Di Armando Rojas Guardia e del tradurre poesia

Falta de mérito

Si yo fuera capaz de entrar por fin
en esa pulcritud del aire inmóvil
que he llamado silencio en el poema:
si yo fuera capaz de nombrar árbol
como esta tarde el árbol se mostraba
a sí mismo en la quietud del parque;
si yo fuera capaz de parecerme
al objeto real de mi escritura
(al agua misma cuando escribo agua
al vaso limpio cuando escribo vaso);
y si fuera posible merecerte,
cosa que ultrajo en tu mudez precisa
al hacerte sonar en mi palabra,

yo entraría en la luz de lo que digo.

——————————————————-

Mancanza di merito

Se io sapessi entrare finalmente
in questa pulizia dell’aria immobile
che ho chiamato silenzio nei miei versi:
se io sapessi nominare l’albero
come stasera l’albero appariva
a se stesso nella quiete del parco;
se io sapessi come assomigliare
all’oggetto reale del mio scrivere
(all’acqua stessa quando scrivo acqua
al terso calice quando scrivo calice);
e se riuscissi mai a meritarti,
cosa che offendo nel tuo stare muta
col farti suono nella mia parola,

nella luce entrerei di quel che dico.

Ho scoperto Armando Rojas Guardia per caso, trovandomi in Venezuela e acquistando qualche libro alla cieca. La dimensione dell’universo dei poeti di lingua spagnola è proporzionale alla diffusione della lingua, anzi di più, perché in quell’universo la poesia continua a godere di una considerazione pubblica un po’ più alta che da noi; ed è quindi ancora più difficile padroneggiarlo un minimo. È stata comunque una scoperta e un innamoramento. Non mi stupisce che Rojas Guardia sia considerato tra i maggiori poeti del suo paese, il Venezuela appunto, mentre mi stupisce che Wikipedia non abbia una voce su di lui nemmeno in lingua spagnola. Rojas Guardia è nato nel 1949; la lirica che citiamo qui appartiene alla sua prima raccolta, del 1979, Del mismo amor ardiendo (Ardendo dello stesso amore).

Mi sono provato a tradurre qualche verso suo (altri forse, oltre a questi, in futuro), e penso che possano essere interessanti alcune considerazioni sulle scelte che ho fatto.

Il criterio di base a cui mi sono attenuto è stato quello di cercare di ricostruire, nella mia lingua, il fascino che i versi di Rojas Guardia hanno esercitato su di me leggendoli nella sua. Credo che sia il criterio più corretto, anzi forse l’unico davvero corretto nel tradurre poesia – ma è tutt’altro che esente da problemi. Per esempio, tra gli aspetti che mi sono rimasti dentro c’è il nitore del suo endecasillabo, musicale e incisivo. Questa breve poesia è scritta in endecasillabi, come molte altre sue, ma la sua opera contiene tipi differenti di versi, tra cui tante composizioni in verso libero. L’endecasillabo è quindi una scelta locale, specifica.

E si tratta di una scelta che ha comunque un valore diverso che per l’italiano. Nella tradizione italiana, l’endecasillabo è il verso lirico ed epico, senza rivali; il settenario, che è forse il secondo verso più usato, è più un compagno di viaggio che un concorrente. Viceversa, nella tradizione spagnola, pur essendo ampiamente usato, l’endecasillabo è comunque un verso di provenienza italiana e petrarchesca, e, anche nella produzione del Novecento, oltre al verso libero, si trova come concorrenti sia l’alessandrino di origine francese, che l’ottosillabo (o doppio ottosillabo) che è il verso epico tradizionale spagnolo. Federico García Lorca, per esempio, nel sua Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, alterna sezioni (o anche solo gruppi di versi) in endecasillabi, ottosillabi, alessandrini e versi liberi. Mentre un poeta italiano del Novecento ha come scelte neutre solo endecasillabo e verso libero (perché tutte le altre sono particolari e meno diffuse), vale a dire – per certi versi – tradizione classica contro tradizione contemporanea, il poeta di lingua spagnola può giocare molto di più, pur senza uscire dallo stretto canone della norma (e senza dichiararsi implicitamente classicheggiante se non usa il verso libero).

Non c’è, nella metrica italiana, un verso che abbia dunque la posizione dell’endecasillabo nella metrica spagnola. Tradurre endecasillabi spagnoli con endecasillabi italiani è quasi inevitabile, ma è comunque un tradimento, perché si traduce un andamento ritmico tra i diversi possibili (e con una debole implicazione di classicità) con un andamento ritmico che è l’unico possibile (e con un’implicazione di classicità molto più forte). Scegliendo un metro diverso tradirei infatti ancora di più l’originale, perché sceglierei un andamento ritmico meno standard, meno normale. Sono rimasto affascinato, leggendo questi versi in originale, dall’endecasillabo di Rojas Guardia, e non c’è altro modo, per renderli in italiano, che riprodurre l’endecasillabo – ma bisogna essere consapevoli della differenza. Tra l’altro, benché lo spagnolo abbia una metrica simile a quella dell’italiano, e pure una prosodia e una sintassi piuttosto vicine alle nostre, le differenze ci sono, e queste differenze permettono una frequenza di effetti specifici che in italiano è più difficile ottenere, e che, riprodotta ad arte, potrebbe apparire artificiosa. Per esempio, lo spagnolo ha più parole tronche dell’italiano, essendo molto meno vincolato alla terminazione in vocale, ed è quindi più facile ottenere endecasillabi che altrove ho definito composti, cioè a tutti gli effetti costituiti da settenario+quinario (o quinario+settenario) grazie alla presenza di una parola tronca con accento in sesta (o quarta) sillaba. Nella poesia citata sopra 8 versi su 14 sono di questo tipo; per avere una frequenza analoga in italiano avremmo bisogno di ricorrere alle apocopi, ovvero al troncamento dell’ultima vocale – ma il Novecento italiano ha ripudiato quest’uso, e riprenderlo comporterebbe un ritorno a un uso passato della lingua che invece in Rojas Guardia non c’è per nulla.

Ho cercato anch’io inizialmente di mantenere la frequenza di versi composti, per rispettare al massimo la musicalità dei versi. In una prima versione avevo tradotto i versi 1, 3 e 5 rispettivamente così:

Se capace foss’io di entrare infine
se capace foss’io di dire l’albero
se capace foss’io di assomigliare

Certo, così avrei rispettato di più il ritmo prosodico dell’originale, ma a costo (come si è detto) di un uso della lingua che sa di arcaico, di petrarchesco, di ottocentesco – tutte sfumature completamente assenti dal testo originale, la cui lingua è sì colta, ma anche del tutto attuale. Per fortuna, ho trovato una soluzione diversa – ma non sempre ci si riesce; e ho comunque dovuto rinunciare a quello specifico ritmo, perché il costo sarebbe stato troppo alto.

Allo stesso modo, per i due penultimi versi, avevo inizialmente ipotizzato le seguenti soluzioni.

cosa che offendo in tua mutezza esatta

col farti risuonare in mia parola
col risuonare nella mia parola
col tuo suonare nella mia parola
con il tuo suono nella mia parola

Reso così, il terzultimo verso rispecchia maggiormente il senso dell’originale, ma la parola mutezza è piuttosto brutta e inconsueta in italiano; e poi, soprattutto, in tua invece che nella tua appare proprio una licenza poetica, che, pure lei, sa di passato.

Lo stesso problema si pone per la prima delle quattro proposte per il penultimo verso. Le successive tre sono migliori, ma si perde il fare (hacer) presente nell’originale, che mette in campo il lavoro del poeta, e mi dispiaceva molto perdere.

Infine, un po’ per gioco, ho provato anche a fare una traduzione del tutto diversa dell’intero componimento, che rispecchiasse al massimo il senso delle parole e delle espressioni, lasciando in subordine la questione del ritmo. Eccola:

Mancanza di merito

Se io fossi capace di entrare finalmente
in questa pulizia dell’aria immobile
che ho chiamato silenzio nella poesia:
se io fossi capace di dar nome albero
al modo in cui stasera l’albero si mostrava
a se stesso nella quiete del parco;
se io fossi capace di assomigliare
all’oggetto reale della mia scrittura
(all’acqua stessa quando scrivo acqua
al bicchiere terso quando scrivo bicchiere);
e se fosse possibile meritarti,
cosa che offendo nella tua mutezza esatta
col farti suonare nella mia parola,

io entrerei nella luce di quel che dico.

È una versione lessicalmente molto più fedele della prima, ma io credo che tradisca l’originale assai più dell’altra. Il verso libero non è l’endecasillabo, e l’occasionale guadagno di senso che otteniamo qui non è compensato dalla perdita di suono. Paradossalmente, il componimento di Rojas Guardia raggiunge, nella misura in cui è possibile farlo, la luce di quel che dice proprio attraverso il suo essere parola che suona, cioè essere se stessa ancora prima che altro, essere suono ancora prima che segno – proprio come sono in sé le cose di cui vorrebbe saper parlare. È questo che la mia versione ha cercato di rendere, che ci sia riuscita o no.

(Un’altra possibilità ancora, che questa seconda versione suggerisce, è di tradurre l’endecasillabo con l’alessandrino – o doppio settenario. Il primo verso è già un alessandrino, e si può lavorare per far sì che anche gli altri lo diventino. Il vantaggio sarebbe – forse – di poter essere più letteralmente fedeli al senso delle singole parole, pur mantenendo un ritmo che alla poesia spagnola è familiare. Non lo è però alla poesia italiana. Quindi, anche a patto di riuscirci con efficacia, il tradimento sarebbe comunque maggiore.)



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Degli inchiostri di Ray Moore

Ray Moore (su testi di Lee Falk) The Phantom, dettaglio dalla striscia del 23.07.1940

Ray Moore (su testi di Lee Falk) The Phantom, dettaglio dalla striscia del 23.07.1940

Magari Ray Moore non è Alex Raymond, e nemmeno Caniff, e la composizione di queste figure è un po’ goffa, ma trovo che, ugualmente, qualcosa da imparare dai suoi inchiostri ci sia. Sarà per questo effetto tutto pennello (e niente pennino) con pennellate grosse e pastose, sin quasi all’eccesso, ma qui Moore riesce davvero a recuperare con gli inchiostri quello a cui la sua composizione non arriva.

Non è solo l’effetto drammatico delle ombre forti e nette contro le luci altrettanto forti e nette – ma certo c’è anche quello. È anche e soprattutto questa modulazione eccessiva delle pennellate che rende le figure fluide e vigorose – come ha da essere, naturalmente, the Phantom, l’Uomo Mascherato. Così, dove c’è movimento, il movimento fluisce, come nella vignetta in alto; mentre dove c’è tensione, come in quella in basso, tutto si tinge di forza, e la presa dell’eroe sembra quella di un gigantesco serpente che avvolge le sue spire.

Poi, sì, non è difficile trovare un sacco di difetti a questi disegni, realizzati molto probabilmente in tempi assai brevi, ma gli inchiostri di Moore, almeno su di me, giocano ugualmente un grande fascino.

Le immagini (ad alta risoluzione) sono prese dall’originale conservato presso il Fondo Gregotti.


Ray Moore (su testi di Lee Falk) The Phantom, dettaglio dalla striscia del 23.07.1940

Ray Moore (su testi di Lee Falk) The Phantom, dettaglio dalla striscia del 23.07.1940

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Di un’altra foto ambigua

A vela, a fiamma

A vela, a fiamma

Siate sinceri. Quanto vi ci è voluto per capire che cosa inquadra questa foto? Mezzo secondo almeno i più veloci, direi; un secondo e più gli altri, ammesso che alla fine l’abbiate capito. Se ancora non ci siete arrivati non è un disonore, anche se il faretto in basso a destra è una buona chiave per arrivarci.

Oggi questa meravigliosa volta a vela non è più così. C’è stato un restauro, i muri sono stati ridipinti con un colore più giallastro, le bocche di luce oscurate per permettere le proiezioni. Scelte estetiche (discutibili) e necessità funzionali (inevitabili – peccato!).

Francesco di Giorgio Martini era un genio. Il funzionalismo di 450 anni dopo non ha fatto che riscoprire quello che lui già sapeva – anche se modulato nelle forme del suo tempo. E tra le cose che il suo tempo gli insegnava c’è anche il fatto che nemmeno in architettura è necessario che la ripetizione debba avere necessariamente parametri omogenei. Qualche volta l’omogeneità ci vuole, ma in qualche altro caso possono cambiare distanze e dimensioni (e chissà cos’altro) purché non si perda il senso dell’iterazione e del ritmo – il quale anzi può persino risultarne arricchito.

È un po’ come con le onde del mare. Non possiamo certo sostenere che non definiscano un’iterazione e un ritmo, ma non ci sono due onde uguali o con il medesimo periodo. Lo stesso vale per queste straordinarie bocche di luce nella volta a vela, che sembrano altrettante fiammelle di candela incurvate dal vento.

D’altra parte, se cancellassi qualche dettaglio, e rendessi un po’ più indistinto il tutto in modo da far scomparire la grana dei muri, potrei ben spacciare questa immagine per un dipinto astratto, una sorta di Lucio Fontana curvilineo. Ma chi era fan di chi? Oppure è solo nella mia testa che si creano questi collegamenti?

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Della presentazione di un libro di poesie

La raccolta consta di ventisei quartine regolari, costruite giuntando e armonizzando ad sensum versi stringa che sono sintagmi-stemmi (per lo più nominali) ripresi dai media di consumo, e insieme limpidi esempi di liricità esausta da luogo comune della qualità di massa.

Ne risulta un dettato di superficie semplice e falsamente seducente, che cela un’ironia critica ultrasottile.

Sto citando dal blog Slowforward, che a sua volta cita la presentazione del libro di Alessandro Broggi Coffee Table Book (Transeuropa 2009) sul sito dell’editore. Il libro non l’ho letto, e magari è bellissimo. Ma non è di quello che voglio parlare. Mi interessa la presentazione editoriale, che è un genere di messaggio pubblicitario, il cui scopo è, evidentemente, quello di risvegliare l’attenzione del potenziale lettore. Spesso, ma non sempre, la presentazione viene scritta dall’autore medesimo. In ogni caso, certamente, gli deve andar bene.

L’immagine che ricavo del libro di Broggi da questa presentazione è quella di un collage di materiali linguistici esausti, luoghi comuni della qualità di massa, montati con attenzione per costruire un discorso dall’apparenza semplice e falsamente seducente, a rivelare, quando li si legga con profonda attenzione, un’intenzione ironica. È vero che una presentazione deve essere apprezzativa, e che, per mostrare apprezzamento, il testo in oggetto deve essere implicitamente avvicinato a qualcosa di culturalmente già apprezzato (a meno che non se ne dichiari platealmente la novità – ma sarebbe un discorso poco credibile, perché non sufficientemente giustificabile nelle poche righe a disposizione). Solo che qui il riferimento è alle operazioni – anni Sessanta e Settanta – della Neoavanguardia italiana, e in particolare al citazionismo di Balestrini.

È singolare come questo tipo di operazioni, certamente nuove e importanti quando le facevano i Novissimi, non abbiano mai smesso di essere spacciate per nuove da cinquant’anni a questa parte. Oppure anche, quando non necessariamente nuove, come le uniche eticamente ammissibili a una poesia che, di questi tempi, come ci insegnarono Brecht e Adorno, non avrebbe il diritto di parlare di alberi.

Questa poesia post-neo-avanguardista ha ovviamente tutto il diritto di esistere, e di produrre i propri fiori, che per fortuna qualche volta ci sono davvero. Ma io non posso fare a meno di dichiarare la mia stanchezza per un’estetica del negativo di adorniana memoria, come se la nostra vita non fosse fatta d’altro che di formule pubblicitarie e ritornelli di bassa lega, e come se il nostro compito come poeti o lettori non potesse essere altro che quello di farne (lukácsianamente) la critica. È falso, del tutto falso, che al di fuori di questa linea ci siano soltanto il banale e l’inautentico. Se troviamo bella una poesia (o qualsiasi altro prodotto culturale), a qualunque scuola appartenga e comunque sia costruita, è anche perché riconosciamo già il suo sottrarsi – in qualche modo e almeno in parte – proprio al banale e all’inautentico.

D’altra parte non basta davvero dichiarare di farlo per farlo veramente. Se leggete tra le righe della presentazione del libro di Broggi, quello che si vuol dire è proprio questo: questo libro si sottrae al banale e all’inautentico mettendoli in mostra attraverso l’ironia. Non è così facile in verità, e mi auguro che il libro di Broggi ci riesca davvero. In questi cinquant’anni il banale e l’inautentico hanno invaso e colonizzato anche il campo che fu delle avanguardie.

Riconoscere questo non autorizza a condannare automaticamente qualsiasi produzione che si rifaccia a quel campo, ma autorizza a diffidarne, e ad utilizzare nei suoi confronti la stessa prudenza con cui approcciamo ogni ennesima banalissima Vispa Teresa – salvo poi essere anche sempre pronti, ove sia il caso una volta entrati nel testo, ad abbandonarla. Per questo motivo questa presentazione, almeno nei miei confronti, non fa il suo mestiere, e suscita molto più la mia diffidenza che il mio interesse – cercando magari di farmi credere che esiste ancora un’egemonia che, persino nella nicchia in cui davvero c’è stata, si è esaurita ormai da tempo.

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Del libro su Assange e Wikileaks

Dario Morgante e Gianluca Costantini - Julian Assange e Wikileaks, BeccoGiallo 2011

Dario Morgante e Gianluca Costantini - Julian Assange e Wikileaks, BeccoGiallo 2011

Non si può escludere che Gianluca Costantini si sia riletto troppe volte il Città di vetro disegnato da Mazzucchelli, o il Jimmy Corrigan di Chris Ware, però li ha digeriti bene, e questo è il primo libro di BeccoGiallo che non mi faccia pensare che l’impegno sociale fa male ai fumetti.

C’è una storia raccontata per flash back e flash forward che, anche se, inevitabilmente, non ha una fine, narrativamente funziona, e ti tiene lì, senza annoiarti. La sua struttura un po’ contorta (ma non troppo) è persino coerente con i giochi visivi di Costantini, che finiscono davvero per raccontare in maniera molto evocativa.

C’è forse, ogni tanto, un vago odore di esercizio di stile, ma è necessario riconoscere che non è mica facile raccontare una storia vera, politicamente forte, senza diventare retorici – quello che è, in generale, il difetto principale degli altri volumi di questa collana. Un difetto che invece questo volume non ha, e non mi sembra cosa da poco. Magari è anche lo stesso sospetto – occasionale – di esercizio di stile, a tenere alla larga il pericolo, molto più grave, della retorica.

In realtà non lo so, però il libro mi è piaciuto. L’ho letto volentieri dall’inizio alla fine. Mi ha persino fatto venir voglia di scriverne queste righe. Mi ha fatto addirittura rimpiangere che il libro su Amy Whinehouse Fatta di musica non sia che una beffa estiva. Magari Becco Giallo aveva finalmente imbroccato la strada giusta. È davvero un peccato quando su cause giuste si scrivono solo libri sbagliati. Ma magari il cambio di rotta ora c’è stato davvero. Tifiamo per Morgante e Costantini.


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Di una foto del mondo nel riflesso

Il riflesso

Il riflesso

Certo l’hanno fatto apposta. In questo modo Sancos Seguros riesce a risiedere in un edificio moderno pur rivestendosi anche delle forme di uno più antico, inizio Novecento, dando così a chi passa un’idea di persistenza nel tempo e dunque di stabilità che a una compagnia di assicurazioni fa sicuramente comodo.

Bisogna essere maligni per far notare che il riflesso del passato è inevitabilmente deformato dalle modalità del presente, ed è tanto più fascinoso perché in realtà non si capisce bene come sia fatto e dobbiamo comunque aggiungerci del nostro, che sarà sempre come ci piace che sia (proprio come insegnava, già a suo tempo, il Gran Maestro di trucchi di questo genere, Gian Lorenzo Bernini).

Però la statua è vera, e gli alberi in parte anche. Me lo vedrei bene come occasione per una storia di Dylan Dog. E anche la città nel suo complesso forse gli si addirebbe, non meno di Londra.

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Degli endecasillabi del Primo Canto della Commedia

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte.

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Permettetemi qualche riflessione vissuta da autore, senza pretesa di confrontarmi con uno con cui qualsiasi confronto è perdente, ma nell’ipotesi di poter sentire, almeno un minimo, alcune cose come lui. Però mi sembra di aver visto qualcosa, in questi versi di avvio della Commedia, che non ho letto da nessuna parte. D’altra parte, non essendo un dantista, può benissimo trattarsi di ignoranza mia. Nel qual caso, se vi è noto qualche approccio simile a questo mio, vi prego di segnalarmelo.

Dico riflessione da autore perché le osservazioni che vado a fare su questi versi derivano da mie specifiche considerazioni sulla scrittura dei versi – e riguardano quasi esclusivamente metrica e prosodia.

Ho bisogno di fare una piccola premessa sull’endecasillabo, il verso della Commedia e il verso principe della poesia italiana. Ci insegnano i manuali di metrica che l’endecasillabo, pur non essendo davvero un verso composto, è tuttavia costituito di due parti: un settenario seguito da un quinario nella versione cosiddetta a majore (accento forte sulla sesta sillaba), oppure un quinario seguito da un settenario nella versione a minore (accento forte sulla quarta). L’endecasillabo non è veramente un verso composto perché 7+5 (come 5+7) fa 12 e non 11, e le condizioni per cui siano davvero leggibili sia il settenerio che il quinario sono particolari e non sempre presenti.

Non sono presenti certamente quando l’endecasillabo non è canonico, ovvero non presenta accento né sulla quarta né sulla sesta sillaba. L’endecasillabo non canonico è raro in Dante come pure in generale nella poesia italiana, perché con facilità suona poco musicale al nostro orecchio.

Al contrario, le condizioni sono effettivamente presenti quando il primo emiverso (settenario o quinario che sia) è tronco, e ha di conseguenza una sillaba in meno, lasciando la sillaba libera a completare il secondo. I primi tre versi della Commedia sono di questo tipo. Per intenderci, chiamerò qui questo tipo di endecasillabo fortemente composto, o anche solo composto (nelle versioni, rispettivamente, a majore e a minore).

C’è un altro modo per far sì che 7+5 (o 5+7) possa fare 11, ed è la sinalefe sulla settima (o sulla quinta) sillaba. Per esempio, nel verso 5 del nostro esempio, la “e” dopo “selvaggia” fa sinalefe con la vocale che la precede, e quindi viene inglobata nella medesima (settima) sillaba. Questo è un modo molto debole per ottenere il verso composto, perché per far sentire l’andamento dell’endecasillabo dovremo far sentire anche la sinalefe, e ridurre di fatto il conto del secondo emiverso a quattro (o sei, se a minore) sillabe. Ma la lettura separata (come se la sinalefe non ci fosse) non è completamente esclusa, e può ritornare ad aver senso in qualche caso. Chiamerò perciò qui questo tipo di endecasillabo debolmente composto.

Chiamerò infine non composto ogni endecasillabo canonico in cui non sia possibile percepire entrambi gli emiversi come settenario e quinario, come succede, per esempio, nei versi 7 e 9 riportati qui sopra (tra “poco” ed “è” c’è dialefe, e “cose” e “ch’i'” sono chiaramente separati).

Il particolare andamento dei versi di Dante riportati sopra non dipende, mi pare, solo dalla distribuzione degli accenti, ma anche dalla loro natura composta o non composta. Per verificarlo, ecco un piccolo esperimento: modificherò i versi 1-3 con alcune piccole sostituzioni, che ne rispettino grosso modo il senso (che comunque non è in gioco in questo discorso), e ne mantengano lo schema di accenti (per il verso 2 dovrò introdurre una voce verbale che non esiste, facendo finta che esista, perché non trovo in italiano un’alternativa sensata che regga alle mie condizioni). Ecco dunque:

Nel mezzo del cammino della vita
mi ritrovetti in una selva oscura,
ché la diritta strada era smarrita.

Anche senza prendere in considerazione il senso leggermente mutato, e nonostante il sistema degli accenti di questi versi sia esattamente lo stesso di quelli originali, essi suonano al mio orecchio molto meno melodiosi di quelli veri. Credo che il punto stia nella perdita della sospensione che gli endecasillabi fortemente composti manifestano in concomitanza della cesura dopo la sesta o la quarta sillaba, nelle versioni rispettivamente a majore e a minore. Nella mia versione alterata i versi sono diventati non composti (1) o debolmente composti (2 e 3), e la cesura è scomparsa.

Con la scomparsa della cesura si viene ad affievolire anche la differenza tra l’endecasillabo a majore e quello a minore:tutti e tre i versi portano infatti accenti sia sulla quarta che sulla sesta sillaba, e possono essere perciò letti in ambedue i modi. Tuttavia, nell’originale dantesco, la natura fortemente composta dei versi permette di sentire chiaramente la cesura, che si trova dopo la sesta sillaba nei versi 1 e 3, e dopo la quarta nel verso 2. Da questo punto di vista, dunque, la terzina propone la medesima struttura ABA che si trova anche nella rima, secondo la successione: proposta-variante-ripresa. Aggiungiamo che le sillabe accentate messe in evidenza dal troncamento contengono nei versi 1 e 3 la stessa vocale “i” della rima finale, mentre è diversa quella del verso centrale – e anche questo contribuisce a rafforzare la struttura della ripresa.

Considerando le cose in questo modo, ecco come sono organizzati questi primi dodici versi:

A majore fortemente composto (ma anche debolmente leggibile come a minore fortemente composto)
a minore fortemente composto (ma anche, forse, leggibile come a majore non composto)
a majore fortemente composto (ma anche debolmente leggibile come a minore non composto)

A majore debolmente composto (ma anche, forse, leggibile come a minore fortemente composto)
a majore debolmente composto
a minore fortemente composto (ma anche, forse, leggibile come a minore non composto)

A majore non composto (ma anche leggibile come a minore non composto)
a minore fortemente composto (ma anche leggibile come a majore fortemente composto)
a majore non composto (ma anche, forse, leggibile come a minore non composto)

A majore fortemente composto (ma anche, forse, leggibile come a minore fortemente composto)
a majore debolmente composto (ma anche, forse, leggibile come a minore fortemente composto)
a majore fortemente composto (ma anche, forse, leggibile come a minore non composto)

Eccetto il verso 5, tutti gli altri portano accenti sia su quarta che su sesta sillaba, con generalizzato ritmo dunque giambico, e seconda diversa lettura possibile. Tra l’altro, è interessante osservare come la rottura del ritmo giambico cada sulla forte paronomasia di “esta selva selvaggia”, e si situi in un verso interno della terzina, sempre a conferma della struttura ABA riconosciuta sopra.

La struttura ABA è dunque presente in tutte e quattro le terzine in esame, ma cambiano gli elementi di diversificazione: nella prima terzina è il rapporto a majore/a minore; nella seconda è la presenza/assenza del ritmo giambico (o l’assenza/presenza della paronomasia); nella terza è la natura non composta/composta, insieme al rapporto a majore/a minore; nella quarta la natura fortemente/debolmente composta.

La varietà di ritmi si trova dunque organizzata in schemi di ricorrenze, che non riguardano solo le singole terzine al proprio interno: la prima e la terza terzina, per esempio, sono entrambe caratterizzate da una comune alternanza di endecasillabi a majore e a minore, anche se la terza introduce un’ulteriore differenziazione. Ma la prima e la terza terzina sono avvicinate anche dalla comune opposizione alla seconda, che gioca sulla presenza di un cambiamento assai più forte degli accenti al suo centro.

Se ora mettiamo in ordine i versi in cui è presente il momento di sospensione determinato dalla cesura (endecasillabi composti), otteniamo questo schema (che include anche alcune terzine successive, sino al verso 36):
+++ –+ -+- +-+ +– -++ -++ ++- +-+ -+- — +-+.
Versi non giambici oltre al 5 sono il 15, 20, 22, 25, 29, 32, 33, ottenendo lo schema:
+++ +-+ +++ +++ ++- +++ +-+ -++ -++ +-+ +– +++. I versi con ritmo non giambico si fanno più frequenti dopo le prime terzine, e perdono in parte la forza accentuativa dovuta alla loro particolarità.

A partire dalla quinta terzina la struttura ABA non si presenta più così stabilmente, e il gioco (come si vede anche dagli schemi qui sopra) diventa più irregolare. Ma con la quinta terzina incomincia anche la narrazione vera e propria e si è già concluso questa sorta di piccolo prologo, che ha avuto anche la funzione di impostare gli andamenti ritmici. A questo punto il lettore è già entrato nel gioco delle sospensioni e dei rilassamenti, del ritmo accentuativo standard (giambico) e delle sue rotture, delle varie alternanze tra a majore e a minore. L’endecasillabo si è mostrato nelle sue tre facce (endecasillabo indivisibile, settenario e quinario) e nelle loro possibili combinazioni. La varietà metrica è stata esibita, ma anche il quadro in cui può essere comunque organizzata.



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Degli inchiostri di Attilio Micheluzzi

Attilio Micheluzzi, Johnny Focus, dettaglio

Attilio Micheluzzi, Johnny Focus, dettaglio

Le vacanze sono terminate, ma la mia testa non se ne è ancora accorta. Se non si sveglia finirò per essere un po’ latitante dal blog – tanto più che in questo periodo gli impegni si accumulano. Per questo colgo l’occasione che mi ha offerto qualche tempo fa Andrea Queirolo, di fare qualche riflessione sugli inchiostri di Attilio Micheluzzi, a partire da una tavola di sua proprietà, da cui è tratto il dettaglio che vedete qua sopra. Ovviamente per seguire il discorso consiglio di aprire l’immagine a piena risoluzione (che è piuttosto alta) in una diversa finestra. (la tavola nella sua interezza può invece essere vista qui)

Intanto, un’osservazione di massima: resto colpito da come queste belle immagini perdano di incisività quando le si guarda troppo nel dettaglio. Ovviamente questo non è in sé un difetto, perché non sono fatte per essere guardate tanto da vicino. Ci sono linee che appaiono troppo deboli rispetto ad altre vicine che sono invece forti, zone molto lavorate vicino a zone appena abbozzate, luoghi dove le linee sembrano intrecciarsi troppo, con effetti persino fastidiosi (come nel volto dell’uomo coi baffi della vignetta di sinistra). Nella vignetta di destra, lo sguardo della ragazza è certamente il punto maggiormente rilevante, e ingrandendo quella zona si può vedere quanto lavoro di pennello e biacca ci sia, su quegli occhi, che finiscono in questo modo per diventare una zona fortemente contrastata in mezzo al bianco piatto del volto di lei: focalizzazione narrativa e focalizzazione visiva che collaborano e si rinforzano a vicenda.

Questi inchiostri “trasandati” lasciano pensare che Micheluzzi voglia concentrare l’attenzione del lettore su altro. Questo altro potrebbe essere, per esempio, la composizione, che è notevole in entrambe le vignette e anche nel loro accostamento. La vignetta di sinistra, più concitata, mostra la grande diagonale bianca in primo piano in basso, a contrasto con l’altra struttura diagonale di fondo delle strisce bianche e nere della veneziana. A destra, nella medesima vignetta, i due personaggi si trovano in verticale, a dare presenza statica alla composizione, mentre a sinistra le tre teste formano a loro volta una diagonale dinamica, e il dinamismo implicito (perché di fatto nessuno dei personaggi si sta muovendo gran che) è assicurato dallo zigzag che parte dalla striscia bianca in basso, si inverte nel braccio della morta, ancora si inverte nel braccio dell’uomo a destra, e poi ancora dalla sua testa a quella dell’uomo coi baffi, e poi indietro alle due teste sul fondo: alla progressione dal basso verso l’alto corrisponde quella dal primo piano verso lo sfondo.

La vignetta di destra è più calma, e dominano le linee bianche e nere delle veneziane, ora diventate orizzontali, a contrasto con le figure verticali dei due personaggi. Ma anche qui – in misura minore – ci sono elementi dinamizzanti: le diagonali bianco-nere a sinistra, il braccio e il seno di lei, la posizione leggermente obliqua della testa e del corpo di lui, e soprattutto le linee bianche, nere e grigie della copertura del divano, che richiamano quelle del fondo contrapponendovisi come irregolarità a regolarità, dinamico a statico (senza contare che queste linee del divano sono la ripresa regolarizzata delle ombre e riflessi della giacca di lui; al tempo stesso lei è tutta pallini, boccoli e occhioni, forme di tipo circolare che la fanno emergere intensamente dal fondo, al quale lui invece appartiene molto di più – persino nel modo in cui sono tracciati gli occhi, non ellittici ma quasi lineari).

La grande diagonale bianca alla base della prima vignetta si ritrova rialzata nella parte sinistra della seconda. La composizione, è infatti, in Micheluzzi, una struttura dinamica, che incoraggia il passaggio rapido dell’occhio alla vignetta successiva. L’inchiostrazione “trasandata” sembra a questo punto assolvere la medesima funzione, impedendo all’occhio del lettore di fermarsi troppo a lungo sui dettagli molto curati, costringendolo a fluire. I tratti di pennello sono sufficientemente precisi per caratterizzare (e anche molto intensamente) i personaggi e le loro emozioni, ma al di là di questo diventano incerti, troppo rapidi, quasi confusi. Più che Raymond sembra di vedere i suoi epigoni (di valore) come Toth o Williamson, che sacrificano la precisione rappresentativa per l’effetto di fluidità. L’inchiostrazione che appare eseguita con rapidità invita a un’analoga rapidità di fruizione visiva.

In altre parole, gli inchiostri di Micheluzzi sembrano per l’appunto quelli di una testualità che chiede di essere letta assai più che guardata, ma letta proprio nella sua componente di immagine. Nel fumetto, di solito, si guarda l’immagine per leggerla, seguendo un filo discorsivo e narrativo predisposto dall’autore: poiché tuttavia guardare e leggere l’immagine non sono azioni davvero distinte, ma polarità di un medesimo comportamento visivo, troveremo fumetti le cui immagini sono più adatte ad essere staticamente guardate e altri che vogliono essere dinamicamente letti anche nelle loro figure. Enfatizzare l’aspetto del leggere (rispetto a quello del guardare) significa aumentare il coinvolgimento potenziale del lettore nella storia, cioè sottolineare attraverso la costruzione visiva la storia stessa e il suo procedere. Questo – mi sembra – è proprio ciò che fa Micheluzzi sia con le sue composizioni dinamiche che con i suoi inchiostri.

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Di una foto di muri dai colori chiari

Bianco, giallo e azzurro

Bianco, giallo e azzurro

Finita l’estate, le vacanze, questa foto presa in un luogo che ne potrebbe essere, per molte persone, una sorta di simbolo.

A doverla commentare, mi vengono riflessioni simili a quelle della scorsa settimana. C’è tutta questa geometria, tutti questi piani giustapposti, queste prospettive sfuggenti e appena accennate, queste tinte da quadro astratto.

Eppure, più forte di tutto questo, c’è il senso di luce e di caldo, di bello, di cielo e magari di mare (anche se non si vede); comunque di sud, di Mediterraneo. La geometria diventa solo il tramite visivo della passione – per quanto strano questo accostamento possa apparire.

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Recensioni d’annata, 1996. Sghignazzate con i galli

Sghignazzate con i galli
Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 1996

Tra i fumetti dall’umorismo travolgente – quelli che muovono al riso incontrollato e spasmodico persino il lettore solitario – ce n’è un gruppo con una caratteristica comune. Il cowboy Lucky Luke, l’indiano Oumpa Pah, il perfido Visir Iznogoud (leggere il nome ad alta voce per comprenderne il significato), il gallico Asterix hanno infatti tutti in comune un autore, il francese René Goscinny.

Purtroppo, il più geniale sceneggiatore umorista che il fumetto francese abbia avuto è scomparso nel 1977, quasi venti anni fa, ad appena 51 anni, lasciando un patrimonio di storie che avevano fatto epoca, e la direzione di un giornale, Pilote, su cui si erano formati i migliori autori della generazione successiva, da Gotlib a Fred alla Claire Bretecher. In Francia tante delle sue creazioni continuano a fare cassetta, ma all’estero almeno Lucky Luke e, soprattutto, Asterix, sembrano vivere un successo infinito.

Quest’anno, il piccolo gallo invincibile compie la bellezza di trentacinque anni, e appare davvero strano che, con tutta la sua freschezza e la sua immutata capacità di far ridere di cuore, tanti anni siano passati da quando per la prima volta, nel 1961, le sue storie vedevano la stampa. Goscinny aveva trentacinque anni allora, e già un passato glorioso: quest’anno ne compirebbe settanta.

Asterix inaugurava un modo di far ridere diverso, basato su un paradossale che faceva leva sulle piccolezze del quotidiano. Impossibile dimenticare, per esempio, le folgoranti parodie dei vari popoli europei (o dei loro stereotipi) che, storia dopo storia, si sono susseguite: dai Britanni che interrompono le battaglie per bere la loro tazzina di acqua calda (il tè non è ancora stato scoperto), agli Elvezi isterici per le pulizie, le casseforti e le fondute di formaggio – per non dire della puntualità delle clessidre (gli orologi, ahinoi, non essendo ancora stati inventati) al punto di svegliare con regolarità gli ospiti dell’albergo ogni ora affinché ciascuno possa girare la propria…

(E come dimenticare poi i vari tormentoni? Dai pirati, destinati ogni episodio a rimetterci una nave alla fame epocale di cinghiali di Obelix; dalla distruzione delle centurie romane all’imbavagliamento prudenziale del bardo. Si è trattato della creazione, episodio dopo episodio, di una serie di aspettative intratestuali, sulle modalità della cui soddisfazione si sono innestate poi le più esilaranti invenzioni umoristiche.)

Il cinema non ha fatto che consolidare un successo già enorme, con meriti assai minori di quelli delle storie originali, se pure il pubblico ricorderà soprattutto l’epopea di Asterix e Cleopatra, che certo principalmente nel cinema può fare evidentemente il verso al film con Liz Taylor. Campanilisti senza sciovinismo, i fumetti di Asterix ci mostrano, a noi italiani, una romanità risibile proprio per la sua grandezza – mai negata, ma soltanto contrapposta a una semplicità astuta e fiera della propria autonomia.

Due occasioni ci permettono di segnalare questo trentacinquennale, e il settantennio dalla nascita di Goscinny. Una è l’uscita dell’ennesimo volume della serie, passata interamente nella mani di Albert Uderzo, che ne era stato in precedenza solo il disegnatore. Il volume Asterix e la galera di Obelix, appena pubblicato per i tipi della Mondadori, aggiunge alcune spassose battute e situazioni alla lunga serie che già conoscevamo, confermando tuttavia una volta di più che la maestria di Uderzo come sceneggiatore non è pari a quella che ha sempre dimostrato come disegnatore.

L’altra occasione è una piccola mostra sul piccolo gallo ad Aosta, nella chiesa di San Lorenzo, aperta sino al 24 novembre, di cui abbiamo avuto gradita notizia.

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Recensioni d’annata, 1996. Così Calvin ricomincia da zero

Così Calvin ricomincia da zero
Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 1996

La notizia, di qualche mese fa, che Bill Watterson aveva smesso di disegnare Calvin & Hobbes, è di quelle che lasciano i lettori confusi e scontenti. Certo, come dargli torto, dal punto di vista personale? La vita di un autore di comic strip deve essere veramente uno stress: sei strisce originali più una storiella di una pagina ogni settimana. Per quanto originali si possa essere, e per quante variazioni permetta il tema, dopo dieci anni, tremilacentoventi strisce e cinquecentoventi pagine autoconclusive, si ha il diritto di essere stanchi del proprio personaggio – anche se ci ha portato fama e ricchezza!

E tuttavia l’abbandono di Watterson fa notizia. Calvin & Hobbes è nota come la striscia più originale che parli di bambini dopo i Peanuts di Charles M. Schulz, e Schulz continua a disegnare Snoopy e Charlie Brown da oltre quarant’anni. Ma Watterson non è il primo ad abbandonare: si inserisce in una tendenza di cui fanno parte anche altri autori della sua generazione, come Garry Trudeau (autore di Bloom County e del pinguino Opus) e Gary Larson. La tendenza preoccupa: nel giro di pochi anni hanno abbandonato il campo una larga maggioranza proprio di quei disegnatori di comic strip e vignette che si erano meritati il successo per innovatività e arguzia. E la motivazione è comune a tutti: “sono stanco”.

Mentre, con rammarico, ci rassegnamo a non poter più leggere strisce nuove di Calvin & Hobbes (così come era accaduto con quelle di Bloom County, e con le vignette di The Far Side) gli editori provvedono tempestivamente a consolarci. La rivista Linus, su cui la striscia di Watterson è pubblicata quasi da quando è nata, non ne ha interrotto l’uscita neppure per un mese, passando direttamente dalle strisce del 1996 alla riproposizione di quelle del 1986. E queste medesime strisce iniziali ci vengono proposte anche in volume dalla casa editrice Comix.

Scopriamo così che, al di là di qualche incertezza nel disegno – che scompare comunque molto rapidamente – il mondo umoristico di Watterson è completo ed esilarante sin dal primissimo inizio. Il rapporto tra il bimbo Calvin e il suo tigrotto di pezza Hobbes è già quello che, negli anni successivi, si svilupperà in innumerevoli variazioni. Hobbes è il vivissimo compagno di giochi e di malestri del bimbo (con un pizzico di ragionevolezza in più del suo padrone), salvo quando viene visto dagli occhi degli adulti, i quali lo vedono per quello che è, un inerte pupazzo. Calvin è il bambino che vede il mondo attraverso la lente deformante della propria dilagante fantasia, facendo disperare i genitori che ovviamente non capiscono mai che “un tirannosauro non può mangiare gli spinaci”, o che la camera da letto, di notte, è piena di terribili mostri.

Per chi non lo conosce, Calvin & Hobbes non è una comic strip per bambini, pure se – e con un certo successo – è stata proposta anche su riviste per l’infanzia. E’ semmai, una striscia che riflette (mi si perdoni il termine, e la sua – in questo contesto – un po’ grottesca seriosità) sulla capacità di interpretare il mondo con fantasia, e sul rapporto degli adulti con l’immaginario dei bambini. Non escludo che se ne possa fare anche un proficuo uso pedagogico: ma non sarebbero i bambini i destinatari di questo uso.

Bill Watterson, Calvin & Hobbes, Comix, Modena
128 pp. £.19.000

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Recensioni d’annata, 1996. Un topo cattivo aiuta Telefono Azzurro

Un topo cattivo aiuta Telefono Azzurro
Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 1996

Quando un tema è così drammatico e intenso come la violenza sui minori, è fin troppo facile cadere nell’eccesso e nella retorica dei buoni sentimenti e del rispetto. E’ facile scambiare moralità e moralismo, e credere che una qualsiasi storia di condanna possa essere una buona storia. Il tema, trattato da autori mediocri, diventa facilmente un tema “di tendenza” come tanti altri, e la condanna morale, affidata ad un testo noioso, appare come l’ennesima ripetizione di un copione ribadito ossessivamente dai media.

Non che se ne parli troppo, certo: di violenza ai minori non si parlerà mai abbastanza. Il fatto è che, per quanto importante e tragico sia, qualsiasi problema, qualsiasi dramma troppo ripetuto ci rende ciechi e sordi nei suoi confronti, a meno che il modo in cui ci viene presentato non sia in grado di risvegliare il nostro interesse. Per quanto cinico questo possa apparire, il mondo delle comunicazioni di massa funziona così.

La pubblicazione in italiano de “La storia del topo cattivo” di Bryan Talbot è per questo una molteplice occasione di interesse. E’ una storia sull’adolescenza e sul riscatto dalla violenza subita, affrontata con delicatezza e originalità; è una storia che varrebbe la pena di leggere anche se il suo tema non fosse quello che è; ed è una storia a fumetti, che segna il ritorno di un grande autore inglese a temi più specificamente suoi – dopo anni di, pur spesso notevolissime, produzioni seriali americane.

Di Bryan Talbot abbiamo parlato ancora, nel 1993, quando uscì in italiano Luther Arkwright, prototipo di un’avanguardia fumettistica britannica (l’originale inglese è dei primi anni Ottanta) con poco da invidiare alle avanguardie letterarie o artistiche. La storia del topo cattivo, invece, non ha nulla di avanguardistico: è una storia scritta e disegnata per essere letta anche da persone non abituate a frequentare i fumetti. Vi si racconta di una ragazza fuggita di casa, dopo anni di abusi sessuali da parte del padre, alla ricerca di qualcosa che nemmeno lei sa; o alla ricerca della forza, della consapevolezza per affrontare la situazione, e risolvere il nodo pauroso, l’angoscia e il senso di diversità e di colpa che le impediscono di vivere.

Il suo nome è Helen Potter, e la coincidenza con il nome di Helen Beatrix Potter è il secondo motore della storia. Helen vive la propria storia attraverso l’immaginario della sua più famosa omonima, copiandone i disegni e il senso ambiguamente tenero e tragico della vita. Troverà una via d’uscita dal suo dramma proprio attraverso i simboli dei personaggi della Potter. Troverà la forza di affrontare il padre quando, in qualche modo, si sarà ricongiunta con i simboli della propria infanzia.

Anche il disegno è un oggetto interessante, in questo “Topo cattivo”. Nessun virtuosismo, nessuna fuoriuscita da un realismo narrativo dall’apparenza semplice, elementare. Eppure un disegno del tutto fuori tendenza, di estrema efficacia persino quando i personaggi rappresentati ricordano in qualche modo (sempre discreto) gli animaletti della Potter. Il dramma della ragazza ne esce descritto con intensità, senza che mai si abbia l’impressione che l’immagine voglia impadronirsi di quello che la storia ci dice.

Pubblicato con il patrocinio del Telefono Azzurro (cui è destinata una parte dei ricavi delle vendite) “La storia del topo cattivo” è una miniserie di quattro albi, in vendita nelle edicole e nei negozi specializzati.

Bryan Talbot, La storia del topo cattivo, Phoenix, Bologna

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Recensioni d’annata, 1996. Ritrovate Alack Sinner

Ritrovate Alack Sinner
Il Sole 24 Ore, 26 maggio 1996

Per circa un decennio, dalla metà degli anni Settanta alla metà degli Ottanta, il fumetto italiano ha vissuto una stagione magica, per creatività degli autori e attenzione del pubblico. In quegli anni il racconto a fumetti è diventato in Italia un prodotto adulto e raffinato, spesso libero di esprimere al meglio una vocazione espressionista ed intimista, un tentativo di raccontare quello che a fumetti non si era mai raccontato.

All’origine di questa fioritura sta, con particolare rilievo ed enorme rispetto da parte di tutti gli autori che ne hanno seguito le tracce, una coppia di autori argentini, allora esuli politici, venuti a pubblicare sulle nostre riviste – invertendo una tradizione che vedeva gli autori italiani emigrare a Buenos Aires, con Hugo Pratt tra i tanti. Si tratta di José Muñoz e Carlos Sampayo, rispettivamente disegnatore e sceneggiatore di una serie iniziata nel 1975, e intitolata Alack Sinner.

Benché si trattasse di una serie poliziesca di ispirazione chandleriana, sin dall’inizio Alack Sinner aveva colpito più per l’intensità emotiva, caricata magistralmente dal segno difficile di Muñoz, che non per l’intricatezza degli enigmi. Nel giro di qualche anno dei temi classici della detective story in Alack Sinner restava sempre meno, e una dopo l’altra le storie diventavano vicende di umanità, amicizia e disperazione metropolitana. Il nome del protagonista (che, in inglese suona come: io, povero peccatore) corrispondeva sempre di più al programma narrativo che veniva svolto.

Con la storia Trovare e ritrovare, del 1981, l’introverso, difficile Alack lascia la professione di investigatore. Per la prima volta non c’è nemmeno più la falsariga della detective story a condurre la trama. La vicenda di questo lungo racconto procede per episodi: Alack va a trovare il padre, che non vede da lungo tempo, e con cui non ha molto da dire, incrocia la sua indifferenza con la fama di Frank Sinatra, e gli eventi lo portano a reintrecciare la sua vita con quella di Enfer, una donna di colore con cui aveva avuto tempo prima una relazione. Sarà la notizia di aver avuto con lei una figlia a scuoterlo dalla propria melanconia, proprio mentre un poliziotto ubriaco cerca di ammazzarlo per antichi rancori e Sinner è costretto a difendersi, finendo in galera per omicidio.

La vicenda ha un finale problematico ma positivo. L’ex detective recupera un senso alla propria esistenza, anche attraverso le storie che apprende dai compagni di cella nel periodo in cui si trova in prigione. La paternità non si annuncia facile, ma è un occasione per non ripetere il rapporto da lui avuto con il proprio padre.

Il segno di Muñoz è tagliente, impietoso. Riempie i volti dei personaggi di segni di vita vissuta, oppure li lascia spogli, come maschere senza sentimento. I bianchi e neri netti, senza tinte intermedie disegnano spesso figure grottesche, violentemente caricaturali. E Sampayo racconta la storia di Sinner facendola attraversare da mille altre storie, così che la New York che ne esce appare davvero come un intrecciarsi di vite.

Dopo quindici anni dalla sua pubblicazione su rivista, questo testo cruciale, tanto amato da una generazione di autori e lettori di fumetti, esce finalmente in volume. Lo si rilegge con la stessa emozione di allora, con, in più, come l’impressione di ritrovare un vecchio e caro amico.

José Muñoz, Carlos Sampayo, Alack Sinner. Trovare e ritrovare, Milano, Hazard Edizioni
pp. 118, £. ***

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Recensioni d’annata, 1996. Mano

Mano
Inedito per Il Sole 24 Ore, scritto il 18 marzo 1996

E’ un percorso di rigore quello che porta Maria Giovanna Anceschi e Stefano Ricci a creare Mano, fumetti scritti disegni, una rivista il cui primo numero è apparso da poco in libreria, e che contiamo di ritrovarvi ogni quattro mesi. Risalendo all’indietro in questo percorso potremmo reincontrare il lavoro di Ricci come illustratore, dotato di un segno difficile, ma davvero di rara profondità, creatore di immagini che richiedono una lettura attenta e ricompensano il loro lettore con intuizioni inquiete, echi e suggestioni che appaiono espresse e trattenute al tempo stesso.

Più di recente incontriamo un lavoro comune di promozione culturale, il caso singolare di una serigrafia che diviene al tempo stesso galleria, e dove le opere si trovano esposte nelle stesse sale dove si compie il lavoro di stampa. E’ la galleria Squadro di Bologna, dove si producono e si espongono le cartelle di serigrafie curate dalla Anceschi con la grafica di Ricci. Gli autori di queste serigrafie sono pittori, illustratori, fumettisti. Magnus, il grande disegnatore bolognese recentemente scomparso, è l’autore dell’ultima cartella prodotta. Seguirà Lorenzo Mattotti.

Con la stessa cura tenace, quasi ossessiva, con cui si realizzano le serigrafie, prova dopo prova, effetto materico dopo effetto materico, è stato realizzato questo primo numero di Mano. Il nome stesso è un programma, una dichiarazione di intenti a favore di una visione unitaria della comunicazione verbale e per immagini. La stessa mano scrive e disegna, produce significanti verbali e significanti visivi con la stessa leggerezza o con la stessa profondità. E’ ovvio che al centro di un programma di questo genere non può che esserci il fumetto, linguaggio verbo-visivo per eccellenza. Ma non è meno ovvio che letteratura e poesia, cinema, disegno e pittura siano i suoi compagni di strada inevitabili.

Contro l’analfabetismo dell’immagine, si potrebbe dire. Contro, cioè, l’abitudine di assorbire le immagini senza comprenderle, oscillando tra il voyeurismo della pubblicità e il feticismo dell’arte. Contro l’atteggiamento secondo cui la riflessione passa solo attraverso la parola, e l’immagine ne è, al più, un superfluo abbellimento.

Mano inizia con alcune rivisitazioni: vi sono Alfred Kubin e Diane Arbus che raccontano episodi cruciali della loro iniziazione all’immagine; e vi è un dialogo intrecciato tra Artaud e Balthus, del quale vengono presentati anche una serie di disegni per Cime Tempestose di Emily Brontë. Vi sono poi i disegni di Joseph Beuys e di Igort, cui fa seguito una nutrita sezione di fumetti per palati dal gusto educato: gli autori sono Jacques Faton e Philippe de Pierpont, Lorenzo Mattotti e Jerry Kramsky, Gabriella Giandelli e Lilia Ambrosi, Francesca Ghermandi e Massimo Semerano, Stefano Ricci, Onze e Francesca Astori. Conclude la sezione un giovane autore serbo, Aleksandar Zograf.

Il discorso prosegue abbordando il cinema e il suo rapporto con lo story-board, ovvero la versione disegnata della sceneggiatura. Ne parlano Thierry Groensteen, Terry Gilliam e Peter Greenaway. In fondo, ancora a cavallo tra la verbalità e la visività, Gianluigi Toccafondo, Ben Shahn, Alastair Reid e un sarcastico recupero di Osip Mandel’stam percorrono un evocato universo infantile.

Rivista di fumetti né più e né meno che d’altro, ma soprattutto rivista di cultura dell’immagine, nata in un momento difficilissimo per il fumetto italiano, Mano porta la propria proposta in libreria. Se vogliamo vedere la contrapposizione tra libreria ed edicola come una tra il duraturo e l’effimero (almeno in termini di memoria storica), la scelta di campo dei suoi ideatori è evidente. Da parte nostra, l’augurio di tutto cuore è che la rivista possa essere veramente duratura, e non soltanto come memoria.

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Della foto di un triangolo rosso (in città)

Il triangolo rosso

Il triangolo rosso

Di questa foto, scattata proprio qui, mi piacciono certamente la composizione geometrica e quella cromatica. Ma ciò che davvero mi turba è quel triangolo rosso sotto l’arco, verso destra, a cui non sono capace di dare un senso reale.

Non ricordo che cosa ci fosse lì, e non capisco che cosa ci possa essere, di quel colore, in quel punto. Resta, ai miei occhi, come il triangolo di una composizione suprematista, piovuto quasi arbitrariamente in mezzo alle case. Eppure, d’altra parte, non smette neppure del tutto di avere un senso reale: magari c’è, lì, un pezzo di muro rosso illuminato, oppure è un pezzo di un’insegna rossa visto di sbieco.

In questa tensione irrisolta si condensa il senso dell’immagine nel suo insieme: è una foto, e quindi testimonia qualcosa che è stato davvero così; ma è anche, insieme, una composizione geometrica, e quindi rimanda a un universo visivo puramente umano, intellettuale e finzionale.

Chissà perché, a me queste cose danno moltissimo gusto. È come quando scopri la continuità dove prima vedevi solo rottura. E tutto acquista di colpo un sacco di altri sensi.

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Recensioni d’annata, 1996. I nuovi supereroi umani, troppo umani

I nuovi supereroi umani, troppo umani
Il Sole 24 Ore, 17 marzo 1996

Nell’anno del centenario del fumetto, Treviso Comics ha dedicato la sua Rassegna Internazionale del Fumetto e delle Comunicazioni Visive a un tema tra i più fortunati della storia del racconto per immagini: il supereroe. Vi sono dunque Superman, Batman, l’Uomo Ragno e Capitan America, ma non solo loro; e il fumetto di supereroi non è soltanto quello che normalmente si crede.

Intanto, dalla metà degli anni Ottanta in poi il fumetto americano di supereroi ha visto nascere al suo interno un fronte critico che ne ha modificato sostanzialmente l’impostazione complessiva, permettendo e spesso favorendo la nascita di testi di alta qualità. In questo genere di fumetti, spesso la tematica del superomismo è diventata un pretesto per parlare dei miti e della società americana – o del superomismo stesso, in quanto a sua volta mito americano. Non di rado dunque la qualità sia narrativa che grafica dei fumetti di supereroi ha raggiunto in questi anni livelli di grande interesse, documentati con una notevole scelta di esempi in due belle mostre di tavole originali nella manifestazione trevisana. Autori come John Bolton, Kent Williams, Stuart Immonen e Dave Mc Kean possono testimoniare il grado di maturità degli artisti che si misurano oggi con questa materia.

Ma il tema ha geminato. Visto il successo che questo genere di fumetti riscuote in Italia, c’è chi ha pensato che si poteva tentare la carta dei supereroi made in Italy, riprendendo il tema ma ammorbidendolo e approfondendolo con caratteristiche un po’ più “europee”. Protagonista di una mostra sui supereroi italiani – personaggi dalla vita assai più tormentata e difficile di quella dei cugini di oltreoceano – è la casa editrice Phoenix, che negli ultimi anni ha puntato molto sulla creazione di un universo superomistico autonomo, ottenendo una serie di interessanti risultati con personaggi come Examen, Sebastian o Team Adriatica, e con la ripresa di Ramarro, l’anti-supereroe inventato da Giuseppe Palumbo per Frigidaire già negli anni Ottanta. L’ambiente in cui questi personaggi si muovono è un’Italia del ventiduesimo secolo, ricca di conflitti e di angosce metropolitane. Conflitti che, nella migliore tradizione dei supereroi di questi ultimi anni, dilaniano anche la psicologia dei protagonisti: vi è l’eroe che fatica ad accettare il proprio superiore potere, e quello combattuto per un’omosessualità in singolare contrasto con il proprio stile di vita; vi è la squadra di giovanissimi in fuga, che non accettano il sacrificio cui è stato costetto il loro corpo per innestarvi i poteri, e vi è la squadra governativa, ricca di personaggi contrastanti, da quello ligio a un dovere a cui non ci si può sottrarre all’altro per cui sterminare o sedare è un piacere.

Tra le produzioni italiane non Phoenix si distingue invece Gabriel, di Riccardo Secchi, pubblicato da MBP, dove il supereroe è nientemeno che una giovane suora, che, nella migliore tradizione delle investiture di superpoteri, è rimasta vittima di un incidente con un apparato sperimentale, ed è in grado, da quel momento, di volare e di proiettare grandi quantità di energia dalle mani. E’ un fumetto ben sceneggiato e discretamente disegnato, anche se un po’ succube di molte storie americane degli ultimi anni.

Singolare, ma stimolante, è l’accostamento con la versione Disney del superomismo, non tanto con Superpippo (del quale nella mostra “I supereroi Disney” si sentiva un poco la mancanza) quanto con Paperinik, parodia paperinica (di origine italiana) dei giustizieri mascherati. Di Paperinik è stata presentata, tra l’altro, l’imminente versione rinnovata: sta per uscire infatti un albo mensile, formato comic book, che si chiamerà PK, e narrerà le imprese di Paperinik in uno strano mondo di alieni, con un segno davvero inconsueto per la Disney, una sorta di parodia del barocchismo grafico dei principali fumetti americani.

La giornata centrale della manifestazione è stata sabato 9 marzo, e si è conclusa con la premiazione dei volumi a fumetti migliori usciti nel corso del 1995. Per il genere realistico il volume più votato è stato Sogni a occhi aperti, che abbiamo già presentato su queste pagine (9.7.1995), a cura di Daniele Brolli, Michele Canosa e Franca Di Valerio, un omaggio collettivo all’amore dei surrealisti per il cinema. Per il genere comico-umoristico è stato invece premiato il divertente volume di Giorgio Cavazzano Capitan Rogers e il calumet della guerra.

Nell’anno del centenario del fumetto non è tuttavia solo un festival così amato dagli addetti ai lavori come quello di Treviso a far parlare di sé. Imminente è infatti l’apertura di una grande mostra celebrativa a Ferrara, che si propone di presentare una grande e dettagliata panoramica dei dieci decenni che sono stati attraversati da questa forma espressiva. Gulp! 100 anni a fumetti aprirà i battenti nella sede del Castello Estense il 3 aprile, per rimanere a disposizione del pubblico sino al 30 giugno.

La mostra sarà divisa in dieci sezioni, corrispondenti ai decenni del secolo, e mostrerà originali e copie d’epoca, accompagnati da una nutrita documentazione, con evidenti scopi al tempo stesso spettacolari e didattici. L’organizzazione è di Ferrara Arte, cioè del Comune e della Provincia di Ferrara. Sul catalogo sono previsti interventi di Abruzzese, Brancato, Calabrese, Caprettini, Castelli, Frezza e Pignatone. Un’apposita Guida per Ragazzi sarà realizzata da Silver, e sarà Lupo Alberto a condurre il discorso per i giovanissimi.

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Recensioni d’annata, 1996. Alchimie tra immagini e parole

Alchimie tra immagini e parole
Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 1996

Il fumetto ha vari nomi in varie lingue: “comics” rimanda alla sua origine umoristica, “bande dessinée” alla sua natura di “striscia disegnata”, “historietas” al fatto di raccontare (tra l’altro) piccole storie umoristiche. E’ solo l’uso italiano, “fumetto”, a dare al tutto il nome precipuo di una parte, cioè della nuvoletta che contiene le parole, quella che si chiama, in gergo tecnico, balloon, per evitare irrisolvibili omonimie.

Nonostante la connotazione vagamente denigratoria che la parola stessa possiede, il nome “fumetto” è adeguato al suo oggetto almeno nella misura in cui individua la componente davvero cruciale di questo linguaggio. Il fumetto, cioè il balloon, è quella parte della vignetta in cui l’immagine si fa parola, e la parola è immagine. E’ il luogo più simbolico di un linguaggio che vive a cavallo tra altri due, e che ha costruito la propria autonomia sull’apparenza di una dipendenza irrisolvibile.

Tutti i fumetti sono costruiti come rapporto tra immagini e parole, persino quelli dove le parole non ci sono, perché la loro assenza, in un contesto in cui normalmente sono presenti, è altamente significativa. Non si può valutare un testo a fumetti dalla sola qualità delle immagini, né dalla sola qualità del testo: l’errore diffuso è quello di ritenere che poiché la figuratività del fumetto non è in generale paragonabile a quella delle arti visive, e poiché la letterarietà del fumetto non è paragonabile a quella del romanzo, il fumetto non possa nemmeno sperare di assurgere alla dignità delle une o dell’altro. Ci si dimentica che nel fumetto la qualità sta nella relazione tra parole e immagini, e non nelle une o nelle altre singolarmente. E questa relazione si manifesta in innumerevoli modi, di non semplice catalogazione.

C’è un uso “classico” della parola, che rimanda direttamente all’uso “classico”, “hollywoodiano”, della parola nel cinema: i personaggi si scambiano le frasi di un dialogo di impronta realistica, e le didascalie intervengono solo di tanto in tanto a integrare quello che sarebbe troppo complesso (e troppo lento) mostrare con le immagini. Credo che chiunque abbia mai letto un fumetto classico d’avventura sappia perfettamente come funziona un uso di questo genere. E’, ovviamente, l’uso più normale e diffuso; è, per così dire, il livello zero, la norma.

Le strisce umoristiche adottano spesso varianti significative del modello normale di uso della parola. Sappiamo tutti quanto poco realistici siano i dialoghi di strisce come Peanuts, o Mafalda, o Doonesbury. La necessità di contenere in pochissime vignette significati complessi, spesso pluriallusivi, fa sì che disegno e parola vengano distillati sino a un’alchimia di prestazioni essenziali, la quale, col tempo, è in grado di costituire un microlinguaggio interno alla serie, che permette ai lettori abituali di cogliere significativi rimandi a partire da variazioni minuscole dalla norma. Avulsi dal loro contesto, i dialoghi di queste strisce apparirebbero assurdi e frammentati, spesso addirittura oscuri. Basta pensare alle riflessioni di Snoopy sulla vita, sulla scodella o sul gatto dei vicini.

Ma l’antirealismo non si trova solo nei fumetti umoristici. Persino in grandi classici come Tarzan, Flash Gordon, e Prince Valiant (in Italia Principe Valentino) la parola ha finito per assumere un ruolo diverso da quello standard. A partire da un certo momento nella loro carriera di autori, sia Harold Foster (Tarzan e Valiant) sia Alex Raymond (Gordon) decidono di fare a meno del balloon. Il processo avviene per gradi, ma alla fine degli anni Trenta il risultato è che ogni vignetta è accompagnata da alcune righe di didascalia narrativa, che inglobano i dialoghi come in una normale narrazione romanzesca. Nonostante questo la narrazione verbale non è autonoma, non sarebbe sufficiente da sola a sostenere il racconto, né tantomeno lo sarebbero le immagini: il senso è costruito da queste due narrazioni parallele e intrecciate, quella delle parole e quella delle figure.

Da qui al passo successivo, quello del rapporto straniato tra le due componenti, il passo è breve. Il primo a compierlo è un autore umoristico, George Herriman, che disegna Krazy Kat per quasi trent’anni sino al 1939, giustapponendo ai dialoghi surreali sfondi ancora più surreali, e costruendo giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, un universo di deliziose e sentimentali incongruenze. Bisogna però arrivare agli anni Settanta per trovare un uso sistematico di questo rapporto straniato: inizia in Italia Sergio Toppi e iniziano in Francia Les Humanoides Associés; proseguono autori come Jacques de Loustal, Daniele Brolli e Igort, in cui il contrasto tra, da un lato la distanza tra narrazione verbale e narrazione iconica e, dall’altro, il loro necessario rapporto è un oggetto esplicito di poetica.

Nasce forse da questi esperimenti, ma nello spirito di un iperrealismo di vocazione popolare, il rapporto tra parola e immagini tipico di molti recenti fumetti americani di supereroi. La parola, in queste storie, accompagna l’immagine esplicitando lo stream of consciousness dei personaggi, non di rado giustapponendo sequenze di pensieri appartenenti a coscienze diverse, e giocando spesso sull’impossibilità di distinguere tra i pensieri riportati e la voce del narratore, come nel più classico “stile indiretto libero” del romanzo novecentesco. Non c’è vocazione “straniante” in questo uso, che viene davvero percepito dai suo lettori come una forma di realismo – ma siamo andati lontani, ormai, anche dal realismo del cinema, e dal suo ruolo di linguaggio di riferimento per tanto fumetto di avventura di qualche anno fa.

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Recensioni d’annata, 1996. Quanto pesa un secolo di fumetto

Quanto pesa un secolo di fumetto
Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 1996

Il lungo delirio di Daniel Quinn, già poeta e ora scrittore di romanzi polizieschi sotto pseudonimo, inizia con una serie di telefonate in piena notte: qualcuno cerca Paul Auster, l’investigatore – e lo cerca con tanta insistenza presso Quinn che egli decide, dopo alcune perplessità, di spacciarsi per lui e di aiutare la persona che chiama. Più avanti, nella sua indagine su persone dall’identità personale smarrita, finirà per incontrare Paul Auster, nemmeno lui investigatore, bensì – come nella realtà – scrittore. L’indagine si trasformerà piano piano in una personale discesa nello smarrimento e nella perdita di identità, sinché alla fine non si saprà più nemmeno chi è che narra che cosa e perché.

La caratteristica singolare di questa edizione di Città di vetro di Paul Auster è di essere una traduzione a fumetti di questa storia di disidentità e solitudine. All’origine dell’operazione sta un’idea di Art Spiegelman, già autore del romanzo a fumetti Maus, vincitore del premio Pulitzer, e direttore di Raw, rivista dell’avanguardia newyorkese con cui collabora anche Paul Karasik, co-sceneggiatore e adattatore del testo. I disegni sono di David Mazzucchelli, uno dei più noti e significativi disegnatori americani di fumetti, già scelto da Frank Miller per illustrare alcune delle storie di supereroi che hanno sconvolto il genere nel corso degli anni Ottanta.

La ragione per cui Miller scelse Mazzucchelli per illustrare storie di Batman e di Daredevil è che il suo disegno è quanto di meno spettacolare e supereroistico si possa imaginare. Al contrario Mazzucchelli possiede una straordinaria capacità di esprimere sfumature narrative ed emozionali con semplici linee di pennello nero, con un tratto che della semplicità ha solo l’apparenza. Così quelle storie prendevano di colpo un tono che a un disegnatore tradizionale di supereroi – abituato ad enfatizzare piuttosto che ad esplorare – sarebbe risultato impossibile da realizzare. Con una sorta di effetto di straniamento, al mondo dei supereroi veniva restituita una vividezza emotiva che esso non aveva mai posseduto.

Nel romanzo di Paul Auster non c’è altro che questa vividezza emotiva. Il pennello di Mazzucchelli e il suo montaggio dal ritmo lento e un po’ ossessivo ricostruiscono con altri mezzi il senso di ossessione e di progressivo smarrimento della prosa di Auster. Siamo abituati a vedere versioni cinematografiche di romanzi: spesso sono inferiori allo scritto, ma qualche volta scopriamo con piacere opere originali che non hanno nulla da invidiare al testo cui si sono ispirate. Più raramente incontriamo traduzioni a fumetti: è tanto più ragione di godimento quando scopriamo che vale davvero la pena di averle lette. Pure se conoscevamo già l’opera da cui sono partite.

Paul Auster, Città di vetro, Versione a fumetti di David Mazzucchelli e Paul Karasik, Gli Squali Bompiani, 1995
pp. 140, £. 15.000

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Recensioni d’annata, 1996. Il fumetto rende omaggio

Il fumetto rende omaggio
Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 1996

Epica del nostro tempo, il cinema affolla il nostro immaginario con stelle e miti. Neppure i pochi che restano indifferenti alla magia delle immagini che scorrono possono ignorare che il nome “Casablanca” non evoca soltanto una città del Marocco, e che “via col vento” non è solo un modo di dire. Tutti sogniamo, discutiamo, o semplicemente discorriamo di quello che accade nei film; e le storie raccontate dal cinema sono continuamente il fulcro, la cellula di aggregazione per parlare di mille nostri problemi ed esigenze, vuoi personali, vuoi culturali, vuoi sociali.

Così davvero, per tantissimi versi, il cinema ha assunto per noi la funzione antropologica del mito, come cuore dei discorsi, come fabbrica di oggetti simbolici. Poco importa che di tanti film passati alla storia si possa – del tutto a ragione – parlar male dal punto di vista della qualità artistica: non si può infatti guardare le scene d’amore (o di odio) tra Clark Gable e Vivien Leigh, o tra Humphrey e Ingrid, come si guarderebbero le scene d’amore di un film qualsiasi, dimenticando che mezzo secolo di passioni se le è tenute con passione sullo sfondo.

Allora, quando un’altra arte vuole fare un omaggio al cinema, è ben lecito che al centro di questo omaggio ci sia il mito, la leggenda del cinema. 48 omaggi ad altrettanti film sono altrettante riflessioni – ora appassionate, ora ironiche – di come sono entrati quelle immagini e quelle storie nella nostra vita. C’è la coppia di pensionati raccontati da Coco, che discutono di Casablanca, e lei glie ne racconta una versione in cui Woody Allen suona il piano, mentre Ingrid chiede a Rick di aiutare lei e il suo compagno Roberto Rossellini a fuggire dai nazisti. C’è la Luise Brooks/Valentina di Guido Crepax perduta nello sguardo di Jack, lo squartatore londinese. E ci sono gli studenti del DAMS preoccupati per l’esame di storia del cinema sui Sette Samurai – con inevitabile richiamo, per chi conosca un po’ i fumetti italiani, a un analogo e memorabile esame disegnato anni fa da Andrea Pazienza, che aveva per oggetto Apocalypse Now.

Presentato da Marco Giusti (quello di Blob, per intenderci), con 48 appassionate microrecensioni di tre righe, il volume Buon Compleanno Cinema è un augurio sentito da parte di un arte pressoché coeva, il fumetto. Dopo alcune pagine introduttive con le riflessioni per immagini di Quino, Mordillo e Cavandoli, cento anni di storia del cinema vengono attraversati con la rivisitazione immaginaria dei film che più sono rimasti nel nostro cuore. Inevitabili Il monello, la Potemkin, L’angelo azzurro e Biancaneve; ma anche 2001, Il mucchio selvaggio, Aguirre e Frankenstein Junior. Autori dei commenti a fumetti: Altan, Juan Ballesta, Renato Calligaro, Coco, Guido Crepax, Durante, Francesca Ghermandi, Cinzia Ghigliano, Gnago, Cinzia Leone, Ro Marcenaro, Luca Novelli, Valente.

Ne emerge sicuramente quanto il fumetto deve al cinema, e quanto gli autori di fumetti amino il cinema, ma ne emerge anche come questo debito sia comune e diffuso. Come si potrebbe condensare in poche immagini una riflessione ironica su un film, se questa non potesse attingere dai frammenti di una fascinazione collettiva, che lo ha riempito di sensi ben più ampi di quelli che poteva avere al suo inizio? Parrà pure blasfemo, ma non riusciamo più a pensare al capolavoro di Eisenstein senza che ci passi per la testa, sia pure per un attimo, la dissacrazione di Fantozzi/Villaggio, e non possiamo più guardare la scena della carrozzina senza che insieme a quella non scendano dalla scalinata di Odessa anche le mille carrozzine di altrettante parodie. Tutto questo non toglie nulla alla Potemkin; anzi, per noi, fa parte di lei, a almeno della sua aura.

Marco Giusti presenta 1895-1995. Buon compleanno cinema. Cent’anni di cinema disegnati dai maestri del fumetto

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Recensioni d’annata, 1996. Paul Auster fatto a strisce

Paul Auster fatto a strisce
Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 1996

Il lungo delirio di Daniel Quinn, già poeta e ora scrittore di romanzi polizieschi sotto pseudonimo, inizia con una serie di telefonate in piena notte: qualcuno cerca Paul Auster, l’investigatore – e lo cerca con tanta insistenza presso Quinn che egli decide, dopo alcune perplessità, di spacciarsi per lui e di aiutare la persona che chiama. Più avanti, nella sua indagine su persone dall’identità personale smarrita, finirà per incontrare Paul Auster, nemmeno lui investigatore, bensì – come nella realtà – scrittore. L’indagine si trasformerà piano piano in una personale discesa nello smarrimento e nella perdita di identità, sinché alla fine non si saprà più nemmeno chi è che narra che cosa e perché.

La caratteristica singolare di questa edizione di Città di vetro di Paul Auster è di essere una traduzione a fumetti di questa storia di disidentità e solitudine. All’origine dell’operazione sta un’idea di Art Spiegelman, già autore del romanzo a fumetti Maus, vincitore del premio Pulitzer, e direttore di Raw, rivista dell’avanguardia newyorkese con cui collabora anche Paul Karasik, co-sceneggiatore e adattatore del testo. I disegni sono di David Mazzucchelli, uno dei più noti e significativi disegnatori americani di fumetti, già scelto da Frank Miller per illustrare alcune delle storie di supereroi che hanno sconvolto il genere nel corso degli anni Ottanta.

La ragione per cui Miller scelse Mazzucchelli per illustrare storie di Batman e di Daredevil è che il suo disegno è quanto di meno spettacolare e supereroistico si possa imaginare. Al contrario Mazzucchelli possiede una straordinaria capacità di esprimere sfumature narrative ed emozionali con semplici linee di pennello nero, con un tratto che della semplicità ha solo l’apparenza. Così quelle storie prendevano di colpo un tono che a un disegnatore tradizionale di supereroi – abituato ad enfatizzare piuttosto che ad esplorare – sarebbe risultato impossibile da realizzare. Con una sorta di effetto di straniamento, al mondo dei supereroi veniva restituita una vividezza emotiva che esso non aveva mai posseduto.

Nel romanzo di Paul Auster non c’è altro che questa vividezza emotiva. Il pennello di Mazzucchelli e il suo montaggio dal ritmo lento e un po’ ossessivo ricostruiscono con altri mezzi il senso di ossessione e di progressivo smarrimento della prosa di Auster. Siamo abituati a vedere versioni cinematografiche di romanzi: spesso sono inferiori allo scritto, ma qualche volta scopriamo con piacere opere originali che non hanno nulla da invidiare al testo cui si sono ispirate. Più raramente incontriamo traduzioni a fumetti: è tanto più ragione di godimento quando scopriamo che vale davvero la pena di averle lette. Pure se conoscevamo già l’opera da cui sono partite.

Paul Auster, Città di vetro, Versione a fumetti di David Mazzucchelli e Paul Karasik, Gli Squali Bompiani, 1995
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di Daniele Barbieri

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