 José Muñoz e Carlos Sampayo, Nel Bar, Quelli che, 1981, pag.14
 Alex Raymond, Rip Kirby, 3 maggio 1956
Qualcosa si capisce, mi sembra, della personalità di José Muñoz e dei fumetti da lui disegnati anche solo dal suo modo di stendere l’inchiostro. Per capire meglio, possiamo prendere come termine di paragone un’immagine di Alex Raymond, a cui già abbiamo dato un’occhiata qualche settimana fa.
Diciamo che il nero di Raymond è naturalistico. Questo di per sé non vuol dire molto, perché la realisticità di ogni immagine è sempre decisa dal contesto culturale in cui la si valuta. E tuttavia nel nostro contesto culturale, che è sostanzialmente lo stesso di Raymond (almeno da questo punto di vista), possiamo dire che questi tocchi di pennello cercano di rendere l’effetto che si avrebbe in una situazione reale, o magari fotografata, con una luce violenta contro l’oscurità.
Ma se il nero di Raymond è naturalistico, allora quello di Muñoz è anti-naturalistico. Questo non vuol dire che sia irreale. Anche qui ‘è una luce violenta contro l’oscurità, e anche qui l’immagine è immediatamente riconoscibile e narrativamente efficace. Ma ci sono troppi segni, e troppo nervosi, quasi geometrici. E mancano le tessiture ad ammorbidire il passaggio trra la luce piena e la piena oscurità. Dove Raymond è morbido e insinuante, Muñoz è duro, e sembra quasi che gridi.
Mi verrebbe da dire che tra Raymond e Muñoz c’è di mezzo Pratt, e il suo uso nervoso e spezzato delle linee. È Pratt che inventa nel fumetto di avventura l’anti-naturalismo, e lo fa in maniera così fluida che spesso il suo pubblico nemmeno se ne accorge, e segue i suoi “deliri” come se fossero del tutto naturali. Rileggetevi con attenzione quel capolavoro che è “Corte sconta detta arcana”, combattendo contro la fascinazione del racconto (cosa non facile), e vi accorgerete – ma solo con fatica – quanto astrusa sia la trama, e quanto irreale il disegno.
Qui, i neri di Muñoz sono ancora più astratti di quelli di Pratt. Non sempre li si può far corrispondere a zone d’ombra, così come non sempre i bianchi sono zone di luce. Quello che importa è il contrasto, e la radicalità dell’effetto; e anche importa che l’immagine appaia complessa, composita, e richieda tempi lunghi per essere letta. È così che il racconto di Sampayo può dipanare, scena dopo scena, ma anche contrasto luminoso dopo contrasto luminoso, tutta la potenza della sua liturgia negativa.
Le linee non possono essere fluide in un mondo che celebra il male. Anche loro devono esprimere l’angoscia di chi racconta, di chi ci deve condurre a sentire e a capire.
Questi succhi
.
Questi succhi
del paradiso che urla ancora
nutrono un’intera ciurma e anche
il più decrepito, pozzanghera della
propria valle, si farà giustizia
nessuno declina
l’invito
sono nati
per tutto l’inverno, con una bocca
in guerra e una bocca perfetta, vicinissime
al pane
e
nei pazzi giungerà l’universo,
quel silenzio frontale dove erano
già stati.
(Milo De Angelis, da Millimetri, 1983)
.
A proposito di cose che la poesia cerca di esprimere anche se le parole non le possono dire, ecco una poesia di Milo De Angelis. Il suo nome è sconosciuto ai più, perché la poesia stessa lo è; ma De Angelis è forse il maggiore poeta italiano vivente, molto, molto meglio di una Merini che ha dovuto la sua fama probabilmente più a una follia giocata mediaticamente molto bene, che non alla sua reale originalità poetica.
Non è una lettura facile. Se ci limitiamo a leggere la sequenza delle parole come se fosse un normale discorso, non capiamo nulla, e troviamo solo una sequenza di immagini senza connessione tra loro. Possiamo azzardarci a un’interpretazione metaforica o allegorica, e allora, faticosamente, qualcosa tireremo fuori – perché qualcosa, in questo modo, si tira fuori da tutto, anche dalle poesie fatte come proponeva Tristan Tzara, estraendo parole a caso da un sacco – ma sarà qualcosa che potrebbe benissimo essere anche qualcos’altro, e dunque, nonostante lo sforzo, di scarsa attendibilità. Insomma, se cercheremo qualcosa di unitario che questa poesia dica, un centro del suo discorso verbale, qualcosa a cui riassumerla, non troveremo nulla: continueremo a percepire tanti frammenti che dicono ciascuno per conto proprio, ma il testo nel suo insieme, quello proprio non si capisce cosa stia dicendo!
Nonostante questo, si tratta di una poesia molto bella, e che a dispetto del suo discorso incomprensibile mi turba. Se anche non dice esplicitamente, evidentemente questa poesia qualcosa esprime, altrimenti non sarei turbato, ma semplicemente annoiato o disinteressato.
Togliamo quindi di mezzo l’idea che la poesia nel suo insieme ci debba trasmettere un messaggio, ci debba dire qualcosa, e proviamo a pensare all’esperienza di leggerla come a un viaggio. Da un viaggio non ci aspettiamo un discorso compiuto, bensì un percorso attraverso realtà singolari e interessanti, magari ciascuna con il proprio discorso (ma spesso nemmeno), che producano in noi una trasformazione e un arricchimento. Viaggiare vuol dire costringerci a un rapporto con l’ignoto, che richiede un continuo nostro lavoro di comprensione, e questo lavoro stesso ci trasforma: nel comprendere, infatti, ci siamo già trasformati, e questo ci permette di comprendere meglio e di più quello che vediamo nel viaggio – ma ci costringe anche, una volta tornati a casa, a rivedere con occhi diversi i luoghi della quotidianità, già dati per scontati.
Se concepisco il testo come un territorio, un ambiente, e la lettura come un viaggio, forse posso cavar fuori qualcosa di più dalle parole di De Angelis. Posso accorgermi, per esempio, di quell’aria montaliana ed ermetica che spira in un testo che non è, tuttavia, né montaliano né ermetico, perché non ha né il filosofeggiare poetico di Montale né la politezza alessandrina di Luzi e degli ermetici. Ma questo richiamo funziona lo stesso, specie nel confrontarsi con parole dure come “urla”, “ciurma”, “decrepito”.
Mi verrebbe da dire che l’operazione di De Angelis ricorda quella di Balestrini, quando prende le parole abusate della comunicazione di massa per assemblarle in un testo poetico. Ma l’operazione di Balestrini è glaciale, lucidamente intellettuale, e palesa il disprezzo per il materiale utilizzato. De Angelis, analogamente e insieme diversamente, prende parole e frasi già usate; queste parole e frasi sono però quelle della tradizione poetica, o del discorso affettuoso, o di quello emotivo; parole consumate, ma ugualmente amate, parole che bisogna sottrarre al vaniloquio, al luogo comune, per rimetterle in gioco. Questo amore per queste parole amorose, emotive, si sente nei versi di De Angelis, li percorre continuamente.
Ed è questo che questi versi esprimono, per cui nel nostro viaggio dove riconosciamo frammenti di mondo ma non siamo in grado di dargli un senso complessivo, percepiamo comunque costantemente questa affettività, ora tenera e ora violenta. È ovvio che non ci sono solo pezzi di Montale e di Luzi in questi versi, ma c’è tutto quello che siamo in grado di sentirci. Il fatto è che ogni verso è pieno di echi, anche nel ritmo, e nel modo in cui è tagliato e va a capo, o in cui lascia il discorso per un attimo sospeso.
Non chiediamo a un brano di musica di dirci qualcosa di preciso, di essere un discorso compiuto. Quello che chiediamo alla musica è di farci fare un viaggio, dove luoghi significativi diversi si giustappongono, e alla fine il nostro umore, il nostro stato emotivo dipende dal percorso su cui siamo stati trasportati. Perché dovremmo chiedere alla poesia qualcosa di diverso? Perché siamo abituati diversamente, forse, e quindi ci appare più facile. Sicuramente ascoltiamo molta più musica di quanta poesia leggiamo, per non parlare della musica che udiamo soltanto, senza ascoltarla. La musica sembra dirci di più di quanto ci dica questa poesia di De Angelis. Magari è solo questione di competenza precedente, di saper riconoscere i temi, le allusioni, i passaggi.
Alla fine, comunque, dopo tutto il percorso del viaggio, se lo abbiamo effettuato con attenzione, e magari ripetuto, e ripetuto ancora, sembra quasi che un discorso emerga davvero dalle parole di De Angelis, proprio come quando ripensiamo a un viaggio vero, compiuto qualche tempo fa. Ogni luogo ha una sua personalità, come ogni musica; ce l’ha senza la chiarezza del dire – anche se faticosamente possiamo poi provare a descriverlo; ce l’ha come ce l’ha un profumo, o il suono del clarinetto (tanto per citare Wittgenstein).
Per fortuna, non tutto è dicibile. Ma ci sono altri modi per esprimerlo.
(Se tuttavia mi si concede una piccola nota polemica, è davvero necessaria questa difficoltà per ottenere questa qualità? Anche in un viaggio, la difficoltà non è in sé indice di qualità, è solo il prezzo che ci ritroviamo a dover pagare. A pari qualità – che è ciò che conta – vale davvero la pena di pagare un prezzo più alto?)
 Pentole a Tiruchirapalli
Questa foto è stata scattata di notte, nella zona del mercato, a Tiruchirapalli. Mi piace, anche se è leggermente mossa, perché ritrae un inno ingenuo al consumismo. Questo soffitto argentato di pentole in acciaio inossidabile, inframezzate di splendenti luci al neon, che si rifrangono all’infinito in migliaia di culi di pignatte, sarebbe insopportabile a una massaia europea, persino a una mitica casalinga di Voghera. E invece qui è bello, normale, eccitante, sfolgorante come il dio Shiva.
Le bimbe sgambettano felici, i genitori si sentono avvolti nella luce davvero abbagliante della modernità. Che ci sta a fare lo sguardo così gentile della guardia giurata, rivolta al turista occidentale che fotografa stupefatto questo tempio profano? Perché non castiga invece il mio stupore, quello di uno che viene da un mondo assai più consumistico di questo?
Qualche volta davvero gli indiani mi sembrano tutti bimbi, felici dei loro giocattoli splendenti, gentili e ottimisti di fronte a qualsiasi cosa. Anche i loro edifici sacri sono così; trasmettono lo stesso entusiasmo, lo stesso stupore di fronte a quello che luccica. Forse è solo a noi moralisti occidentali che questa felicità puerile appare in contraddizione con le profondità del Vedanta.
 Lorenzo Mattotti, Fuochi, pagg. 7 e 8
A proposito di cose che il fumetto cerca di esprimere anche se l’immagine non le può rappresentare (come il caldo, di cui abbiamo parlato nel post precedente), ecco due pagine da Fuochi di Lorenzo Mattotti (1984). Sono le pagine dove si racconta del primo contatto del tenente Assenzio con l’isola di Sant’Agata.
L’isola ha due volti, molto diversi fra loro ma entrambi caratterizzati da una forte emotività: quello solare e pacifico del giorno, e quello bruciante e drammatico dei fuochi che illuminano la notte. Assenzio ha già avuto una premonizione del secondo, e ora sta entrando in contatto col primo. In queste due pagine Assenzio lascia l’universo freddo, meccanico e geometrico della corazzata per scoprire quello caldo, soffuso e naturale dell’isola. Sono – in particolare la seconda – tra le pagine più belle della storia di Mattotti.
Dal momento in cui i marinai approdano all’isola, eccoli ridotti a figure minuscole immerse in una realtà naturale soverchiante, un immaginario figurativo sospeso tra impressionismo e Nabis. Questa natura non ha forme se non indistinte; è fatta di macchie di colore, a loro volta macchiate di luce, e questa luce possiede ancora altri colori. Le parole pronunciate dai personaggi sono poche, proprio mentre si inserisce una voce fuori campo che non è quella del narratore, ma quella di qualcuno che gli sta parlando dentro. Le immagini disegnate da Mattotti raffigurano i paesaggi dell’isola, ma è il modo in cui questi paesaggi vengono rappresentati a rappresentare, a sua volta, l’esperienza di coinvolgimento stordente che sta vivendo il protagonista: sono i suoi occhi a vedere in questo modo, a restituirci una realtà che sembra uscita da un dipinto di Vallotton.
Noi intuiamo come dovrebbe apparire quella realtà se fosse rappresentata realisticamente, ed è attraverso il confronto tra come dovrebbe essere e come invece è che comprendiamo il vissuto di Assenzio. Più che comprenderlo, forse lo viviamo pure noi, attraverso non solo i suoi occhi ma anche attraverso il modo in cui la sua percezione deforma il mondo. In qualche modo, il senso di solare meraviglia che suscitano i dipinti campestri di Monet, di Renoir, di Vallotton, si trasforma qui in narrazione del sentimento del protagonista; proprio come accadrà, poche pagine più avanti, in un segno emotivo opposto, con gli angosciosi deliri delle figure di Francis Bacon.
Invece di usare parole, Mattotti usa modi di raffigurare. Non ha bisogno di dire che cosa sente Assenzio, e naturalmente non può direttamente mostrarlo nell’immagine: nessuna rappresentazione delle espressioni del volto potrebbe mai trasmettere tutto questo. Lo può invece trasmettere una serie di inquadrature soggettive, o semisoggettive, attraverso l’andamento dell’alterazione del mondo percepito.
È poi c’è, di colpo, questo rallentamento dell’andamento ritmico. Proprio quando compaiono le parole della voce fuori campo, la storia incredibilmente rallenta, quasi si ferma: anche la sospensione narrativa racconta lo stato emotivo di Assenzio.
Quando le immagini sanno raccontare con tanta forza, il loro fascino si deposita dentro di noi. Da quel momento tendiamo a vedere il mondo anche attraverso di loro. Nella foto che ho messo qui sotto, scattata da me qualche anno fa, c’è sicuramente la traccia di queste pagine di Fuochi.
 Prato a Villa di Sassonero
 Frank Miller, Klaus Janson, Lynn Varley, The Dark Knight Returns pag. 3 (dettaglio)
Ci dicono che farà ancora più caldo i prossimi giorni, e a me vengono in mente le prime pagine del capolavoro di Frank Miller. Gotham City è immersa in un’afa mortale, una tensione climatica che corrisponde alla tensione che agita lo spirito del vecchio Bruce Wayne. Non a caso, qualche pagina dopo, l’arrivo del temporale coinciderà con il primo rientro in scena del Batman.
Mi viene da domandarmi allora come faccia il fumetto a rendere l’effetto caldo. Le immagini che Miller ci propone sono efficaci, ma da sole non bastano: potrebbero benissimo rappresentare anche l’alba su una città invernale, il cui cielo è attraversato dai fumi dei camini o dell’inquinamento. Tuttavia, quando arriviamo a queste vignette, Miller ci ha già introdotto narrativamente il tema del caldo, ed è per questo motivo che in queste immagini riconosciamo non dei fumi ma delle volute di umidità, e il sole vi appare come una sorta di demone maligno e spietato.
Il fumetto, e in generale l’immagine, non può esprimere l’eccesso di calore se non attraverso i suoi effetti sulle persone e sulle cose. Però una volta che il tema è impostato, può anche riuscire a essere drammaticamente efficace. Guardate come nella sequenza riportata qui sotto, anche senza leggere le parole, il tema del calore salga nelle prime quattro vignette per poi esplodere nell’ultima, dove persino la grande dimensione diventa espressione del grande caldo!
Dobbiamo aspettare anche noi una qualche risoluzione emotiva di un qualche Batman per trovare un po’ di respiro? Magari, se vivessimo in una storia, in una bella storia…
 Frank Miller, Klaus Janson, Lynn Varley, The Dark Knight Returns pag. 6 (dettaglio)
Prima dell’invenzione o dell’adozione della scrittura la prosa non esisteva. C’era solo la poesia. La poesia era un modo per organizzare le parole in modo da favorire la memorizzazione, attraverso le ricorrenze metriche, sintattiche e semantiche. Associato alla natura metrica di questo strumento di memorizzazione, c’era il racconto, un altro potente strumento per aiutare la memoria. E naturalmente la poesia era cantata, così che la melodia sostenesse ulteriormente la memoria: ancora oggi i testi delle canzoni si ricordano più facilmente di quelli delle poesie, per non dire della prosa.
Jesper Svenbro (Storia della lettura nella Grecia antica, Laterza 1991) ci ricorda che nell’antica Atene persino le leggi venivano cantate, e non mi stupirebbe scoprire che non avevano la forma imperativa che assumono dalla romanità in poi, ma erano magari una sorta di racconti esemplari. In fondo gli stessi poemi omerici non erano soltanto i canti delle gesta degli eroi, ma anche un grande catalogo della conoscenza pratica e sociale dei greci.
Con la scrittura il potere mnemonico del verso diventa meno rilevante, e persino presso i Greci nasce la prosa. La poesia non scompare, però, inevitabilmente, ridefinisce (e riduce) il suo campo – come sempre succede quando viene messo in gioco un medium nuovo. Il legame stretto con la musica (almeno in Europa) si rompe solo nel XIII secolo, non del tutto disgiuntamente dal fatto che da non più di un paio di secoli si stava diffondendo l’abitudine di leggere la scrittura senza articolare la voce, cioè solo con gli occhi. Da quel momento, la poesia diventa (in Europa) un fenomeno colto, sdegnosamente separato da forme popolari analoghe che ancora mantengono il legame con la musica – o, al massimo, cautamente ricongiunto in certi momenti con forme particolari di musica colta, come il madrigale.
Sino ai primi dell’Ottocento il verso viene ancora utilizzato per diversi generi, tra cui teatro e poema (epico, didascalico, eroicomico…). Poi, il Romanticismo pone termine alla loro agonia, sancendo la coincidenza tra l’universo della poesia e quello di uno solo dei suoi generi, la lirica. Ancora nel corso del secolo, nelle scuole italiane si insegnava a scrivere componimenti in versi, di argomento vario. Oggi la cosa ci fa sorridere: ci sembra l’insegnamento di una competenza inutile (a chi interessa saper scrivere in versi una relazione di lavoro?), o che manca il bersaglio (ovvero la capacità di colpire nel segno, esprimendo gli affetti, che è tipica della buona poesia come la intendiamo noi). Il Novecento fa piazza pulita di tutti questi residui.
La rivoluzione della metrica che impazza soprattutto tra Francia e Italia a cavallo dei due secoli (anche se i primi versi liberi sono tedeschi e inglesi, e il loro profeta, Walt Whitman, è americano) sancisce definitivamente il modo nuovo di intendere la poesia; e nel momento in cui la poesia coincide con la lirica, inizia ad avere senso parlare anche di poesia in prosa, come quella delle Illuminations di Rimbaud o dei Canti Orfici di Campana. Ha senso perché quando si dice poesia si intende ormai lirica, e dunque l’espressione poesia in prosa va intesa come lirica in prosa, e non come composizione in versi senza versi.
La coincidenza tra il significato del termine poesia e quello del termine lirica è ormai per noi così forte, che ci sentiamo imbarazzati a definire poesia, per esempio, un indovinello, che pure è in versi; mentre non abbiamo problemi a definire poetico un racconto o un film, dove di versi non ce n’è nemmeno l’ombra.
Potremmo dire che la lirica è l’ultima linea di resistenza della poesia, in un mondo sempre più dominato dalla scrittura e dalla sua razionalità. E la poesia si è rifugiata nella lirica perché l’intimità personale è forse l’ultimo ambito rimasto che reputiamo inattaccabile dalla razionalità scientifica. In altre parole, una scrittura che vada al punto, che voglia essere razionale e precisa nelle sue descrizioni, non ha bisogno del verso, il quale è piuttosto espressione di una scrittura che non si separa dagli echi del significato; e il significato cresce nel tempo per accumulazione, senza liberarsi mai del tutto dai suoi strati precedenti.
In questo senso, la scrittura poetica è più vera, perché testimonia continuamente il processo che ci porta a essere quello che siamo. Non è una verità come quella della scienza, in termini di adaequatio rei et intellecti, di cartesiana chiarezza e distinzione, perché quest’ultima presuppone che vi siano già degli scopi cognitivi ben chiari; privilegiare il processo rispetto allo scopo significa al contrario accettare che pure gli scopi possano essere incerti.
“Superare la lirica” sembra essere il motivo diffuso tra molti poeti e critici del momento. E tuttavia è singolare che un’antologia, come quella di Enrico Testa, che porta il titolo emblematico di Dopo la lirica (Einaudi 2005) sia per metà fatta di poeti come Sereni, Caproni, Luzi, Bertolucci, Fortini, Zanzotto, Volponi, Erba, Orelli, Giudici, Ripellino… Posso forse trovare un senso al dichiarare antilirici poeti come Pagliarani e Sanguineti. Ma di nuovo mi ritrovo imbarazzato nel ritrovare arruolati dopo la lirica la Rosselli, Raboni, Loi, Baldini, Bellezza, persino la Merini.
Senza proseguire l’elenco, alla fine la sensazione che rimane è che l’antiliricità di cui si parla non sia che un obiettivo di facciata, e, in fin dei conti, semplicemente un modo per affermare che i poeti presenti nella raccolta sono bravi. Si suggerisce, in fin dei conti, che la generalizzazione (innegabile) del lirismo nei media abbia resa applicabile l’equazione lirismo oggi = paccottiglia, e che, di conseguenza, se una poesia è buona allora non è lirica. In poche parole, siccome molto lirismo è paccottiglia allora tutto il lirismo è paccottiglia, e poiché questi poeti non scrivono paccottiglia allora questi poeti non sono lirici!
Non credo che su questa strada si possa andare molto in là. Non mi pare nemmeno che il problema sia la lirica. Semmai lo è quella parodia della lirica che argutamente Sanguineti definì il poetese. Ma condannare la lirica nel suo insieme in nome della cattiva lirica mi pare una vera operazione demagogica, non dissimile da quella dei leghisti che sostengono che tutti gli immigrati sono criminali (visto che qualcuno, indubitabilmente, lo è).
“Riduzione dell’io” è un’altra vecchia parola d’ordine, collegata (ma non equivalente) al superamento della lirica. Era la parola d’ordine dei Novissimi, quella che permetteva di contrapporre l’intellettualismo storicista di Sanguineti al crepuscolarismo intimista di Pasolini (a dispetto del suo impegno politico). Tuttavia, in fin dei conti, tra gli stessi Novissimi, gli unici che davvero l’abbiano messa in opera sono stati Pagliarani e Balestrini. Sanguineti ha sempre giocato a cavallo tra io e non-io. Giuliani e Porta sono rimasti – vittoriosamente, specie Porta – di qua.
A questo punto viene da domandarmi se davvero vi sia contrapposizione tra lirica e poesia civile, tra lirica e correlativo oggettivo o tra lirica e poesia che mette in primo piano le cose. Questo soggetto che sembra venire sbattuto fuori dalla porta nelle poesie (appunto) di Porta, non rientra forse dalla finestra? E se non ci ritrovassimo le nostre personali vite e il nostro personale rapporto con il mondo e con le cose, davvero apprezzeremmo Pagliarani e Balestrini e le cose in primo piano messe da Porta?
E allora l’opposizione alla lirica cos’è? Forse nascondere il soggetto, l’io, dietro l’angolo, far finta che non ci sia?
Ho assistito qualche giorno fa (il 17 giugno, a S. Lazzaro di Savena) a una presentazione del volume collettivo Prosa in prosa (Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Andrea Raos, Michele Zaffarano; Fuori Formato, Le Lettere 2009). Certo, sin dal titolo dell’antologia si gioca sull’assenza della poesia; ma è un’assenza molto presente: non si parla di prosa, nell’uso corrente, se non per contrapposizione alla poesia (altrimenti, e di solito, si parla di romanzo, di critica, di diario, di giurisprudenza, di manualistica o di qualsiasi altro specifico genere). Prosa in prosa, come titolo, vuole andare un passo più in là di poesia in prosa, che verrebbe inesorabilmente letto come lirica in prosa. Il secondo prosa del titolo afferma l’assenza dei versi, mentre il primo afferma l’assenza della lirica.
Eppure – sarà per deformazione mia – quando trovo interessanti gli elenchi di azioni e/o oggetti che costituiscono i microtesti di questa antologia, è perché ci riconosco un’io nascosto, in azione e in espressione. Insomma, nella misura in cui quei testi mi colpiscono è perché ci ritrovo semplicemente della lirica in prosa, in una linea che arriva da Pagliarani e Porta.
Alla fine dei conti, la mia sensazione è che quando si esce davvero dal campo della lirica (quella buona, non la paccottiglia) si sia comunque già fuori dal campo della poesia – mentre il converso non è vero, perché la lirica comprende ormai anche frange di prosa e di cinema e di fumetto e di altri mondi ancora. Le sperimentazioni (che sono doverose) producono spesso oggetti complessi, ma non siamo capaci di definirli poesia (che esse abbiano i versi o meno) se non possiamo ricondurle in qualche modo a quel modello, quello della lirica (magari con l’io nascosto e le cose in primo piano). Persino quel poco di epica che si è prodotta in decenni recenti (a cui La ragazza Carla, e La ballata di Rudy appartengono) è un’epica comunque lirica: magari se si togliesse loro il verso e li si riducesse a prosa parte di questo lirismo se ne andrebbe – ma non a caso Pagliarani ha scritto in versi, e non in prosa.
Il problema dunque, io credo, non è né ridurre l’io né superare la lirica. Il problema è semmai quello di fare una lirica che non sia paccottiglia, in cui l’io esprima un rapporto con le cose e con gli altri in cui ci si possa riconoscere, in cui sia presente il mondo e siano presenti le sue emozioni e ci sia una verità – non l’impressione del già detto, del rifritto, del costruito a tavolino per vendere, del falso-romantico con la sua strabordanza dell’io! Anche l’avanguardia ha prodotto la sua paccottiglia, e ha le sue dinamiche di successo. Ma l’avanguardia è finita. Dopo la lirica c’è soltanto la lirica, quella buona – almeno sino a quando non scomparirà pure questa ultima forma di poesia.
 Volto di cavaliere sul muro esterno del Kailasanather Temple a Kanchipuram
Il tempio Kailasanatha a Kanchipuram è il più antico tempio costruito del sud dell’India, e risale ai primi anni dell’ottavo secolo. Più indietro nel tempo ci sono solo i templi scolpiti direttamente nella pietra delle colline rocciose di Mamallapuram, non lontano da qui.
Il tempio è dedicato a Shiva, ed è di una bellezza straordinaria. Vi ho scattato centinaia di foto, cercando di portarmene a casa l’anima, peraltro inutilmente. Sul muro esterno c’è una sequenza di rilievi di cavalieri, che montano creature fantastiche. Molti sono erosi dal tempo, ma alcuni rimangono ben conservati. Al volto di questo ho scattato diverse foto, perché aveva qualcosa di indicibilmente attraente.
Poi Elio Di Raimondo ha avuto la sfacciataggine di commentare questa immagine con queste parole: “vorrei essere guardato così almeno una volta al giorno. Potrei vivere cent’anni di felicità”.
E grazie a lui ho capito il fascino di quella lontana figura.
 Dino Battaglia, La caduta della casa degli Usher (da Poe), 1969
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Gli antichi, greci e romani, non conoscevano lo spazio bianco. Non conoscevano neanche la minuscola, né la punteggiatura. COSIITESTISCRITTIAPPARIVANOALOR OINQUESTOMODOELEGGERENONERAAFFATTOUNCOMPITOSEMPLICECOMESIPUOF ACILMENTECAPIREDAQUESTERIGHE. I romani, che avevano uno spirito più pratico dei greci, a volte (non sempre) inserivano un puntino per separare le parole. Ma si capisce bene perché la lettura interiore, senza la voce, fosse prerogativa di pochissimi intellettuali. Se provate a leggere ad alta voce, vi accorgerete che il testo continuo acquista più facilmente senso.
L’invenzione (medievale) dello spazio bianco rende distinguibili le parole al colpo d’occhio, e permette, col tempo, lo sviluppo della cosiddetta lectio spiritualis, ovvero la lettura interiore, fatta solo con gli occhi, quella che noi pratichiamo normalmente. Lo sviluppo della punteggiatura migliorerà ulteriormente questa situazione.
Senza lo spazio bianco il fumetto non potrebbe esistere. Lo spazio bianco è ciò che ci permette di distinguere non le singole parole del fumetto, ma quelle unità narrativo-ritmiche che sono le vignette. In effetti, non è necessario che di uno spazio bianco si tratti. Tutto sommato, anche il puntino separava abbastanza bene le parole, però lo spazio bianco si è imposto perché mediamente più efficiente. Nel fumetto, la situazione è analoga: al posto dello spazio bianco possiamo avere uno spazio di un altro colore, o una semplice linea, o un semplice palese cambio di sfondo (come in tante pagine del secondo Eisner). Però il fatto che nella maggior parte dei fumetti il separatore sia lo spazio bianco è un forte indizio della sua maggiore efficienza media (maggiore efficienza media non vuol dire che sia sempre meglio – c’è sempre qualche caso in cui può essere migliore una scelta diversa – ma vuol dire che è la scelta migliore nella maggior parte dei casi).
Lo spazio bianco funziona bene perché è un vuoto, un’assenza, uno iato, un non-essere; lo si guarda senza vederlo, senza che l’attenzione gli si rivolga mai. Ma se lo si elimina non c’è più il racconto, non c’è più la sequenza; oppure, nella migliore delle ipotesi c’è una sequenza continua e confusa da sbrogliare come succede nell’esempio verbale in tutto maiuscolo fatto sopra. Qualcosa, insomma, che richiede uno sforzo intellettuale notevole, e che deve garantire al lettore una soddisfazione fruitiva per lo meno equivalente (una ricetta insomma dal successo poco probabile).
Questa natura neutra dello spazio bianco lo rende un buon candidato per dei raffinati giochi di senso, in cui il bianco come confine tra le immagini si mescola e confonde con il bianco di sfondo, e le figure emergono al tempo stesso dal nulla del loro sfondo spaziale e dal nulla del tempo sospeso tra un evento e l’altro (tra una vignetta e l’altra, tra un battito e l’altro del racconto).
Anche Eisner ha fatto spesso uso di questa ambivalenza del bianco, ma il maestro di questi giochi è stato sicuramente Dino Battaglia, ai cui spazi bianchi ho dedicato, nella mia vita, diverse pagine in diverse occasioni, e che non finisco mai di apprezzare.
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Aggiungo qui due brevi segnalazioni, di tema differente.
La prima, se leggete il francese, è quella di questo bellissimo post su
Science-fiction et bande dessinée : années 1960, dedicato sostanzialmente a Jean-Claude Forest e ai suoi indimenticabili Barbarella e Les Naufragés du temps (con Paul Gillon). Il post compare sul blog Phylacterium, dove gli scritti interessanti e competenti sono tutt’altro che rari.
Forest è indubbiamente uno degli autori francesi di fumetti più importanti del Novecento, e uno che mi ha fatto molte volte sognare, anche proprio con quelle stesse serie di cui si parla qui.
La seconda segnalazione è che domani 1 luglio su questo blog non appariranno post, ovvero questo blog tacerà, in adesione alla manifestazione indetta dalla Federazione Nazionale della Stampa, contro la legge bavaglio.
 Geo McManus, Les jeunes mariés, da Nos Loisirs n. 25, 1907
Nel post del 29 giugno del suo bel blog, Neuf et demi, Thierry Groensteen ci presenta questa immagine, che lui trae a sua volta da uno studio di Eckart Sackmann e Harald Kien pubblicato nel volume Deutsche Comicforschung 2010. (L’immagine che Thierry ci propone è purtroppo a bassa risoluzione, per cui è inutile cercare di ingrandirla). Si tratta della versione francese di una serie americana, di Geo McManus, The Newlyweds, precedente di qualche anno alla più nota Bringing up Father.
La pagina ci viene proposta come esempio della difficoltà che all’inizio del Novecento i giornali europei hanno, e per parecchi anni continueranno ad avere, ad accettare l’idea di una narrazione fatta principalmente d’immagini. Ma l’esempio in questione è particolarmente interessante perché, a differenza di quello che accade di solito, i balloon non sono stati cancellati, e ciononostante il testo che accompagna le vignette è un testo di dialogo, fatto di battute così esplicitamente teatrali da riportare, qua e là, le stesse note che a volte portano i copioni teatrali stessi: “a parte”, “a se stesso”…
Questo ci fa intuire alcune cose su come doveva essere inteso nella vecchia Europa il nuovo fumetto che proveniva dall’America. Non una narrazione per immagini indipendente, come oramai erà già negli USA, dove la parola fa parte della scena rappresentata, bensì un set di tipo teatrale, dove la parola precede l’immagine ed è comunque più importante, come succedeva chiaramente nel teatro dell’epoca, basato sulla testualità letteraria del copione e sulla sua messa in scena. Visto in questo modo, il teatro non è poi così lontano dal racconto illustrato, con il tramite del cantastorie che racconta a voce alta mostrando le immagini.
Questo modello tutto basato sulla parola scritta è talmente forte da permettere ai lettori di Nos Loisirs di accettare anche una situazione testuale assurda come quella che vediamo qui, in cui ci sono dialoghi che accompagnano le immagini e dialoghi dentro le immagini – senza che si possa capire in che relazione stiano tra loro. È un po’ come se i dialoghi nei balloon facessero parte delle immagini stesse, cioè della parte illustrata, mentre il racconto vero scorre sotto, nelle didascalie.
Questo mi dà ulteriore ragione di pensare che qualcosa di nuovo è davvero successo in America, qualche anno prima, e che il fumetto non poteva nascere in Europa, perché questa è la fine cui sarebbe stato destinato: una versione statica del teatro, una narrazione per immagini, dove la narrazione è inevitabilmente legata alla parola. Forse Outcault e i suoi immediati contemporanei non hanno inventato molto, ma il piccolo passo che hanno fatto non sarebbe mai stato possibile nell’Europa di quegli anni (e di molti anni a venire), troppo letteraria, troppo legata alla parola e alla scrittura.
Mi viene da pensare che, paradossalmente, la fortuna del cinema è di essere nato muto, e di essere stato costretto, per questo, a nascere come arte dell’immagine in movimento, e non del racconto. Se fosse nato con la parola, è piuttosto probabile che in Europa non avrebbe avuto una sorte molto differente da quella del fumetto.
Magari l’America si sarebbe salvata lo stesso. E comunque, quando il sonoro è arrivato, per fortuna, c’era già abbastanza storia per non poter più tornare indietro.
E infine – guarda un po’ – gli anni dell’adozione del balloon in Europa sono grosso modo gli anni dell’invenzione del sonoro nel cinema. Non ci sarà un legame?
 Vasca nel tempio di Kachabeshwarar a Kanchipuram
Anche se leggermente mossa, questa foto esercita molto fascino su di me. L’ho scattata nel tempio di Kachabeshwarar, a Kanchipuram.
Nel Tamil Nadu, tutti i templi di grandi dimensioni contengono una o più vasche: l’acqua è sacra, in India. Molte volte, però, esse non sono accessibili.
Sarà che quest’acqua in cui vediamo il riflesso dei recinti e delle cupole del tempio mi appare come una metafora del velo di Maya, che ci impedisce di vedere il mondo come è davvero; o sarà per il ribaltamento tra pietra e cielo, con quegli alberi che si intravvedono proprio in basso. Sarà per la composizione a strisce orizzontali, interrotta qua e là dagli eventi. Sarà anche per l’andamento irregolare dei gradini, speculare a quello delle cose nell’acqua.
O sarà appunto per l’evento della marginale conversazione tra quei giovani, a sua volta riflessa dall’acqua, mentre il gesto languido della ragazza che muove il piede nella freschezza della vasca crea un ponte, un tramite tra i due mondi. Sarà perché quel gesto me l’ha fatta desiderare, e qui, nella foto, lo ripete all’infinito.
24 Giugno 2010 | Tags: Alberto Salinas, Carlos Gomez, comunicazione visiva, Dago, estetica, fumetto, ritmo, rito, Robin Wood | Category: comunicazione visiva, estetica, fumetto |  Carlos Gomez, Dago
Riprendo questo tema che ha lanciato Harry qui, e l’ha poi ripreso qui, dopo un mio commento in cui gli chiedevo di spiegarmi perché anch’io leggo così volentieri Dago. Intendiamoci, si parla delle storie contenute nel mensile Dago Ristampa (che contiene le ristampe delle storie già pubblicate sui settimanali della Eura/Aurea), scritte da Robin Wood e disegnate da Carlos Gomez – e non confondiamolo col mensile Dago, che pubblica storie nuove, scritte e disegnate da altri apposta per il mercato italiano, di qualità mediamente molto bassa, e di cui non varrebbe affatto la pena di parlare (e nemmeno di leggerlo, in verità). A vantaggio di chi si è perso quello che è uscito sin qui, dal 2008 è iniziata anche la ristampa della ristampa, a colori, nella Collezione Tuttocolore.
Il mistero è questo: Dago è un fumetto seriale. I disegni, prima di Alberto Salinas e in seguito di Carlos Gomez, sono di ottima qualità. Le storie, a giudicare dalla passione con cui io stesso e tanti altri le leggiamo, pure: ma i temi ormai si ripetono, e anche prima che all’interno della serie si ripetessero erano noti e stranoti, puri stereotipi di genere, strabordanti di un moralismo che in altre circostanze io troverei stucchevole, popolati di personaggi già conosciuti mille volte. Inoltre, se uno ha praticato un po’ il fumetto argentino, tutto questo appare ancora più vivido, e più ossessivamente ricalcato.
Insomma, la mia testa mi dice che, se devo giudicare da questo, Dago non è che un ennesimo prodotto seriale che non fa che ricalcare percorsi già pesantemente calcati da altre mille storie, roba buona per lettori poco esperti, o dal palato grezzo. Eppure, a dispetto di questo, mi ritrovo ogni tanto a domandarmi quando uscirà il prossimo numero; e poi, quando torno a casa dall’edicola dove ho fatto incetta di nuove uscite, la mia prima lettura è inevitabilmente Dago. Di conseguenza, o il mio palato fumettistico è davvero grezzo, oppure in quello che la mia testa mi dice c’è qualche errore o mancanza.
Harry suggerisce questo:
Ma osservando da un altro punto di vista la risposta è antropologica: Wood sa raccontare la vita nei suoi bisogni primari. Prima ancora che tecnico, è un successo basato sulla sensibilità artistica dello sceneggiatore. Wood mette a nudo le dinamiche primarie che muovono le esistenze. Il filtro della guerra in forma di dramma svela gli attaccamenti, il desiderio sessuale, il bisogno di affermazione, la crudeltà, la fame, la vendetta, la sacralità della vita, e così via. Di questo Wood sa raccontare alla perfezione. E ogni tassello, ogni ritorno, ogni variazione, offrono un’opportunità di comprensione. Il gioco funziona, insomma, per forza dell’occhio con cui Wood osserva e della sua forza evocativa. Doni rari.
Tutto questo è vero, ma in realtà non mi basta. Ci sono tanti fumetti che affrontano questi temi e non hanno certo la qualità di Dago. Però quello che Harry dice è ugualmente utile a circoscrivere meglio il problema: ovvero, dunque, come fa Wood a mettere a nudo così bene queste dinamiche primarie? In che cosa consiste la sua perfezione?
Voglio approfittare anche di un suggerimento che proviene da un altro lettore appassionato di Dago, cioè Umberto Eco, che nell’introduzione al convegno La linea inquieta, nel 2004, diceva:
Cito Dago come caso interessante perché in esso si manifestano tre fenomeni molto ben distinti: (i) la rivisitazione visiva sia della tradizione rinascimentale che della tradizione dei grandi illustratori moderni come Gustavino; (ii) la sapienza narratologica di Robin Wood nel realizzare una combinatoria infinita di vari topoi romanzeschi, da quelli picareschi a quelli neogotici e romantici; (iii) l’assoluta banalità stilistica del discorso verbale, che si attiene a una retorica da feuilleton ottocentesco, e senza alcuna ironia sottintesa. Aggiungerei che dal punto di vista sociologico è forse proprio questa strana commistione che giustifica il successo popolare della serie, ma ecco che si vede come un’analisi sociologica debba sovente essere preceduta da una valutazione critica molto rigorosa.
Anche qui non andiamo molto al di là di qualche intuizione, però trovo che sul fuoco ci sia già più carne. Intanto vi si osserva che non è che Salinas e Gomez siano semplicemente bravi disegnatori, ma che in questa bravura è presente una competenza iconologica che ci permette di collegare continuamente Dago a una serie disparata di tradizioni, da quella rinascimentale (epoca di ambientazione delle vicende) a quella otto-novecentesca degli illustratori (epoca in cui si forma la nostra competenza visiva di lettori).
La banalità stilistica del racconto verbale è quello che potremmo definire il basso continuo della serie: una specie di accompagnamento necessario, senza il quale non si comprenderebbero le vicende, ma che è il più banale e scontato possibile proprio perché non deve attirare l’attenzione: si legge e scorre via. L’accento è su altro.
E poi c’è la combinatoria infinita dei topoi romanzeschi, presi dalle tradizioni più diverse, che corrisponde, sul piano narrativo, alla competenza iconologica su quello visivo. È come dire che il lettore di Dago ritrova continuamente il già noto, però intrecciato in combinazioni non necessariamente note.
Di nuovo, tutto questo è vero, ma ancora non basta. Ci avvicina un po’ alla soluzione, ma non ce la dà.
E allora proverò a esplorare dentro di me, a capire quali sono le sensazioni che mi tengono avvinto a queste storie, senza escludere neanche le più banali.
Così, intanto, c’è l’ambientazione storica. La prima metà del Cinquecento è un periodo già di per sé affascinante (per me in particolare, anche prima di Dago): l’Europa è ricca, piena di artisti e di entusiasmo, ma è già scivolata in un’epoca di guerre feroci e di contrapposizioni religiose, che la stanno portando molto vicina al disastro. Da questo punto di vista la documentazione di Wood è davvero rigorosa; è ovvio che la storia di Dago è fantastica, però ogni tanto si incrocia con eventi e personaggi storici: ho fatto diversi controlli, ma non sono riuscito a cogliere Wood storicamente in fallo.
Poi, c’è la ricchezza dei temi: è vero che i temi si ripetono e che si rifanno sempre a un qualche modello noto, però sono tantissimi, e di conseguenza è multiforme la loro combinatoria. Non so se si possa dire che Wood è capace di sottigliezza psicologica: i personaggi appartengono tutti a casistiche abbastanza ben definite, di provenienza follettonistica. Però sono combinati così intelligentemente con la storia in cui agiscono che anche nel rispetto dello stereotipo appaiono credibili, convincenti, molto umani.
Poi c’è la questione del moralismo. Certo, in Dago il bene è bene e il male è male, però c’è anche un’ampia zona intermedia, e non è detto che il bene trionfi sempre pienamente. Lo stesso Dago, il protagonista, sempre pronto a battersi per cause giuste, porta nel cuore un desiderio sanguinoso di vendetta. Complessivamente i morti sono tantissimi sia dalla parte del bene che da quella del male. Lo potremmo definire un moralismo amaro, e pieno di comprensione per le debolezze della vita. Insomma, anche qui, qualcosa di sufficientemente complesso da non essere sentito come banale.
Infine, collegato a tutto questo, c’è la questione dell’epica. Per certi versi Dago è un romanzo cavalleresco popolare, fatto di schemi e stereotipi come già pure quelli del Pulci e dell’Ariosto, che erano i capolavori che erano anche a ragione di questi schemi e stereotipi.
In fin dei conti, la mia idea è che il piacere che Dago produce nella lettura sia una questione di ritmo, e di rito. Senza componenti rituali (di cui il ritmo è comunque la base) non si producono testi con qualità estetiche. Nella nostra cultura, alla componente rituale si deve associare una componente di originalità e di novità; ma non è sempre stato così. O meglio, la rilevanza della componente innovativa è diversa da epoca a epoca, da luogo a luogo, da genere a genere, da attività a attività. Nel rito vero e proprio, come quello religioso, la componente innovativa è nulla. Nelle produzioni estetiche, viceversa, è ciò che tiene vivo il nostro interesse, permettendoci di trovare piacere nel frattempo anche in quel ritorno del già noto che crea ritmo e rito. Così, il piacere delle produzioni estetiche ha due tipi di fonte: da un lato quello della scoperta (dovuto alla novità), dall’altro quello della conferma e sicurezza (dovuto al ritmo).
Credo che Wood (con Salinas e Gomez) abbia trovato una via inedita per riproporre quell’idea antica di racconto popolare di cui il poema cavalleresco è stata anche a suo tempo espressione, e che è il modello anche del mito: tutto quello che succede ci è in qualche modo già noto e i valori espressi sono i qualche modo i nostri; e tutto è rassicurante, ma non perché sia banalmente positivo, ma semplicemente perché rispecchia, anche nel male, l’idea che abbiamo della vita e del mondo.
Dago è una sorta di rassicurante liturgia, che si legge volentieri perché non mette in questione nulla, fondamentalmente, però ci porta alla mente tante cose diverse. È, in questo senso, una telenovela d’alto bordo, dai contenuti tutt’altro che banali. Non dobbiamo aspettarcene nessuna proposta particolarmente originale, perché Wood è sempre attento a tenersi eticamente e psicologicamente sul generico – e la distanza storica aiuta. Ma il suo gioco è comunque affascinante e confortante.
Tutto questo forse non svela del tutto il mistero di Dago, però qualche passo avanti mi sembra di averlo fatto.
 Jim Woodring, Weathercraft, pp. 24-25
Jim Woodring è un figlio deviato dell’underground americano. Deviato come tutti i figli di valore. Ma la sua deviazione rimane comunque molto underground. All’inizio della scarna autobiografia contenuta nel suo sito, sostiene che da bambino aveva allucinazioni. In seguito ha fatto di questo problema la propria fortuna. Certo, se questo è vero, essere stato adolescente negli anni Sessanta deve averlo aiutato molto nella sua presa di coscienza, quando allucinazione e psichedelia erano un obiettivo, mentre lui le aveva come punto di partenza.
 Jim Woodring, Weathercraft
Jim è stata la sua rivista a partire dal 1980, ed era sua in tutti i sensi – almeno sino a quando, qualche anno dopo, la Fantagraphics non ha deciso di finanziarne la pubblicazione e distribuzione. Weathercraft è invece il titolo comune sotto cui, da qualche anno, Woodring raccoglie una serie di storie allucinate. Proprio con questo titolo, dunque, Coconino Press ha appena pubblicato un volume che ne contiene una lunga: l’incubo di un uomo-maiale in un mondo di creature ancora più strane di lui.
È una storia assurda e intrigante, una sorta di viaggio, nel senso psichedelico del termine. Si potrebbe sostenere che non ha né capo né coda, ma tra questi estremi mancanti si stende un mondo pieno di fascino sinistro. Proprio per questo fascino, e perché lascia il segno sul lettore, mi è venuto voglia di segnalarlo qui.
Giusto a titolo di confronto, e forse perché Woodring, in fin dei conti, come fumettista è anche migliore, metto qui in fondo due immagini allucinate di Robert Williams, realizzate quando Woodring aveva circa 18 anni. Indubbiamente, tra l’altro, Robert Williams è uno dei disegnatori che più hanno avuto influsso sul giovane Andrea Pazienza. Guardatele da vicino!
 Robert Williams, Coochy Cooty Men, 1970
 Robert Williams, Coochy Cooty Men, 1970
21 Giugno 2010 | Tags: Ananda K. Coomaraswamy, comunicazione visiva, design industriale, estetica, graphic design, narrazione per immagini, rito, sacro, sublime, William Morris | Category: comunicazione visiva, estetica, graphic design | Già molti decenni fa (ma io l’ho imparato solo in questi giorni, leggendo il suo Come interpretare un’opera d’arte, Milano Rusconi 1977) Ananda K. Coomaraswamy faceva osservare che la parola arte, tradizionalmente, nelle culture europee, non fa riferimento a oggetti o a una categoria di oggetti (le opere d’arte), bensì a un modo di operare. Per capire cosa questo voglia dire basta far caso al fatto che quest’uso della parola arte è ancora ben presente nell’italiano di oggi, quando si dice, per esempio, che qualcosa è fatto ad arte, o che qualcuno lavora con arte. Come è ovvio, pure la parola artigiano deriva da arte, intesa in questo senso; mentre la parola artista sembra che indicasse, in origine, semplicemente qualcuno che eccelleva nella propria arte (ovvero abilità costruttiva), qualunque essa fosse.
Coomaraswamy fa anche notare che anche il fatto di considerare le arti come oggetto di un’estetica è un’invenzione occidentale e recente. La parola estetica deriva da aisthesis, ovvero sensazione, e che la riflessione sull’arte abbia nome estetica tradisce l’idea di base che il campo dell’arte sia quello della sensazione, nello specifico quello della sensazione piacevole. L’invenzione dell’estetica avrebbe dunque deviato verso il campo della sensazione quello che prima apparteneva al campo della conoscenza.
Credo (io, non Coomaraswamy) che questa deviazione sia parallela allo sviluppo di un’idea di conoscenza razionale esclusiva, che sfocia ai primi del Seicento nella concezione cartesiana della scienza. Dove la conoscenza debba essere fatta di idee chiare e distinte non c’è più posto per una conoscenza tradizionale su base rituale, con una forte componente religiosa. Progressivamente (perché queste cose richiedono secoli, e né Cartesio si è inventato tutto da un giorno all’altro, né dal giorno dopo l’enunciazione delle sue idee il pensiero occidentale è cambiato di colpo) una serie di cose che prima erano sentite come centrali per la vita e la conoscenza del mondo vengono relegate a un ruolo più marginale. Nella misura, poi, in cui esse sono anche legate al culto religioso, secondo il nuovo criterio illuminista finiscono per ritrovarsi nel campo della superstizione.
La parola estetica, usata in senso moderno, è settecentesca; ma l’idea dell’arte come qualcosa che riguarda la sensibilità piuttosto che la conoscenza la precede. Potremmo dire che l’invenzione dell’estetica come tale, nel Settecento, è il tentativo illuminista di dare un posto decoroso all’arte all’interno di un sistema cognitivo che la lascia fuori. Alla fine di questa lunga trasformazione, siamo passati da un sistema in cui la pittura, la scultura, l’architettura e la musica erano modalità rituali (o collegate a situazioni rituali) di conoscenza del mondo, a un altro sistema in cui queste medesime attività sono diventate testimonianza dell’espressione dell’io, e al tempo stesso manifestazioni del sublime – con questa particolare e interessante coincidenza di due estremi, entrambi tenuti ai margini di un mondo sempre più dominato da una conoscenza di tipo razionalistico e dalla sua applicazione attraverso una tecnica che per sua natura esclude l’arte, cioè l’abilità manuale.
Dobbiamo a William Morris e alla sua utopia neoumanistica della seconda metà dell’Ottocento l’idea del design industriale, ovvero l’idea che l’arte (intesa come cura della qualità) possa essere applicata anche ai prodotti della tecnologia. E gli dobbiamo, in qualche modo, anche l’idea del graphic design, ovvero l’idea che pure i prodotti della comunicazione possano essere progettati con cura e con arte.
Ma Morris non poteva cambiare, evidentemente, le regole di fondo. In una società deritualizzata, o in cui i nuovi riti sono effimeri e sempre collegati a una razionalità produttiva, le nuove arti (in senso antico) inventate da lui non possono ricoprire lo stesso ruolo che avevano nel mondo fortemente ritualizzato al cui interno si erano sviluppate. Benché sia figlio della cura dell’artista medievale (ovvero colui che eccelleva nella sua arte), e sia in questo senso ciò che davvero potrebbe legittimamente essere definito arte, il design non può godere della stessa considerazione sociale di cui godeva nel medioevo l’arte: gli manca quel legame con il sacro che allora era parte di qualsiasi opera, di qualsiasi operazione, anche quotidiana.
Nella nostra cultura, quel legame è diventato appannaggio dell’Arte (con la A maiuscola, cioè nel senso corrente dell’espressione), la quale, però, ha dovuto separarsi in maniera radicale dalla tecnica, dalla produzione di buoni oggetti d’uso, e relegarsi nel campo di un tipo particolare di comunicazione, quella espressiva – cercando di ricostruire, solo con i propri mezzi, delle situazioni rituali a cui la società concede diritto di esistere a patto che non riguardino il campo del sapere, e si limitino a quello del bello, dell’aisthesis, della sensazione. L’Arte finisce per diventare, in questo modo, solo una forma più complessa (magari più colta) di intrattenimento – e il sacro stesso finisce per essere oggetto di aisthesis.
Dobbiamo avere nostalgia per come era prima, o per come sarebbe altrove? Non so. Non so quanto prima fosse meglio. Non mi interessa seguire Coomaraswamy in questo. Non credo che sia questo il punto. Quello che è importante, piuttosto, è capire bene quanto fossero diverse prima le cose, e che il senso in cui Giotto era un artista era molto diverso dal senso in cui lo definiremmo tale oggi. Giotto era (di gran lunga) il più bravo a esprimere visivamente quello che la collettività sentiva; a raccontare per immagini quello che tutti sapevano e intorno a cui tutti si raccoglievano.
Non esiste niente di simile a questo, oggi. I presupposti sono cambiati. Il nostro stesso sentire e il nostro stesso conoscere sono differenti.
 Su una spiaggia a nord di Pondicherry
Di questa foto, presa appena a nord di Pondicherry, mi piace quel fazzoletto arancione agitato dal vento, che sembra un po’ un’onda come quelle che gli si intuiscono dietro. Lo vedo ancora svolazzare nell’aria calda, col frastuono dell’oceano attorno.
E poi c’è quella conversazione con gli occhi tra i bambini, la mamma e il venditore di noci di cocco, una primitiva prelibatezza, dissetanti e dolci.
E ci sono, qui, le strisce di colore che compongono la superficie della foto, di colori caldi quelle relative al mondo dell’uomo, di colori freddi quelle dell’altrove, mare o cielo che sia. Però è azzurro anche il legno del carretto, dello stesso colore del mare, appena un po’ più vivo. E poi c’è il verde, unico nell’immagine, delle noci da cocco.
Mentre scattavo questa foto avevo in mente una figura, quella di un dipinto di Giovanni Fattori, che riporto qui sotto. In realtà è molto diverso da come lo ricordavo in quel momento, ma alcune analogie ci sono veramente. E ce ne sono abbastanza per far risaltare, invece, le differenze: da un lato un’Europa elegante e compassata, col mare gentile e la tettoia un po’ leziosa, dall’altro un’India calda e inesorabilmente popolare, col mare sempre tumultuante, e la gente che sorride.
In mezzo io, che non riesco a vedere l’una se non attraverso il filtro dell’altra, che è la mia, inesorabilmente, nonostante tutto il fascino della prima.
 Giovanni Fattori, La rotonda di Palmieri, 1866
Al post di Rosaria Lo Russo sulla vocalità poetica sono intervenuto con diversi commenti, e anche con un mio post di qualche giorno fa. Però mancava ancora qualcosa al mio discorso, qualcosa che ho accennato in un ulteriore commento là, e che vorrei riprendere ora qui.
Quello che ho detto in quel commento è che la vocalità poetica è qualcosa che è molto più nell’aria di quanto non lo siano le personalità dei singoli poeti: è nell’aria davvero quando ascoltiamo delle buone performance poetiche, ma è nell’aria anche quando la poesia risuona dentro di noi mentre la leggiamo con gli occhi.
Quell’attore che legge pessimamente una poesia, trattandola come se fosse prosa, è certamente uno che quest’aria non l’ha respirata abbastanza. Sono certo che non è capace nemmeno di leggere la poesia interiormente. Sostanzialmente non la capisce; magari ne capisce le parole e il discorso, ma non ne capisce la componente musicale (che non vuol dire solo fonetica e sonora: la musicalità della poesia sta tanto nel suono quanto nel senso quanto nel rapporto tra loro!)
Il nome convenzionale di Omero sta per un universo di aedi che condividevano ritmi prosodici, musicali e narrativi. I nomi dei poeti di oggi sono meno convenzionali, e stanno per persone in carne e ossa (Omero, chissà!); ma esiste ugualmente un universo di ritmi a cui tutti attingono e contribuiscono.
Mi verrebbe quasi da dire (ma qui sto esagerando) che la poesia è proprio questo dominio collettivo, che ciascun poeta riempie dei propri contenuti emotivi specifici. Il cattivo attore vede i contenuti e ignora il dominio.
Questo dominio è diverso, non c’è dubbio, da quello che prevale nell’universo del teatro, e questo giustifica le perplessità di Lello Voce (espresse nei commenti al post della Lo Russo) e di chi ha paura di essere confuso con quello. Forse dovremmo dire che la poesia vocalizzata è una forma di teatro che ha come riferimento un dominio differente e specificamente suo; e che solo conoscendolo intimamente è possibile davvero fare performance di poesia.
Rosaria Lo Russo ha risposto così (tra tanti interventi, per i quali rimando comunque al post di Absoluteville):
Daniele Barbieri ha interpretato correttamente il mio pensiero, e sono grata a lui per averlo espresso in termini molto diversi dai miei. Difatti la questione non concerne assolutamente l’impossibile impersonalità della voce, un’astrazione totale, bensì la consapevolezza, chiamata da Daniele conoscenza del dominio poetico, di una performatività altra rispetto al teatro dell’attore e propria del teatro della voce recitante in versi. Per spiegarmi con un paradosso: una cattiva dizione, un grosso difetto fonatorio, può risultare indifferente alla comprensione profonda di una poesia (magari detta ad alta voce dal poeta che l’ha scritta), se l’argomento della poesia non la contempla, viceversa se un attore ha lo stesso difetto di dizione o fonatorio, questo o quello diverranno immediatamente un significato importante di quello che l’attore sta recitando, una connotazione del suo personaggio. La voce recitante, essenzialmente, è dell’anonimia perché esclude l’esistenza di un personaggio, a dirla. E spesso il cattivo attore interpreta il personaggio del poeta piuttosto che la poesia che sta recitando. Altra cosa ovviamente in caso nel caso della poesia scritta per il teatro: genere immenso (Shakesperae, Racine, Moliere…) che appartiene al teatro. Si può scrivere teatro in versi e in tal caso i versi possono essere recitati senza perdere spessore, anzi, accrescendolo. Esistono anche poesie a forte tasso retorico di teatralità, e anche per loro la recitazione immedesimativa è funzionale. Insomma, esistono vari gradi di teatralità di un testo poetico, ma il teatro in essa è solo una funzione retorica, non la sua essenza di genere, se così posso dire (e non è detto bene…). Quando il componimento è lirico, epico etc. etc. prevale invece il dominio poetico e le molte voci della voce recitante: ergo la sua fondamentale anonimia (che non è, lo ripeto, anonimato, quanto piuttosto, pluralità di voci di una voce sola, quella recitante, che deve poter staccarsi dall’egoicità afunzionale delle sue prerogative personali-caratteriali: ecco perché Carmelo Bene è superabile, come performer di poesia…)
E poi, in un commento successivo, ha aggiunto:
Certo, bisogna dare i propri criteri valutativi. E prima di farlo avrò bisogno di parlare di mistica, come dice Fabio, e di musica, il melos di cui parla Stefano La Via in un blog dei nostri. Diciamo che amo molto il Campana di Bene ma non lo definirei “perfetto”. Secondo il mio criterio valutativo “perfetto” potrebbe essere invece Laborintus di Sanguineti, letto da Sanguineti e musicato da Berio, con voci di cantanti lirici. Lì musica teatro e vocalità vanno di pari passo col testo scritto. Personalmente mi godo di più quel gigione di Carmelo, ma questo perché ho una passione sviscerata per il teatro e per la vocalità di CB, trovo Sanguineti-Berio più “freddi”, però è innegabile che se intendo parlare di Performance Poetica Laborintus è un capolavoro. E dunque bisognerà distinguere fra teatro e poesia davvero e per bene: ci proveremo insieme. Qui mi piace soprattutto l’aver ricordato due enormi maestri scomparsi: Edoardo Sanguineti e Carmelo Bene, due pilastri che ci mancano e ci mancheranno.
Mistica e musica stanno tra le mie ossessioni ricorrenti. Il Laborintus di Sanguineti musicato da Berio non è il testo originale del poeta, ma un lavoro creato apposta da lui nel 1965, che si chiamava, appunto Laborintus II, un pastiche di testi vari, suoi e di Dante (e non ricordo di chi altri), di cui ebbi la fortuna di vedere-sentire un’edizione nei primi anni Settanta, al Teatro Comunale di Bologna – che ricordo come se fosse ieri; e a cui devo, probabilmente, una buona parte dei miei interessi tanto per la poesia come per la musica contemporanee.
Conoscendo Berio, e il modo (genialmente) imperialista in cui ha sempre trattato la parola, riducendola a semplice supporto vocale della sua musica – quasi che la parola non avesse già una sua dimensione espressiva, e dovesse essere piegata fonicamente ai suoi scopi… Conoscendo Berio, è davvero sorprendente come Sanguineti sia riuscito a far rispettare la propria vocalità, il proprio sentire poetico, o meglio la vocalità poetica stessa, quella roba che non è musica e non è recitazione teatrale consueta, ma è fatta di andamenti ritmici che non possono perdere quelli sintattici (e viceversa).
Mistica e musica entrano in gioco qui. Ma la poesia possiede la sua propria specifica musica, che non è quella del canto, e che può persino, talvolta, in qualche caso, fare a meno di una ritmica del piano dell’espressione (prosodica). E la mistica della voce avvicina chi recita a colui che prega, perché un buon Performer Poetico non fa che esprimere un respiro collettivo, qualcosa che è nell’aria che tutti sentono, qualcosa che tutti sono sul punto di trovare quando leggono con la voce interiore degli occhi, e che è una sorta di accordo con il mondo, un “sentirsi in armonia” (per usare le parole di Ungaretti).
Pare ovvio che tutto questo abbia a che fare con la tematica del sublime, a cui sono condannato a ritornare in questi post. Il sublime, parente strettissimo della mistica, o forse semplicemente una mistica laica, è il destino dell’arte in un mondo in cui la religione non è più il fondamento intimo dell’accordo collettivo. Il sublime è la sensazione improvvisa di essere in balia del mondo, in armonia con qualcosa che ci sovrasta e non potremmo mai e poi mai controllare, umano o inumano che sia; è il sentimento oceanico del dibattito tra Romain Rolland e Sigmund Freud; è quello che tocchiamo nel momento in cui la nostra specifica personalità si perde per un attimo in una improvvisa stimmung, in un accordo, in senso musicale, con qualche parte imprevista delle cose attorno a noi.
16 Giugno 2010 | Tags: Al Williamson, Alex Raymond, fumetto | Category: fumetto |
 Al Williamson, Flash Gordon
Al Williamson è uno degli autori che, molti anni fa, mi hanno fatto sognare. Ma era solo in parte merito suo. In verità, attraverso di lui, io vedevo Alex Raymond, ora quello di Flash Gordon, ora quello di Rip Kirby.
Lo vedevo anche attraverso Frazetta, ma lì c’era pure Frazetta, in maniera prepotente. Invece, se toglievo Raymond a Williamson sembrava non restare nulla.
Ora che Williamson se ne è andato, poco dopo Frazetta, è un’altro pezzo di quel che restava di Raymond che non resta più. Ed è comunque un peccato: anche se forse non erano sogni suoi, Williamson li sognava assai bene.
 Al Williamson
Nell’intervista che mi ha fatto Fabio Sera per Flashfumetto a proposito del mio libro Il pensiero disegnato, mi viene domandato di parlare del concetto di battito-vignetta-evento che è oggetto di alcune pagine dell’Introduzione. Vedo poi che House of mystery cita proprio quel medesimo spezzone dell’intervista; e io stesso presentando il mio libro su questo blog qualche mese fa avevo riportato parte di quelle medesime pagine dell’Introduzione. Mi sembra di capire che il tema interessa; e so per certo che interessa me; e anzi lo trovo centrale per capire che cosa sia specifico del linguaggio del fumetto.
Sarà perché la poesia è un altro dei miei interessi specifici, ma io qui ci vedo un nesso non banale. Purtroppo, la deriva degli ultimi secoli (e in particolare a causa del Romanticismo) ha fatto sì che quando si dicono le parole poesia e poetico, la mente corra subito all’universo rarefatto della lirica, sicché diventa del tutto lecito parlare anche di poesia in prosa o poesia visiva… Tutte cose interessanti e apprezzabili, di cui ho avuto anche occasione di parlare in altri post. Ma non è quello che mi interessa qui. Piuttosto, in una visione tradizionale e per nulla tramontata, la poesia è quella forma di scrittura in cui si va a capo a fine di ogni verso, contrapposta alla prosa, dove i versi non ci sono, e si va a capo solo quando finisce lo spazio della pagina o quando termina il capoverso. Si tratta di una contrapposizione tagliata con l’accetta – è evidente – però è quella che mi serve qui, e anche se non esaurisce la differenza tra poesia e prosa, è sufficiente da sola a spiegare tutta una serie di diversità.
Intanto, questo andare a capo arbitrario, proprio perché arbitrario, è necessariamente significativo, e, dal punto di vista della scansione della lettura, crea una pausa, o comunque una cesura. I cattivi attori ignorano questa cesura quando recitano poesia, riducendo la poesia a prosa: lo fanno perché non ne capiscono il senso.
Il verso è la versione stilizzata del respiro. Non che, leggendo poesia ad alta voce, si debba per forza respirare a fine verso, però possiamo ipotizzare che, quando la poesia era improvvisata dagli aedi ed esisteva solo come forma orale, fosse davvero così. Di fatto è così anche oggi nelle improvvisazioni in ottava rima dei poeti da braccio della Maremma. E il respiro è a sua volta modulato al suo interno dall’andamento metrico e ritmico del verso, in una (relativa) uniformità che avvicina la poesia al canto (e una volta davvero non erano cose distinte) e accresce la memorizzabilità.
Nella poesia più recente, il verso resta spesso solo un respiro stilizzato. Ma anche se non coincide necessariamente con il ritmo del fiato del lettore ad alta voce, influisce lo stesso; e i versi corti producono un effetto un po’ ansimante che si contrappone a quello disteso dei versi lunghi. Scrivere poesia in versi liberi significa anche saper calibrare questa portata variabile del respiro.
Osserviamo che la lingua possiede anche un’altra e più frequente forma di respiro stilizzato, che è quella espressa attraverso la punteggiatura. Si tratta però, ormai, di una stilizzazione ancora più antica e catacresizzata – per cui è ormai da secoli normale che si usino i punti e le virgole per sostenere più il senso del discorso che la voce. In poesia, comunque, due sistemi di respirazione stilizzati si confrontano e convivono, e la poesia (nel senso in cui ne stiamo parlando qui) è l’effetto di questa dialettica.
 Sergio Toppi, Sharaz-de
Nel senso in cui ne stiamo parlando qui, dunque, il fumetto assomiglia molto alla poesia. Il battito-vignetta-evento è qualcosa che ricorda il verso, con l’inevitabile cesura che lo separa dal successivo e il suo carattere comunque unitario, pur all’interno della sequenza di cui fa parte. La scelta della complessità visiva della vignetta (che determina la velocità con cui sarà letta) è relativamente indipendente da ciò che essa racconta; così come anche la scelta della dimensione dell’evento è indipendente dalla storia raccontata. Come accenno anche nell’intervista di Flashfumetto, gli eventi-vignetta di Toppi sono ben diversi da quelli di Koike e Kojima, o anche da quelli del Dark Knight di Miller (che tanto ha imparato dagli autori di Kozure Okami). Quello che cambia è il respiro (qui anche nel senso metaforico in cui si parla di respiro narrativo): le storie di Toppi sembrano viste da una lontananza infinita, che dà loro un respiro epico; quelle di Miller o di Koike e Kojima sono viste invece da molto, molto vicino, con un effetto di compartecipazione emotiva inevitabilmente molto forte.
 Kazuo Koike, Goseki Kojima, Kozure Okami (Lone Wolf and Cub)
 Frank Miller, The Dark Knight Returns
Il respiro del lettore di Dark Knight è un respiro rapido e affannato, che costruisce nel lettore direttamente (con il respiro stesso) quella medesima situazione emotiva che si sta intanto raccontando. Le pagine di Toppi hanno invece il respiro del canto epico, del mito, di quello che è lontano ma anche profondo, e profondamente innestato in noi.
Il modo di raccontare non dipende da quello che si racconta; però produce effetti molto differenti sul racconto stesso, anche a parità di racconto. Il racconto in sé ha i suoi momenti e i suoi eventi propri. In sé, essi non coincidono con i battiti-vignette-eventi del fumetto, proprio come l’articolazione del discorso creata dalla punteggiatura non coincide con quella procurata dalla divisione in versi e dal loro ritmo interno. O meglio: in qualche caso le due articolazioni possono coincidere del tutto, in qualche caso possono essere più o meno convergenti o divergenti, in altri casi sono del tutto diverse. La modulazione di questo rapporto è uno strumento fortissimo che sia il poeta che il fumettista hanno a propria disposizione per costruire il proprio discorso complessivo, e l’emozione di chi legge.
 Contatti elettrici a Tiruchirapalli
Questa foto dal contenuto complicato è stata scattata la sera successiva alla foto contenuta nel post del 5 giugno, dalla medesima terrazza (in attesa di ripetere l’esperienza gastronomica della sera prima), ma da un tavolo diverso, giusto un paio di metri dal precedente. Nonostante la sovraesposizione, si può distinguere, nell’angolo della foto in basso a destra, la bancarella della foto precedente. Alle sue spalle c’è la grande cisterna buia; davanti e attorno le vie illuminate e affollate.
Tutta quella luce ha ovviamente un’alimentazione elettrica. E non potevo dunque non fotografare questo totem dell’improvvisazione elettrotecnica che si trovava proprio di fronte a me!
Questo oggetto ha davvero qualcosa di straordinario – ma solo per noi: in India, a quanto o potuto osservare poi, è un fenomeno diffuso e normale.
Nonostante la sovraesposizione e la confusione, questa foto a me piace, e non solo per la paradossalità del suo oggetto. Il fatto è che quando si riesce a dipanare la massa degli stimoli visivi, e a separare visivamente il mostro in primo piano dallo sfondo, vi appare una vita ricca e vivace, insieme a un grande spazio di silenzio e di oscurità. La complessità inestricabile della rete dei contatti elettrici che si vede qui, e ci fa sorridere, corrisponde a una complessità inestricabile della cultura indiana, i cui collegamenti sono spesso imprevedibili – e ci danno l’idea di un garbuglio senza né capo né coda.
E invece, incredibilmente, la cosa funziona, esattamente come questo impianto elettrico. Chissà: magari a un occhio indiano potrebbe apparire semplicissimo, immediatamente evidente nella sua banale ovvietà!
 Bancarella a Tiruchirapalli
Ho scattato questa foto a Tiruchirapalli (anche detta Trichy) nel Tamil Nadu, di notte, dalla terrazza del ristorante dove stavamo aspettando la cena. È una foto che a me piace molto, non solo per l’ordine maniacale con cui i commercianti indiani dispongono la frutta, che contrasta singolarmente con il disordine che regna tutt’attorno; non solo per i colori brillantissimi, a grandi macchie, e per lo spazio irrisorio in cui il fruttivendolo si trova costretto ad agire.
E poco importa anche che alle spalle della bancarella si stenda un enorme spazio buio: una grande cisterna, praticamente un piccolo lago quadrato nel bel mezzo della città. Davanti, viceversa, c’è luce e vita, e un sacco di gente che passa e si ferma a far compere.
Qui, in quello che si vede nella foto, il rettangolo della bancarella illuminata si staglia sul rettangolo più grande e oscuro intorno, ripreso, in piccolo, dalla macchia nera dell’uva proprio al centro. E poi, qui, sono tutte macchie rettangolari, cesto di frutta accanto a ogni cesto di frutta, compreso il corpo del fruttivendolo in alto. Rettangoli irregolari, molto creativi evidentemente, però ugualmente mattoni per assemblare questa composizione un po’ funzionalista.
E così mi viene in mente che l’India è in verità un paese di grandi matematici, che i nostri numeri sono stati inventati lì, e che al giorno d’oggi vi si scrive anche la maggior parte del software che si produce al mondo. A camminare per le strade magari non si direbbe; ma poi quell’anima nascosta e astratta si rivela, a livello popolare, anche nel razionalismo maniacale dei fruttivendoli, e nei contrasti geometrici tra rettangoli di luce e quadrati d’ombra.
La cena, comunque, qualche minuto dopo è stata buonissima.
Voglio fare qualche riflessione sul rapporto tra scrittura e voce in poesia. L’occasione me la dà questo post di Rosaria Lo Russo su Absoluteville, e il dialogo che ne è scaturito. Il tema è se sia possibile un’autenticità del performer che legge poesia; e di conseguenza se ci siano sostanziali differenze tra l’attore che interpreta e il lettore-performer in senso stretto, sino al caso esemplare in cui il lettore-performer coincide con l’autore stesso. Qualche accenno su questo tema c’era già nel mio post del 22 febbraio (Della poesia e della sua materia (sonora e grafica)), ma credo di avere ora diverse altre cose da dire.
Intanto, sul caso estremo dell’autore che recita se stesso, ho ancora in mente l’effetto penoso che ho ricavato un paio di anni fa dalla voce viva di Milo De Angelis, poeta che, quando me lo leggo per conto mio, io amo molto – ma che non appare assolutamente capace di rendere se stesso vocalmente. Per fortuna, dopo di lui qualcun altro lesse per lui in quell’occasione, e l’effetto fu decisamente migliore. Il punto è che, paradossalmente, la voce di De Angelis tradiva il suo stesso testo. Lo tradiva, ovviamente, non per cattiva volontà, ma per semplice incapacità.
Com’è possibile, verrebbe da dire, che un poeta, che ha scritto i propri versi recitandoseli mentalmente, che ha la propria voce nella propria stessa parola poetica, arrivi a non saperla dire, rendendo persino banali o incomprensibili le proprie sequenze di parole? Stupisce meno, certo, che ci sia invece qualcun altro che è capace di leggere fedelmente quegli stessi versi, rendendocene un senso e un piacere. Eppure anche questo secondo (e assai migliore) lettore non mi stava rendendo pienamente la poesia di De Angelis. Non posso davvero dire che la tradisse: non c’era nessuna di quelle eccessive drammatizzazioni che la Lo Russo (giustamente) paventa, e l’autore era pure presente e approvante. Ma ovviamente la interpretava, perché non è possibile fare altrimenti, e la sua interpretazione non era la mia: era probabilmente interessante anche per questo.
Ma nel fluire e fuggire dell’oralità non c’è spazio per una pluralità delle interpretazioni, se non sulla base della memoria o del riascolto (non sempre possibile). Questo rende la poesia oralizzata inevitabilmente diversa da quella scritta, che invece rimane, si fa vedere, e resta stabile sotto gli occhi, prestandosi alla rilettura e al ripensamento.
Nell’idea che Rosaria Lo Russo esprime della possibilità di una lettura-performance autentica credo stia nascosta l’idea, inevitabile, che l’essenza della poesia stia nel testo scritto, e che la voce la debba in qualche modo tirar fuori. In fin dei conti, quello che ogni buon lettore di poesia interiormente fa è di dar vita a questa voce interiore che dice i versi. Questo ancora distingue, io credo, la lettura (intesa come lettura personale, interiore) della poesia da quella della prosa: leggiamo ormai la prosa solo con gli occhi, ed è ben raro che essa risuoni come voce interiore; se siamo davvero lettori di poesia, invece, siamo anche abituati alla presenza di questa voce. Il lettore-perfomer, dunque, non dovrebbe fare altro che trasformare questa voce virtuale in voce reale.
E qui incominciano i problemi. Il fatto è che questa voce virtuale è, appunto, virtuale; è cioè una voce a cui mancano una serie di attributi di quella reale, e che funziona anche grazie a questa mancanza. È una voce astratta, irreale, proiezione tanto di me quanto delle parole scritte sulla carta.
Dietro all’idea che la voce virtuale possa essere trasformata in voce reale dal lettore-performer si nasconde poi, credo, ancora un’altra idea: quella che la scrittura non sia che trascrizione della parola orale, un modo economico per memorizzare delle parole che vivono la loro vera vita solo quando sono pronunciate. In effetti, gli antichi la pensavano così, e ha continuato a essere così fino ai primi secoli dopo il Mille, quando ha finalmente iniziato a imporsi la lectio spiritualis, ovvero la lettura silenziosa che è quella che tutti noi attuiamo quotidianamente. Ma la separazione della scrittura dalla voce che è avvenuta in quel periodo non è stata senza conseguenze. La scrittura si è proprio per questo fatta più astratta e sempre più lontana dal sonoro e dalle declinazioni e modulazioni della voce.
È questa separazione infatti a permettere a Jacopo da Lentini e ai suoi colleghi siciliani di pensare la poesia separatamente dalla sua esecuzione vocale. Che Jacopo fosse “sociologicamente un burocrate”, come suggerisce Lello Voce, rappresenta solo l’occasione favorevole per un processo che era ormai comunque nell’aria – altrimenti sarebbe rimasto solo un fatto isolato, e non sarebbe diventato la norma della “poesia alta” italiana. Sappiamo bene come la metrica si sclerotizzi proprio in questo momento nel suo sistema di regole: un poeta-performer (come erano i trovatori) può sempre aggiustare a voce un verso leggermente eccedente; ma se la poesia è sostanzialmente scritta, e la voce che la declama è virtuale e generica, essa non può contemplare questa abilità.
Dove voglio arrivare? Credo, in sostanza, che l’unica poesia che possa essere resa da una voce in modo autentico sia quella poesia la cui scrittura è una semplice notazione mnemonica per un fatto sonoro-vocale; e in questo caso davvero il suo migliore performer sarà il suo autore. Ma questo autore è tale perché pensa se stesso e pensa le proprie parole già in funzione di quella performance. E in questo senso, questa poesia è profondamente teatro, il teatro inoltre, credo, più intenso e diretto che si possa immaginare.
Ma gran parte della poesia che si è prodotta in Italia da Jacopo da Lentini in poi è stata prodotta principalmente per essere letta con gli occhi, e recitata dal lettore con la sua voce interiore e virtuale, tramite aristocratico tra l’intellettuale scrittura e la popolana oralità. E pure Milo De Angelis agisce in questo medesimo ambito.
A questo punto, abbiamo tutti i diritti di rivendicare una poesia neo-orale: lo sviluppo della registrazione e diffusione del sonoro e dell’audiovisivo lo permette, evitando che rimanga un fenomeno di provincia o di campagna. Ma non possiamo dimenticare otto secoli di poesia che ha percorso una strada diversa, e che non può essere spacciata per una versione scritta dell’oralità.
Non possiamo insomma illuderci di trasmettere l’oralità attraverso la scrittura. La scrittura è ciò che la lingua diventa quando l’oralità (e la vocalità) si perde. Lingua scritta e lingua parlata sono di fatto due lingue differenti. Per certi scopi queste differenza sono poco rilevanti. Per altri scopi queste differenze sono enormi. Credo che la poesia appartenga a questo secondo dominio.
Quando si dà voce alla poesia scritta, insomma, si fa una traduzione. Tradurre è interpretare. Esagerando un po’, tradurre è tradire.
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