Recensioni d’annata, 1994. Cybersix vampiro argentino

Cybersix vampiro argentino
Il Sole 24 Ore, 29 maggio 1994

Troppo trascurato negli ultimi anni, il fumetto argentino vive in Italia un’esistenza un poco nascosta, ma non per questo meno sicura e costante, tant’è che è pubblicato con continuità da più di trent’anni. Pochi lo sanno, ma l’Argentina è tra i maggiori produttori mondiali di letteratura per immagini, insieme con Stati Uniti, Francia e Giappone. E la produzione argentina, per quanto poco se ne parli, è forse quella che può vantare la qualità media più alta. La ragione di questo sta nel tipo di pubblico cui essa si rivolge. Diversamente da quanto succede in Italia, dove il pubblico colto fatica ad accettare l’idea stessa che dei fumetti colti possano esistere, in Argentina il fumetto svolge un ruolo di intrattenimento culturale piuttosto elevato. Possiamo forse distinguere anche là una produzione popolare da una di alto consumo, ma la distanza che le separa è molto più piccola di quanto si potrebbe credere.

Un buon esempio di questa situazione ci viene presentato da qualche mese da un singolare personaggio a fumetti, protagonista di un albo mensile di piccolo formato in bianco e nero. Personaggio e albo si chiamano “Cybersix”, sceneggiati da Carlos Trillo, forse il più noto tra gli sceneggiatori argentini viventi, e disegnati da Carlos Meglia. Prima di acquistare esistenza editoriale autonoma, Cybersix era ospite regolare del settimanale “Skorpio” (da leggere, prima di disprezzare gratuitamente), che ancora ne pubblica episodi più brevi.

Cybersix è un’androide femmina, sfuggita al controllo del suo geniale e malvagio creatore, unica in questo, e per questo da lui odiata e cacciata per mezzo di altri androidi. Per vivere Cybersix deve cibarsi del fluido che circola nel corpo di androidi simili a lei, e trasformarsi dunque, di quando in quando, in una sorta di vampiro. La scena di questa reciproca caccia è una megalopoli che porta il neme di Meridiana, incrocio immaginario di New York, Buenos Aires, Parigi e mille altre città.

Fin qui, tutto regolare o forse prevedibile. Ma Cybersix ha anche un’identità segreta maschile, e una professione di insegnante di letteratura in una scuola dove si cerca di recuperare giovani con problemi di inserimento sociale. E sul sottofondo della sua appassionata perorazione della narrativa nei confronti di un pubblico tendenzialmente indifferente, ma occasionalmente anche attento, si sviluppano molte delle vicende di questi albi. Adrian Seidelman, l’alter ego di Cybersix, è appassionato di Pessoa, e tiene lezioni su Whitman e Kafka; ma intanto vive una segreta esistenza da operetta, o meglio, da fumetto, combattendo contro il suo grottesco persecutore e le sue ancora più grottesche emanazioni.

Insomma, in queste storie, tutto è duplice e ambiguo, dalla protagonista, mezza umana e mezza artificiale, mezza donna e mezza uomo, mezza intellettuale e mezza avventuriera, all’ambientazione, ondeggiante tra il lirico e il ridicolo, tra il tragico e il comico, tra il realistico e il fantastico, agli altri personaggi, sempre molto bene caratterizzati nelle debolezze (e spesso miserie) della loro vita, ma anche vivaci e ironicamente scolpiti. Senza contare che le sceneggiature indulgono spesso verso quella dimensione metanarrativa in cui una storia immaginaria raccontata da qualcuno all’interno della storia principale finisce per interagire con questa, creando giochi di specchi e piccoli paradossi narrativi.

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Recensioni d’annata, 1994. Teste parlanti con poesia

Teste parlanti con poesia
Il Sole 24 Ore, 8 maggio 1994

Piccolissima casa editrice di Spoleto, la R&R Editrice non ha pubblicato molto. Ma, se ci fosse modo di misurare la qualità dei suoi libri, probabilmente essa si troverebbe al di sopra di molte altre case. E non si tratta solo della scelta, sempre oculata, originale e felice, dei testi a fumetti da pubblicare, ma anche della cura minuziosa con cui viene progettata e realizzata la stampa, con risultati eccellenti anche per prodotti di prezzo medio-basso. L’almanacco Talking Heads è un oggetto grato alla vista, al tatto, e persino all’odorato, sin dal primo contatto. Grande, patinato, ma modesto nella scelta della copertina in brossura, bianco e grigio con i titoli in rosso. Oggetto librario dedicato all’illustrazione e al fumetto in bianco e nero. Perché bianco e nero? Perché c’è un’essenzialità, una sinteticità particolare nell’immagine realizzata con il solo nero, qualcosa che la chiassosità dei colori disperde. L’immagine in bianco e nero si contrappone a quella a colori un po’come la poesia si contrappone alla prosa, tanto più ricca vivace e versatile questa, ma incapace di raggiungere certe profondità di quella.

Quando si apre il libro, fatto di sole immagini e brevi storie a fumetti, per lo più mute o quasi, e realizzato con un buon numero di contributi, italiani e stranieri, non tutto è davvero all’altezza della promessa della confezione. In compenso, però, qualcosa vale anche di più. Suggestive e inquietanti sono le Talking Heads di Neil Moore (da cui il titolo dell’almanacco), figure di persone aventi come testa chi un bollitore, chi un albero spoglio, chi una scala, chi un bidone dell’immondizia. E quando si arriva al personaggio che ha una testa finalmente umana, questa non appare meno oggettificata, meno “cosificata” delle altre. Una tecnica minuziosa, da acquaforte, rende ancora più metafisiche queste silenziose assurdità. José Munoz e Gabriella Giandelli sono presenti con alcuni dei disegni senza tema preciso. E Massimo Giacon racconta una piccola storia paradossale dove la perfidia infantile prosegue senza soluzione di continuità nell’amarezza della solitudine adulta, senza mai perdere il filtro dell’ironia. Altri autori, più giovani, completano il volume, con prove spesso interessanti, e comunque mai banali.

Resta da parlare del testo più notevole del volume, che varrebbe da solo a giustificarne l’acquisto. È la storia breve (ma più lunga delle altre) Il segreto del pensatore di Lorenzo Mattotti, un vero poemetto grafico in punta di pennino. Un uomo si addormenta sotto l’albero del pensatore, guardando le nuvole correre e trasformarsi nel cielo. Ed ecco così venti pagine di trasformazioni delle nuvole, che configurano personaggi bizzarri e accenni di storie, storie che poi, come le nuvole, si dissolvono e trasformano in altre, e così via. Ci vuole un grande artista (e poeta) come Mattotti per rendere consistente una materia così fragile. Le sue immagini sono l’esatto coronamento della poetica del bianco e nero che ha ispirato l’almanacco: costituite da poche linee sottili di pennino, tutta la loro forza è costruita attraverso il modo in cui queste linee si ispessiscono e assottigliano, si incurvano o aggrovigliano. Il susseguirsi delle vignette dona poi alle immagini un’ulteriore fluidità, quella della trasformazione nel tempo, del divenire del senso.

Poesia grafica, senza parola, sensuale e avvincente. Non sappiamo ora se questa giovane piccola arte diventerà grande e accademicamente riconosciuta. Se succederà, bisognerà ricordarsi che è partita anche da qui.

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Recensioni d’annata, 1994. Mickey, americano modello

Mickey, americano modello
Il Sole 24 Ore, 13 marzo 1994

Sessantacinque anni fa non era che un topino in un cartone animato americano; e sessanta anni fa dava nome a una neonata rivista italiana. Come si poteva credere allora che questo personaggio, certamente vitale ed efficace, ma tutto sommato minore di un genere minore, fosse destinato a diventare una leggenda del Ventesimo secolo?

Non ci credette infatti nemmeno il suo editore italiano, Nerbini di Firenze, che appena tre anni dopo la sua nascita vendette la rivista ad Arnaldo Mondadori, preferendo puntare su un genere avventuroso che non si dimostrò in seguito altrettanto vitale. A quell’epoca “Topolino” era molto diversa dalla rivista che conosciamo oggi: il formato era molto grande, e le storie contenute non erano soltanto di marca Walt Disney. Per arrivare al “Topolino” che noi conosciamo bisogna aspettare il 1949, l’anno in cui Mondadori, trovandosi per le mani una rivista che era data da tutti per spacciata, pensò che poteva conservare il vantaggioso contratto che aveva con la Disney provando a concentrare tutto il materiale che aveva a disposizione su un’unica testata; il formato fu inoltre omologato a quello di “Selezione dal Reader’s Digest”, in modo da poter utilizzare le macchine che erano state acquistate per quella.

Contrariamente a tutte le aspettative (quelle dell’editore comprese) la nuova rivista fu un successo fin dal primo numero; e da allora, pur con i suoi alti e suoi bassi, “Topolino” resta initerrottamente al comando della classifica delle pubblicazioni a fumetti più vendute in Italia. Nel 1988, resasi conto della rilevanza economica delle testate, la Disney ne ha preso la gestione in diretta, togliendo i diritti alla Mondadori.

Tante sono le componenti del successo di Topolino, non esclusa, e anzi proprio in primo piano, la componente del genio artistico. le storie di Floyd Gottfredson, il primo grande autore dei fumetti di Mickey Mouse, responsabile di una certa parte della fortuna della Disney, sono testi spiritosi e avvincenti, pieni di legami con il mondo del presente, ma anche sufficientemente universali da poter essere lette con grande godimento a distanza di cinquantanni. Il piccolo topo del roosveltiano New Deal vi gioca un ruolo spesso complesso – assai diverso dall’immagine del Topolino detective e basta che si è affermata in Italia negli ultimi decenni. Mickey vuole essere l’americano esemplare, coraggioso e un po’ incosciente, generoso ma avveduto, spiritoso e non di rado critico rispetto a quello che vede attorno a lui, non privo, di quando in quando, di qualche difetto.

Nei primissimi anni, tra l’altro, i difetti superavano le qualità. Prima che vedesse la luce Donald Duck, ovvero Paperino, era Mickey a giocare la parte del ragazzotto dispettoso e cattivello, preoccupato solo di come combinare uno scherzo ancora più perfido al malcapitato passante. Poi, quella parte passò al neonato papero, e gli si addisse al punto che – per quanto il personaggio si sia arricchito con gli anni – gli resta addosso ancora oggi. Topolino e Paperino non sono solamente personaggi dei fumetti. Entrambi sono nati per un altro e differente mondo, quello del cinema d’animazione. Per la crescente società Disney dei primi anni il fumetto non era infatti che uno, allora, come ora, degli strumenti per fare fortuna: c’era il cinema, c’era il merchandising, e da un certo momento in poi c’è stata Disneyland, vero trampolino di lancio verso l’empireo delle multinazionali.

Per chi vuole conoscere da vicino l’universo Disney è aperta dall’11 marzo alla Fortezza da Basso di Firenze una grande mostra su Topolino, personaggio e giornale, già quest’inverno all’Eur di Roma, dove ha contato più di 200mila visitatori. Vi si celebrano i sessant’anni della rivista, ma vi si mostra un po’ tutto di quello che ha contribuito a rendere celebri i personaggi Disney, dai fumetti al cinema alla musica al merchandising. È prevista la proiezione di tutta la produzione cinematografica Disney, comprese quelle pellicole un po’ offuscate degli anni Venti che non si riescono più a vedere da nessuna parte. Vi sono i disegnatori italiani di Topolino, veri eredi oggi della tradizione americana originale, più apprezzati addirittura dei loro colleghi di oltre oceano. C’è un bel catalogo, per chi vuol sapere tutto su Mickey Mouse e famiglia. E c’è molta, molta roba da vedere, visto che lo spazio dedicato alla mostra è davvero molto, molto grande.

Mancano solo, della produzione Disney, le città dei divertimenti, ma quelle sembra che in Europa non costituiscano dei grandi affari. Se “Topolino” è da sempre una miniera d’oro, sembra che Eurodisneyland non sia, in fin dei conti, che una miniera di debiti.

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Recensioni d’annata, 1994. Vertigo, supereroi caduti dall’empireo

Vertigo, supereroi caduti dall’empireo
Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 1994

Se c’è ancora qualcuno che crede che un prodotto seriale non possa essere un prodotto di alta qualità, le serie a fumetti che l’americana Dc Comics pubblica sotto l’etichetta “Vertigo” potrebbero costituire la prova definitiva della sua scarsa perspicacia. Si tratta di un nutrito gruppo di serie a fumetti, con cadenza mensile e diffusione piuttosto ampia, in America come in Europa, dedicate a un pubblico adulto e amante più della psicologia che dell’avventura. I titoli più di rilievo sono Hellblazer, The Sandman, Animal Man, Shade The Changing Man, Doom Patrol, Kid Eternity, Swamp Thing. Non bisogna lasciarsi ingannare da questi titoli dal sapore di comic book di supereroi. Persino Animal Man, il personaggio che, del gruppo, possiede ancora maggiormente le caratteristiche del supereroe, è il protagonista di storie che hanno per oggetto più il suo difficile rapporto con la propria famiglia e con la collettività, piuttosto che mirabolanti imprese contro supercattivi o supercatastrofi. Anzi, quando qualcosa del genere succede (e succede sempre in un modo assai più interessante e imprevedibile che nei fumetti di supereroi standard) l’aspetto più rilevante e narrativamente curato della vicenda è l’effetto psicologico degli eventi sulla moglie, innamorata ma un po’ spaventata dai poteri del marito, sul figlio, un quindicenne sbalestrato come tutti i quindicenni con una famiglia difficile, sulla figlia, una bimba che ha ereditato strani poteri dal padre e li usa per giocare, inconsapevole dei disastri che potrebbe provocare, e infine sul protagonista stesso, dilaniato dalla doppia vocazione di padre e custode, superpotenziato, della vita animale.

Anni fa, Animal Man era un supereroe come tutti gli altri, potente, tutto di un pezzo, e un poco tontolone, alla Superman, anche se così poco importante da non avere una testata a suo nome. Poi arrivò uno sceneggiatore, Grant Morrison, che prese il personaggio e lo rimodellò a modo suo. Qualcosa di simile era già successo anche a Swamp Thing, che però era già all’epoca una stella dell’universo Dc Comics: Alan Moore ne aveva scritto le storie per qualche anno, e trasformato trame e personaggio. Fu ancora Morrison a trasformare Doom Patrol, mentre Peter Milligan riprese Shade, un personaggio di molti anni prima, e Jamie Delano John Constantine, il protagonista di Hellblazer, estraendolo dalle pagine di Swamp Thing. Anche The Sandman era un personaggio degli anni Quaranta, ripreso più volte senza grande successo, che Neil Gaiman ha ricreato qualche anno fa facendolo il dio dei sogni in persona. Insomma, una piccola costellazione si supereroi caduti dall’empireo un poco vacuo delle super-storie verso un mondo narrativamente ben più consistente. Difficile sarebbe individuare oggi un filo comune a queste serie, eppure le lega una forte aria di famiglia. Le lega, sostanzialmente, una certa vocazione al fantastico e all’introspettivo. Hellblazer, la serie più “nera” del gruppo, ha come tema principale le malinconie e le depressioni di John Constantine, “mago” o stregone moderno, trascinato suo malgrado in vicende inquietanti, che mettono spesso a repentaglio la sua salute mentale. Il tema della follia è ancora più centrale in Doom Patrol e soprattutto in Shade: nella prima attraverso l’impossibilità ricorrente di comprendere il piano di realtà su cui si svolgono le storie, e nella evidente assurdità delle figure degli antagonisti; nella seconda invece proprio come argomento diretto e dichiarato della narrazione. Shade è un alieno arrivato in Terra e incarnato per combattere un altro alieno, “the American Scream”, versione paranoide dell’American Dream, che si manifesta occasionalmente sotto le spoglie di un gigantesco e delirante Zio Sam, e più ricorrentemente sotto forme di isterismo collettivo. In questo contesto le storie stesse di Shade rincorrono un senso che è continuamente deviato da divagazioni narrative allucinate, come se la follia invadesse non solo i contenuti, ma i modi stessi del raccontare.

Il protagonista di The Sandman, la testata più bella del gruppo, è il dio dei sogni in persona, talvolta chiamato Morfeo, ma più spesso Dream, sogno. Con i suoi fratelli, Desire, Despair, Death, Destiny e Delire, forma il gruppo degli Endless, i “senza fine”, divinità romantiche che intrecciano le proprie passioni alle vite degli uomini. Di rado Dream è davvero protagonista delle storie di The Sandman; si tratta piuttosto di storie che riguardano persone comuni, aventi la sua presenza come tema ricorrente. Gaiman è un vero maestro del fantastico, capace di giocare sul tema del sogno a livelli di estrema raffinatezza.

Un altro tema ricorrente delle storie di queste testate è l’ecologismo. Oltre ad Animal Man, il cui potere è quello di immergersi nella rete della vita animale sentendola come da dentro, e trasformandosi in qualsiasi animale egli voglia (o in qualsiasi animale egli stia troppo sentendo), Swamp Thing è una sorta di divinità vegetale, abitante nelle paludi della Louisiana, e tutt’uno con la grande rete del mondo delle piante.

Un bravo autore può insomma riuscire a scrivere delle belle storie a partire da qualsiasi materiale, non importa quanto “basso” esso sia, purché davvero si ponga il problema di reinterpretarlo da capo. E se le serie rappresentano un oggetto particolare nel fumetto americano, che raramente è così intimistico e fantastico, la stranezza spiega facilmente, la maggior parte degli autori è inglese, e ben orgogliosa delle proprie tradizioni narrative.

Animal Man è pubblicato in Italia sulla rivista American Heroes. Swamp Thing, Sandman, Shade e Hellblazer compaiono su Dc Comics Presenta. Per gli altri aspettiamo ancora.

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Della foto di una barriera rossa sul fondo azzurro

La barriera rossa

La barriera rossa

Sarà il contrasto tra il rosso e l’azzurro, mediato da un accenno di verde; sarà il profilo irregolare delle montagne, ripetuto più lieve dalle colline, e poi ancora più leggero dalla plastica rossa; sarà la ripresa diagonale e verticale che ne fanno i muri attorno. Sarà la luce, il rapporto tra vicino e lontano, o non so che altro, ma a me questa foto fa venir voglia di tirare un grande respiro e di tuffarmi, volando come Superman, verso quella visione.

Mi contenterei anche, però, di essere lì, in un giorno così, con il tempo di stare. Magari pensando di prendere la macchina e andare proprio là, e lassù voltarmi indietro a cercare, laggiù, quel posto da cui stavo guardando prima.

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Recensioni d’annata, 1994. Watchmen

Watchmen
Inedito per Il Sole 24 Ore, scritto il 23 gennaio 1994

Nella storia di una forma espressiva, i testi che segnano dei veri punti di svolta sono ovviamente pochi. Le rivoluzioni non sono cose di tutti i giorni, e ancora più rare sono quelle che riescono davvero a cambiare qualcosa nel campo in cui avvengono. A metà degli anni Ottanta il fumetto americano ha assistito alla comparsa di ben due di questi testi cruciali: The Dark Knight Returns di Frank Miller, di cui già abbiamo avuto occasione di parlare su queste pagine, e Watchmen, di Alan Moore e Dave Gibbons. Il primo è un esempio senza precedenti di fumetto del genere supereroi rivolto a un pubblico adulto e attento, con lo spessore di un grande film d’azione, un po’ alla Ridley Scott, attento a problematizzare quello che era sempre stato ovvio e a acutizzare quello che era sempre stato smorzato: un vero gioiello americano, insomma.

Di tutt’altra pasta è invece Watchmen, un testo molto meno spettacolare e graficamente assai meno invitante dell’altro. E a dispetto di questo, un racconto indimenticabile. L’autore, Alan Moore, è inglese, e inglese è la concezione ed è il ritmo di questa storia, lento, scandito, ma inarrestabile. Si incomincia a leggere questa vicenda di eroi mancati e frustrati, oppure riusciti, ma inesorabili figli di puttana, soffermandosi sull’omicidio di uno di loro. Dopo la morte ci sono gli eventi di rito, il compianto, il funerale, la riunione dopo tanto tempo dei colleghi del vecchio gruppo, le indagini della polizia e di un collega irriducibile. La storia si snoda con ingannevole lentezza, soffermandosi, uno dopo l’altro, su tutti i componenti del vecchio gruppo di eroi, scavando nella personalità di ciascuno, nelle piccole manie, nei desideri, nei ricordi. Ci vogliono molte pagine per incominciare a capire che qualcosa di grande e atroce sta nascostamente succedendo e coinvolgendo tutti, assai più di quanto si possa immaginare.

Il testo supera abbondantemente le 300 pagine, e comprende anche sezioni solamente verbali, nella forma di appendici ai vari episodi, presentate con il ruolo di documentazioni sul contesto degli eventi raccontati. La lettura richiede comunque l’impegno di un buon romanzo, e per quanto appassionante essa sia già dalla prima volta, continua a fornire sorprese al lettore che vi faccia ritorno per una seconda o una terza. Watchmen è un testo da leggere e rileggere, come un grande romanzo. Talmente fitto è l’insieme dei rimandi, interni ed esterni, spesso non essenziali alla comprensione della storia ma funzionali a un continuo approfondimento della grande metafora che Moore costruisce, che il lettore si perde con piacere nel labirinto delle simmetrie e delle citazioni.

“Watchmen” significa “guardiani”, ma anche, in modo più lato, “uomini dell’orologio”, e la metafora dell’orologio, del meccanismo complesso in cui tutti i pezzi hanno un’esatta ragione di essere, è sottesa all’intera storia e alla struttura stessa del testo. Moore ci conduce con sottile abilità attraverso questo meccanismo inflessibile e inarrestabile, messo in movimento dal mito stesso dell’eroe, ma anche del salvatore e del redentore, per mostrarci, passo dopo passo, come la catastrofe ne sia l’esito finale. Il miglior superuomo, con le migliori intenzioni nei confronti dell’umanità, sembra dirci Moore, è destinato a compiere azioni che a noi non possono che apparire mostruose. Non è solo il sonno della ragione a produrre mostri, ma anche la sua insonnia, l’incapacità di fermare il susseguirsi delle conseguenze anche quando esse contravvengano ai nostri più elementari principi morali.

In questo senso il romanzo di Moore si pone con una certa rilevanza all’interno di un dibattito sui limiti della ragione e sul pensiero debole, che in America vede un filosofo come Richard Rorty al centro di aspre polemiche. Da buon romanziere, Moore non ci propone soluzioni, ma espone con chiarezza problemi, senza tuttavia che il sottofondo argomentativo del suo testo prenda mai direttamente il sopravvento sul fascino e sul dramma della vicenda umana dei protagonisti.

Pubblicato in Italia a puntate su Corto Maltese già qualche anno fa, ora Watchmen è finalmente in libreria anche per i lettori italiani. Peccato che non sia successo prima.

 

Alan Moore, Dave Gibbons.  Watchmen. Milano, Rizzoli 1993.

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Recensioni d’annata, 1994. Le tinte assolute di Miller fanno volare il goffo Marvin

Le tinte assolute di Miller fanno volare il goffo Marvin
Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 1994

Per chi conosce il fumetto americano, il nome di Frank Miller è associato al genere supereroi, e davvero non si tratta del nome di un autore qualsiasi. La rinascita del genere, attraverso un nuovo modo di raccontare e un nuovo rapporto con il pubblico, oggi molto più adulto che non in passato, nonché il rinnovato interesse della critica per gli eroi superumani dei comics gli devono moltissimo. Basterebbe ricordare il suo Batman: The Dark Knight Returns, del 1985-86, un’opera dal successo senza precedenti nel settore, dove si raccontava, con il ritmo serratissimo di una composizione polifonica, la storia di un Batman invecchiato e alle prese con un mondo diverso da quello in cui era stato protagonista.

Non era la prima opera di Miller, e non è stata nemmeno l’ultima. Ma negli anni seguenti è stato soprattutto come sceneggiatore che Miller si è espresso, con numerose e spesso notevoli storie, nelle quali era però la capacità grafica di altri autori a mostrarsi al lettore, lasciandoci rimpiangere il suo montaggio e l’irruenza delle sue idee visive. Purtroppo, l’unica opera da lui interamente realizzata di questi anni è stata anche quella in cui l’abilità di disegnatore non si è accompagnata con quella di narratore. Difficile è stato infatti non sentire Elektra Lives Again come un polpettone di temi rifritti, nonostante questi temi fossero esposti al lettore con un virtuosismo non inferiore a quello delle sue opere migliori. Insomma, l’immagine che Miller dava di sé sino a poco tempo fa era un po’ quella del genio rovinato dal proprio successo, troppo impegnato in troppo numerose iniziative per riuscire a dar vita di nuovo a opere notevoli come quelle che lo avevano reso famoso.

Sin City è uscita a puntate negli Stati Uniti, tra il 1991 e il 1992, su una rivista di un editore minore. La cadenza mensile degli episodi ha reso più lento, più difficile, il rendersi conto della sua novità e del suo valore. Certo, sin dall’inizio era affascinante la scelta grafica di un bianco-nero a tinte assolute, giocato sui contrasti senza sfumature, con un frequente gioco di silhouette e di inversione coloristica tra figura e sfondo. Ed era notevole anche la scelta grafica delle immagini grandi, a mezza o piena pagina, con l’effetto di rallentamento ritmico della narrazione che essa comporta. Ma niente di tutto questo basterebbe a ravvivare un racconto banale, e il rischio di una storia a puntate (in Italia Sin City è stata pubblicata sulla rivista “Hyperion” e ora è disponibile in volume) che inizia lentamente, e sembra proseguire come tante altre, è che l’eccessiva attesa del seguito disamori un lettore che non ha ancora trovato validi motivi di interesse.

Invece, lentamente e progressivamente Sin City prende il volo, sempre più intrigante e coinvolgente nello sviluppo della vicenda, sempre più incisiva nel disegno e nel montaggio grafico. Si tratta di un thriller, questo è evidente, con richiami non troppo nascosti alla tradizione hard boiled, ma più parente forse di storie come Il silenzio degli innocenti che non del Falcone maltese o del Grande sonno. Marvin, un omone grande e grosso, con un passato militare ma anche trascorsi poco puliti, non particolarmente intelligente ma cocciuto come un toro, e dall’aspetto così poco piacevole da faticare persino per trovare amori a pagamento, vive la notte della sua vita con Goldie, ma quando si sveglia accanto a lei la trova strangolata, e le sirene della polizia in arrivo gli fanno capire che qualcuno sta cercando di incastrarlo. Sin City è la storia dell’indagine compiuta da questo improvvisato investigatore, consapevole della propria pochezza ma testardo e così innamorato del ricordo di lei da non fermarsi nemmeno davanti alla scoperta che Goldie non era stata con lui per amore ma soltanto per trovare protezione. L’indagine porterà progressivamente alla luce una storia sordida di misticismo e di cannibalismo, in cui i personaggi più innocenti finiscono per essere delinquenti e prostitute, schiacciati in una macchina del potere che è deragliata verso il delirio. Marvin è l’anti-Schwarzenegger, l’anti-Stallone: gigantesco e fortissimo e diabolicamente abile negli scontri quanto loro, ma orribile, goffo e sanguinario, stupido e cocciuto. È un Calibano riscattato solamente dal fatto di agire per amore, e dalla nequizia dei suoi antagonisti. Riscuote la simpatia del lettore solo perchè posseduto da una passione comprensibile e giusta, mentre la giustizia che gli si contrappone non capisce, e rispetta solo il potere dei potenti.

C’è una visione manichea molto americana, dietro a questa storia, ma il bene e il male vi sono così mescolati che si fatica a distinguerli. Eppure è sulla base di questa tensione etica che si regge la tensione narrativa – fortissima – di questa storia. Una volta entrati nel suo meccanismo ci si rende anche conto che sull’estremismo dei due poli è giocato anche lo stile grafico, basato sull’irrisolvibilità del contrasto tra bianco e nero. Ed è comunque il nero, l’oscurità , l’ombra, che vince. Sembra che con Sin City Frank Miller sia finalmente ritornato ai suoi livelli migliori, riunendo la sua capacità di inventare storie originali e coinvolgenti con quella di montarle e rappresentarle sulle pagine.

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Recensioni d’annata, 1994. “Craaaash!” e si ruppero le strisce

“Craaaash!” e si ruppero le strisce
Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 1994

I rumori sono tra gli aspetti della comunicazione a fumetti di cui si parla di più ; sono tra le cose che, più di tantissime altre, “fanno fumetto”. Eppure non tutti i fumetti contengono rumori, e non tutti quelli che li contengono mostrano di ritenerli un elemento graficamente importante. Nel complesso, l’emancipazione grafica dei rumori nel fumetto, è infatti un fenomeno relativamente recente, coevo di un interesse per gli aspetti più specificamente visivi che si è sviluppato (con le dovute eccezioni) a partire dagli anni Sessanta.

I rumori costituiscono uno strano oggetto, all’interno di una dimensione figurativa. Compaiono come messa in figura di qualcosa che, come il suono, non può in realtà essere visto; e non è nemmeno riservato loro quello spazio ufficiale – ovvero il fumetto, il balloon – che è delegato a contenere le parole. I rumori, insomma, “rompono”: rompono l’illusione realistica della raffigurazione, rompono la convenzione fumettistica dello spazio destinato alla scrittura (contrapposto a quello, generale, destinato all’immagine), rompono l’ideale classicista dell’immagine immobile e muta. In più, impongono un uso creativo della parola, costretta a esprimere onomatopeicamente le sonorità più strane.

Per tutte queste ragioni i rumori nei fumetti, nonostante la loro notorietà anche tra chi li frequenta poco, sono cresciuti piano piano e con qualche difficoltà.

Tra i classici, vi sono i noti “bang”, “crash”, “gulp”, “sob”, ormai catacresi di metafore a suo tempo divertenti; parole della lingua inglese, usate per esprimere il rumore prodotto dall’attività che esse descrivono: rispettivamente “esplodere”, “fracassarsi”, “inghiottire”, “singhiozzare”. Per i lettori non di lingua inglese, poi, il momento della metafora creativa non c’è nemmeno mai stato: ogni ragazzo italiano che abbia letto fumetti ha imparato queste parole come “rumori dei fumetti”, e non come termini della lingua inglese. Un rumorista geniale come il nostrano Jacovitti ha più volte fatto rivivere anche ai suoi lettori italiani l’emozione di rumori dal suono creativo. È vero che “pugno”, come suono di un pugno, appare meno realistico ed efficace di “sock” (letteralmente “prendere a pugni”), ma bisogna vedere come Jacovitti sopperisce graficamente alle (almeno in questo senso) limitazioni sonore della lingua italiana, ingrandendo molto la lettera “u” a spese delle altre, in modo che il suono evocato nell’immaginazione del lettore sia qualcosa che potremmo provare a rendere con “pù-gno”, con un fortissimo accento sulla “u”.

Quando gli autori di fumetti hanno incominciato a rendersi conto che la pagina bianca che avevano davanti permetteva molto di più di un realistico resoconto delle storie da raccontare, i rumori hanno incominciato un’esistenza molto più eclatante e – è il caso di dirlo – rumorosa. Questi rumori eccessivi, graficamente ingombranti, hanno trovato nel fumetto americano di supereroi il terreno migliore per esprimersi. Un campo, quello dei supereroi, irto di continui scontri, combattimenti, grida, da descriversi con il massimo della spettacolarità. I rumori hanno così incominciato a uscire dai bordi delle vignette, invadendo le aree bianche di divisione e addirittura i margini della pagina; hanno incominciato a farsi vivamente colorati, sono diventati tridimensionali, con lettere dotate di profondità come insegne pubblicitarie al neon; sono cresciuti in dimensione, sino a occupare vignette intere, pagine intere. In Europa sono rimasti in ogni caso più eleganti, e, in generale, anche più discreti. In alcuni casi, li troviamo parte integrante di composizioni graficamente preziose, oggetti visivi al pari degli altri sulla superficie della pagina, che vanno letti contestualmente alla situazione narrativa, senza tuttavia perdere del tutto l’effetto nobilitante della loro presentazione. In altri casi li troviamo persino espressi con una sfumatura ironica, con l’aria di dire qualcosa come: “Scusate se sono tanto banalmente un rumore, ma nei fumetti si usa fare così “.

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Recensioni d’annata, 1993. L’eroica Nausicaa

L’eroica Nausicaa
Il sole 24 Ore, 28 novembre 1993

È raro che una storia di fantascienza si avvalga di un protagonista che si distingue per la sua dolcezza. Tanto più raro se si tratta di un manga, ovvero di un fumetto giapponese.

Nausicaä della valle del vento, di Hayao Miyazaki, è ambientato, come tanti fumetti giapponesi, in un mondo che segue la catastrofe. Una volta tanto non si tratta però dell’olocausto nucleare, bensì del collasso da inquinamento; e il panorama non è quello desolante del “subito dopo”, ma quello in ripresa dei “mille anni dopo”. Una nuova civiltà è sorta dalle ceneri, ma le ceneri sono ancora calde e pericolose: buona parte della terra è una landa desolata, e grandi aree sono occupate da strane foreste, la cui vegetazione libera nell’atmosfera i veleni ancora concentrati nel terreno, rendendo impossibile entrarvi, e rischioso sorvolarle.

E’ un mondo dall’aspetto medievale, quello che si è ricostruito dopo l’apocalisse, senza tuttavia perdere del tutto la memoria delle antiche e potenti armi, e soprattutto delle tecniche del volo. Vi sono macchine volanti di ogni tipo, in genere goffe e lente, ma assai più diffuse che nel nostro mondo. Il mondo, o quel che ne rimane, è diviso in due grandi imperi, in ottusa lotta tra loro. Nausicaä è una ragazza di famiglia nobile di una località sperduta, da sempre estranea alle lotte del proprio impero. La storia inizia con il coinvolgimento del suo paese nella guerra, e per lei l’arrivo improvviso di una forzata maturità.

Il mondo del dopo-catastrofe pullula di insetti, spesso di dimensioni colossali. Nausicaä ha la singolare capacità di comunicare con loro. Inizia la sua vicenda combattendo per il proprio impero, ma poi prosegue per la propria strada, acquisendo presto consapevolezza dell’assurdità della lotta. Così la storia assume in breve i toni di una favola ecologica, che vede la figura esile della ragazza lottare per ristabilire un equilibrio tra l’umanità e un mondo che appare terribile, ma che può essere invece compreso e rispettato.

Questi, i temi. Raccontati così, potrebbero appartenere all’ennesimo serial finto-moralistico e noiosamente commerciale. Nausicaä non è però questo. Qualcosa lo salva dalla banalità di tanti altri prodotti non troppo dissimili. In primo luogo il disegno, forse non bellissimo, ma decisamente particolare, in special modo per un fumetto giapponese, con una tecnica di ombreggiature fitte e realizzate con paziente manualità. In secondo luogo, lo studio delle forme delle macchine e degli oggetti che vi compaiono, di nuovo singolare rispetto all’ipertecnologicità dei fumetti giapponesi: forme biomorfe e superfici grossolanamente realizzate.

In terzo luogo, Nausicaä riesce a comunicare un profondo senso del mistero della natura. Al di là di quello che la storia racconta, è il modo stesso in cui la natura ci viene presentata ad affascinare, ostile e maestosa al tempo, delicata e terribile, infida e dolcissima. Il personaggio della ragazzina che si rende conto del rapporto che è possibile instaurare, riceve luce da queste attribuzioni di senso, aggiungendo loro una profonda umanità. Alla fine, il risultato è di una vivezza che non ci si aspetterebbe, a priori. E procedendo nella lettura diventa sempre più difficile abbandonare questa intraprendente e poetica eroina.

Nausicaä della valle del vento è pubblicato mensilmente, da alcuni mesi, dalla Granata Press di Bologna.

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Recensioni d’annata, 1993. Briganti a schiere

Briganti a schiere
Il sole 24 Ore, 14 novembre 1993

Siamo abituati a leggere storie oppure a leggere serie o saghe. Le storie raccontano la vicenda di uno o più personaggi a partire da un evento cruciale, e si concludono quando le conseguenze dell’evento sono state consumate sino in fondo, in modo felice o infelice. Le serie e le saghe hanno caratteristiche narrative più incerte, ma condividono una certa ricorsività degli eventi: si raccontano le avventurose gesta di un eroe, una dopo l’altra, potenzialmente senza fine; oppure gli intrecci mai del tutto districati delle vite di un gruppo di persone… Libri, televisione, fumetti ci propongono continui esemplari di queste specie narrative.

Magnus, grande narratore non meno che disegnatore, ci propone una storia un po’ particolare, in una ristampa de I briganti realizzata dalla Granata Press. I briganti contiene non una storia, ma una serie di storie, accomunate da un destino, quello che condanna uomini onesti e valorosi a fuggire nell’illegalità per le nefandezze di un potere corrotto. Non si tratta di racconti separati: il filo narrativo è unico e avvincente, e il focus passa da un personaggio all’altro in modo insensibile, così che il lettore è avvinto da una nuova vicenda senza ancora aver lasciato quella che seguiva in precedenza.

Qua e là le varie storie si riannodano, ma senza arrivare mai a quella sintesi che il lettore è spinto ad attendersi. Non è la storia del formarsi di un gruppo di briganti, perché v’è più di un gruppo in gioco. Non è la storia di una serie di perdizioni, perché c’è chi trova la salvezza; e non è la storia di una serie di conversioni, perché c’è chi si danna. E’ piuttosto una serpeggiante meditazione sul confine tra giustizia pubblica e onestà personale, che non trova soluzione perché soluzione non c’è. Spinto avanti anche dall’attesa di questa sintesi impossibile, il lettore non risente poi tanto del suo mancato arrivo, affascinato com’è dall’intensità e sottigliezza delle tante storie che nascono e si intrecciano.

Gli eventi hanno luogo nei vari luoghi di un impero situato in un futuro senza tempo, i cui costumi ricordano quelli dell’antica Cina, dove la presenza di astronavi e lontani pianeti-colonia crea effetti più esotici che fantascientifici. Ma questo dislocamento nel tempo e nello spazio è sufficiente ad attribuire alle vicende un alone vagamente di fiaba, senza loro togliere gli aspetti più vivaci e crudamente realistici.

I disegni sono del Magnus più attento e preciso; da soli, già una ragione sufficiente per apprezzare quest’opera.

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Del sonno della Rat-gione (o di Rat-Man)

Credo che un giovane autore che volesse scrivere o disegnare fumetti di supereroi dovrebbe usare Rat-Man come testo di studio, come una specie di trattato dei luoghi comuni che fanno riconoscere il genere, non solo quelli tematici ma anche per il montaggio e il ritmo delle scene. Poi il giovane autore deciderà…

Il resto del post è qui, sul nuovo sito di Rat-Man.

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Di una foto con le linee intrecciate

Il pergolato

Il pergolato

Dedico questa foto primaverile a tutti coloro che, come me, stanno soffrendo il caldo in un luogo che non assomiglia a questo.

Sogno di vacanza a parte, a me questa foto piace anche perché è leggermente storta, e l’orizzonte è pure lui una delle linee diagonali che definiscono il soffitto del pergolato. E ci si arriva dunque per questo zigzag aereo, che si riflette in quello, più tranquillo, dal lato basso. C’è molto movimento per questa immobilità.

È il bello dell’essere in vacanza: deleghi il movimento all’occhio, e al pensiero.

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Recensioni d’annata, 1993. Un Igort di passione e ironia

Un Igort di passione e ironia
Il Sole 24 Ore, 1 agosto 1993

Sono almeno tre le occasioni per parlare in questo momento di Igort, al secolo Igor Tuveri: la pubblicazione di un suo nuovo volume, e due mostre con relativi e notevoli cataloghi, curati in gran parte da lui stesso. Il volume raccoglie due storie a fumetti tra le più belle di questo autore, sotto il titolo Il letargo dei sentimenti. Le mostre, una di qualche mese fa, a Milano, dal titolo Mangarama, e l’altra ancora in corso a Reggio Emilia, That’s All, Folks, ci illustrano anche altri aspetti della personalità di questo artista poliedrico. Specialmente quest’ultima si presenta come particolmente esaustiva. Volume e cataloghi sono pubblicati dalla Granata Press di Bologna.

Il nome di Igort è ben noto a chi si occupi di fumetti di qualità. Dopo altre prove interessanti, è venuto decisamente alla luce nel 1983 con la fondazione del gruppo Valvoline, cui partecipavano, oltre a lui, Lorenzo Mattotti, Giorgio Carpinteri, Marcello Jori, Charles Burns, Jerry Kramsky e Daniele Brolli. Eterogeneo sotto altri aspetti, il gruppo condivideva con Igort la molteplicità degli interessi. Per gli autori di Valvoline essere autori di fumetti significava trovarsi al centro della tempesta dei media cavalcando contemporaneamente venti diversi. Non il fumetto come il parente povero dei media, dunque, ma come il punto di concrezione di esperienze artistiche diverse e lontane tra loro: la pittura, il racconto, la televisione, il cinema, la grafica, l’illustrazione… Per Valvoline esprimersi era utilizzare anche tutti questi mezzi di comunicazione.

Nella produzione di Igort, come in quella di diversi dei suoi antichi colleghi, troviamo dunque, oltre all’esperienza del fumetto, quella della scrittura, dell’arte figurativa, della scenografia teatrale, dell’illustrazione di moda, della grafica e del design. Nel suo caso particolare troviamo anche la musica, come compositore e cantante del gruppo post-moderno Slava Trudu.

La sua poetica è complessa, sentimentale e ironica fino al limite del paradossale. Le due storie raccolte ne Il letargo dei sentimenti sono sentite e commoventi, ma sono anche evidenti parodie dell’eccesso di sentimentalismo, delle grandi passioni e dell’eroismo. La sua grafica raffinata dipinge luoghi e situazioni eleganti, tra il Giappone e la Russia (due poli culturali tra i quali oscilla l’intera produzione di Igort); personaggi che sono al tempo stesso eroicamente pubblici e pateticamente privati, attraversati da mitologie che non riescono ad interpretare sino in fondo; segnati da un erotismo che si rivela, pur nella sua evidente conturbanza, solo una maschera per definitive delusioni. Il letargo dei sentimenti sembra essere la condizione da cui si esce solo per poi ritornarvi.

Ma Igort è un autore troppo ironico per proporre verità definitive sul sentimento, e sembra sempre revocare in dubbio con una mano le certezze che porge con l’altra. Presenta personaggi fisicamente iperbolici, e li mostra alla macchina da cucire a rammendarsi il costume. Costruisce utopie personali grandiose, e le manda a naufragare tra le braccia della prima astuta e procace avversaria.

Questo dualismo di passione e sarcasmo pervade tutta la sua produzione artistica, anche al di fuori del fumetto. In pittura, troviamo gli stilemi di un concettualismo giocato sui paradossi del naivismo portato all’estremo: un divertissement sulla stupidità mediologica, nei temi dell’eroico, dell’erotico e dell’eleganza. In grafica e scenografia è invece l’eleganza stessa a giocare il ruolo principale, e l’ironia vi appare come un leggero velo con funzione temperante. Nell’illustrazione di moda, che dell’eleganza è luogo ufficiale, l’ironia è invece pervasiva, pur senza travalicare le finalità illustrative.

Nei testi verbali, tra cui quelli scritti appositamente per i cataloghi, il dualismo diventa provocazione: si ostenta un aspetto e lo si brucia immediatamente per mezzo del suo opposto.

L’impressione complessiva che si ricava, per esempio, dalla mostra di Reggio Emilia, è quello di una produzione calda e fortemente vitale, mobile e instancabile. Lo stile raffinato di Igort passa con disinvoltura dalla passione alla parodia, ma senza mediazioni, come se non fosse possibile un terreno intermedio: l’una e l’altra devono essere percepite al massimo grado, ed è il loro rapporto a produrre l’effetto complessivo. La passione è tale perché è intensa e sentita, perché è travolgente ed eventualmente immorale. L’ironia, il sarcasmo, sono tali perché sono inesorabilmente razionali, destinati a condannare tutto ciò che possa essere messo in ridicolo. Ogni mediazione comprometterebbe entrambe i poli.

Da ammirare, nella mostra, sono non solo le opere compiute, più o meno già viste – per chi conosce Igort – in mostre e pubblicazioni precedenti, ma anche i numerosissimi schizzi, bozzetti, disegni, in cui le coordinate di questo amore per gli estremi emergono con vivace immediatezza.

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Recensioni d’annata, 1993. Luther, l’eroe fantastorico

Luther, l’eroe fantastorico
Il Sole 24 Ore, 16 maggio 1993

È un mito del fumetto britannico degli ultimi anni quello che le Edizioni Telemaco stanno pubblicando in versione italiana in questi mesi. The Adventures of Luther Arkwright di Bryan Talbot (anche la traduzione conserva il titolo in lingua inglese) è un singolare fumetto di fantascienza, degno erede di una tradizione di prodotti affascinanti e raffinati, che trova in Jeff Hawke il rappresentante più noto e duraturo.

Quando Talbot iniziò a realizzare Luther Arkwright, nel 1976, decise che quello che stava per fare avrebbe dovuto essere molto diverso dal fumetto americano che andava per la maggiore in Gran Bretagna in quegli anni. Il disegno avrebbe dovuto essere estremamente accurato, fino a ispirarsi – come poi è effettivamente accaduto – alle tecniche degli incisori vittoriani e di Doré ; i personaggi avrebbero accuratamente evitato le pose trionfalistiche e melodrammatiche che dominavano e sono tuttora frequenti nel fumetto americano; la narrazione avrebbe dovuto avere un ritmo di tipo letterario, con un’attenzione particolare a evitare effetti facilmente spettacolari.

Se si tralasciano alcuni primissimi episodi ancora di carattere sperimentale, senza collegamento con il seguito e non riportati nell’edizione italiana, Luther Arkwright si configura sin dall’esordio della storia principale come un testo intricato e complesso, dove a un’ambientazione fantascientifica fondata sull’esistenza di dimensioni parallele (un intero multiverso) corrisponde uno stile narrativo basato su un intricato e denso montaggio degli eventi. Nella prima parte del racconto l’evoluzione degli eventi si alterna anche a un recupero del passato, nel quale si raccontano la vita e i perché del protagonista. La difficoltà di cogliere una linea narrativa coerente in queste pagine è abbondantemente compensata dal fascino dell’immersione in un caleidoscopio di mondi e tempi, quasi un brodo narrativamente primordiale.

Poi, lentamente, a mano a mano che si incomincia a comprendere la situazione, anche la narrazione si fa più lineare. Nel sistema di universi paralleli, vi è una Terra (non la nostra) in cui l’esistenza delle dimensioni parallele è nota alla scienza (l’ha scoperta verso la fine dell’Ottocento il famoso fisico tedesco Karl Marx), ed è noto anche che si è innescato da qualche tempo un meccanismo che sta portando alla progressiva distruzione di ciascuna Terra, provocando in questa un disastro ecologico, in quella un olocausto nucleare, in altre ancora degenerazioni meno radicali ma progressive. Arkwright è un agente della Terra centrale che agisce in altre dimensioni per arginare o evitare l’incipiente catastrofe. La Terra cui Arkwright è affidato è piuttosto diversa sia da quella centrale che dalla nostra. Londra, dove l’azione si svolge, non è la capitale del Regno Unito, bensì del Commonwealth, sotto la dittatura puritana del Lord Protettore Nathaniel Cromwell, discendente ed erede di Oliver. Non c’è stato un Carlo II che abbia ripreso il trono, e il New Model Army è rimasto invitto a difendere il potere dei calvinisti, dalla metà del Seicento sino ai giorni nostri. La dinastia Stuart si è mantenuta in esilio e nella clandestinità, e Arkwright viene coinvolto nell’ennesima insurrezione antipuritana per cercare di restaurare la monarchia, contro la dittatura oppressiva e incancrenita dei Cromwell, una dittatura che mostra evidenti somiglianze con quella nazista del nostro mondo.

Al di là del fascino dell’ambientazione, che sposa temi tipicamente fantascientifici con temi storici (e un’implicita riflessione sulla storia britannica), vi sono pagine di intensa letterarietà. Talbot è un ottimo scrittore, oltre a essere un disegnatore di notevoli capacità. L’episodio della quasi-morte di Arkwright ci presenta uno stream of consciousness in cui la forza delle parole è moltiplicata da quella delle immagini, con una serie di effetti di scansione e progressione ritmica che mostrano davvero a quali limiti di espressività possa arrivare un linguaggio come quello del fumetto quando venga usato a fondo. D’altro canto, un fumetto pur così interessante ha scontato la propria complessità con una serie di difficoltà di pubblicazione, che hanno fatto trascorrere ben dieci anni tra l’uscita del primo gruppo di episodi e quella della loro prosecuzione. Dal 1978 al 1987 la lunghissima attesa degli sviluppi sembra però non aver scoraggiato gli affezionati. Tanto più che la seconda uscita, quando finalmente ha avuto luogo, ha conseguito un immediato e notevolissimo successo. Poi sono arrivati i premi della critica e il culto di una schiera di appassionati, nonché il riconoscimento di una certa paternità stilistica da parte di numerosi autori inglesi molto apprezzati sia in patria che negli Stati Uniti.

Luther Arkwright è attualmente in pubblicazione italiana in due diverse edizioni. La prima è destinata alle sole librerie specializzate del fumetto e contiene anche alcuni interessanti testi esplicativi dello stesso Talbot. La seconda è invece un’edizione da edicola ed è raccolta nei primi quattro albi mensili della “Collana Europa”, che prevede, a seguire, altri titoli interessanti come Bratpack di Rick Veitch.

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Recensioni d’annata, 1993. Pistolero stanco ma multietnico

Pistolero stanco ma multietnico
Il Sole 24 Ore, 4 aprile 1993

 

La definizione “western psicologico” può sembrare quasi un ossimoro: l’approfondimento interiore è di solito infatti un tema piuttosto estraneo a questo genere, quali che siano stati o che siano i media in cui trovava o trova espressione. D’altro canto, l’approfondimento psicologico non è in generale appannaggio dell’epica, antica o moderna che sia, e il western è certamente un tipo di epica moderna.

Neppure nel fumetto popolare italiano l’esplorazione psicologica dei personaggi ha mai costituito un tema particolarmente centrale. Tantomeno, quindi, nel western italiano a fumetti. Personaggi tutti d’un pezzo, buoni o cattivi, seri o ridicoli che fossero, si sono sempre presentati al pubblico come entità monolitiche e preformate, istanze narrative ben chiare e definite, con il proprio ruolo e la propria missione. Tra i personaggi che hanno allietato le letture semiclandestine di molti ragazzi e adolescenti italiani degli anni dai Trenta ai Sessanta si ricordano Pecos Bill, il Piccolo Sceriffo, Blek Macigno, Capitan Miki, tutti recentemente riproposti in nostalgiche ristampe per amatori. Più avanti sarebbe arrivato Zagor, lo “spirito con la scure”, pubblicato da quelle stesse edizioni Bonelli cui appartiene il più amato dei personaggi a fumetti italiani, il ranger Tex Willer.

Poca psicologia e molta azione, indiani ora cattivi ora buoni (sempre più buoni con il passare degli anni), congiure e agguati sventati, mandrie scortate al mercato, talvolta un pizzico di stregoneria: ingredienti per confezionare prodotti seriali ora più ora meno gradevoli. Qualche serie va ricordata per puro dovere di cronaca; qualche altra per aver saputo mettere su carta l’immaginario avventuroso di diverse generazioni di italiani.

Sicuramente il nome di Ken Parker è meno noto dei precedenti alla maggior parte dei lettori del nostro paese, e non solo per il fatto di essere nato nella seconda metà degli anni Settanta. La serie Ken Parker era pubblicata dalle edizioni Bonelli, ma era diversa anche graficamente dagli albi di Tex, Zagor ecc. Gli autori, Giancarlo Berardi per i testi e Ivo Milazzo per i disegni, la curavano sotto tutti gli aspetti, anche nell’organizzazione grafica, e proseguirono per quasi cinque anni a pubblicare mensilmente nuovi episodi. Poi, l’impegno richiesto si rivelò eccessivo per la cura e l’attenzione che gli autori ci mettevano, nonostante i collaboratori fossero intanto aumentati, e la serie editoriale chiuse.

Non chiuse però la serie narrativa, e nuovi episodi continuarono a uscire su riviste cosiddette di fumetto d’autore per numerosi anni, pur con una cadenza abbastanza blanda. Nel frattempo le ristampe della serie originale si sono susseguite – l’ultima è tutt’ora in corso – pubblicate non più dalla Bonelli ma da una nuova casa editrice, costituita dagli stessi autori, la “Parker Editore”. E questa stessa casa editrice, qualche mese fa, ha finalmente dato alla luce una nuova rivista, Ken Parker Magazine, che assieme ad alcuni recuperi di bel materiale classico americano e francese, ci presenta una nuova serie del personaggio.

Limitarsi a dire che Ken Parker è un western atipico non rende giustizia a questa serie. La definizione “western psicologico”, per quanto paradossale e ossimorica appaia, può essere una buona prima approssimazione. Ma da sola non basta a dare un’idea della ricchezza di temi delle storie: senza perdere affatto il senso mitico del West, sfondo costante di ogni racconto di questo genere, Berardi e Milazzo ci raccontano infatti la vita quotidiana dell’Ottocento americano, la politica e i contrasti sociali, le differenze ambientali e culturali tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest. Il tutto, sempre popolato da personaggi a tutto tondo.

E’ interessante, per esempio, come Berardi e Milazzo riescano a dare nuova vita ai numerosi stereotipi che popolano la scena dei racconti del West: il pistolero, il mandriano, il proprietario terriero con pochi scrupoli, il pioniere, l’ufficiale di cavalleria, l’indiano buono, l’indiano cattivo, la maestra, la donnina allegra, il bandito, il cacciatore di taglie, la brava moglie, la guida indiana, lo scout… Per ciascuna di queste figure la rappresentazione stereotipica è continua occasione di indagine e approfondimento psicologico, è il punto di partenza, la base su cui costruire delle storie. Compaiono inoltre personaggi e situazioni desuete per il genere western, di fronte ai quali i motivi più tipici si stagliano per contrasto ancora di più; come nella breve serie di episodi in cui Parker arriva in una grande città dell’Est, civile e moderna come lo potevano essere le città europee del secolo scorso. In quel contesto l’uomo della frontiera si muove come un pesce fuor d’acqua, e lo sviluppo degli eventi lo vede goffo e impacciato, alle prese con una realtà che non è la sua – coinvolto anche in uno sciopero, in cui la durezza della lotta sindacale di quegli anni appare curiosamente irreale a confronto con la durezza mitologizzata della vita del West.

Temi assolutamente contemporanei sono ben riconoscibili negli sviluppi narrativi di questo western revisionista: lotta sindacale, ecologismo, animalismo, difesa dei diritti umani, antimilitarismo, problemi razziali e differenze etniche. Ma  anche se il West di Berardi e Milazzo si rivela come una splendida arena per metafore della contemporaneità, tutti questi motivi emergono con naturalezza all’interno di storie che non hanno mai l’aria di essere costruite apposta per esporli. Le storie sono prima di tutto intrecci fascinosi e godibili; mai espliciti discorsi ideologici.

A questo proposito, Ken Parker ha presentato fin dall’inizio una quantità di aspetti innovativi anche dal punto di vista del modo di raccontare. Abolizione di didascalie e di “balloon di pensiero”, ispirata a un realismo di matrice cinematografica. Un tratto grafico veloce e conciso, adatto a una lettura centrata sugli eventi, ma pregnante a sufficienza da non far dimenticare che si tratta di un fumetto. Un ritmo narrativo sempre giustamente cadenzato, di solito abbastanza lento da permettere al lettore di immergersi appieno nella situazione – con abbondanza di dettagli ed eventi marginali, che, anche quando non contribuiscono direttamente alla storia, interessano e divertono.

Con la nuova rivista, Berardi e Milazzo riprendono finalmente oggi l’intensità di questo discorso narrativo, mai abbandonato, ma certamente allentato negli anni trascorsi dalla chiusura della prima serie.

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Recensioni d’annata, 1993. Mattotti impasta colore e solitudine

Mattotti impasta colore e solitudine
Il Sole 24 Ore, 15 marzo 1993

Chi ha avuto la fortuna di vedere dal vero le tavole di Lorenzo Mattotti si è probabilmente reso conto del valore dell’intensità dei rapporti cromatici, e dell’importanza della grana della carta e del pastello che le è stato steso sopra; tutte qualità che in molte riproduzioni a stampa scompaiono in parte o addirittura del tutto – talora offuscate da un approssimativo trattamento del colore, talora rimosse dal glamour della carta patinata. Ma per chi non abbia avuto questa fortuna le edizioni Nuages hanno proposto da poco un volume in cui la scelta della carta e la resa del colore rendono onore alle potenzialità dell’arte di Mattotti.

Si tratta di un breve romanzo di Robert Louis Stevenson, Il padiglione sulle dune, di cui Mattotti ha curato le illustrazioni. La cura per la veste grafica e l’attenzione alla riproduzione delle immagini rendono evidente che l’interesse per gli editori è rivolto più alla parte visiva che non al testo narrativo. Nella stessa collana, una piccola serie di testi sette-ottocenteschi è illustrata da autori come Emanuele Luzzati, Altan, Flavio Costantini, Giuseppe Giannini, Hugo Pratt e Folon.

Il padiglione sulle dune è certamente un’opera intonata allo stile di Lorenzo Mattotti. Ambientato su una spiaggia scozzese, dove un unico edificio sorge di fronte al mare tra le dune e le macchie d’erba, sovrastato da un cielo percorso da nuvole non di rado tempestose, il romanzo di Stevenson sembra quasi scritto apposta per queste illustrazioni. In molte delle storie a fumetti di Mattotti il tema dell’edificio isolato in mezzo alla brughiera e di fronte al mare ritorna come un ossessione. Lo troviamo in Fuochi, in Doctor Nefasto, in La zona fatua, e in una serie di storie più brevi. Si tratta sempre del centro, del luogo fondamentale della storia.

Come sempre, il tema visivo delle immagini di Mattotti è la luce. Si tratta di una luce materica, densa, che rende i colori intensi e vivaci, anche quando le tonalità sono cupe e l’atmosfera è notturna. Con l’utilizzo dei pastelli a olio, le campiture di colore sono tendenzialmente uniformi o uniformemente sfumate, e il gioco cromatico è basato soprattutto sul contrasto tra colori puri.

Per chi voglia scoprire Mattotti, oltre alla sua recente partecipazione a uno splendido (e molto costoso) volume a cura delle Ferrovie dello Stato (Quel fantastico treno, già recensito su queste pagine), le edizioni Granata Press stanno ristampando gran parte delle sue produzioni. Sono usciti nel 1992 Fuochi e Doctor Nefasto, e si attendono per i prossimi mesi La zona fatua e Il Signor Spartaco. Si tratta di storie a fumetti che in Italia o sono state pubblicate in volume da molto tempo oppure sono uscite solo su rivista, e che sono quindi poco conosciute al grande pubblico. Paradossalmente, è molto più facile acquistare testi di Mattotti in Francia e negli Stati Uniti che non in Italia. Fuochi, la sua opera più nota, è stata pubblicata in quasi tutti i paesi d’Europa.

Il tema della solitudine è ricorrente in queste storie, raccontato come può farlo un grande narratore che usa i pastelli invece della macchina da scrivere. Quello che colpisce nei racconti di Mattotti è come la rappresentazione per immagini possa rivelarsi potente quanto la scrittura nel descrivere sentimenti e sensazioni, e come la matericità del colore sia spesso lo strumento di questa esplorazione dell’interiorità. Quando lo strumento non è il colore, lo è il rapporto tra le masse di bianco, definito da una linea sottile di pennino, come accade in L’uomo alla finestra, il romanzo per immagini pubblicato da Feltrinelli nel 1992.

Storia di un uomo solo è anche Il padiglione sulle dune, un romanzo che mostra numerose affinità con le storie a fumetti di Mattotti. In Fuochi, un ufficiale di marina viene travolto dalle proprie emozioni all’approdo di un’isola abitata da strane e irrazionali presenze, e continua a rimescolarle dentro di sé fino a un folle atto finale. Nel Signor Spartaco (realizzato con Jerry Kramsky), un personaggio pavido e timido ricorda episodi del proprio passato sino ad arrivare a liberarsi della propria incapacità di agire. La zona fatua (anch’essa con Kramsky), ancora di più, racconta di un’incapacità di distinguere tra il proprio mondo e quello in cui vivono tutti. Il romanzo di Stevenson presenta una singolare amicizia tra due persone gelose della propria solitudine, e un ancora più strano amore che sottrae il protagonista alla propria lontananza dal mondo degli altri.

Vi sono forti l’odore del sale, il silenzio, il vento: tutte cose difficili da rendere per immagini. Le illustrazioni di Lorenzo Mattotti ci riescono benissimo.

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Recensioni d’annata, 1993. Tra i sopravvissuti di una fantapocalissi

Tra i sopravvissuti di una fantapocalissi
Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 1993

Quanti anni sono che la fantascienza si è trasformata, dalla space opera, o dalle “meraviglie del progresso” con cui era iniziata, in un cupo oracolo di inferni urbani e apocalissi? Nel mondo del fumetto, specchio fedele, e talora anticipatore, delle trasformazioni della science fiction letteraria, fanno sorridere oggi il futuro postmoderno di Buck Rogers e quello tecnologico di Dan Dare. Persino Jeff Hawke, fumetto d’ altra levatura rispetto ai precedenti, conduce gran parte della propria esistenza seriale in un futuro tecnologico e tranquillo, attraversato sì da singolari e talvolta drammatici eventi, ma nel complesso flemmatico e delicato come ogni anglosassone che si rispetti.

Eppure le medesime storie di Jeff Hawke subiscono intorno alla metà degli anni Settanta una trasformazione, e il loro protagonista si trova sbalzato stabilmente qualche decennio più avanti, in piena era post-catastrofica. La luna si è spaccata ed enormi frammenti di essa sono precipitati sul nostro pianeta: l’ umanità lotta per sopravvivere e riorganizzarsi. Il demone del futuro negativo ha contaminato persino questa serie “illuminista”.

Tra i profeti dei futuri negativi che a un certo punto hanno incominciato a moltiplicarsi tra gli autori di science fiction, Philip K. Dick è probabilmente quello che più ha lasciato il segno sulla generazione successiva. Non è solamente l’ impatto duro e crudo dei suoi mondi narrativi, ma anche il suo continuo e sempre presente oscillare tra allucinazione e realtà ; da L’occhio nel cielo a Scrutare nel buio il divario tra il mondo esteriore e quello interno si fa sempre più sottile, fino a scomparire del tutto. Il cyberpunk parte da qui, recuperando come possibilità tecnologiche quello che per Dick era semplice deragliamento dei sensi, autoillusione da Lsd. Il cyberspazio teorizzato da William Gibson è dunque il mondo dove i sogni si incontrano, dove l’ immaterialità del pensiero non coincide più con la solitudine del sognatore: una realtà immateriale, ma non meno rischiosa di quella più consueta fatta di carne. Nel mondo del fumetto americano il ribaltamento in negativo è arrivato con gli anni Ottanta e con la crisi dei supereroi. Con autori quali Frank Miller, Alan Moore e anche, meno noto, Rick Veitch, il fumetto di supereroi, un genere assai particolare di fantascienza, ha sostituito il pessimismo e il timore dell’ apocalisse al buonumore da favoletta che da sempre lo aveva caratterizzato. È da molto prima di questa recente e annunciata morte di Superman che uno spirito sinistro aleggia negli universi del comic book.

Più vicino a noi, e alla nostra sensibilità , il futuro negativo impera nel fumetto francese degli anni Settanta, da Metal Hurlant in qua, e in tutti i suoi epigoni. A differenza che nella fantascienza americana, qui la negatività è accompagnata sovente dall’ ironia, e le apocalissi aspettate si rivelano talvolta tempeste in un bicchier d’ acqua, salvo poi rivelarsi nuovamente come apocalissi, una volta che anche il secondo velo è stato sollevato. Da Moebius a Druillet, a Tardi, a Bilal, le costanti del futuro imperfetto arrivano in seguito fino in Italia, nelle pagine provocatorie di Cannibale e di Frigidaire, dove l’ ironia diventa sarcasmo e l’ evidente negatività della fantascienza critica sociale e politica.

Gli autori di Cyborg partono oggi da tutte e quattro queste esperienze. Cyborg è una rivista di fumetti che ha ripreso da poco le pubblicazioni. Dopo una prima serie nel 1991, chiusa per dissidi con l’ editore, è rinata da qualche mese in proprio. Fatto più unico che raro, per il tipo di pubblicazioni cui questa rivista fa riferimento, gli autori che vi partecipano sono tutti italiani. Non solo: a differenza di tutte le altre riviste a fumetti, che appaiono come contenitori di materiali diversi, più o meno riconducibili a una linea editoriale decifrabile, Cyborg è progettata da un team di autori che realizzano testi pieni di reciproci rimandi. La superficie e l’ occasione sono cyberpunk, con un certo odore di fumetto americano, ma le radici e lo spirito ora ironico ora disperatamente malinconico sono del tutto europei. La dirige Daniele Brolli, già gruppo Valvoline, già collaboratore di Linus e di Frigidaire, fumettista, scrittore, saggista, ora anche editore. La fanno con lui un gruppo di autori più giovani, molti dei quali sono usciti, anni fa, da quella scuola del fumetto, il Centro di Applicazione Zio Feininger, che era stata l’ espressione didattica del cosiddetto Nuovo Fumetto Italiano degli anni Settanta e dei primi Ottanta. Tra questi Francesca Ghermandi, Onofrio Catacchio, Giuseppe Palumbo, Massimo Semerano, Otto Gabos e poi Davide Toffolo, Marco Nizzoli, Davide Fabbri e alcuni altri.

Cyborg è un fenomeno singolare. Si rivolge a un pubblico sostanzialmente giovanile attraendolo con storie dure e violente, di quando in quando fin eccessive nella crudezza dei particolari. Eppure, le storie sono tutt’ altro che semplici da seguire, le immagini tutt’ altro che di immediata decifrazione. In questo, la lezione cyberpunk di Gibson viene seguita sino in fondo. Ma il pericolo che corre lo stesso scrittore di Neuromancer, quello di invischiarsi nella propria stessa retorica, attraversa un po’ tutta la poetica della rivista. Se ne salvano proprio quegli autori che sono più lontani dalle tematiche della realtà virtuale, vuoi perché giocano più sui toni ironici che su quelli epici, vuoi perché gli argomenti delle storie sono diversi da quelli tipici del cyberpunk.

Al contrario che nella prima serie, sono questi gli autori che sembrano venire privilegiati nella seconda. Cyborg si allontana dal cyberpunk? Nonostante titolo e rubriche, sembrerebbe di sì. Anche le realtà virtuali incominciano a invecchiare.

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Della foto di una città ferma al semaforo

Il mondo con il semaforo

Il mondo con il semaforo

Questa città invisibile ha al suo centro un semaforo, rosso. Ma ho scattato questa foto (in questo luogo reale) perché mi inquietava la scritta Microsoft sulla sommità dell’edificio. Non so se sia una foto bella o brutta, o magari solo insignificante. A me continua a produrre una leggera inquietudine.

Sarà il cielo così intenso sopra la normalità cittadina, o sarà forse la torre (in uno stile di un moderno ormai d’epoca) che sta dietro all’edificio che porta la scritta, con tutte quelle antenne sopra – come se non bastasse l’altezza per poterlo fregiare del titolo di “grattacielo”, ma dovesse anche dettagliare il modo in cui il cielo va grattato. O magari sarà quella fila di pali con i lampioni, tutti verdi, stagliati contro degli alberi molto meno verdi di loro. O sarà banalmente il semaforo stesso, rosso a bloccarci nel centro esatto dell’immagine, contro un cielo che la città stessa nega, pur non potendolo nascondere.

Non so. Non so dire bene. A voi questa immagine dice qualcosa?

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Recensioni d’annata, 1993. Bilal che bell’anacronismo

Bilal che bell’anacronismo
Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 1993

Quando, circa dieci anni fa, la rivista Alter Alter pubblicò anche in Italia “La fiera degli Immortali”, dell’autore francese Enki Bilal, il mondo dei lettori di fumetti fu attraversato da un brivido. È vero che Bilal era già ben conosciuto nel nostro paese, poiché molte sue produzioni erano state pubblicate su quella stessa e anche su altre riviste. È vero che il futuro di disfacimento, di anarchia e autoritarismo al tempo stesso, in cui la vicenda era ambientata era quasi un luogo comune nelle produzioni, specialmente francesi, di quel periodo. Ma la storia di Bilal mostrava una capacità sia narrativa che grafica e un’inventività nell’individuare gli elementi del gioco davvero non comuni. E giustamente qualche mese fa la rivista Il Grifo l’ha ripubblicata, così da farla conoscere anche ai lettori che allora erano troppo giovani per poterla apprezzare.
L’ambiente della storia è una Parigi del prossimo secolo, fortezza miserabile separata da un mondo ancora più miserabile, sofferente dei postumi di una catastrofe nucleare. Fortezza nella fortezza, il luogo del potere, detenuto da un dittatore fascisteggiante, mentre per le vie della città l’anarchia viene appena smussata da una polizia tanto brutale quanto inutile. In questo contesto la coincidenza di due eventi straordinari dà inizio alla storia.
Il primo è il ritorno dallo spazio di una navicella partita cinquant’anni prima, da cui viene catapultato fuori un astronauta surgelato, che si sveglierà nel nuovo ambiente, del tutto ignaro di quanto gli è successo e delle trasformazioni avvenute in sua assenza nel mondo. Il secondo evento è l’arrivo di un’astronave aliena, a forma di piramide, abitata dagli Immortali, ovvero dagli dei della mitologia egizia – una fermata tecnica, dovuta sia alla mancanza di carburante (e il rifornimento viene domandato-imposto al governante di Parigi) sia a una feroce lotta intestina, che vede contrapposto Horus, il dio dalla testa di falco, agli altri dei. Horus fugge e scende in città, nascondendosi nel corpo di Alcide Nikopol, l’astronauta, alieno ormai non meno di lui. Tra i due si crea così un sodalizio, che porta sì Nikopol a rovesciare il governatore e ad assumere il potere, ma anche alla pazzia: troppi e troppo diversi dal suo modo di comprendere il mondo sono gli eventi che gli accadono. Finirà per prendere il suo posto di comando il figlio-sosia, identico al padre anche per età, visti gli anni passati in ibernazione da quest’ultimo.
Nel 1986 Bilal ha scritto un seguito alla “Fiera degli Immortali”. Ne “La donna-trappola”, un Nikopol che ha riacquistato una precaria stabilità mentale, ora unito ora separato da Horus, vive un’angosciosa storia d’amore e allucinazione con una giornalista venuta dal futuro, in preda a visioni omicide a causa di un dosaggio sbagliato di medicinali. Come sfondo l’intera Europa, focalizzata su Berlino, una città in guerra costante.
Ed ecco, finalmente, dopo altri sei anni, una terza e forse conclusiva parte della saga. “Freddo Equatore” è stato da poco pubblicato a Parigi da Les Humanoides Associés, e in Italia ha iniziato una pubblicazione a puntate (poche e corpose, sembra, a giudicare dalla prima) sulla rivista Il Grifo. Protagonista, almeno all’inizio, non è più Nikopol, ma suo figlio, alla ricerca del padre attraverso un’Africa popolata di animali senzienti.
Nell’attuale contesto del fumetto in Italia, dominato dalla produzione americana, nonostante la sua incipiente crisi, e dalla crescita delle produzioni giapponesi, l’opera di Bilal appare un po’ come un prezioso anacronismo. Anacronistica appare un po’, oggi, tutta la produzione francese, ma l’appellativo di “prezioso” si addice a ben poche opere.
Questo “Freddo Equatore” si inserisce per molti aspetti nella migliore tradizione degli Umanoidi Associati, una tradizione iniziata verso la fine degli anni sessanta e che ha avuto nei settanta la sua massima espressione, per poi adagiarsi progressivamente nel corso del decennio successivo, contestualmente alla crisi dell’intero fumetto francese. Facevano parte del gruppo autori come Moebius, Druillet, Forest, Tardi, Dionnet, tutti ben noti in Italia, almeno prima che cambiasse la tendenza e il successo editoriale del fumetto non venisse ricostruito su nuove basi, tanto poco francesi quanto prima lo erano.
Enki Bilal, un po’ più giovane degli altri, comparve sulla scena degli Umanoidi qualche anno dopo gli inizi, ma con un’immediata notorietà. Mentre Moebius e Druillet stavano ancora distruggendo la forma-racconto tradizionale, costruendo fumetti in cui la storia era spesso solo un tortuoso pretesto per mettere a fuoco relazioni tra zone remote dell’immaginario collettivo, Bilal aveva già ripreso a raccontare davvero, ma con lo spirito di chi viene dopo la rivoluzione, e ritiene sia ora di ricostruire, una volta che si è imparato che cosa era stato giusto distruggere. Anche dal punto di vista grafico, alla leggerezza di Moebius e ai barocchismi di Druillet, Bilal contrappone uno stile solido e materiale, un disegno narrativo fino in fondo.
Forse proprio per questa sua diversità, le storie di Bilal hanno avuto le caratteristiche (ora più ora meno rilevanti) di “preziosi anacronismi” sin dall’inizio. Testardamente consistenti quando dominava l'”immaginazione al potere”, appaiono oggi come oggetti di inusuale densità e conclusività, di fronte ai modelli di narrativa seriale che vanno per la maggiore. Ma forse proprio per questa loro persistenza della diversità non condividono l’impressione che gran parte dei grandi classici autori francesi, Moebius in testa, provocano da qualche anno con le loro nuove storie: l’impressione cioè di arrivare da un’epoca conclusa, continuando a ripetere modalità espressive di cui noi lettori ci domandiamo – e solo di quando in quando – se davvero hanno ancora senso per la nostra sensibilità di oggi.
I fumetti di Bilal non sono mai stati una lettura facile – il disegno è complesso, il testo verbale è abbondante, le vicende sono intricate. Continuano anche oggi ad avere però lo spessore e la profondità del grande romanzo, quello che si produce in un’epoca e ne è chiaramente figlio, ma si continua a rileggerlo con gusto anche dopo molti anni che quell’epoca è tramontata.

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Recensioni d’annata, 1993. Strisce d’ oltre Manica con vocazione letteraria

Strisce d’oltre Manica con vocazione letteraria
Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 1993

Chi è o è stato lettore di Jeff Hawke conosce la vocazione letteraria del fumetto britannico. Jeff Hawke, di Sydney Jordan, è un serial di fantascienza che accompagna in forma di strip da quasi quarant’ anni l’ uscita di molti quotidiani dell’ isola e d’ altrove. In Italia, dove la striscia pubblicata giorno dopo giorno non ha mai riscosso grande successo, lo abbiamo conosciuto grazie alla rivista Linus, e alla successiva pubblicazione in una lunghissima serie di volumi.

 C’ è un filone visionario, d’ altra parte, nella stessa letteratura britannica, da Shakespeare e Marlowe (e chissà da quanto prima) a Milton, a Blake, a Byron, a De Quincey, a Joyce. Non si tratta di un fenomeno prettamente letterario, o perlomeno non di qualcosa che riguardi solamente la alta letteratura: una vena di fantastico attraversa con un’ intensità non indifferente l’ intero contesto culturale britannico. Attraverso di essa, alta cultura e cultura popolare si ritrovano singolarmente solidali.

 Il fumetto, che ha una storica vocazione al fantastico e al visionario, e che nel Regno Unito è arrivato e cresciuto rapidamente (anche grazie all’ identità linguistica con gli Stati Uniti), ha trovato in questa eredità culturale un terreno fertile. Con tradizioni letterarie e popolari che sul tema del fantastico si trovano così vicine, è stato del tutto naturale per il fumetto britannico, a partire da un certo momento della sua evoluzione, accogliere nel proprio universo di riferimento tanta letteratura che in altre tradizioni nazionali rimane di solito lontana dal gusto di un pubblico di massa.

 L’ effetto di questo recupero è sensibile soprattutto negli ultimi vent’ anni, ma è rintracciabile anche in numerose produzioni precedenti, come ben sanno gli appassionati di Jeff Hawke. Non è che il fumetto britannico copi o riproduca modi letterari (l’ influsso del cinema rimane di sicuro più evidente); è che la letteratura fa comunque parte del suo background di riferimento in un modo che in altre nazioni si incontra solo in fumetti rivolti espressamente a un pubblico colto. Basta considerare quello che succede negli anni Settanta, quando la americanissima Marvel (Uomo-Ragno, Fantastici Quattro, Hulk…) crea per il mercato locale un supereroe britannico, Captain Britain, e lo affida ad autori locali: persino un simile campione di superomismo americano diventa in Gran Bretagna il malinconico e problematico protagonista di una saga in cui elfi, streghe e buffoni non riescono a perdere una eco di shakespeariana vivacità .

 Il momento di particolare successo che il fumetto britannico sta vivendo in questi anni deve molto all’ interesse della cultura americana. Una nutrita schiera di giovani sceneggiatori e disegnatori, che sino a qualche anno fa vivacchiavano in patria senza troppi riconoscimenti, è stata scoperta negli anni Ottanta dal mercato statunitense. Le case Usa più importanti hanno affidato loro parti sempre crescenti della propria produzione, ed essi si sono trovati a realizzare storie di supereroi senza, spesso, essere cresciuti avvolti dal mito di Superman, come accade invece normalmente ai giovani disegnatori d’ oltre oceano. E l’ effetto, sulla produzione americana, si è visto, sia per qualità che per vendite. In questo momento, un’ ampia maggioranza delle serie migliori della Dc Comics è realizzata in tutto o in parte da autori britannici. Il successo americano ha avuto come effetto collaterale quello di rilanciare la produzione nella madrepatria. Fattisi conoscere sugli albi statunitensi, i medesimi autori hanno potuto pubblicare in Gran Bretagna; il mercato si è aperto e ha lasciato spazi anche per autori che, quanto a carattere e tipo di produzione, non avrebbero mai potuto sperare in una cooptazione d’ oltre oceano. Chris Reynolds è tra questi.

 In Italia, gli autori britannici sono arrivati per la via traversa del comic book americano, ma su riviste come Corto Maltese e Nova Express è da qualche tempo possibile trovare ampi e interessanti esempi anche di quella produzione che non è mediata dal mercato Usa. Tra i libri, che pure si iniziano a pubblicare, due sono recentissimi.

 Uno di questi è un saggio critico sulle tendenze del fumetto britannico contemporaneo, dedicato in modo particolare a quegli autori che si sono imposti sul mercato americano, autori come Alan Moore, Neil Gaiman, Pat Mills, Kevin Ò Neill, David Lloyd, Grant Morrison, John Bolton e altri ancora. Si tratta di Nuvole britanniche, di Federico A. Amico, edito dalla Granata Press di Bologna, un libro preciso e dettagliato, ricco di analisi ancor più che di informazioni. Esce da questo libro un quadro piuttosto chiaro della situazione, anche se forse un po’ troppo focalizzato sui singoli autori cui lo studio è dedicato, mentre restano a margine una serie di aspetti contestuali cui sarebbe forse valsa la pena di dedicare più spazio.

 Ne restano per esempio fuori (ma l’ esclusione è dichiarata) tutti gli aspetti un po’ underground della produzione d’ oltre Manica, anche quando si tratti di personaggi significativi come Hunt Emerson di cui qualche anno fa, per qualche tempo, “il Manifesto” pubblicò quotidianamente una striscia esilarante: Calculus Cat. E ne resta fuori Chris Reynolds, l’ autore di Mauretania, da poco pubblicato in Italia da Feltrinelli nella collana “I Canguri”.

 Mauretania è il secondo romanzo per immagini di questa collana – che normalmente pubblica letteratura – dopo L’ uomo alla finestra di Lorenzo Mattotti. Con la storia di Mattotti, quella di Reynolds condivide l’accento sulla dimensione interiore, sulle sfumature emotive, sui silenzi e sulle contemplazioni. Diversissimo è invece il carattere grafico dei due testi, perché di fronte alla ricchezza del pennino di Mattotti, agilissimo nell’ esprimere tutti i colori delle emozioni, Reynolds non sembra offrire niente di più che una semplicità di segno che pare sconfinare nella banalità. Ma si tratta di un’ impressione solo superficiale. A mano a mano che si entra nel romanzo, questa essenzialità , questa povertà grafica, diventa progressivamente meno rilevante, lasciando emergere al suo posto il ritmo lento, gentile, profondo, con cui questi segni abbozzati disegnano una vita cui la monotona ripetizione degli atti di ogni giorno non arriva a togliere senso e interesse. Tanto più che quando questa vita uniforme viene smossa dagli eventi che il romanzo racconta, il suo essere raccontata con la medesima povertà di segno lascia il lettore con il dubbio se gli eventi fantastici che l’ hanno movimentata siano in fin dei conti davvero differenti dal tornare a casa, dal parlare con la madre, dall’ avere un lavoro in un ufficio, dallo sposarsi o meno.

 Il fantastico – qui nella forma della paradossale relazione tra un minuscolo evento nella campagna inglese e il destino del mondo – non è, per Reynolds, nulla di strano o eccezionale, nulla che richieda spettacolarizzazione o stupore. Di quello che accade in Mauretania sembra non stupirsi nessuno dei personaggi: tutto è sempre, ed è destinato a rimanere, malinconica ma anche serena quotidianità .

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di Daniele Barbieri

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