tenni qualche anno fa a un convegno sul lavoro di Dino Buzzati.

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Di Mumin, della memoria e delle traduzioni

Ho scoperto Mumin intorno al 1970. Stava su un supplemento di Linus dell’anno prima, finito in casa mia non so come. Allora si chiamava Moomin, all’inglese, perché, nonostante l’origine finlandese dell’autrice (e la sua lingua-madre svedese), a noi arrivava attraverso i suoi successi britannici. Fu per me una specie di colpo di fulmine, per la sua sottile demenzialità, per la sua tenerezza, per la sua capacità di rendere il mondo una fiaba, per il suo essere un fumetto che sembrava per bambini e non lo era affatto. Negli anni successivi, e per molto tempo, ne sono stato su Linus un appassionato lettore – fino a quando la stagione di Moomin è finita, e del fumetto in Italia si sono perse le tracce.

(Di passaggio: in quel supplemento di Linusli’l linus, aprile 1969 – scoprivo contemporaneamente Li’l Abner, Popeye, Valentina e Jeff Hawke, più altre delizie minori – minori almeno per il mio gusto, visto che di tutte quelle maggiori sono stato da allora in poi un lettore quasi ossessivo. E questo comunque la dice lunga sulla qualità dell’operazione di Linus di quegli anni.)

Per chi non lo sapesse, il Mumin (o Moomin) di cui sto parlando è la versione a fumetti di una fortunata serie di romanzi per ragazzi, realizzata da Tove Jansson, e molto amata anche nei paesi di lingua inglese. Il fumetto è disegnato da suo fratello Lars. Dei romanzi c’è stata in Italia una serie di traduzioni, a partire dalla fine degli anni Ottanta, pubblicati dalla Salani e curati da Donatella Ziliotto. Il fumetto è invece quasi scomparso, per riapparire or ora in una bella edizione di Black Velvet, primo volume (si spera) di una serie cronologica completa.

Quando l’ho avuto in mano, ho pregustato l’emozione di rileggerlo, di ritrovare il piacere trasognato e divertito che le storie degli Jansson mi hanno sempre procurato.

E invece non è successo nulla, o quasi. Ho trovato un bel fumetto per bambini, sottile nel suo essere grottesco e insieme romantico, pieno di trovate brillanti. Insomma, comunque, un classico. Ma non qualcosa capace di destare in me una passione come quella che aveva risvegliato allora. Se lo leggessi ora per la prima volta, lo apprezzerei certamente, ma non mi sorgerebbe quel desiderio di averne ancora e poi ancora.

Mi sono domandato perché. C’è una prima risposta del tutto ovvia: nel 1970 avevo 40 anni in meno di oggi, e benché per certe cose io mi senta ancora la passione del ragazzino di allora, può davvero darsi che io non sia più lo stesso. Inoltre, le cose che si portano racchiuse nel ricordo per tanto tempo tendono a ingigantirsi, e magari io ho mitizzato Moomin. O forse ancora, quando lo leggevo allora, Moomin rispondeva a delle esigenze mie che nel frattempo sono cambiate – indipendentemente dal fatto che ora sono più vecchio, ma semplicemente perché vivo una vita diversa.

Tutto questo può essere: tra Moomin e Mumin magari non c’è differenza, ma nel suo lettore sì. Però nel leggere l’edizione Black Velvet qualcosa non mi quadrava lo stesso, e sono andato a cercarmi la copia di li’l linus dove l’avevo incontrato allora. E così, comparando Mumin con Moomin, la differenza è saltata fuori, ed è una differenza di traduzione.

Il sospetto lo avevo avuto già quando avevo letto il nome della fidanzata di Mumin, cioè Grugnina. Io ricordavo un nome più dolce e più ironico. E, in effetti, nella versione Moomin, lei si chiamava Adipella. Nelle note in fondo al libro si sottolinea che la traduzione dei nomi rispetta quella fatta da Donatella Ziliotto, e capisco bene che non sia facile trovare un corrispondente italiano per lo svedese Snorkfröken, o per il finlandese Niiskuneiti. Ma per gli inglesi il medesimo personaggio è Hattifatteners, e Adipella ha la stessa sfumatura di delicata grassezza – mentre Grugnina a me suona tanto di ingrugnato.

Moomin vs Mumin Es. 1

Moomin vs Mumin Es. 1

E poi c’è il toscano. Certo, far parlare dei troll finlandesi come dei villici di San Casciano in val di Pesa era una scelta parecchio azzardata – e non so davvero quanto fosse giustificata dal linguaggio dei personaggi originali (ma quale poi? il finlandese, lo svedese o l’inglese?). E tuttavia questa idea era talmente stralunata, che, magari un po’ paradossalmente, corrispondeva davvero alla dimensione a sua volta stralunata del mondo di Moomin.

Moomin vs Mumin Es. 2

Moomin vs Mumin Es. 2

Nella versione Black Velvet, i troll finlandesi parlano un corretto italiano. Poiché conosco bene la passione e la serietà dei curatori Omar Martini e Sergio Rossi, non ho alcun dubbio sul fatto che la scelta è stata meditata, e che si è preferito conservare la coerenza con la traduzione Ziliotto. Però così, per quel vecchio lettore di Moomin che sono io, Mumin non è più Moomin. E con quel toscano così assurdo ma così caratterizzante, se ne è andata anche una fetta del fascino di una volta.

Moomin vs Mumin Es. 3

Moomin vs Mumin Es. 3

Ah. Qualche romanzo di Moomin me lo sono anche letto, molti anni fa, in inglese. Nemmeno lì avevo ritrovato lo stesso fascino dei fumetti pubblicati da Linus. E allora davvero: o la bellezza delle cose che vediamo dipende dallo stato d’animo in cui ci troviamo quando le incontriamo, oppure il merito era tutto del toscano, e di chi ebbe questa stramba idea.

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Dell’optocentrismo, della scrittura e della musica

Percorsi vari di riflessione e di studio mi riconducono a un bellissimo libro che avevo letto qualche tempo fa: I segni della voce infinita. Musica e scrittura, di Gianluca Capuano (Milano, Jaca Book 2002). Il tema del libro è la scrittura, in relazione al suono – quello della parola, certo, ma soprattutto quello della musica. La tesi principale del libro è che il nostro modo di concepire le cose è vincolato a quello che Capuano chiama optocentrismo, ovvero una centralità della dimensione visiva (ottica) in relazione alla quale vengono valutate (e spesso svalutate) anche le conoscenze che noi ricaviamo dagli altri sensi. L’optocentrismo trova le sue origini, per quello che riguarda l’Occidente, nella filosofia di Platone, ma poi rimane pressoché indisturbato nella sua posizione dominante sino a oggi – anche perché al centro del privilegio della visione si trova certamente la scrittura, in quanto parola (cioè pensiero) che si vede. Nella prima parte del libro, Capuano ci illustra la posizione di Platone, e poi, nella seconda, il modo in cui il privilegio accordato alla visione è sfociato durante il Medio Evo nell’invenzione di una scrittura per la musica, la quale ha assunto un ruolo via via più importante non solo nella trasmissione, ma anche nella concezione della musica stessa, sino a trasformarla intimamente – anzi, fino a diventare, per gran parte delle persone che si occupano di musica, il mezzo principale per studiarla, produrla e analizzarla.

Voglio partire da qui per fare in questo post alcune riflessioni sulla scrittura e sulla comunicazione visiva in genere, specie quando applicate a una dimensione così diversa come è quella del sonoro.

In primo luogo, credo che l’optocentrismo sia di parecchio anteriore a Platone, anche se è stato certamente lui a farne il cuore di tutta la filosofia a seguire. Se riflettiamo sugli usi consueti del linguaggio, ci accorgiamo che le nostre metafore cognitive sono in generale di carattere visivo: si parla di idee (dal greco eidos, cioè forma), di osservazione (scientifica), di vedere le cose come stanno, di vedere lontano; e certamente non di ascolto (scientifico) o di udire le cose come stanno, né tantomeno di udire lontano. Queste ultime espressioni, anzi, ci appaiono grottesche, insensate. Parliamo piuttosto di ascolto interiore, o di sentire, per riferirci alla propriocezione, specie se emotiva.

Certo, questo nostro uso potrebbe essere una conseguenza della diffusione anche a livello popolare delle concezioni platoniche, tuttavia, di nuovo, l’etimologia ci suggerisce che la vicinanza concettuale tra il vedere e il sapere precedesse Platone. Il termine latino video (cioè vedo) è legato etimologicamente all’inglese witness (cioè, il testimone, colui che sa perché ha visto) e wisdom (saggezza), ma anche al tedesco wissen (sapere, conoscere) e ai termini sanscriti veda (vedere, comprendere, sapere, ma anche la denominazione dei libri della saggezza induista, risalenti almeno al 1000 a.C.) e vidya (conoscenza intuitiva, diretta). L’optocentrismo è dunque presumibilmente un pregiudizio molto antico tra gli indoeuropei – ma non mi stupirei di scoprire che di questo pregiudizio soffrono tutti gli umani del pianeta. In fin dei conti, la vista è davvero il più raffinato e potente dei nostri sensi, e gli studi sull’oralità primaria mostrano una serie di caratteristiche comuni alle culture che non conoscono la scrittura, che tendono comunemente a perdersi una volta che la scrittura sia acquisita.

Il tema è sconfinato. Voglio limitarmi a una curiosità, relativa proprio al rapporto tra musica e scrittura – che la dice lunga, a mio parere, sull’importanza che la dimensione visiva ha assunto anche per il mondo della musica. E racconterò una storia.

Questa storia ha inizio verso la fine del Medio Evo, quando la notazione musicale ha già diversi secoli di vita, e ha raggiunto un livello di notevole sofisticazione. Questo livello è richiesto anche dalla complessità che la musica ha raggiunto, a sua volta resa possibile dal fatto di poter essere scritta. I maestri della musica polifonica di quegli anni sono soprattutto fiamminghi, anche se poi molti di loro vengono a lavorare per le corti italiane. Nel 1436 Guillaume Dufay compone il mottetto Nuper Rosarum Flores, in occasione dell’inaugurazione della cupola di Santa Maria del Fiore di Firenze, progettata da Filippo Brunelleschi. È un fatto noto che Dufay struttura il mottetto secondo delle proporzioni matematiche, anzi geometriche, cioè spaziali: che sono quelle stesse che reggono il cupolone del Brunelleschi, e sulla base delle quali l’architetto ha edificato la sua (per l’epoca) incredibile costruzione.

Ma come si colgono all’ascolto queste proporzioni visive che avvicinano il mottetto di Dufay alla cupola di Brunelleschi? In realtà non si colgono, anche se, certo, se ne sente l’effetto. Al semplice ascolto non c’è modo di comprendere che il mottetto contiene quelle relazioni. E allora, se non si sentono, a che servono?

Per rispondere, bisogna tenere presente che, per l’ascoltatore dell’epoca, c’è sempre, oltre a lui, un altro ascoltatore privilegiato, che è in grado di cogliere immediatamente qualsiasi proporzione nascosta, perché la vede immediatamente, anzi l’ha già vista: quell’ascoltatore è ovviamente Dio, a cui qualsiasi mottetto è prima di tutto dedicato. Il fatto che un brano musicale (ma in generale una qualsiasi opera d’arte) contenga un messaggio nascosto, e comprensibile solo a Dio, è per l’epoca un fatto normale e normalmente apprezzato.

Però c’è un altro fruitore privilegiato del mottetto di Dufay, che è il musicista che legge la partitura. Anche lui può cogliere le relazioni matematiche (mentre ulteriori segreti rimangono nascosti, destinati al solo Dio), non perché le sente ma perché le vede.

Baude Cordier, Tout par compas, Codex Chantilly, ca. 1400

Baude Cordier, Tout par compas, Codex Chantilly, ca. 1400

Baude Cordier, Belle Bone Sage, Codex Chantilly, ca. 1400

Baude Cordier, Belle Bone Sage, Codex Chantilly, ca. 1400

Questo criterio di una visibilità importante quanto e più dell’udibilità è cruciale per moltissime composizioni del Quattrocento fiammingo, sino al punto di incentivare la creazione di partiture esse stesse con forme particolari, come quella famosa a forma di cuore (anche citata da Capuano) contenuta nel codice Chantilly (intorno al 1400). Senza arrivare a questi estremi, in quest’epoca le inversioni speculari (inverso, cioè le stesse note con i rapporti invertiti, e retrogrado, cioè le stesse note a partire dall’ultima verso la prima) stanno già giocando da tempo un ruolo importante: e parlare di speculare significa già mettere in gioco una dimensione visiva, che l’ascolto non è in grado autonomamente di riconoscere. Il bellissimo e famoso rondeau di Guillaume de Machaut “Ma fin est mon commencement” prevede tre voci: tra le prime due c’è un canone retrogrado (ovvero la seconda canta una melodia che è il retrogrado della prima), mentre la terza canta la propria melodia prima per moto retto e poi retrogrado. (Qui poi, persino il testo concorre al gioco speculare, come si può vedere a questo link).

L’idea di Dio come fruitore privilegiato si perde tra Cinque e Seicento, però mai del tutto. E anche le arditezze geometriche dei musicisti medievali vengono tendenzialmente abbandonate con il tramonto della polifonia. È un declino progressivo e mai totale, che trova un fantasmagorico ritorno di fiamma nell’opera del vecchio Bach, Johann Sebastian.

È un fatto ben noto, infatti, che i suoi contemporanei gli preferirono di gran lunga i figli, specialmente Johann Christian e Carl Philipp Emmanuel. Johann Sebastian era troppo difficile, troppo geometrico, troppo fuori moda, per gli azzimati e superficiali ascoltatori del Settecento. Lo si apprezzava più per la complessità del contrappunto che per la qualità del melodista. E d’altra parte, lui stesso, da bravo luterano, componeva sostanzialmente a maggior gloria di Dio, seguendo il proprio spirito e poco curandosi (però anche curandosi) del piacere dei propri ascoltatori.

Al di là della visione di lui che potevano avere i suoi contemporanei, Johann Sebastian rappresenta davvero una singolare combinazione: da un lato uno straordinario inventore di motivi e di melodie, dall’altro un matematico della musica, il più straordinario gestore di ars combinatoria che sia mai vissuto. Attraverso questa incredibile combinazione di passato e di presente, la musica di Johann Sebastian attraversa il proprio tempo, e lo supera quasi dimenticata per circa un secolo: quasi dimenticata, perché anche se nessuno l’ascolta più, tutti i musicisti la studiano, perché lì stanno le risposte a tutti i problemi del contrappunto.

Poi, Bach viene riscoperto almeno due volte. La prima dal romantico Felix Mendelssohn, che – pur così affascinato dal rigore geometrico da scrivere a propria volta i propri preludi e fughe – ne ripropone soprattutto l’aspetto di melodista e orchestratore: il Bach delle Messe, delle Passioni e delle Cantate, insomma. La seconda, ancora un secolo dopo, quando la sua fama è già piena, da Arnold Schoenberg, che fa del contrappunto di Bach il modello per la propria nuova tecnica compositiva: la dodecafonia.

Siamo negli anni Venti del Novecento. Schoenberg sta cercando un metodo compositivo che lo liberi dai vincoli della tonalità. Lo trova per mezzo di un espediente geometrico, con l’invenzione del concetto di serie dodecafonica, ovvero una serie di dodici note, in cui compaiano tutti (e dunque una sola volta) i dodici toni in cui è divisa la nostra scala. Invece di basare le proprie composizioni musicali sul concetto di tensione tonale, come si era fatto sino a quel momento, Schoenberg inizia a fare uso di questa tecnica, che ha al centro la serie dodecafonica e le sue permutazioni, con particolare risalto di quelle speculari: l’inverso, il retrogrado e l’inverso del retrogrado.

Se si leggono gli scritti teorici di Piet Mondrian di quei medesimi anni, vi si trova il medesimo spirito in una forma ancora più estrema. Mondrian arriva proprio a teorizzare una musica così antinaturalistica e così astrattamente geometrica quale Schoenberg non arriverà mai a comporre. D’altra parte, Mondrian lavora proprio in quel campo del visivo da cui la musica dovrebbe essere lontana.

E invece la tendenza della scuola di Vienna sarà proprio quella, prima con il grande allievo di Schoenberg, Anton Webern, e poi con gli esiti della scuola di Darmstadt del dopoguerra, quando Pierre Boulez arriverà a teorizzare un serialismo integrale, applicato non solo all’armonia ma a tutti parametri della composizione musicale.

Questo trionfo di una concezione geometrica, e quindi di base visiva, della musica segnerà tutta la musica colta della seconda metà del Novecento. La tendenza diventerà regola, così imperativa da sollevare persino le proteste di alcuni tra i musicisti più sensibili, pur appartenenti alla medesima scuola – perché di questo tipo sono le osservazioni che Gérard Grisey muove nel 1980 alla nozione di ritmi retrogradabili promossa trent’anni prima da Messiaen, definendoli risultato di una utopia basata su una “visione spaziale e statica del tempo”.

Sylvano Bussotti, Siciliano (immagine tratta da Andrea Valle, La  notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

Sylvano Bussotti, Siciliano (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)


R. Moran, Four Visions (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

R. Moran, Four Visions (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

A. Logothetis, Odyssee (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

A. Logothetis, Odyssee (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

Non c’è da stupirsi se, all’interno di questa concezione visiva della musica, l’aspetto visivo della partitura ritorni a guadagnare importanza, come già era accaduto nel Quattrocento. Complice l’idea di musica aleatoria, ovvero basata in parte sul caso, o sulle scelte dell’interprete, le partiture finiscono per essere talvolta più delle immagini di carattere evocativo, destinate a stimolare l’immaginazione dell’esecutore, che non notazioni musicali vere e proprie, oppure una combinazione delle due. Come dire che la musica nasce, in tutto o in parte, dall’immagine: il trionfo definitivo del visivo sul sonoro. L’optocentrismo platonico portato alle sue estreme conseguenze.

Era un vicolo cieco. La musica colta contemporanea di oggi lo sa.

Altre strade che ha seguito la musica, nei medesimi anni, l’hanno invece portata molto più lontana dalla dimensione scritta di quanto non accadesse nella tradizione pre-schoenberghiana. In un mondo in cui per i critici musicali e i musicologi la musica si identificava con la partitura, ovvero con la sua dimensione scritta, questa non era una direzione facile. Ne parla un altro bel libro che affronta questi temi, quello di Davide Sparti che ha per titolo Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz (Bologna, Il Mulino 2007), dove si capisce davvero quanto poco del fascino delle sonorità di John Coltrane possa essere ricondotto all’universo visivo. Per quanto comunque il riferimento al visivo e alla scrittura ci sia, e non possa ormai che esserci, almeno in una qualche misura: la musica non potrà mai più essere un fatto sonoro puro.

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di Daniele Barbieri

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