Amarene, di Silvia Secco, è un volume autoprodotto. EdizioniFolli, la casa editrice, è in verità sempre lei, la medesima persona. Questo ha come conseguenza certo anche la cura dell’edizione, della carta, della stampa, della rilegatura: un libretto prezioso, da questo punto di vista. Ma inevitabilmente distribuito a mano, regalato agli amici, in copie numerate. E questo è un peccato. Certo, visti i numeri esigui anche delle raccolte più vendute in Italia, si potrebbe dire che non fa una grande differenza. Ma poi è d’altra parte davvero un peccato vedere come gran parte di quello che viene stampato dalle case editrici patentate, grandi e piccole, è ben lontano da questo livello di qualità. (Poi, il volume è anche disponibile, in versione print on demand, su Amazon. Sarà forse meno accurato come confezione, ma quello che conta è lo stesso)
E non mi riferisco più, adesso, solo alla confezione grafica, ma anche e soprattutto ai versi originali e profondi di Silvia Secco, sempre evocativi e mai banali. La “Nota di lettura” di Alberto Bertoni si conclude dicendo “Questo libro, per compattezza tematico-stilistica e per intensità intonativa, la consacra ai livelli più alti della poesia di oggi”. Potrebbero essere parole di occasione, come capita tante volte nelle pre- o postfazioni. Ma in questo caso non lo sono affatto.
Questo scritto non ne è una recensione. Pongo qui di seguito una piccola selezione di componimenti dal volume. Poi mi soffermerò un poco sull’ultimo, che è anche l’ultimo dell’intera raccolta.
Dovunque s’è gridata devozione
a voce stridula e braccia levate
di splendide bambole rotte, usate
fino al cavo. E no che non sapevamo
d’essere involucro vuoto: niente
cuore né carne né spina. Sedute
ci mantenevamo dritte: al segno
del comando cantavamo tutte
le sue canzoni –
***
Poi ho scordato di dirti di dio
che abita le alture dei rami e che mai
è caduto a baciarmi, mai – al café de paris
una notte di gennaio ad esempio –
Di come invece stento a credere sia poco
il perduto, se anche la neve si tiene
non scesa e non ci perdona. La mia fede
si fonda sulle virgole, riapre sempre la frase
e persino la luna pare abbia mentito
almeno una volta mentre cresceva.
***
Insegnami il coraggio dei papaveri
ai margini di strada, l’ilarità
di certe spighe, a spasso con le folate.
Fammi capace di gentilezza
– l’erba sul piede nudo, l’attitudine del sasso
a tacere le erosioni, la pazienza che hanno i pesci
coi costumi dei bagnanti – dammi la fede del frutto
che maturerà, come ne ha la neve in altitudine
a maggio inoltrato.
***
Niente, è solo il cuore e io ne ho due.
Non è che il cuore, uno, entrambi
sventa, che sbatte gli scuri: lo senti
che è il cuore – di che ti spaventi
se sale alla gola, alle tempie, coi marosi
nei frastuoni delle feroci città
e stridore di treni, passi di passanti quali siamo
povera umana cosa – Respira,
stanotte non moriremo, non senza esserci toccati.
Nessuno, questa notte, si toccherà.
Nel sangue, lì rimarrà il tuo nome nel luogo dei rovi.
Dopo, ti dico, si romperanno le chiuse.
Potremo piangere finalmente, fino a casa.
***
Dentro la notte mi nuotano i pesci,
parlano con me senza emettere suono
antichissime storie degli abissi, epoche
che gli uomini, animali e foglie
abitavano le acque – liquidi nei liquidi –
e le dita, e perfettamente le labbra
di tutte le bocche e di tutte le mani
che si erano unite nel tempo anteriore
si riconoscevano di nuovo.
Io ti aspettavo, con gli occhi che hai
mutevoli – d’acqua e d’altro, come mio padre –
Ti ho pensato a lungo prima,
similitudine interna di pace.
Luna compiuta sopra la casa.
***
1 Le parole del mattino ripetute all’orecchio
. io ti amo, ripetute al mattino all’orecchio del sonno
. nell’ultimo anfratto del sonno, deposte nel cavo
. grembo di ogni equilibrio e di ogni memoria. Le parole
5 io ti amo del mattino mandate a memoria, ripetute
. e ripetute, depositate come un monile d’argento
. nel cavo – delle nostre mani abbandonate, dell’orecchio –
. nel sonnolento cavo della logica, nel tempo
9 ancora cavo del mattino, dentro – minimo embrione
. d’argento, ciondolo di profezie e fortuna – Io,
. io ti amo, le parole ripetute nel tempo, le antiche parole
. madre e padre del tempo, ripetute al mattino all’orecchio
13 nel sonno del tempo, nelle profonde cavità senza suono.
Sono tredici versi molto lunghi, da 15 a 18 sillabe, eccetto il verso 11 che ne conta 21. Si tratta di una misura inconsueta nell’intera raccolta, dove i versi così lunghi appaiono solo in maniera occasionale. Ed è inconsueto anche il tessuto ossessivo di rimandi e di echi che ne costituisce l’ossatura.
L’espressione le parole ricorre 4 volte, di cui 3 sono associate all’espressione io ti amo, che compare sempre a inizio di verso. Mattino, così foneticamente simile a io ti amo, appare 5 volte. Ripetute, una delle parole chiave del componimento, c’è ben 6 volte, di cui due accostate. Orecchio 4 volte, di cui 3 all’orecchio e un dell’orecchio. Sonno 3 volte, cui si aggiunge un sonnolento. Deposte ritorna come depositate. Cavo 4 volte (di cui una come aggettivo), cui si aggiunge, in conclusione un cavità. Memoria 2 volte, ma poi appare tempo, che ritorna 4 volte, sostenuto anche da un antiche, cui potremmo aggiungere profezia e fortuna, che ne condividono il campo semantico. D’argento è prima un monile (che ritorna come ciondolo), e poi un embrione (altro riferimento allo sviluppo, e quindi al tempo). Alla fine, le parole che non ritornano sono davvero poche, e in verità anche lì il gioco del rimando si compie in altro modo: il grembo del verso 4 ritorna nell’embrione del verso 9 e nei madre e padre del 12. Il cavo / grembo di ogni equilibrio dei versi 3 e 4 si sposa con il sonnolento cavo della logica del verso 8. Il mandate (a memoria) del verso 5 risuona con il mani abbandonate del 7. Il profonde della chiusa richiama l’antiche del verso 11. Così come il suono con cui si chiude tutto, rafforzato dall’allitterazione con senza, richiama fortemente il sonno, più volte ricorrente, per sonorità e per senso locale.
La divisione in versi confligge con quella sintattica, giocando con frequenza di enjambement. Ma la discrasia è confermata anche dalla presenza di numerose rime, e sempre interne, come se si suggerisse pure in questo modo un meccanismo di imprevedibile ripresa, come di una ragione che confligge con un’altra, e questo conflitto fa sì che i ritorni siano imprevedibili, e che il ritmo che ne consegue sia insieme cullante e inquietante. Alla stessa dimensione ipnotica appartiene il gioco delle allitterazioni e paronomasie, che si aggiungono alle ricorrenze lessicali, così da costruire un tessuto complessivo quasi ciclico, danzante e quasi immobile. Magari non così dissimile da quello che succede quando nella nostra sonnolenza entra ricorrentemente uno stimolo piacevole, senza davvero svegliarci, ma senza nemmeno restare inconsapevole.
Si tratta però di una quasi-immobilità. Il componimento è costruito come un brano di musica, in cui interagiscono diversi motivi, ritornando e sviluppandosi, e magari lasciandone emergere di nuovi nell’intreccio di quelli già noti. Le parole io ti amo, leitmotiv dominante (e per questo ricorrenti sempre a inizio verso), sono due volte precedute dall’espressione le parole, una prima volta a distanza, una seconda nella tensione dell’enjambement. Ma la terza volta esse riappaiono precedute da una ripetizione del pronome io, anche qui nella tensione e nell’esitazione dell’enjambement, e ora l’espressione le parole le segue. Si tratta di una variazione di carattere musicale, certo, da un lato; ma dall’altro il raddoppiamento del pronome, sottolineato dall’enjambement, e la posticipazione della descrizione, rendono di colpo l’espressione più forte, più diretta, privata del distacco, come ricevuta in prima persona, ora – salvo poi rientrare nell’alveo della sonnolenta descrizione. Certamente non è un caso che il verso 11, in cui questo accade, sia, con le sue 21 sillabe, decisamente più lungo degli altri, come a mantenere il più a lungo possibile questo picco di tensione, e in questo modo ulteriormente sottolineandolo.
Poco dopo la metà, nel verso 8, compare il tempo. Era stato anticipato dalla memoria, nei versi 4 e 5, ma la memoria è tempo congelato. Adesso invece esso si sviluppa in embrione, profezia, fortuna, antiche, madre e padre. La condizione del sonno continua a dominare, e lo farà sino in fondo, e gli eventi rimangono confusi, ondeggianti; e tuttavia adesso chiaramente ci sono, determinano un’evoluzione, un cambiamento. Anche se non possiamo davvero uscire dal sonno del tempo, le parole possono entrare in qualche modo nelle profonde cavità senza suono, e quindi anche senza avere suono, cioè forse senza avere sonno, pur essendo profondamente, anticamente proprio dentro il sonno.
Il gioco dell’ambivalenza ritmica tra versificazione e sintassi, tra versificazione e rime si rispecchia dunque nell’ambivalenza semantica dei termini, che ritornano ogni volta oscillando nel loro significato, rimandando ogni volta a sfumature ed evocazioni diverse.
È così che Silvia Secco riesce a costruire una poesia originale ed efficace facendo uso delle parole più usurate del poetese, del lirismo più banale. A partire da io ti amo, quasi impronunciabile in poesia, per seguire con mattino, sonno, abbandonate, tempo, antiche, madre e padre. Manca la rima fiore amore la più antica difficile del mondo, ma non ho dubbi che se ci fosse, l’autrice sarebbe in grado di ridare senso anche a lei.
È che qui, il gioco delle ripetizioni e delle interferenze crea una complessità d’insieme e un complessivo straniamento che ci costringono a tornare a percepire quelle parole consumate, sino al loro fondo mitico. È come se fossero nuove, adesso, pur rimanendo quelle che sono. Quando funziona, la poesia ci sa liberare dalle incrostazioni della retorica – magari quelle stesse che ha contribuito a costruire quando non funziona, o quando, trasformata in slogan, deve servire a qualche scopo poco nobile.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto.
Chris Ware, da Building Stories, 2005-2012
Il lavoro di Chris Ware può apparire freddo. Faremmo meglio a dire che vuole apparire freddo. Il feeling di astratta geometricità che una tavola come questa produce è di sicuro attentamente progettato dal suo autore. Eppure la materia di cui questa pagina racconta è tutt’altro che fredda: Building Stories gira tutto attorno ai sentimenti della sua protagonista, ai suoi desideri e ai suoi ricordi.
In un certo senso, la distanza che l’autore vuole rimarcare nei confronti di quello che racconta è un po’ la distanza che separa l’entomologo dall’insetto che sta osservando. Eppure, benché questa distanza sia comunque evidente, qui l’entomologo Ware appare incredibilmente vicino ai sentimenti del suo insetto.
È probabilmente questa la chiave del fascino delle storie di Ware: grande distanza e insieme estrema vicinanza, freddo e caldo insieme, entrambi acutamente percepibili.
Osserviamo con attenzione questa pagina. Building Stories è un cofanetto composto di una serie di oggetti: dai libri veri e propri, contenenti racconti di più pagine, ai singoli grandi fogli piegati, dove la storia è composta di due sole facciate. Questa è la prima di due pagine di questo secondo tipo.
Quando la si guarda, l’attenzione è immediatamente richiamata dal grande volto a centro pagina. Ware sa benissimo che le pagine a fumetti non fanno eccezione alle regole dei percorsi dell’attenzione: prima di iniziare a leggere dall’alto a sinistra, inevitabilmente l’occhio vede l’intera pagina, e viene catturato dai dettagli maggiormente rilevanti, se ve ne sono. Qui il volto al centro, così graficamente isolato, così marcato nel suo contorno dalla linea nera regolare, così simmetrico sia verticalmente che (almeno nel suo contorno) orizzontalmente, non può non imporsi all’attenzione. Tanto più che quella sottile linea rossa che lo raggiunge dal basso può ben assomigliare al filo di un palloncino (e la freccia immediatamente sotto al profilo del mento può facilmente essere vista come il nodo alla sua base). Questo grande viso ha un’espressione malinconica e meditabonda, che corrisponde alla personalità della protagonista (non c’è un ordine obbligato con cui leggere le diverse storie del cofanetto – quindi è possibile che il lettore la conosca già): il viso di qualcuno che sta ricordando, immerso nei propri pensieri.
E a questo punto, poiché non ci sono altre emergenze percettive che si impongano alla visione iniziale, il nostro sguardo corre all’inizio della pagina, e non si stupisce di trovarvi a mo’ di titolo la frase As a kid, cioè da bambina. Non ci sono emergenze specifiche, ma la pagina è già apparsa come divisa in tre aree, oltre a quella del viso centrale, ciascuna caratterizzata da una tinta dominante: un azzurro poco saturo in alto, un grigio nella colonna di sinistra, un bruno o verde acido nella colonna di destra, anche loro poco saturi.
Quando iniziamo a leggere abbiamo dunque già un’idea di quello che ci aspetta: tre episodi distinti, tutti e tre oggetto di ricordo. La pagina è inoltre dotata di una relativa ma significativa simmetria, debole in alto, nell’area a dominante azzurra, e più forte al centro e in basso. Osserviamo, per esempio, le due vignette più grandi ai lati del viso centrale, che esibiscono, simmetricamente, un’inquadratura angolare (dove, qui come sempre, gli angoli sono di 120 gradi), contrapposta alle inquadrature frontali di quasi tutte le altre vignette più piccole – e questo si ripete nella striscia più in basso.
La pagina è narrativamente, ma anche graficamente, scandita dai titoletti in rosso: AS A KID, MEN, I’LL NEVER FORGIVE, THE COMBINED, Y’KNOW. Anche il loro lettering è geometrico e freddo, ma non ci sono simmetrie nella loro posizione. Hanno tuttavia lo stesso colore rosso che, qui come in altre pagine di Building Stories, caratterizza le linee di collegamento che guidano il percorso di lettura là dove non è quello standard. Sono quindi anche loro delle indicazioni di direzione, quasi delle frecce; tanto più che non sono veri e propri titoli, separati dal testo che segue, ma semplici attacchi del discorso, evidenziati da un diverso trattamento grafico, ma discorsivamente collegati a quello che c’è dopo.
La sequenza a dominante azzurra mostra la protagonista bambina davanti allo specchio, a immaginare il proprio aspetto da grande, casualmente interrotta dall’ingresso del padre. Il discorso che inizia con I’LL NEVER FORGIVE (non perdonerò mai) fa riferimento a un autoritratto, visibile a sinistra, e quindi è lì che veniamo rimandati, per poi scendere da quel lato attraverso i ricordi dell’adolescenza, fino a ritrovarci, in basso, nella quotidianità del presente, in bagno davanti allo specchio, mentre una voce fuori campo chiama “mamma”. Da qui il filo rosso ci porta al volto/palloncino centrale e ancora da qui alla colonna di destra, dove la protagonista è nuovamente un po’ più grande, fino alle vignette in basso, che ci riportano nel presente.
Notiamo che la sequenza tollera bene anche una lettura “sbagliata”, che proceda – attraversando il viso centrale – per righe orizzontali da sinistra verso destra. Letta in questo modo, la sequenza appare come il montaggio alternato di due ricordi diversi: del resto, tutto Building Stories è fatto di frammenti spazio temporali giustapposti, che possono essere letti in qualsiasi ordine, perché possiedono al proprio interno le coordinate per creare un ordine narrativo complessivo. Anche la lettura “sbagliata” rimarrebbe quindi accettabile, e non muterebbe gran che l’effetto d’insieme, un effetto comunque labirintico – nel quale il percorso giusto esiste (ed è la sequenza temporale del racconto) ma va cercato e trovato, sia globalmente che localmente.
Anche la struttura labirintica contribuisce al distacco che il lettore percepisce. È come se tutta la passionalità della vita si trovasse ricostruita qui attraverso un progetto razionale, certamente articolato e complesso, ma la cui complessità è inevitabilmente minore di quella delle emozioni della vita reale. In questo modo, Ware raggiunge l’obiettivo di generare il pervasivo senso di angoscia, e il senso tragico che permea queste vicende pur prive di grandi avvenimenti: la tragedia è quella di una vita già destinata, sin dall’inizio, a seguire un percorso, senza scampo. Il percorso è segnato dalle regole sociali, che qui si trovano, spesso, narrativamente appena accennate; mentre vengono fortemente richiamate da questa ricostruzione grafica razionale che permea tutto, e solo attraverso la quale arriviamo al racconto e alle sue emotività.
Nella prima metà del Novecento l’idea di progetto razionale ha dato vita al funzionalismo e alle sue conseguenze, con l’ideale ottimistico che la razionalità avrebbe migliorato la vita dell’uomo. In Chris Ware il medesimo principio si rivela invece l’angosciosa scatola da cui non siamo più capaci di uscire.
Posso? Nel senso di: mi date il permesso? Mi autorizzate? Non mi fate annegare o mettete in prigione se provo a entrare? Posso scrivere queste cose? Non c’è dubbio che ne avrò facoltà nella misura in cui le mie parole arriveranno solo a chi già la pensa come me, e quindi non sposteranno nulla. Ma, potrei scrivere queste cose là dove effettivamente le arrivassero a leggere tutti? Una volta le dittature mi avrebbero comunque impedito di dirle. E questo avrebbe potenzialmente creato un caso. Oggi i governi democratici sono meno ingenui, e distinguono bene ciò che è davvero pericoloso per loro da quello che non lo è. Finché parlo ai miei, finché parlo a quattro gatti, finché dico cose tutto sommato banali, già dette, non corro nessun rischio. Posso. Il poeta, in generale, oggi parla ai suoi. Anche per questo, in generale, nessuno gli negherà il permesso. Potrà persino essere usato a dimostrazione che non esiste nessuna repressione delle idee. Nel nostro paese, il prestigio culturale di cui la poesia gode è inversamente proporzionale al suo peso. Se va contro al potere potrà essere perciò bellamente ignorata; se invece lo favoreggia, quel prestigio potrà diventare una mostrina all’occhiello. I poeti amici dei ministri sono facilmente importanti poeti, anche quando non hanno mai scritto una poesia decente. Io non credo alla poesia civile. La poesia non diventa migliore né parlando bene né parlando male del potere. Al massimo, il poeta si fa degli amici; raramente dei nemici. È più facile farsi dei nemici con un buon editoriale su un giornale di ampia diffusione, che con la migliore delle poesie civili. L’impegno politico e civile è tutt’altro che vietato ai poeti, anzi! Ma è meglio che lo lascino al di fuori della propria poesia, se davvero desiderano che pesi in qualche modo. Non ha a che fare col potere, dunque, la poesia? Posso? Nel senso di: mi date il permesso di dire qualcosa di forse sgradevole? Non me lo potete negare, a questo punto. Certo, potete smettere di leggere. Se una poesia è davvero buona ha il potere di impedirvi di smettere di leggere. Non vi può costringere a iniziare, ma se iniziate, rimarrete lì sino alla fine; e magari tornerete pure. La poesia non è politica, e non è civile, se non per caso, quasi per sbaglio. Ma la buona poesia, persino quando parla di alberi, non implica affatto il silenzio sulle stragi. La buona poesia, persino quando parla di alberi, porta alla luce uno strato più profondo, parla alla nostra anima e alla nostra coscienza attraverso i nostri miti. Per questo, la buona poesia è etica e civile anche quando parla di alberi. E parla del potere anche quando parla di alberi. Non dice che il potere è corrotto, che il potere è potere, che il fascismo striscia attraverso le azioni dei potenti ogni volta che può. Non lo dice, ma anche parlando di alberi, ci conduce verso la condizione in cui lo possiamo poi capire da soli. Ci costringe a essere sinceri con noi stessi, individualmente ma anche collettivamente. Ci porta a rivelare lo stato di menzogna in cui annaspa il nostro quotidiano, che a sua volta sostiene e ci fa sostenere, magari inconsapevolmente, quel potere che crediamo di stare combattendo. La buona poesia si muove al livello degli strati profondi della nostra cultura, del nostro patto sociale, anche quando in apparenza parla di alberi. Se non sapremo discendere fino a questo livello, se non sapremo riconoscere quello che sussurra nel nostro profondo, di individui e di società, qualsiasi opposizione al potere non farà che rafforzare il potere, perché ne confermerà i principi condivisi. I quali sono così condivisi che la poesia, ahinoi, è ormai rimasta un’arte di élite, e col potere, in un modo o nell’altro, siamo tutti ingenuamente collusi.
L’immagine contro il soggetto. Due graphic novel contemporanee.
Daniele Barbieri
È difficile pensare a due graphic novel più differenti tra loro di Atto di Dio, di Giacomo Nanni (Rizzoli Lizard), e Hasib e la Regina dei serpenti, di David B. (Bao), entrambe uscite negli scorsi mesi. Eppure, sotto a questa evidente diversità, di temi come di modi, si nasconde un progetto comune, che in ambedue i casi sottolinea la radicale diversità tra il raccontare a fumetti e il classico raccontare a parole, come si fa nel romanzo, e anche tra il raccontare a fumetti e il raccontare audiovisivo, come si fa nel film.
Atto di Dio è una successione di eventi che potremmo definire quasi-non-storie, raccontate da voci narranti che non sono mai umane, e quindi impossibili: il capriolo smarrito, la montagna, la carabina, il terremoto, il piccolo crostaceo. Le immagini sono sgranate, colorate con un retino troppo grosso e spesso evidenti rielaborazioni da originali fotografici: riferimento sufficientemente evidente a sguardi che non appartengono a nessuno, oggetti pubblici, visioni da quotidiano o da rotocalco – ulteriormente allontanate da una qualsiasi soggettività dall’elaborazione straniante cui sono state sottoposte. L’evento principale a cui si lega il titolo della storia, cioè il terremoto nelle Marche, e in particolare sui Monti Sibillini, finisce per annegare in questa naturalità straniata dal contrasto tra una non-soggettività naturale e una falsa soggettività massmediatica.
Hasib è invece la narrazione a fumetti di un estratto da Le mille e una notte, in cui Sheherazade racconta, tra la notte quattrocentottantadue e la quattrocentonovantotto la miracolosa storia di Hasib, che incontra la Regina dei serpenti, la quale gli racconta la storia del re Buluquiyya, il quale, nel corso delle proprie avventure, sempre intrecciate con la vicenda della medesima Regina, incontra a sua volta il Principe Janshah, che si sta lasciando morire sulla tomba dell’amata, e racconterà pure lui la propria vicenda. Questa organizzazione narrativa a scatole cinesi è certamente parte del fascino della raccolta di fiabe arabe, intesa com’è a portare il lettore sempre più in là, sempre più addentro nel mondo favoloso del mito (come già capì bene a suo tempo Pier Paolo Pasolini, girando la propria celebre versione cinematografica). E la medesima immersione senza scampo viene riproposta qui dai disegni di David B., sospesi tra schematizzazione grafica e continua invenzione visiva, dove l’elemento narrativo si intreccia continuamente con una sorta di sontuosa decoratività, con riferimenti all’immaginario visivo di quella parte dell’Islam che non ha mai rinunciato alle figure, dall’Iran in poi procedendo verso Est….
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Sono molto dispiaciuto che la rivista non ci sia più. Queste riproposte continueranno con frequenza bimestrale sino a esaurimento.
Alberto Breccia, “Un tal Daneri. Occhio per occhio”, 1976
Alberto Breccia, “Un tal Daneri. Occhio per occhio”, 1976
Non ho ancora parlato di Alberto Breccia, in questa rubrica. Non ho ancora parlato di tanti, certo, perché sono troppi gli autori di cui varrebbe la pena di parlare. Però, che mancasse Breccia era davvero una mancanza notevole, di quelle cui, appena te ne accorgi, è indispensabile porre rimedio. Io credo che, insieme a Will Eisner, Alberto Breccia sia stato davvero il maggiore fumettista del XX Secolo. Argentino, anche se nato in Uruguay, di evidenti antenati italiani, la sua vita corre dal 1919 al 1993. L’avevo anche conosciuto di persona un anno prima della sua scomparsa, e gli avevo inviato una copia del mio I linguaggi del fumetto, dopo aver saputo, da amici comuni, che a Lucca mi cercava per chiedermela: un grande onore, per me.
Voglio guardare con voi le due tavole conclusive di una storia del 1976, sceneggiata da un altro grande autore, purtroppo pure lui scomparso, Carlos Trillo (1943-2011). La storia si intitola “Occhio per occhio” e fa parte della serie Un tal Daneri.
Daneri, il protagonista della serie, è un sicario, però è anche un uomo con un singolare eppure profondo senso morale. Da accenni qua e là nella serie, si capisce che una volta era stato qualcuno, prima di ridursi così. Nella storia di cui ci occupiamo, Daneri entra in un locale notturno dall’aria equivoca e, dopo essersi accertato dell’identità del pianista, gli spacca le mani chiudendo di colpo e violentemente la copertura della tastiera. Uscito, mentre cammina da solo per le vie notturne di una città fatiscente, si accorge di essere seguito; ma il suo accenno di difesa quando l’inseguitore si lascia vedere è inutile, perché non c’è intenzione di aggredirlo. Anzi, l’inseguitore dimostra di conoscerlo e di avere persino un’oscura ammirazione per lui. Però gli deve dire come stanno le cose davvero: Julieta, che ha commissionato a Daneri il misfatto, gli ha certamente raccontato che il pianista la tormentava. La verità, invece, era che lei tormentava lui, perché lui aveva osato lasciarla; e lei, forte del suo potere, gli aveva impedito di trovar lavoro ovunque, se non in quel locale di infimo livello – e poi ora anche questo: “La vita è un tale schifo!” è la sua conclusione, prima di andarsene e lasciare Daneri a vagare solo e meditabondo per le strade buie della città.
In questo vagabondaggio pieno di forme quasi sformate, solo un oggetto appare ben definito: il manifesto di una rivista, che ne presenta la copertina mostrando Julieta come viso dell’anno. È poco dopo di questo che il vagabondare di Daneri giunge a termine, e ci ritroviamo con le due tavole finali, che potete leggere qui a fianco.
Osserviamo dunque le prime quattro vignette della prima tavola. Due stili grafici diversi vengono messi a contrasto. Da un lato c’è la figura di Daneri, anziano, quasi informe lui stesso, ma soprattutto disegnato attraverso macchie d’inchiostro incerte e tremolanti, e reticoli di linee altrettanto incerti e complessi a definire le rughe del suo volto. Tutte le pagine che precedono (con l’unica eccezione del manifesto che mostrava Julieta, e alcuni altri manifesti pubblicitari) sono disegnate con questo medesimo stile o qualche sua variante ugualmente “sporca” – e anche per questo la città attraversata da Daneri nella notte appare così fatiscente.
Dall’altro lato c’è Julieta e il suo appartamento. La figura di lei è tracciata con le linee sottili di un pennino su fondo bianco. È una figura giovane ed elegante, con pose da rotocalco. E pure il “lussuoso palazzo in centro” in cui vive è rappresentato con uno stile grafico ben diverso da quello di Daneri e del suo mondo, basandosi fondamentalmente sul collage fotografico, e quindi su linee nette e ben definite, colori uniformi, sfumature di luce… Dal punto di vista grafico, Breccia non fa dunque che ribadire l’opposizione tra i due mondi sui quali si sviluppa il racconto: il bassofondo in cui si aggira Daneri, e l’alta borghesia, la ricchezza, l’agio, in cui vive Julieta.
Ma, a questo punto, sappiamo anche, grazie alla rivelazione dell’inseguitore notturno, che si tratta di un’opposizione di facciata: Julieta non è meno corrotta del mondo a cui si è rivolta per punire il suo ex-amante. La bellezza sua e del mondo in cui vive è una semplice apparenza.
Per questo, una volta concluso il contratto con il pagamento della prestazione, Daneri può vendicarsi per essere stato indotto a compiere la sua missione per mezzo di una menzogna. Così, la sua vendetta: togliere a Julieta il suo bene, quello che le permette di vivere, proprio come lei aveva fatto, per mano di lui, con il pianista: “Le mani servono a un pianista per farsi sentire. Il viso serve a una modella per farsi vedere… Occhio per occhio, diceva la giustizia degli antichi”.
Ed ecco come Breccia mette in scena questa punizione, o vendetta. I pugni di Daneri trasformano Julieta facendola passare dal proprio universo visivo di appartenenza a quello in cui vive lui. Osservate la progressione dall’ultima vignetta della prima pagina alle prime tre della pagina successiva: Daneri vi appare più o meno come era sempre apparso, ma il viso di Julieta si trova ridotto, già nella prima vignetta della seconda pagina, a una macchia; e poiché nella seconda gli resta ancora un po’ di definizione, ecco che nella terza vignetta il pugno di Daneri lo trasforma definitivamente in un grumo di inchiostro.
La trasformazione grafica è quindi una trasformazione morale: la bella Julieta è stata restituita al mondo che le spetta di diritto, quello medesimo di Daneri, il mondo sporco, il mondo che non ha speranza né denaro né una vita degna di questo nome; quello stesso mondo che, una volta superata di nuovo l’apparenza di benessere dell’ingresso dell’edificio, torna ad accogliere Daneri nell’ultima vignetta.
Osserviamo che il racconto ci presenta il mondo di Julieta come un mondo falso; di conseguenza il mondo di Daneri ci appare come quello vero. Un po’ come dire che l’unica verità possibile sta nel mondo dei disperati; è una verità amara, proprio come quelle della giustizia degli antichi. La morale cupissima di questa storia sta proprio in questo: non nella punizione della bella ingannatrice e della sua arroganza, ma nello sconsolato accorgerci che l’unica verità possibile è quella cupa degli esclusi, quelli persino la cui immagine è sporca, incerta, macchiata.
Barbieri riesce in una scrittura che inseguo da tempo, una scrittura che possa liberarsi di alcune vecchie dicotomie. Nei testi di Distonia essa trova il suo modo per affrancarsi dall’ossessione per la realtà e la comprensibilità senza diventare oscura. Tratta il materiale verbale con cura dell’andamento metrico e strofico (appena nascosto nel verso lungo, ma ritmicamente evidente) eppure evita la concettosità. Dice dalla condizione dell’osservatore lirico riuscendo a darcene conto in un acquerello astratto, dove l’acqua sta forse per il noto liquido baumaniano, forse per i regimi turbolenti della coscienza. La poesia di Barbieri, che gioca con la mancata possibilità di additarne l’oggetto, o con la presunzione delle ‘cose in sé’ di costruire un mondo, ha la capacità di essere calda e astratta allo stesso tempo. Va ragionando della condizione instabile, opaca, inefficiente dell’identità nell’anonimità fitta e rumorosa del contemporaneo, ed è insieme intima, immersiva senza essere personale. (rm)
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Sono molto dispiaciuto che la rivista non ci sia più. Queste riproposte continueranno con frequenza bimestrale sino a esaurimento.
Sergio Toppi, “Sharaz-de. Ho atteso 1000 anni”, luglio 1980
Rimaniamo sul tema della costruzione di pagina, rispetto al quale l’ultima volta avevamo esaminato una pagina del Little Nemo di Winsor McCay. Stavolta ci spostiamo molto più vicino a noi. La tavola di Sergio Toppi che state vedendo appartiene alla storia “Ho atteso mille anni” della serie Sharaz-de, ed è stata pubblicata per la prima volta sul numero di luglio 1980 di AlterAlter.
Sharaz-de consiste in una serie di racconti ispirati alle favole delle Mille e una notte, e rappresenta forse il punto più alto della produzione di Toppi per Linus e Alter negli anni Settanta e Ottanta. Quasi tutti gli episodi sono in bianco e nero, con due importanti eccezioni, da una delle quali è tratta questa pagina. Anche gli episodi di Sharaz-de condividono il tono epico e favolistico delle storie che Toppi sta realizzando in quegli anni; anzi, lo accentuano, facendosi forti delle modalità narrative della raccolta tradizionale araba.
Osserviamo dunque con attenzione questa tavola. Chi conosce Toppi sa quanto è arrivato lontano, in questi anni, dall’organizzazione tradizionale della pagina fumettistica, organizzata sequenzialmente per vignette. Spesso nelle sue tavole la ripartizione in vignette è completamente assente, sostituita da una logica di lettura che sfrutta sia le convenzioni di lettura (sinistra prima che destra, alto prima che basso) sia i poli di attrazione percettivi dell’immagine (tendenzialmente: prima il centro poi la periferia, prima le figure meglio definite – cioè più grandi, o più vicine, o più contrastate… – e poi le altre, prima le figure umane e poi il resto, prima i volti e poi i corpi…).
Qualche volta, però, un accenno di organizzazione della sequenza basata sulle vignette rimane, magari combinandosi con gli altri principi, proprio come in questa pagina. Sono infatti immediatamente riconoscibili qui quattro vignette, di cui due colpiscono l’attenzione prima delle rimanenti. Si tratta della vignetta grande quasi quanto la pagina, su cui si appoggiano quasi tutte le altre, che però catalizza l’attenzione del lettore solo per via del grande volto del demone in alto a sinistra; e della vignetta centrale, con il primo piano dell’uomo. I due volti attirano l’attenzione del lettore prima di ogni altra figura sia perché sono volti umani, sia perché occupano i due punti maggiormente qualificati della pagina: l’angolo in alto a sinistra, punto di inizio per la lettura delle tradizionali pagine del fumetto, e il centro, punto di richiamo importante per tutta la visività non sequenziale (come illustrazione e pittura).
Inoltre gli sguardi dei personaggi presenti in questi due punti nodali della pagina sono rivolti l’uno verso l’altro, ed è dunque immediatamente chiaro al lettore, il quale – ancor prima di leggerli – ha visto i balloon affollati di testo, che il tema di questa pagina è il dialogo tra il demone e l’uomo. Questo dialogo è già iniziato nelle pagine precedenti. L’uomo ha trovato per caso una giara sigillata in una grotta, e quando l’ha aperta ne è uscito un gigantesco demone, o genio, il quale è rimasto prigioniero lì dentro mille anni e ha sviluppato una grande rabbia, decidendo di uccidere chi lo tirerà fuori. Ma l’uomo è astuto e lo fa parlare, e alla fine befferà il genio potentissimo ma stupido, salvandosi, divenendo ricco, e richiudendolo per sempre nella giara.
Oltre ai due volti dialoganti, ci sono altre figure nella pagina, sufficientemente nitide quelle inquadrate in vignette, incerte, quasi sfondi insomma, le altre. È solo seguendo i dialoghi che ci accorgiamo che è presente una figura non immediatamente evidente, sulla destra: di nuovo il demone, reso difficile da individuare a causa della scarsa definizione e del colore molto simile a quelli circostanti. Il grosso della pagina, da cui questa figura non si stacca, è costituito dal variegato ma oscuro e informe corpo del genio della vignetta principale, che solo arrivando, dopo la lettura dei balloon, all’angolo in basso a destra, viene ancora riconosciuto come esalazione dalla bocca della giara aperta. In questo modo il genio appare davvero imponente, poiché occupa la quasi totalità della pagina; ma viene creata anche, dall’angolo in alto a sinistra procedendo verso il basso a destra, una progressione dal chiaro verso lo scuro, un’oscurità che poi si rivela essere il fiotto che esce dalla giara.
Dall’angolo in alto a sinistra è comunque evidente pure una progressione diagonale, che attraversa le tre vignette in cui appare la figura dell’uomo. L’immagine del demone a destra rimane percettivamente secondaria anche perché resta fuori da questa diagonale, la quale cattura fortemente l’attenzione e sembra tracciare integralmente la sequenzialità temporale della pagina.
Non capiamo comunque del tutto il gioco visivo di Toppi se non leggiamo il discorso contenuto nei suoi dialoghi, per accorgerci di questo tono così alto, aulico, da favola antica, o da leggenda. Non ci sono didascalie in questa pagina, ma in altre pagine i cartigli sono relativamente frequenti, e il loro registro verbale è lo stesso che troviamo in questo dialogo. Se ora riflettiamo in generale sulla natura delle favole e delle leggende, potremo accorgerci che si tratta di un tipo di racconti che è fatto per essere ripetuto (e ascoltato) più e più volte, in cui lo sviluppo della vicenda (comunque di solito già noto agli ascoltatori) è meno importante della sua ripetizione, la quale ha un carattere rituale, quasi da cerimonia. Non c’è quindi in loro la logica del romanzo o della novella, che ci tengono avvinti per sapere come si sviluppa la storia. Qui infatti, senza che lo sviluppo della storia scompaia o diventi irrilevante, domina piuttosto il ritorno dell’atteso, come in ogni rito che si rispetti. Ma quando l’atteso, pur confermandosi nello sviluppo del racconto, si presenta in ogni momento in forme nuove e sorprendenti, ecco che la situazione rituale si riempie di interesse anche per chi non sia interessato al rito in sé.
Questo è quello che Toppi sembra ribadire in tutte le storie per Linus e Alter, fino a Sharaz-de: lo sviluppo della vicenda, pur non irrilevante, non è certo l’argomento centrale; e il tempo al suo interno può anche, in tanti casi, rivelarsi sospeso, o incerto quanto al proprio ordine. I dialoghi contenuti in queste pagine sarebbero inutilmente lunghi in una logica serrata dell’azione. Ma dove il tempo è sospeso o incerto, è molto più importante la costruzione dell’aura mitica che non quella dell’azione.
Toppi introduce quest’aura per mezzo dei testi verbali, ma la sviluppa e carica di ineguagliabile fascino attraverso la costruzione dei suoi disegni. Certo che una sequenzialità costruita in questo modo è più debole di quella – assai più evidente e facilmente comprensibile – di una tradizionale sequenza di vignette! Ma nella prospettiva di queste storie a fumetti, una sequenzialità incerta può andare benissimo; anzi va meglio di una ben definita. Il tempo fermo, il leggendario, il meraviglioso possono costituire da soli (o quasi) una sufficiente ragione di interesse.
Franca Mancinelli, da A un’ora di sonno da qui, italic pequod, 2018
Mi ha molto colpito la lettura di A un’ora di sonno da qui, dove Franca Mancinelli riunisce due raccolte precedenti: Mala kruna (2007) e Pasta madre (2013) più qualche inedito. Il testo che cito qui sopra è il primo di Pasta madre.
Scrivo queste righe come esercizio di comprensione, per cercare di capire perché questo specifico componimento mi sia apparso così significativo. Procederò accumulando osservazioni sparse, inizialmente senza un progetto, sperando di arrivare, alla fine, a tirarne le fila.
Pur non essendo una poesia con rime, non posso fare a meno di notare che la coppia di vocali terminali dei versi genera la seguente sequenza: o-o, a-i, o-o, o-i, a-o, a-i, a-i, o-i, o-i, a-i. Dopo un inizio appena più incerto, gli ultimi cinque versi hanno chiaramente uno schema di assonanze di tipo AABBA, ma anche i primi cinque si tengono foneticamente in zona, come a creare una nebulosa che arriva poi a essere alla fine più nettamente definita. Eccetto il primo verso, poi, tutti gli altri contengono una lettera n o m tra le ultime vocali, o in loro prossimità (come nel quarto, nel terzultimo e nel penultimo, peraltro vicinissimi tra loro: noi-noi-nostri). Anche questa consonanza rafforza l’effetto di ricorrenza.
Ma la rima troppo netta viene evitata. Per questo, mi sembra, la parola ali inizia il quarto verso invece di terminare il terzo. La rima, pur imperfetta, sciami-ali, sarebbe risultata molto forte, con una chiara intonazione conclusiva. L’enjambement invece nega decisamente questa conclusività, e il punto fermo dopo ali viene immediatamente riaperto dal seguito del verso. Questa riapertura, inoltre, segnala l’inizio di una nuova fase: dopo due periodi molto brevi, il periodo che si apre qui proseguirà sino alla fine. Ma il fatto che i due soli punti fermi intermedi della poesia si trovino entrambi in posizione non conclusiva di verso li rende più deboli, suggerendo implicitamente quella stessa continuità che poi si manifesta compiutamente dal quarto verso in poi.
Sembra che queste due osservazioni, una fonetica e l’altra sintattica, ancora prima di prendere in considerazione elementi più apparentemente centrali, concorrano nel mostrare come nel corso dei versi si passi da una minore a una maggiore compiutezza. La stessa sensazione si prova iniziando a guardare più da vicino la sintassi e il discorso che ne viene articolato.
Il primo periodo, iniziando in minuscolo, dà l’idea che manchi qualcosa prima del suo inizio effettivo. L’espressione stessa cucchiaio nel sonno, prima di poter essere compresa come un’apposizione de il corpo, si presenta come un’apparizione irrelata, enfatizzando l’anormalità dell’associazione del cucchiaio con il sonno. Quando, a fine verso, scopriamo che il cucchiaio è il corpo, l’espressione cucchiaio nel sonno ha già sollecitato in noi degli interrogativi. Il seguito della proposizione li risolve e insieme rilancia: cucchiaio è infatti semanticamente compatibile con raccoglie, e sonno con notte. Di conseguenza si capisce che il corpo raccoglie la notte perché è cucchiaio nel sonno. Ma che cos’è il raccogliere la notte? (Aggiungo, en passant, l’allitterazione tra i tre termini cruciali cucchiaio, corpo e raccoglie)
Il secondo periodo è breve e compiuto, ma inizia e finisce a mezzo verso. Come il primo periodo, è tagliato in due da una virgola, anche se qui la virgola separa due diverse proposizioni (ma questo potrebbe valere anche per il primo periodo, leggendolo come il corpo, che è cucchiaio nel sonno, raccoglie la notte). Mentre il primo periodo delinea un’operazione di raccolta, qui erompe una figura di dispersione (Si alzano sciami), secondo un classico schema tesi-antitesi. Si noti che questo schema tesi-antitesi si trova ribadito foneticamente anche lungo i tre versi su cui il secondo periodo è distribuito: nel verso 2 e nel 4 le vocali dominanti sono a e i (Sialzano sciami, ali), mentre nel verso 3 dominano o ed e (sepolti nel petto, stendono); nel verso 2 e nel 4 dominano le consonanti liquide e nasali (Si alzano sciami, ali), mentre nel 3 le esplosive palatali e dentali (sepolti nel petto, stendono). L’allitterazione sulle sibilanti è invece pervasiva.
Un’opposizione tesi-antitesi richiede una sintesi. Il terzo periodo, prima ancora di mostrarsi tanto più complesso e duraturo dei precedenti, si apre con un’aggettivo esclamativo-interrogativo, come quanti, il cui tono è immediatamente diverso da quello dei periodi precedenti. Un buon attacco, insomma, per la sintesi. Ed ecco che, infatti, gli animali richiamano gli sciami, e il migrare il movimento già evocato dall’alzarsi; ma gli animali adesso migrano in noi, richiamando la raccolta evocata dal primo periodo, e non la dispersione del secondo. Tuttavia questa raccolta viene negata subito dopo perché la migrazione è di passaggio, e il corpo evocato all’inizio si specifica concretamente ora nelle parti del suo interno, come fossero davvero luoghi di passaggio di un migrare, passando, sostando.
Il corpo è diventato, favolosamente, un paesaggio, dove persino il cuore non è che un luogo fisico – pur non potendo smettere del tutto di essere il luogo del sentimento – come l’anca, le costole. La sintesi si è posta come tesi per una nuova antitesi: l’interno, rispetto a cui si opponevano raccolta e dispersione, ambedue presenti nel transito del migrare, ora si trova a essere al tempo stesso un esterno.
La ripresa del quanti non è preceduta da un punto, ma da una semplice virgola, il che sottolinea la continuità pur nella riapertura del discorso. Ma di colpo gli animali, sin qui figura materiale, naturale, oggettiva, si trovano a essere a loro volta soggetti: vorrebbero! E poiché vorrebbero non essere noi, evidentemente invece lo sono, configurandosi come metafora di qualche pulsione o desiderio, che ci appartiene ma non del tutto, che sta nel nostro corpo ma non coincide e non appartiene davvero al nostro io. Vorrebbero, insomma, non restare impigliati tra i nostri contorni di umani. Ed ecco che le figure del corpo nominate prima, specie le costole, sembrano delineare il contorno di una gabbia (toracica, ma non solo).
Il movimento verso la dispersione c’è, e continua a essere forte, ma di colpo diventa impossibile, negato, e la raccolta finisce per vincere (ecco, insomma, che cos’è quella notte che il corpo raccoglie). Interno ed esterno sono adesso la stessa cosa, ma sono anche un interno da cui non è possibile uscire. Si arriva insomma a una sorta di fallimento della dispersione: e tuttavia gli ultimi verbi significativi sono quei non essere noi e non restare impigliati, che evocano invece un successo – pur già negato dal condizionale di vorrebbero.
L’ambivalenza tra raccolta e dispersione continua a manifestarsi, insomma, anche nel momento in cui la conclusione sembra sancire la vittoria della prima delle due istanze. E le figure del mondo esterno in cui quegli animali si muovono continuano a mantenere la loro materialità anche quando diventa chiaro che solo l’interno è in gioco qua.
Insomma, tutto il gioco formale ci porta a questa chiusa apparentemente così preparata e definita (anche la rima debole, ma in questo contesto assai significativa, tra quanti e umani rafforza il senso di chiusa – proprio come avrebbe fatto, più sopra, quella invece negata tra sciami e ali), ma la chiusa stessa è piena di ambivalenze proprio mentre sembra fornirci una conclusione.
Sedere a una tavola ignota.
Dormire in un letto non mio.
Sentire la piazza già vuota
gonfiarsi in un tenero addio.
Non so. La questione della semplicità in poesia mette a me, e non solo a me, dei problemi. Questi quattro versi di Sandro Penna, scritti in qualche momento tra il 1938 e il ’55, quando in Italia imperava la complessità semantica neodannunziana degli ermetici e già si preparava l’ipercomplessità antidannunziana della neoavanguardia, mi imbarazzano davvero. Voglio dire: perché questa quartina di banali novenari, fatti di parole del tutto normali, con rime del tutto scontate, alla fin fine mi sommuove e magari mi turba, mentre gli alti lai di una recente giovane poetessa che canta il proprio (legittimamente doloroso) cambio di sesso continuano ad apparirmi banali e noiosi?
Poesia semplice contro poesia semplice, per riprendere i termini di un tutt’altro che banale intervento di Mario De Santis uscito in questi giorni e più volte ripreso nel dibattito in rete. Dovrei dire, per semplificare, che quella di Penna mi appare poesia semplice, mentre quella della Vivinetto poesia banale, dove la differenza sta nel fatto che di semplice in Penna c’è solo – per così dire – il livello di base, e quindi si tratta, in verità, di una pura apparenza di semplicità; mentre nella Vivinetto si resta tutti lì, e dalla semplicità non si esce: c’è solo quello, nient’altro. Dirlo è facile, ma spiegare perché lo è forse un po’ meno.
Diciamo che troppo spesso, leggendo la poesia banale, succede esattamente quello che ti aspetti che succeda: escono le parole che è normale che escano, insomma. La poesia banale parla con parole non sue: sono le parole della chiacchiera, direbbe Heidegger, quelle depositate nei discorsi che si fanno continuamente. Ma non solo parole: nella poesia banale escono anche i concetti che ti aspetti che escano. Il discorso è quello preconfezionato del parlare quotidiano, del pour parler, tanto per usare un’altra espressione cara agli esistenzialisti. Nella poesia banale il discorso è preconfezionato due volte (e in verità molte di più). Non c’è mai una sorpresa: il dolore è come deve essere, il sollievo pure; l’amore, la morte, il piacere, il sesso, l’avventura… tutti sono come devono essere, come ci aspettiamo che siano.
La spocchia di un poeta complicato come Edoardo Sanguineti non gli ha impedito di definire efficacemente poetese la lingua della poesia banale. In verità, il poetese non parla, non dice. Si limita a confermare quello che ci aspettiamo. Si limita a rinchiudere un dolore (se è di un dolore che si parla) nella cornice scontata del dolore, quella che tutti con facilità riconosciamo come tale. In altre parole, si limita a nominarlo: insomma, il poeta dice “dolore”, e tutti i lettori rispondono “ah”!
Molto più difficile è spiegare perché i versi di Sandro Penna, nonostante la loro semplicità di superficie, non ricadano sotto la specie della banalità e del poetese. Meglio: non ricadevano quando sono stati scritti e continuano a non ricadervi oggi, tanti anni dopo. Potremmo dire, quanto a quando sono stati scritti, che la loro semplicità discorsiva si contrappone agli Avorio luziani che costituivano il modello di quegli anni. Ma sarebbe facile allora ribattere che la semplicità delle parole della Vivinetto si contrappone alla complessità della cosiddetta poesia di ricerca (modello, anche se molto meno, di questi anni). Evidentemente non si tratta di una ragione sufficiente.
La mia impressione è che, nella loro semplicità, le parole di Penna non siano affatto scontate. Per esempio, queste frasi così brevi si interrompono prima di poter diventare banali. Gettano l’amo della banalità, ma poi non abboccano. Ci fanno credere per un attimo alla scontatezza, ma poi non ci cadono.
A ben guardare, poi, questa colloquialità normalità innocenza quasi improvvisazione sono davvero soltanto apparenti. Guardiamo da vicino questi quattro regolari novenari, che giocano astutamente il loro appartenere metrico a uno schema popolare frustissimo, ma già ambiguamente nobilitato da Giovanni Pascoli qualche decennio prima. Si tratta di quattro versi con il medesimo andamento ritmico e la medesima struttura proposizionale, fatta di un verbo all’infinito, un complemento e un suo attributo. I versi sono a rima alternata, ma le rime alternate non si limitano al finale del verso: anche sedere si riallaccia foneticamente a sentire, e tavola a piazza, a livello di assonanze e consonanze, specie se contrapposte, negli altri due versi, a dormire con gonfiarsi (prima vocale o, e poi la r e la i) e letto con tenero (insistenza sulle e, t e o).
Eppure, questa struttura, resa ancora più regolare e quadrata attraverso queste insistenze, mostra a un certo punto un’asimmetria del tutto imprevista. Tra il primo e il secondo verso c’è un punto (come tra il secondo e il terzo), mentre tra il terzo e il quarto verso si va di seguito. Questa sorpresa (non proprio un enjambement, ma quasi) mette in movimento tutto, quasi rovinando il sistema delle simmetrie. Non è solo questione di parole e di sintassi: sedere e dormire sono due verbi che esprimono delle azioni indipendenti, ma sentire non lo è, e serve sostanzialmente a introdurre un gonfiarsi che, pur esprimendo di nuovo un’azione indipendente, è riflessivo, e quindi di colpo diverso dagli altri.
Tutto questo non è banale esibizione di controllo verbale. Esibire un controllo verbale di questo livello vuol dire far capire bene che il controllo è stato ugualmente esercitato anche sulle parole all’apparenza banali. Dimostrandosi così perfettamente consapevole di quello che sta facendo, Penna, insomma, si può davvero permettere, a questo punto, di usare le parole più banali e trite di questo mondo, senza che esse appaiano per nulla banali e trite. La sua operazione finisce per essere simile a quella (molto posteriore) della musica minimalista: nella ripetizione ossessiva ogni diversità, ogni minima discrepanza emerge enfatizzata: è proprio perché il lessico e la sintassi di Penna sono così banali, in un contesto così evidentemente controllato, che le non banalità saltano all’occhio, ci colpiscono e intrigano. Quella vaga, smagata ironia che sempre traspare attraverso le parole di Penna finisce per essere indizio di questo attentissimo controllo e del gioco consapevole sul banale; ed è attraverso di lei che le parole più usurate, proprio quelle consunte della quotidianità, possono riacquistare il peso semantico che avrebbero se non fossero consumate dalla chiacchiera, dalla banalità dei mille discorsi in cui sempre appaiono.
Non si tratta di una strategia facile. Più spesso i poeti preferiscono sancire il gap col banale rendendo più complicata la superficie del componimento. Quando leggete Montale non ricavate mai l’impressione di una poesia facile. Ma certamente la banalità si può nascondere, in altro modo, che non ci riguarda qui, anche nella poesia complicata.
I mille imitatori della semplicità di Sandro Penna vedono insomma le sue parole semplici e la sua semplice sintassi, ma non colgono il suo controllo né la sua vaghissima ironia. Per questo finiscono per risultare alla lettura semplicemente banali. Ha ragione De Santis a riconoscere alle traduzioni una certa responsabilità in questa caduta: non è davvero facile riportare in un’altra lingua la sottilissima deformità che rende affascinante il discorso di Penna! E così sarà per i tanti grandi poeti di altre lingue, ridotti in italiano alla lettera di quello che dicono. Riducete Penna alla lettera di quello che dice e avrete qualcosa di simile ai versi della Vivinetto: un ininteressante resoconto di privati turbamenti, buono giusto per spiare dal buco della serratura l’intimità di qualcun altro, che magari gode pure della propria esibizione. Certo, in tutto questo niente di male, eticamente: sono fatti di chi guarda e di chi si fa guardare. Ma che non mi si parli di poesia, please.
Guido Buzzelli, Magnus ed Enrique Breccia: tre autori non bonelliani che hanno interpretato Tex. L’analisi del loro lavoro sul ranger pare confermare uno degli assunti bonelliani fondamentali: la sceneggiatura è più importante del disegno.
*
Ho sentito più volte Sergio Bonelli ripetere, in pubblico o in privato, l’idea che per lui il fumetto fosse una sorta di cinema adattato all’universo grafico della stampa. Non doveva pensarla diversamente nemmeno suo padre Gianluigi, tanto più che, all’epoca del suo esordio, i fumetti si chiamavano comunemente “cineromanzi”, e non solo Occhio Cupo ma anche il Tex che realizzava con Aurelio Galleppini illustrava egregiamente la sua idea: disegno naturalistico, situazioni da film western, abbondanza di dialoghi.
Poi, certo, il fumetto non è il cinema e gli autori di Tex lo sapevano benissimo: il disegno doveva essere naturalistico ma poteva essere sintetico, sopperendo con questa sintesi all’assenza della fotografia in movimento. La sintesi permetteva una lettura più rapida, e di conseguenza sosteneva un ritmo narrativo più rapido, più intenso; addirittura nei rari casi in cui la parola poteva raccontare in maniera più rapida dell’immagine, non si evitava di fare ricorso alle didascalie, che pure nel cinema non hanno spazio. Proprio costruendo questi ritmi narrativi stringenti poteva contare di ricostruire sulla pagina l’effetto cinema; e i dialoghi, pur rallentando un poco l’azione, contribuivano ugualmente a questa ricostruzione.
Era l’epoca del film western e pure l’epoca in cui il mito americano, non più ostacolato dalle remore del fascismo, poteva dilagare anche in Italia. Come dire che Tex non raccontava davvero il West; raccontava semmai, per disegni e dialoghi, il Western. Sergio Bonelli riferiva anche come fosse suo padre stesso il primo a stupirsi del successo duratura di Tex, quando altri personaggi che uscivano dalla sua fertile penna non raggiungevano spesso l’anno pieno di vita – e anche Occhio Cupo, che pure a Gianluigi era molto più caro, si fermò molto presto.
Difficile definire con certezza le ragioni del successo del personaggio. Quello che è certo è che Tex raggiunge presto una sua specifica modalità narrativa, che rimane sostanzialmente stabile dagli anni Cinquanta sino a oggi: quella che i suoi lettori imparano ad apprezzare e ritrovano mese dopo mese costantemente, identica o quasi pur nella variabilità delle storie. Ci sono situazioni ricorrenti, tipi di dialoghi o addirittura dialoghi specifici (pensate a quello che succede quando Tex e Kit entrano in un ristorante e fanno un’ordinazione), e soprattutto una costanza sostanziale nell’andamento narrativo. Anche attraversando la più complessa delle trame (che in Tex non mancano affatto) il lettore si trova sempre rassicurato dal fatto che le situazioni sono riconoscibili e pure lo sono le modalità della loro risoluzione: leggendo Tex, insomma, ci troviamo lontani, nel selvaggio West, ma siamo sempre ugualmente a casa.
Non è vero che i cosiddetti contenuti non hanno alcun valore in poesia. Ma l’errore opposto a questo è peggiore e molto più diffuso. Nelle nostre scuole si studia il Pessimismo Leopardiano e pure quello di Eugenio Montale. Nei testi critici i poeti vengono presentati come filosofi (minori) che si esprimono in versi. Tutto il discorso critico si concentra su quello che nei loro versi viene detto.
Come se fossero versetti biblici da cui è necessario ricavare ermeneuticamente (così come ci insegnò a fare Origene nel Terzo Secolo) delle profonde verità nascoste, i versi dei poeti diventano profetici e ieratici: la sensualità della vita in D’Annunzio, le piccole cose quotidiane dei Crepuscolari, la follia di Dino Campana, il senso tragico della vita in Montale, i rapporti familiari in Saba, la tradizione gitana in García Lorca, lo svuotamento del senso della vita in Eliot, l’esaurimento storico in Sanguineti… Questo è – quando va bene – ciò che si deve ricordare dei poeti.
Proprio perché si tratta di grandi poeti, ciascuno di loro ha provocato in noi, prima o poi, almeno un fremito, e lo abbiamo amato per questo. Questo, io credo, è ciò che la poesia dovrebbe fare: provocare fremiti. Non si tratta di orgasmi da quattro soldi; la poesia non è eroina. Quando la poesia ci procura un fremito è perché ha smosso qualcosa di profondo; ha spostato delle pietre assestate sul fondo della nostra coscienza, pietre di cui talvolta nemmeno ricordavamo l’esistenza. Ma non è affatto detto che queste pietre concettuali che vengono smosse abbiano qualche campo in comune con ciò di cui la poesia parla.
Più volte mi sono ritrovato a pensare che amo Leopardi nonostante il suo pulcioso pessimismo…
Ho partecipato a una polemica su Facebook rispondendo a caldo. Continuo a pensarla come in quelle risposte a caldo; tuttavia, a freddo, mi rendo conto che c’è in gioco qualcosa di più.
Ecco i fatti, cercando di fare meno nomi possibile (ma qualche identità è ovvia, e qualche altra molto facilmente ipotizzabile da chi segue le notizie del piccolo mondo della poesia italiana). Qualche giorno fa si diffonde la notizia (via Facebook, ma citando un noto quotidiano nazionale) che un noto poeta, di dichiarata appartenenza a CL, avrebbe ricevuto uno specifico apprezzamento da parte del Ministro degli Interni, cui avrebbe risposto positivamente, avrebbero bevuto un caffè insieme e si sarebbe “consolidata un’amicizia schietta”.
Qualche giorno dopo il noto poeta pubblica su un noto sito di critica un’appassionata autodifesa nei confronti dei suoi detrattori. Un poeta e critico, che scrive sul medesimo noto sito pur non condividendo per nulla le posizioni del noto poeta, ci tiene a far sapere che il noto sito, pur essendo diretto dal noto poeta, non gli ha mai richiesto nulla né censurato nulla – e che quindi, pur scrivendo sul medesimo noto sito diretto dal noto poeta, non si sente affatto colluso; e continuerà a farlo, anche eventualmente parlando male del noto poeta.
Il poeta e critico aggiunge che sino a poche ore prima nemmeno sapeva che il noto sito fosse diretto dal noto poeta, e che a maggior ragione per questo non può essere colluso. Salterà fuori più tardi che l’informazione era falsa, e che il noto poeta non è il direttore del noto sito, ma solo un suo (importante) collaboratore.
Nel frattempo, il dibattito su Facebook si è già scatenato. Quello che io ho obiettato (gentilmente – ma altri l’hanno fatto con molta più durezza) all’amico poeta e critico è che poco importa che non sapesse e che esprimesse con libertà il suo pensiero, antagonista a quello del noto poeta. Se il noto poeta era il direttore del noto sito, avrebbe certamente potuto spendere il fatto di dirigere un luogo di libere opinioni per mostrare al mondo di essere un vero democratico. Qualunque cosa il mio amico poeta e critico scrivesse sul noto sito sarebbe stata utilizzabile in questo modo, fornendo una patente di democraticità al ciellino amico del Ministro degli Interni.
Qualcun altro ha detto molto più chiaramente di me che non sapere non è una scusa; e che, una volta che sai, il minimo sarebbe prendere pubblicamente le distanze. In caso contrario si sarebbe comunque collusi con il noto poeta e con i suoi amici politici.
La notizia che il noto poeta non è davvero il direttore del noto sito, arrivata nel bel mezzo della discussione, non ha placato la polemica, perché comunque il noto sito è condotto da qualcuno dei suoi, e il gioco si trova soltanto appena differito.
Non mi dilungo sulla polemica perché non è di quello che voglio parlare. Il punto è che, riflettendoci a freddo, mi sono reso conto che qualcosa di cruciale è successo. Fino a sei mesi fa il fatto che un poeta e critico potesse scrivere in uno spazio di opinioni politiche diverse dalle proprie non sarebbe apparso un grande problema. Il noto sito si occupa di poesia, non di politica. Le divergenze sono di carattere estetico e poetico. Si tratta di uno spazio di dibattito come altri, dove le personali convinzioni di chi lo conduce contano poco, purché tra queste ci sia il rispetto delle opinioni di chi ci scrive e di chi commenta.
In altre parole, io so che tu non la pensi come me, ma nella misura in cui tu rispetti il mio pensiero io rispetto il tuo, e possiamo discutere – anche aspramente, se serve, ma discutere. Poiché mi fornisci lo spazio per farlo, grazie, e va bene così.
Qual è la soglia oltre la quale questo accordo non diventa più possibile? Credo che la soglia stia proprio nell’assenza di rispetto reciproco; o meglio, per quanto mi riguarda, anche solo nel sospetto che l’altra parte non rispetterebbe il mio pensiero – censurandolo o (assai peggio) strumentalizzandolo. Personalmente non avrei mai dato il mio contributo a spazi che io sapessi legati a personalità fasciste o leghiste, nemmeno per dire peste e corna di loro. Avrei sentito comunque come una sorta di connivenza il fatto stesso di scrivere sul loro spazio, persino scrivendo male di loro: perché comunque la legittimazione dello spazio di pubblicazione che gli si dà pubblicandovi viene prima ed è assai più fondamentale di qualsiasi opinione ci si vada a esprimere. Il vostro scritto potrebbe anche non venire letto, ma il vostro nome è lì.
Sino a qualche mese fa il noto sito stava ancora tranquillamente dal lato buono della soglia; ora si trova invece sul lato cattivo. Che cosa è successo? Be’, certamente la notizia della collusione del noto poeta con il Ministro degli Interni ha la sua parte in questo, ma se il Ministro fosse stato quello di una qualsiasi passata legislatura, probabilmente il passaggio di soglia non sarebbe stato così brusco.
Il punto è che l’attuale Ministro degli Interni sta rappresentando in questo momento esattamente il modello di quella intolleranza che non è proprio possibile tollerare. Lo si vede, visto che parliamo di social media, proprio dagli interventi che lui vi fa; per non dire di quelli, atroci, stupidi, disinformati, aggressivi, dei suoi sostenitori. A leggere, quando capita, quelle frasi, si ha davvero la sensazione che con queste persone non sia proprio possibile alcun tipo di dialogo. Non puoi addurre ragioni; non puoi spiegare; non puoi fare informazione.
Certo, il noto sito non è questo. Il noto sito pubblica interventi colti, scritti da persone che hanno opinioni critiche e anche politiche molto diverse tra loro. Ma che fiducia potrò avere io in un luogo di pubblicazione che non possa dissociare le proprie opinioni da quelle di un amico del Ministro degli Interni? Cioè di un amico di colui che è il primo a fare disinformazione, a spacciare notizie false e allarmismi infondati, fomentando la marea dei suoi ottusi sostenitori.
Me ne rendo conto a partire dagli stessi aggettivi che mi vengono fuori. Tra le vittime della politica di quest’uomo c’è prima di tutto la possibilità di dialogo: che dialogo posso avere con chi non è capace di dialogare? Ma siccome quest’uomo è furbo, lui sa benissimo che in questo preciso momento rendere difficile il dialogo lo favorisce, porta acqua al suo mulino. Possiamo sperare che questa condizione non duri a lungo, ma al momento sembra che sia davvero così.
Per questo mi ripugna la sola idea di collaborare con spazi di pubblicazione che facciano riferimento, diretto o indiretto, a quel mondo. Non li sosterrò, e mi dispiace se dentro ci sono persone oneste che non hanno capito di che cosa si stanno rendendo complici. Non smetterò di dialogare, ma certo non da lì dentro. Per fortuna almeno il Web ci fornisce tutto lo spazio che vogliamo.
E non vale l’argomento che sostiene che qui si discute di poesia, non di politica. Il primo a fare politica attraverso il proprio essere poeta è, tra l’altro, proprio il noto poeta. Personalmente, sono pronto a difendere la poesia di Ezra Pound, tra i maggiori poeti del Novecento, ma non difenderò le sue scelte politiche e certamente mai e poi mai farei né l’una né l’altra cosa in uno spazio gestito da CasaPound. Io magari parlerei di poesia, ma il mio nome non parlerebbe di poesia: il mio nome parla comunque di me, e dice che io sono lì. Sono responsabile di chi si può fregiare del mio nome quanto e più di quanto sono responsabile per quello che dico e scrivo; anzi, tanto più scrivo cose intelligenti, libere e apprezzabili, e tanto più il mio nome vale, e non può essere lasciato in mano a certa gente.
Xenofobia è una parola difficile e poco usata, con quella x per cominciare e quello xeno da gas raro. Razzismo è una parola molto più facile: non solo è palesemente condannata dalla storia e possiede un’aura funesta da Olocausto e KuKluxKlan, ma l’aggettivo corrispondente, razzista, è facilmente omologabile ad altre parole con valore offensivo: fascista, sessista, machista, sciovinista, assenteista, fancazzista, buonista e così via. Così, se dobbiamo esprimere vivamente il nostro sdegno per comportamenti che vanno in quella direzione, diremo che il nostro ministro degli interni è razzista, non che è xenofobo. E invece ha ragione lui, col suo compare, e in Italia non c’è pericolo razzismo.
La xenofobia esiste da lungo tempo: è la paura del diverso, che può andare dalla semplice diffidenza alla violenza sanguinaria. Non c’è bisogno del razzismo per essere xenofobi: quando un Bolognese dà degli stupidi ai Modenesi sta esprimendo una tradizionale (piccolissima) xenofobia. La razza non c’entra proprio nulla. Eppure otto secoli fa ci massacravamo allegramente tra vicini, e dare del modenese a un Bolognese (o viceversa) era un’offesa grave.
L’idea di razza nasce tra sei e settecento, mi pare (ma per i dati precisi e una magnifica serie di informazioni e approfondimenti in materia, il liro da leggere è quello di Maurice Olender, Razza e destino, Bompiani, che ho avuto la ventura di tradurre qualche ano fa), e soprattutto riceve dalla scienza ottocentesa una patente di oggettività, di cui è molto interessante ricostruire la storia – anche per capire quanto valgano le Grandi Verità scientifiche. Ai primi del Novecento, il razzismo non era un’ideologia vergognosa: era quello che era considerato un dato di fatto, perché la scienza aveva dimostrato che le razze umane esistevano.
Più discusso era se questa distinzione autorizzasse a ritenere che vi fossero razze superiori e razze inferiori, ma la scienza dava risposte pure a questo, e la famosa teoria dell’asse del profilo del volto (quasi verticale negli europei, molto diagonale nelle scimmie, un po’ diagonale negli africani) dimostrava ai più che i negri erano certamente una via di mezzo tra gli umani e le scimmie. Non tutti – va detto – ci cascavano; ma per i più si trattava di una verità dimostrata.
Viste le conseguenze storiche, specie in Germania, non si poteva continuare dopo la metà del Novecento a sostenere la superiorità o inferiorità delle razze. L’idea stessa che vi siano delle razze umane era diventata pericolosa. L’idea di razza è quindi stata dimostrata infondata dalla scienza, che oggi può provare con la stessa infallibile certezza (che prima aveva in senso inverso) che le razze umane non esistono. Mi fido poco di questa conclusione perché non sembra avere molto più valore della precedente, che andava in senso inverso. Il punto è che razza è una parola non così facile da definire tecnicamente ed esattamente; insomma, ci metti dentro un po’ quello che vuoi: può darsi che la razza per come la intendevano gli scienziati dell’Ottocento esistesse davvero, e che per come la si intende oggi non esista affatto. In ogni caso è la parola stessa che è pericolosa: i cani e i cavalli se ne fregano delle razze, e scopano tranquillamente in maniera interraziale. Sono i loro padroni a preoccuparsi della purezza della razza, per motivi di prestigio e di valore economico. A seconda di quello che devo fare con cani e cavalli, o con umani, sarò più o meno interessato a pensarli in termini di razze. In ogni caso, quando si parla di razza non si parla di soggetti, ma di oggetti; non di scambio tra eguali, ma di sfruttamento tra diseguali.
Ma lasciamo questi discorsi astratti, e torniamo alla realtà della comunicazione di massa. Abbandonata dalla scienza, l’idea di razza oggi non affascina più nessuno, e tutti sanno che razzista è un’offesa pericolosa. Non c’è però bisogno di essere razzisti per essere xenofobi. La parola etnia (che è talmente vaga da non voler dire nulla, ma ha una patina di scientificità data dal fatto che esiste persino una scienza che si chiama etnologia) è oggi un pericoloso sostituto della parola razza: è persino una parola simpatica, e tutti ascoltiamo la musica etnica, andiamo a cene etniche ecc. Inoltre, mal si presta a esser base di parolacce e insulti: sfido chiunque a coniare la parola etnista per deprecare qualcuno. La differenza che prima era di razza oggi è di etnia; e non c’è bisogno di alcun avallo scientifico. Anzi, in epoca di scie chimiche, di antivaccinisti e di vegani, meno è scientifico e meglio è, perché la scienza puzza ormai di multinazionali, e l’antiscientificità possiede quel bell’odore rustico di capre, tradizionale e rassicurante, che piace molto ai nostri due partiti di governo.
Ecco perché Salvini ha ragione a dire che in Italia non c’è nessun rischio razzismo, e ha ragione l’altro a dargli ragione. Hanno ragione perché è vero, ma è anche vero ed evidente che si tratta di una furbonata. E purtroppo siamo noi, proprio nel nostro sdegno, che diamo loro il terreno per furbonate come questa. Finché si accusa Salvini e i suoi di essere razzisti, essi hanno del tutto ragione a dire che non è vero. Infatti non sono razzisti; sono xenofobi, di quelli tradizionali, di pancia, con tanto di odore di capre attorno (con tutto il rispetto per le capre vere, di cui apprezzo persino l’odore).
Insomma, lo sdegno va bene, è doveroso. Questa gente ci sta rovinando in almeno due modi: in primo luogo inventandosi un nemico che non c’è, e rivolgendo verso quello delle risorse che andrebbero invece utilizzate per la convivenza civile; in secondo luogo, distraendo l’attenzione dai problemi reali, come fanno le dittature quando incominciano a pencolare, e si inventano una guerra delle Malvine per nascondere le magagne e portare tutti dalla stessa parte. Lo sdegno va bene, ma definire questa gente razzista è un po’ come riconoscere che noi non capiamo che cosa sono davvero, e insistere con un’accusa che non li tocca, perché è sbagliata.
Insomma, che fare? In verità non lo so, ma di sicuro non questo. Le parole col tempo si consumano, e anche le offese perdono la punta. Razzista è spuntatissima, e non serve più a niente.
p.s. Avevo già affrontato questo tema qui, qualche anno fa, parlando più specificamente di antisemitismo.
Leggo l’articolo di Andrea Inglese “Iconoclastia artistica e concetto di littéralité”, apparso su Nazione Indiana (ma già prima in un volume collettivo) e apprezzo, come sempre, la chiarezza di esposizione e l’originalità del tema. Ne condivido, oltre a una serie di premesse, l’atteggiamento critico e “anticalcistico” (sottolineato in uno dei commenti), ed è proprio in questo spirito di critico apprezzamento che vorrei chiarire perché la posizione della littéralité è a mio parere sostanzialmente indifendibile, a meno (come talvolta Inglese sembra suggerire) che non la si prenda come semplice utopia, tendenza influente ma irraggiungibile – e tuttavia, in questo caso, non so quanto davvero desiderabile.
Partiamo dalla breve antologia dei presupposti, o delle anticipazioni del letteralismo, che Inglese traccia. Si incomincia con Van Doesburg, 1930, che nel suo manifesto Basi della pittura concreta scrive: “L’opera d’arte deve essere interamente realizzata e formata dallo spirito prima della sua esecuzione. Essa non deve accogliere nulla dei dati formali della natura, della sensualità, della sentimentalità. Noi vogliamo escludere il lirismo, la drammatizzazione, il simbolismo, ecc.” E poi: “Il quadro dev’essere interamente costruito con degli elementi puramente plastici, ossia piani e colori. Un elemento pittorico non ha altro significato che ‘se stesso’, di conseguenza il quadro non altro significato che ‘se stesso’.” E poi ancora: “La tecnica deve essere meccanica, ossia esatta, anti-impressionista”.
Credo che Mondrian, già compagno di strada di Van Doesburg, prima di andarsene sbattendo la porta perché l’amico non era sufficientemente conseguente (aveva introdotto gli angoli di 45 gradi nelle sue composizioni!!), avesse già espresso concetti simili con chiarezza ancora maggiore ben dieci anni prima. In un suo articolo del 1920, “Il Neoplasticismo. Principio generale dell’equivalenza plastica”, Mondrian arriva addirittura a spiegare come dovrebbe essere una musica che segua i principi del neoplasticismo; e così ecco l’idea di una musica che abbandona l’armonia tonale e adotta nuovi strumenti che eliminano l’espressività dai suoni, in nome del tentativo di raggiungere la forma pura, fatta di contrasti puri tra elementi essenziali. Potrebbe sembrare una precognizione della dodecafonia di Schönberg, che il musicista viennese sta sviluppando nei medesimi anni; ma Schönberg non arriverà mai a essere così estremista. Siamo più vicini, semmai, al serialismo di Pierre Boulez, che troverà campo a partire dalla fine degli anni quaranta; ma pure Boulez non arriva a voler eliminare l’espressione dai suoni.
Proviamo a leggere qualche riga al proposito. Mondrian inizia dicendoci che in musica, a parte le fughe di Bach, “nella maggior parte dei casi la plastica costruttiva è velata dalla melodia descrittiva”, espressione dell’individuale; mentre “nella musica, come altrove, lo spirito nuovo esige una plastica equivalente dell’individuale e dell’universale governata da una proporzione equilibrata”. E più sotto: “La scala musicale con le sue sette note si basava sulla morfoplastica. […] La vecchia armonia rappresenta l’armonianaturale. […] La nuova armonia è una doppia armonia, una dualità di armonia spirituale e armonia naturale. […] Pertanto la nuova armonia non può mai essere com’è in natura: essa è l’armoniadell’arte”. E infine: “Se lo spirito nuovo deve essere espresso plasticamente, si deve bandire dalla musica la vecchia scala tonale, insieme agli strumenti tradizionali. Per giungere a una nuova tecnica si devono creare, oltre a una nuova composizione, anche altri mezzi plastici, come avviene nelle cosiddette arti plastiche. […] Archi, fiati, ottoni ecc. vanno sostituiti da una batteria di oggetti duri. […] Per la produzione del suono sarà preferibile ricorrere a mezzi elettrici, magnetici, meccanici, in quanto essi impediscono più facilmente l’intrusione dell’individuale.” Così, ecco la conclusione a cui Mondrian arriva: “Il contenuto della nuova opera d’arte deve essere un’esteriorizzazione plastica chiara, equilibrata ed estetica dei rapporti sonori, niente di più”. (tutti i corsivi di queste citazioni sono di Mondrian)
Mondrian parla della musica, ma ci sta dicendo anche quale sia la sua idea della pittura. Scrivete visivi invece che sonori nell’ultima affermazione, e avrete l’ideale mondrianiano della pittura: la forma pura, irrelata, intesa come un sistema di rapporti plastici. Non siamo lontani dalle affermazioni degli altri precursori citati da Inglese, come Judd, Manzoni, Klein e Buren, attraverso i quali l’iconoclastia novecentesca diventa un’affermazione della sostanza dell’opera, del suo essere stesso. Come dice Piero Manzoni: “Qui l’immagine prende forma nella sua funzione vitale: essa non potrà valere per ciò che ricorda, spiega o esprime (casomai la questione è fondare) né voler essere o poter essere spiegata come allegoria di un processo fisico: essa vale solo in quanto è: essere”. Non siamo lontani nemmeno, come fa giustamente notare Inglese, da certe affermazioni di Adorno: “In generale – scrive Adorno – le opere d’arte potrebbero valere tanto di più quanto più sono articolate: laddove non è rimasto nulla di morto, di non-formato; nessun campo che non sia stato percorso dal configurare. Quanto più profondamente questo se ne è impadronito, tanto più l’opera è riuscita. L’articolazione è il salvataggio della molteplicità nell’uno.” Qui l’articolazione è il progetto, è la plastica costruttiva di Mondrian, è l’essere interamente realizzata e formata dallo spirito prima della sua esecuzione di Van Doesburg. Ciò che è morto, non-formato, è quello che si presenta come semplice imitazione del mondo, melodia descrittiva, morfoplastica.
Andando in una direzione simile (ma senza arrivare tanto in là), nel 1964 Susan Sontag già lamentava l’ossessione dell’interpretazione rispetto ai testi letterari, ormai impostasi a tal punto da portare talvolta gli autori stessi a produrli in funzione di un’interpretazione critica. L’accezione del termine interpretazione nell’uso della Sontag è diversa da quella di uso semiotico corrente, e più vicina semmai a quella dell’ermeneutica, e potrebbe essere considerata grosso modo equivalente a trovare un senso nascosto profondo. Gli autori letteralisti o pre-letteralisti di cui parla Inglese vanno certamente nella direzione auspicata dalla Sontag, e in questo senso la loro posizione è apprezzabile. Eppure, temo, finiscono per buttare via il bambino insieme con l’acqua sporca.
Trovo comunque di grande interesse la posizione di Ponge, e la descrizione che ne fa Inglese. Mi permetto di citarla qui integralmente:
Prenderò in considerazione Méthodes, libro di Ponge uscito nel 1961 e contenente delle riflessioni di poetica redatte negli anni Cinquanta. In esso, è raccolto il testo di una conferenza presentata in Germania nel 1956 dal titolo La pratique de la littérature. Ponge insistite qui su una caratteristica tipica del poeta – sorta di precondizione psicologica o esistenziale al suo mestiere –, che è la particolare sensibilità all’esistenza del mondo e degli oggetti. Questa sensibilità riguarda, nella formulazione che ne do io, l’esteriorità radicale del mondo, ossia il versante più inospitale della realtà. Versante, per altro, che è sempre schermato dall’interiorità del sistema culturale e linguistico in cui siamo per lo più immersi. Ma Ponge sottolinea un altro aspetto cruciale della postura poetica. Bisogna infatti aggiungere a questa sensibilità generale, una sensibilità più ristretta. Ed ecco cosa scrive: “Quindi, c’è questa sensibilità nei confronti del mondo esteriore. E poi c’è una sensibilità a un altro mondo, anch’esso interamente concreto, stranamente concreto ma concreto, che sono il linguaggio, le parole. Credo che siano necessarie entrambe le sensibilità per essere un artista, ovvero avere la sensibilità nei confronti del mondo e avere la sensibilità nei confronti del proprio mezzo espressivo”.
Sembrerebbe una frase tutto sommato banale, se non nascondesse abissi di carattere epistemologico. Nel momento in cui il poeta è colpito, provocato, investito dalla realtà materiale del mondo e degli oggetti, egli reagisce, dando però le spalle a quel mondo, per concentrarsi su un altro mondo, altrettanto materiale, ma più piccolo e sfuggente, che è quello del linguaggio e delle parole. Per altro, in questo scenario si è saltati dal mondo e dagli oggetti al linguaggio e alle parole, senza soffermarsi sul soggetto, sulla sua mente, la sua interiorità, i suoi sentimenti, ecc. Ci si è limitati a sottolineare che il soggetto che scrive poesia dovrebbe possedere una propensione all’attenzione e alla sorpresa nei confronti di ciò che materialmente lo circonda. Ma veniamo al paradosso enunciato da Ponge. Per andare verso il mondo che lo provoca con la sua circostante inospitalità, il poeta è costretto a ripiegarsi sul linguaggio e sulle parole, che hanno una loro specifica consistenza materiale. Ma così facendo, non potrà mai più uscire da quel ristretto mondo linguistico, fatto di certi suoni e certe tracce, per appropriarsi in qualche magico modo dell’oggetto esteriore. L’esito di questa riflessione sembrerebbe condurre allo scacco, all’ammissione di essere finiti in un vicolo cieco. Ma Ponge fa proprio di questa difficoltà lo specifico motore della sua scrittura. La sua strategia potrebbe essere così riassunta: giocare l’estraneità del mondo contro la familiarità del nostro linguaggio; curare il nostro linguaggio, sferzandolo con l’estraneità del mondo. Ma da cosa bisogna curarlo? Innanzitutto dalle idee che in esso si depositano, dai significati, dagli usi comuni delle parole, ma anche – visto che stiamo parlando di linguaggio poetico – dagli usi che la comunità poetica fa del linguaggio. Quindi il linguaggio va s-poeticizzato, o se vogliamo s-figurato, ossia bisogna liberarlo anche dalle figure letterarie e retoriche. Tutto ciò infatti fa ombra alla realtà dell’oggetto, fa ombra alla consistenza del mondo. Questo tipo di cura è stata ben compresa e valorizzata da Gleize. La littéralité, infatti, è animata innanzitutto da un’ideologia dell’emancipazione, e ciò da cui bisogna emanciparsi sono i significati ordinari, da un lato, ma anche le immagini poetiche, dall’altro. Siamo di fronte al sogno iconoclasta di liberare la lingua dalle immagini soggettive, che sono poi, come già sostenevano gli artisti citati in precedenza, inconsapevoli sedimenti di ideologie dominanti.
Mi sembra sufficientemente evidente che le immagini soggettive evocate qui non sono lontane dalla melodia descrittiva aborrita da Mondrian, né dal morto di Adorno. Così come ugualmente evidente mi pare che questo estremo andare verso il mondo, verso il reale finisca per ribaltarsi in un concettualismo altrettanto estremo, come quello di Mondrian, di Boulez e di Adorno. E il paradosso evidentemente c’è, ma non è quello suggerito da Inglese.
L’opposizione di cui paradossalmente in Ponge si vedrebbe la negazione è infatti quella tra parole e cose, ma si tratta di una falsa opposizione. Ponge ha del tutto ragione nel trattare le parole come cose, anzi come quelle cose che ci sono familiari più di tutte le altre: curare il nostro linguaggio, sferzandolo con l’estraneità del mondo è un programma che non si può che condividere. Ma bisogna riconoscere che le cose non sono oggetti meno semiotici delle parole: sono solo strumenti che vengono utilizzati all’interno di pratiche diverse da quelle del parlare (o scrivere) che caratterizzano l’operato del poeta. Riconoscere questa identità semiotica di fondo tra parole e cose è la condizione per un programma come quello di Ponge, ma al tempo stesso lo destituisce di senso (il programma, non le opere, sue e di Gleize, che continuano ad avere un senso e un valore).
Se infatti le cose sono oggetti semiotici quanto le parole, allora anche loro sono stracolme di significati ordinari e di figure retoriche (seppur diverse da quelle dalle parole), così come di immagini soggettive cariche di ideologia (seppur diverse da quelle delle parole). L’operazione di Ponge può allora funzionare non perché ripulisca il linguaggio sporco di soggettività e poeticità attraverso il contatto con il mondo pulito, ma perché questo confronto sporca il linguaggio con una sporcizia che non è specificamente la sua, ma semplicemente quella di un diverso ambito semiotico. Si tratta, insomma, di un effetto di Verfremdung, di straniamento, qualcosa che è ben noto al Novecento anche senza andare a disturbare la letteralità e i suoi antecedenti.
In questa prospettiva, per emanciparsi dai significati ordinari e dalle immagini poetiche non c’è bisogno di idealizzare il mondo, non solo perché il mondo non è che un altro campo di significazione, ma anche perché basta giocare con un qualsiasi campo diverso di significazione per ottenere un effetto analogo (certo, poi, non tutte le scelte saranno ugualmente efficaci, ma non è l’opposizione parole/cose a fare da linea discriminante).
In questa prospettiva, inoltre, nessuna letteralità è davvero possibile. Le forme pure di Mondrian non sarebbero gli oggetti straordinari che spesso sono se non si stagliassero contro vari millenni di immagini, che forniscono inevitabilmente il quadro concettuale di riferimento attraverso cui comprenderle. Qualsiasi paesaggio cittadino è pieno di angoli e incroci di linee e colori molto simili a quelli di Mondrian, ma noi non passiamo le giornate con il naso all’aria estasiati da quello che vediamo, come succede di fronte a una sua opera. Poi, certo, arriva un Franco Fontana a fotografare quelle stesse cose che possiamo vedere tutti i giorni e di colpo ecco che riacquistano quella potenza che in libertà non avevano; ma l’operazione di Fontana è proprio quella di riproporre quelle forme come immagini, e quindi di riproporle nel confronto con i millenni di immagini che hanno dietro, e quindi con il carico di significazione che questo comporta.
La letteralità è l’illusione di poter arrivare a toccare direttamente almeno quelle cose che sono le parole, senza pagare lo scotto che già lamentava la Sontag. Eppure, nel momento stesso in cui Ponge, e Gleize, e gli autori di Prosa in prosa spoetizzano il linguaggio, si stanno già confrontando con l’ombra del linguaggio poetico, e da questa condizione non si esce. L’unico modo per uscirne sarebbe non fare letteratura: così come gli incroci di linee in giro per la città non sono opere di Mondrian, allo stesso modo le banalità dei discorsi quotidiani non sono le quartine da tavolino da caffè di Alessandro Broggi, così come il prodotto quotidiano delle deiezioni di Pietro Manzoni non è la sua Merda d’artista. Uscire dal dominio dell’illusione, come proporrebbe Daniel Buren, abolendo l’arte, impedendo le proiezioni soggettive sull’oggetto artistico, non riproporrebbe nessun accesso diretto al reale, ma semplicemente alimenterebbe l’illusione di poterlo avere, là dove l’arte, almeno, riconosce e ostenta la propria dimensione illusoria, rendendola discorso.
L’interpretazione in senso ermeneutico, esecrata dalla Sontag, è spesso davvero una jattura, e spesso a sua volta una mistificazione di carattere religioso-rivelatorio, come se il critico (novello ermeneuta biblico) potesse rivelare una profonda verità nascosta dell’opera d’arte. Io condivido con Inglese la propensione, piuttosto, a un atteggiamento più vicino al misticismo, all’evitare di spiegare, all’evitare di cercare profonde verità nascoste. Ma di interpretare, in senso semiotico, non possiamo fare a meno. La nostra stessa azione per mezzo degli oggetti è sempre interpret-azione. E non è possibile fermare l’interpretazione al primo passo, quello letterale, specialmente quando ciò che dobbiamo interpretare si presenta come operazione artistica. Senza voler arrivare alle verità profonde, di cui facciamo volentieri a meno, il percorso su cui un’opera d’arte ci conduce è evidentemente un percorso interpretativo: accanirsi contro le immagini, accusandole di tutti i mali della poesia (o della pittura, prima) è come prendersela con i migranti per i mali dell’Italia. Un falso bersaglio, insomma, per uno scopo politico (di solito, in campo artistico, almeno meno becero di quello di Salvini). Per questo, anche solo come polo tensivo, la letteralità non è desiderabile.
E’ divisa in quattro sezioni: Fiore, Calore, Rumore, Tremore.
Quando avevo quindici anni, scoprii la Quarta Sinfonia di Mahler. La trovai (la trovo tuttora) bellissima, in particolare il terzo e il quarto movimento. Ma quello davvero strano era il secondo, lo Scherzo, basato su una melodia un po’ sghemba suonata da un violino studiatamente stonato. Nella nota critica che accompagnava il disco, là dove si parlava di questo secondo movimento, comparivano le parole “una nuova utilizzazione del banale“.
Questa espressione mi colpì molto, così come mi colpirono, poco tempo dopo, le parole con cui Proust invitava a non disprezzare la cattiva musica, perché era piena dei sogni di tante, tantissime persone. Non disprezzare la musica banale, insomma. Quello che Mahler aveva fatto, in quel suo movimento di sinfonia, era proprio prendere la cattiva musica, la musica banale, e ridarle senso, semplicemente ricombinando le modalità di presentazione e accostamento dei motivi. I motivi, straniati in questo modo dalla particolare modalità di apparizione, dal contesto diverso dal solito in cui si venivano a trovare, non apparivano più banali, pur restando riconoscibili per quello che erano.
Ecco: questo è esattamente ciò che ho cercato di fare in cuore amore dolore. Ho preso sul serio la proposta di Umberto Saba, e ho usato la rima fiore-amore “la più antica difficile del mondo”. Ho giocato con le parole del poetese più abusato, senza escludere la passione, senza escludere i temi preferiti dal poetese più abusato. Che si tratti di un gioco si deve percepire, senza che questo nasconda il fatto che non si tratta di un gioco. Si tratta di ridare senso a quello che lo ha perso, inflazionato dall’abuso poetico.
è quello che voglio dire
è quello che voglio fare
è così che voglio incidere
è così che voglio amare
come un silenzio che grida
voglio entrare nel tuo cuore
come un grido nel rumore
voglio restarci invisibile
voglio restare acquattato
nelle pieghe del tuo amore
come una mistica tenia
che si nutre di dolore
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Winsor McCay, “Little Nemo in Slumberland”, 24 febbraio 1907
Stavolta ritorniamo agli inizi, non solo perché Winsor McCay è stato un autore straordinario, ma perché la tavola qui a fianco (24 febbraio 1907) ci permette di fare alcune riflessioni sul rapporto tra pagina e racconto, o – se preferite – tra dimensione tabulare e dimensione sequenziale.
Quando uscì stampata per la prima volta, questa pagina era molto più grande di questa riproduzione, ma il tipo di esperienza vissuta del lettore non deve essere stata molto diversa da quella appena vissuta da voi (e sulla differenza torneremo tra poco). Quando siete entrati in questa doppia pagina, il vostro sguardo è certamente corso sulla grande immagine complessiva della pagina di destra, e l’ha colta nel suo insieme. Solo in un secondo momento – ammesso che l’abbiate già fatto – avete esplorato sequenzialmente le singole vignette, leggendo i testi, e cogliendo nel dettaglio la storia. Oppure (e comunque in un secondo momento) avete scorso la sequenza senza leggere i testi, e avete in ogni caso colto qualcosa della sequenza narrativa: l’arrivo al palazzo di Jack Frost, la preparazione, l’ingresso al grandioso interno (e il risveglio, come sempre in una vignetta piuttosto separata, alla fine, poco influente sull’effetto d’insieme).
Questa pagina è stata progettata da McCay per questo percorso visivo: deve prima colpire nel suo insieme, in modo che l’effetto prodotto dalla visione complessiva influisca sul modo in cui poi leggerete i dettagli. Se scorrete le annate di Little Nemo, vi accorgerete che questa strategia viene utilizzata, in maniera più o meno radicale, in tutte le tavole.
La pagina mostra al primo sguardo due strutture visive simili, in alto e in basso, separate da una striscia abbastanza omogenea dove dominano le linee verticali. Osservate, nella loro differenza, le analogie tra la figura del palazzo e quella del gigante di ghiaccio affiancato dagli orsi: sono entrambe forme a simmetria centrale, con un corpo di mezzo più alto, sottolineato da una retrostante figura semicircolare (l’alone luminoso di sopra, l’aureola e gli archi di ghiaccio di sotto). I colori non sono molto diversi, e in tutti e due i casi c’è una base all’incirca orizzontale sottostante, con figure umane in leggero squilibrio. Nella striscia di mezzo le linee verticali del fondo (di colori simili alle due immagini in alto e in basso) si sommano alle linee bianche tra le vignette; e su questa base si stagliano i colori più vivaci delle figure dei personaggi, che creano un ritmo visivo variato ma ugualmente coglibile.
Se sfocate un po’ la vista, potrete cogliere nella pagina una struttura complessiva a cupola: basamenti, pareti con accenni di colonne o nervature verticali, chiusura rotondeggiante in alto. Non c’è bisogno che ne siate consapevoli: l’effetto di architettura favolosa, di luogo straordinario, viene comunque impostato nel lettore ancora prima che inizi la lettura vera e propria. E naturalmente poi, quando la lettura sequenziale ha luogo, il lettore è certamente influenzata da quello che è già stato colto.
Ora pensate alla differenza che esiste tra vedere un paesaggio dal vivo e vederlo in fotografia. Parlo di un paesaggio degno di questo nome, naturale o urbano, quelli che non possiamo fare a meno di fermarci almeno per un attimo (e se possiamo, anche di più) in contemplazione; sapendo benissimo che nemmeno la migliore riproduzione, anche a 360 gradi, potrebbe restituirci quella stessa emozione. La differenza sta nel fatto che nel paesaggio ci entriamo, ne facciamo parte; alla fotografia stiamo invece semplicemente di fronte: un’esperienza immersiva è certamente più coinvolgente di una semplicemente frontale! Notate che non è un problema di dettagli: una buona foto ci può rendere gli stessi dettagli che vedremmo al naturale. Ma sappiamo benissimo che non ne facciamo parte, e che le stiamo di fronte, e non dentro: il coinvolgimento nei suoi confronti è inevitabilmente minore.
Tuttavia l’essere umano possiede l’immaginazione. A certe condizioni, un’immagine può essere vissuta in maniera più immersiva di altre. Non arriverà probabilmente all’emozione di un’immersione reale, ma potrà evocare comunque in qualche misura un’esperienza immersiva. Una di queste condizione, probabilmente la principale, è che l’immagine sia grande a sufficienza da poter riempire il campo visivo, o almeno da avvicinarsi a questa condizione.
Da questo punto di vista, l’edizione originale di questa pagina di Little Nemo aveva dei vantaggi rispetto a quella che vedete qui, e l’immersione evocata nel lettore poteva essere quindi ancora più forte. Notate che un’altra condizione è la presenza del colore, ma si tratta di una condizione molto più debole: diciamo che in bianco e nero la costruzione di un effetto immersivo è più difficile, ma ci sono autori (come Sergio Toppi) che ci riescono benissimo lo stesso.
Ora lasciamo un attimo da parte McCay, e pensiamo all’uso delle splash page (singole, o doppie) da parte di autori più vicini a noi: Jack Kirby o Jim Steranko per il fumetto USA, Philippe Druillet o Moebius per quello francese. Cosa succede quando, nel flusso del racconto, improvvisamente voltiamo pagina e ci troviamo di fronte a un’immagine unica, grande?
Be’ in verità succedono molte cose, anche dal punto di vista degli effetti di tensione e di ritmo, e di sottolineatura narrativa. Ma qui mi preme far notare come in presenza di quella immagine improvvisamente più grande, molto grande, la dimensione immersiva si manifesti e indicativamente ci porti, noi lettori, all’interno del mondo della storia. Lo fa magari per un attimo, e non sarà proprio come essere lì di persona: ma lo è molto di più di quanto non succeda in tutte le altre vignette della sequenza, sempre fruite in maniera decisamente più frontale.
Se poi l’immagine è al vivo, senza margini bianchi, tagliata solo dal bordo della carta, l’effetto potrà essere ancora più forte, perché viene cancellata una cornice, ovvero un dispositivo di distanza. Andatevi a rileggere The Dark Knight di Miller alla luce di queste riflessioni, e vedrete come una buona parte della strategia di coinvolgimento messa in atto dal bravissimo Frank si fondi proprio su un calibrato ritmo di situazioni immersive, basate sia su singole grandi immagini sia su architetture di pagina unitarie (nonostante la pluralità delle vignette) proprio come in questa tavola di McCay.
Potrà apparire strano, ma questo video l’ho scoperto solo oggi. La parte che mi riguarda va da 1.06.38 a 1.35.08. Buona visione!
(basta cliccare su Play e dovrebbe partire già dal punto giusto)
RicercaBO. Laboratorio di nuove scritture a cura di R. Barilli, N. Lorenzini, G. Pedullà. Sala Borsa, Bologna, 29-30 ottobre 2015
PAOLA SILVIA DOLCI – I PROCESSI DI INGRANDIMENTO DELLE IMMAGINI – NOTA CRITICA DI DANIELE BARBIERI
Nel 1929, l’esperienza di un viaggio in America porta Federico García Lorca a scrivere Un poeta en Nueva York. È un libro molto diverso da quelli che ha scritto prima, e vi si susseguono e accavallano immagini molto dure e molto forti, con accostamenti di senso imprevedibili. Viene considerata un’opera surrealista, probabilmente il miglior prodotto del Surrealismo spagnolo.
È lo stesso anno, quello, in cui, in tutto un altro mondo, Frida Kahlo sposa Diego Rivera e inizia di fatto la sua carriera di pittrice. Il suo soggetto, nei venticinque anni successivi, sarà con grande frequenza un’immagine straniata di se stessa, un vedersi da fuori che permette di guardarle dentro. Anche la sua, in generale, è considerata un’opera surrealista, probabilmente il miglior prodotto del Surrealismo messicano.
Tra le tante citazioni che attraversano il libro di Paola Silvia Dolci, I processi di ingrandimento delle immagini, non compaiono né il poeta spagnolo né la pittrice messicana, e nemmeno si potrebbe davvero dire che lo stile di questo libro vada ricondotto ai loro. Eppure c’è qualcosa, nel procedimento di Dolci, che può essere ricondotto ai loro procedimenti, o forse qualcosa che rimanda a quelle atmosfere. Non è certo solo il fatto di iniziare a New York, anche se pure questo qualche suggestione in merito la crea. È piuttosto, soprattutto, l’amore per gli accostamenti inaspettati, e spesso sorprendenti, con immagini a volte violente, ma soprattutto violente relazioni tra concetti che si trovano vicini e resi vividi proprio da questa vicinanza…
Non è nuova l’idea di raccontare un evento storico attraverso le vicende personali di qualcuno, in maniera che il lettore/spettatore gli si possa affezionare e quindi comprendere il senso degli eventi – entrando intensamente in loro – molto più di quanto non potrebbe lasciar capire l’arida cronaca dei libri di storia. Nel romanzo come nel cinema come nel fumetto si tratta di un espediente diffuso ed efficace, a patto che il narratore lo sappia condurre. Ecco che il nostro presente diventa il presente di quegli eventi, e una quotidianità che abbiamo riconosciuto sufficientemente familiare (nonostante la distanza storica o culturale) sfuma improvvisamente o progressivamente in qualcosa di molto diverso, l’evento storico riconosciuto.
Se si limitasse a questo, Pompei di Frank Santoro non sarebbe che un racconto come tanti, magari più delicato e sensibile di molti altri. Ma di narrazioni degli ultimi giorni di Pompei, anche impostate in questi termini, ne abbiamo in verità avute tante…
Il fatto è che qui c’è qualcosa di più. Fin dalla primissima pagina, ancora prima che si possa cogliere un qualsiasi senso del racconto, il disegno appare rapido, approssimativo; quasi più uno schizzo, uno storyboard – dove magari le linee imperfette non vengono cancellate, ma corrette, lasciando visibile l’imperfezione. Niente colori, ovviamente; tessiture per le ombre altrettanto rapide; un senso complessivo di provvisorio e di instabile.
Poi la storia inizia a definirsi: Marcus, il protagonista, è l’assistente di un pittore che sta per fare il salto di notorietà che potrebbe portarlo a Roma e alla fama. Marcus gli prepara i colori e lo aiuta per le parti secondarie dei dipinti; ma è costretto anche ad essere complice della tresca tra il pittore e una principessa, che deve essere nascosta ad Alba, fidanzata ufficiale e sospettosa. Anche Marcus ha una donna, Lucia, insieme con la quale è scappato da Paestum, dove non vuole più tornare: a Pompei vuole diventare un ritrattista come il suo padrone, per guadagnare i soldi per metter su famiglia con lei…
In collaborazione con Logos Edizioni, pubblichiamo la postfazione di Daniele Barbieri al volume L’uomo alla finestradi Lorenzo Mattotti e Lilia Ambrosi.
Ecco, caro lettore, sei arrivato qui. Sei passato, con il protagonista di questa storia, attraverso le voci di tre donne, e di altri tre uomini. Ciascuno, come lui, ti è apparso chiuso nel suo destino: Irene nel suo desiderio di maternità, il filosofo nella sua malattia, Aurora nella sua inconoscibilità di fondo, l’uomo della demolizione nella propria passione per le immagini, il professore nella sua lontananza, Miriade nelle sue storie e nella sua cecità. Solo il destino del protagonista sembra aprirsi un poco, alla fine, perché d’ora in poi sarà lui a raccontare a Miriade quello che vede.
Però non hai letto una storia triste. I sette personaggi di cui si intravvede la storia stanno vivendo, stanno sentendo, e tutto è intenso, tutto profondo. Ed è, in fin dei conti, tutto irreale – ma non meno vero per questo….
Utilizziamo i cookie perché Wordpress non può farne a meno. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che la cosa non ti disturbi troppo. In ogni caso noi non ne approfitteremo.Ok
Commenti recenti