17 Aprile 2013 | Tags: Maddalena Bertolini, poesia | Category: poesia | ho ancora dei figli e la
domenica dormono se piove
noi facciamo l’amore con l’acqua
che gronda ai lati del letto
sulla tua fronte lenta e dentro
alla mia festa. A questo matrimonio
fa bene bagnarsi ogni tanto
sollevare la testa, guardarsi
battezzati, i piedi uniti i
mattini con la bocca tremula
e quasi inodore del fiore lo stupore
della neve già bucata
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Davide
i miei vent’anni si sono alzati
tardi stamattina con la boscaglia in faccia
e scudi di paglia controsole. Ti verso
in una tazza il malumore e non ti guardo:
schiacci un messaggio, già sorridi, perso
come un rondone nell’esercito di maggio
i pantaloni lenti e il ciuffo anni ’60
(quando sono nata). Ti allontani
con in tasca le chiavi dell’auto e i miei
vent’anni. Adesso li possiedo adesso
tu li indossi e io ringrazio
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caduta
la montagna
seduta per terra mi fa salire
sulle ginocchia – le affondo
i ferri nel fianco le punte
dei tuoi occhi addosso
ricordo di essere caduta quel cielo
veloce e leggero il labbro del crepaccio
pronto al bacio precipitato – mi hai girato
cadevo mi ricordo pensavo sarò
fatta a pezzi da tale bellezza
mi hai girato amore mio come al
mattino mi sveglio con la faccia
nella neve del cuscino – il sangue
in bocca e l’urto del tuo volto
mozzafiato
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loro
il sole si è deciso ad appoggiarsi
al lago la guancia sulla pancia
esattamente come loro stesi
sulla riva di aprile.
Lui le tocca i capelli le allunga i rami
nell’acqua della pelle e lancia lenze:
vedi i fili calati tra gli amanti
e le scintille degli ami
quando abboccano. Anni
deliziosi e saporiti, anni profondi
anni futuri. Arriveranno
i fieri leoni di maggio.
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Sono quattro poesie tratte da una, di Maddalena Bertolini (Giuliano Ladolfi Editore 2012). Non posso fare a meno di stupirmi che questi piccoli gioielli (tra i molti altri che si trovano nella raccolta) siano stati scritti dalla stessa mano a cui sono dovuti gli articoli che trovate qui, così sbrodolanti retorica da non poterci credere, da lasciar pensare che l’una Maddalena Bertolini non possa essere l’altra – trattandosi magari solo di un caso di omonimia. Se le due Bertolini sono una sola, allora è davvero un miracolo come tutto si sia qui asciugato, prosciugato, come abbia abbandonato la retorica da predicatore ideologicamente monolitico (quelli che sanno cos’è la verità) che dilaga là (andare a leggere per verificare). Un miracolo della poesia, insomma.
Dimentichiamo il resto e concentriamoci sul miracolo, dunque. Un miracolo fatto di una metrica abbastanza tradizionale e di temi ugualmente tradizionali, ma affrontati con una ammirevole originalità di accostamenti e passaggi tematici, oltre a un gusto raffinato per le sonorità ricorrenti e per gli enjambement. Proprio grazie a questi ultimi, di quando in quando (come nella prima delle poesie qui sopra) troviamo un andamento quasi senza pause non lontano da quello della Rosselli, a cui la Bertolini si trova vicina anche per un certo amore per la ripetizione delle sonorità (quasi inodore del fiore lo stupore, rami/amanti/ami/anni/anni/anni/arrviveranno…).
Spesso questi componimenti sono giocati attorno alla fusione tra due dimensioni diverse: i vent’anni del figlio con quelli della madre nella seconda; la montagna con l’uomo amato nella terza; il lago e il sole con gli amanti nella quarta. Più che di un’analogia, si tratta di una fusione/confusione, in cui i termini in gioco appaiono insieme distinti e coincidenti, con un inevitabile e riuscito effetto di sorpresa – non così forte da monopolizzare il campo (sennò il senso del componimento rimarrebbe tutto nella sorpresa) ma forte comunque a sufficienza da farsi notare, da incidere.
Se leggiamo il quarto componimento, c’è uno slittamento progressivo dalla scena naturalistica a quella umana alla riflessione all’evocazione. All’inizio è il sole sul lago, che si appoggia con un’analogia già umana (la guancia sulla pancia), così umana che sembra già rimandare alla coppia che entra in scena subito dopo. In questa coppia lei è di nuovo il lago, in cui lui le allunga i rami/nell’acqua della pelle e lancia lenze; per cui è piuttosto naturale che, subito dopo, agli amanti vengano a corrispondere gli ami, che scintillano quando abboccano. Ma ciò che si lascia pescare sono gli anni deliziosi e saporiti proprio come i pesci; gli anni profondi, come l’acqua del lago; gli anni futuri, come ciò che il gesto degli amanti promette – ma anche introduzione alla chiusa, a quel futuro di arrivare (arriveranno) che introduce a sua volta un’immagine di rigoglio coraggioso e forte, pieno di riferimenti al ben venga maggio / e ‘l gonfalon selvaggio del malizioso Poliziano…
Tutto questo fluisce insensibilmente, spinto avanti dal ritmo arcaico dell’endecasillabo (spesso più evocato che realmente presente) accostato al settenario (idem). Insomma, un bel gesto poetico, una capacità di rivitalizzare forme e temi consunti dalla tradizione attraverso accostamenti imprevedibili, eppure ugualmente sentiti come naturali. Una vita certamente non cittadina, quella evocata; ma non tutti vivono in città.
Lorenzo Mattotti, Oltremai (42)
Devo aggiungere ancora qualche osservazione a quello che ho detto su Oltremai di Lorenzo Mattotti la scorsa settimana. Si tratta del rapporto con il tema del sublime, un tema che ho sfiorato molte volte (vedi qui, e in particolare qui).
L’innamoramento settecentesco della cultura europea per la nozione di sublime è all’origine tanto del romanzo gotico e dell’horror, quanto del Romanticismo, quanto del mito funzionalista della forma pura. Stupisce un poco pensare che dietro ai lavori di Piet Mondrian e di Howard Phillips Lovecraft ci sia qualche elemento comune (poi, certo, non c’è dubbio che quell’elemento comune si è combinato e contaminato con altri elementi molto diversi tra loro, per arrivare a visioni del mondo così diverse – ma l’aspetto interessante è che l’elemento ci sia!). L’elemento comune potrebbe essere sintetizzato nella parola primitivismo. Per Mondrian si tratta di trovare la forma più semplice, più astratta di tutte, quella che i suo maestri cubisti erano già andati a cercare nell’arte (considerata primitiva) africana, e che lui cerca nei rapporti geometrici e cromatici puri. Per Lovecraft l’horror è l’irruzione nel mondo di forze primitive non controllate, superiori alle nostre possibilità di controllo.
I surrealisti cercheranno questa primitiva purezza nell’inconscio, le neo-avanguardie nella ricerca del grado zero della scrittura, certo non immemori dello sberleffo duchampiano, ambiguo tra l’assunzione di un grado zero totale di significatività artistica e la sua devastante parodia.
La concezione del sublime non è al polo opposto dell’Illuminismo, e non a caso Kant ne è pure il suo maggiore teorico. L’idea stessa che la matematica possa fornire una spiegazione ultima del mondo è un’idea che ha a che fare col sublime. Per quanto possa apparire complessa, il bello della matematica è che tutto può essere riportato a principi più semplici, a principi elementari…
Il problema forse è che, procedendo in questo modo, troppe cose sembrano dipendere da questa idea. Aggiustando un po’ il tiro, possiamo pensare che la riscoperta dello Pseudo-Longino da parte di Boileau e il successivo innamoramento della cultura inglese per le sue idee, siano a loro volta figli dello spirito del tempo; e magari le cose sarebbero andate così anche senza l’affermarsi dell’idea del sublime. Ma, come accade in questi casi, l’idea e la parola che la esprime hanno finito per fare da attrattore, da catalizzatore, per raccogliere e rilanciare quello che era già nell’aria, ma in forma più dispersa. Ed è così che ci possiamo accorgere che lo stesso tipo di tensione sta dietro al razionalismo illuminista, e a quelli che appaiono essere il suo opposto, lo spirito romantico e l’inconscio freudiano.
Francisco Goya, El sueño de la razón produce monstruos
Il famoso Capriccio di Goya, del 1797, El sueño de la razón produce monstruos viene normalmente interpretato (su conferma di altre parole del medesimo Goya) traducendolo come “Il sonno della ragione genera mostri”. Tuttavia, la parola spagnola sueño significa non solo sonno, ma anche sogno. Se seguiamo le parole dei manoscritti di Goya (“La fantasía abandonada de la razón produce monstruos imposibles: unida con ella es madre de las artes y origen de las maravillas.”) penseremo che è quando la ragione non veglia che nascono i mostri. Ma la sua frase originale ci autorizza anche a un’interpretazione diversa: la ragione, quando sogna, produce mostri.
Questi mostri, ancora ignoti a Goya, si possono chiamare oggi libero mercato, comunismo, nazismo, Olocausto, scientismo (che non è la scienza, ma il sogno che tutto sia interamente spiegabile attraverso la scienza). Sono il punto di contatto tra Mondrian e Lovecraft, ciascuno dei due innocente, ma rivelatore nella sua sensibilità.
E Goya ci riporta al nostro punto di partenza, Oltremai di Mattotti, essendone chiaramente un lontano ispiratore (per ammissione, tra l’altro, di Mattotti stesso). Il sublime di Oltremai è quello dei mostri ed è quello di William Turner; è quello del sonno più che del sogno della ragione. Goya poteva ancora pensare alla ragione come alla possibilità del controllo sull’irrazionale, e quindi all’arte come qualcosa che è figlia di questo controllo, esercitato sull’irrazionale fantasia. Goya poteva pensare che la ragione fosse qualcosa che ha a che fare con la classicità, e con la sua tradizionale capacità di controllo; la sua arte non è già più quella classica, ma condivide con quella il controllo, classico, sull’irrazionale.
Due secoli dopo, questi Capricci di Mattotti sembrano essere stati prodotti interamente dal sonno della ragione, attraverso un controllo che non è quello della ragione, non quello del calcolo e nemmeno quello del racconto, e quindi nemmeno quello della classicità. Sono figli dell’improvvisazione musicale e dell’improvvisazione grafica dei calligrafi cinesi e di Jackson Pollock (anche se Mattotti negherà quest’ultima associazione); cioè figli più di un’idea di Stimmung, cioè accordatura, sintonia, che di un’idea di spiegazione razionale (matematica o narrativa che sia).
In questo senso, proprio nel loro assumere i temi inquietanti delle poetiche del sublime, questi lavori si trovano sull’orlo del loro superamento. L’orrore, i mostri, sono diventati semplice inquietudine; non ci soverchiano più, ci conviviamo incertamente, pur senza pretendere di controllarli e di spiegarli. È scomparsa, o sembra scomparsa, la dialettica tra primitivo e matematico. La paura che proviamo non è terrore; l’incapacità di controllare il primitivo non ci soverchia; la semplificazione razionale è fuori gioco. Siamo al di là di Lovecraft e al di là di Mondrian: è il tema in comune all’opposizione tra loro che sta per essere messo fuori gioco.
Sarà forse perché questa dialettica tra controllo razionale e distruttività primitiva è la dialettica del soggetto individuale, pilastro della nostra cultura (ma non di tutte le altre). Sarà forse perché in questi Capricci di Mattotti è proprio il soggetto a essere scomparso…
Dettagli (43)
Intitolare questo Dettaglio “Rose al tramonto” sarebbe troppo facile e troppo d’effetto. La rosa è un fiore per la nostra cultura troppo carico di senso simbolico, per poter sfuggire al fascino di questa piccola catastrofe da giardino. Ma anche il contrasto tra il bianco soffice e luminoso dei petali e il bruno rugoso della terra sobillava l’esteta che si nasconde in me. Persino la luce aveva un che di apocalittico.
Insomma, banalità su banalità. Nel complesso, struggente.
La bella in contemplazione
Sì, se ne stava lassù, contro questa bella facciata di azulejos, perlomeno singolare nel suo fare assorto.
Bambola di gomma, scultura in materiale leggero, carne?
10 Aprile 2013 | Tags: epica, Marilena Renda, poesia | Category: poesia | 1. L’acqua (l’esodo)
E siamo fatti per ritornare (nella nostra interezza
priva di differenze, di cuciture visibili alla vista,
al tatto) senza pensieri sui nostri passi, respingendo
la dolcezza delle città ignare, filiali, che lasciano
pure noi fendere le mura, frugare i segreti.
Fingiamo che il latte degli stranieri sia versato
per noi pure. Nostro il pudore dei larghi androni,
del verde osteso a perdita, di confini sconosciuti
ai polpastrelli ignoranti, ciechi della promessa
di spazi non misurabili sulle pareti-cielo.
Essere separati e vicini le domeniche a Milano
come scoiattoli che custodiscono i gherigli a morte.
Polpa che non vuole essere frutto, colluttazione
tra Heimat e fabbrica, tra lievito e ruggine,
cospargendo di saliva le pietre del selciato.
Così è nostro il ritorno non greve, vergognoso
di ricontare gli aghi, tracciare rotte per gli occhi,
annodare fili di ruggine, indossare un abito di risentimento,
indicare alla bocca, ai figli, alle piume delle prigioni
un varco, una faglia a cui appendere un desiderio di stasi.
…..
È l’attacco di Ruggine, di Marilena Renda (Dot.com Press 2012). Ruggine è un lungo poemetto in quattro parti, il cui tema è il terremoto che nel 1968 distrusse Gibellina, nella valle del Belice (altri frammenti, qui), ma è anche la difficoltà del ritorno, il rapporto col passato, la difficoltà di ricostruire…
C’è questo attacco alato, intenso, a volte struggente, bello nel ritmo che richiama l’alessandrino e nell’uso degli enjambement, cui seguono una prima e una seconda sezione altrettanto forti, nelle quali questo rigoglio metaforico esprime bene e intensamente l’andamento della tragedia. Ma poi qualcosa si incrina. Non cambia il linguaggio dell’autrice, non cambia lo stile e non cambia la modalità. Tuttavia forse di fronte alle parti più riflessive, la terza e la quarta, in cui ci sono meno eventi del momento e più sentimenti del dopo, si ha come l’impressione di un poco di eccesso, come se queste immagini così forti si ritrovassero a sparare un po’ troppo in alto, dopo che il dramma si è consumato e restano in campo i sentimenti inevitabilmente (e fortunatamente) meno brucianti del “dopo”.
Leggendo i versi della Renda mi sono venute spontanee due associazioni: da un lato il Ritsos della Signora delle vigne, con la sua pungente commistione di saggezza contadina, mito arcaico evocato e durezza (anche politica, talvolta) del presente. Temi e andamento della seconda strofa dei versi riportati qui sopra sono vicini a quelli di Ritsos.
L’altra associazione è con il García Lorca surrealista e post-surrealista (in particolare quello del “Lamento per Ignacio”) con le sue metafore violente, deliberatamente eccessive, ma a un secondo sguardo assolutamente pertinenti e per nulla gratuite. La terza e la quarte delle strofe qui sopra mostrano un uso simile.
Se si apprezza una poesia così carica, così grondante di emozione, così fastosa nella sua commistione di calore e di morte, si può trovare davvero straordinario il modo in cui la Renda costruisce il crescendo che costituisce la prima parte (quella dell’evocazione) e la seconda parte (quella dell’evento stesso, il terremoto e la conseguente distruzione). Queste immagini forti, cariche di mito rendono fortemente vivo il loro oggetto; arrivano a fare paura, a metterci in gioco.
Cosa si rompe, poi? Difficile dirlo. Probabilmente molto poco. Forse interviene solo un po’ di stanchezza nel lettore per il protrarsi uniforme del tono del discorso, troppo uniformemente alto per l’argomento, ora meno terribile. Forse è solo la troppo a lungo mantenuta prosecuzione del medesimo registro. Lo stesso García Lorca, nel “Lamento”, cambia registro (e metro, e parole) in ognuna delle quattro sezioni.
O forse è proprio il tema a prestarsi meno a una trattazione così gridata. Si tratta di sfumature, comunque; e non mancano i frammenti molto riusciti anche qui.
Forse la difficoltà di costruire un’epica, oggi, come si è provata a fare la Renda, sta proprio nella nostra difficoltà, o incapacità, di reggere a lungo il tono epico. Abbiamo sentito, nei secoli, troppe false canzoni, e diffidiamo oggi anche di quelle che potrebbero essere vere. Certo, quella della Renda è un’epica con una forte base lirica, di coinvolgimento personale, e questo ce la rende sufficientemente vicina (se così non fosse, credo che non funzionerebbe nulla, o non abbastanza a lungo). Ma quando il tono del grido non ci appare più necessario, riemerge in noi la diffidenza, la sensazione che si stia esagerando. A volte l’ironia è la cura che ci permette di mantenere il contatto. Qui, non so quanto sarebbe possibile metterla in gioco. In questo contesto probabilmente ci apparirebbe ancora più artificiosa della sua assenza.
Probabilmente quindi la difficoltà ad arrivare felicemente in fondo incontrata da questo poemetto non è specificamente sua. Forse è solo la manifestazione di una difficoltà generale dell’epica, un genere che ha bisogno dell’innocenza per esistere davvero.
…stavolta ho incominciato a creare immagini narrative evocandole sul momento. Questa piena libertà che mi sono preso mi obbligava paradossalmente a un’estrema concentrazione sul soggetto e sulla composizione del disegno. Tutto doveva essere contenuto, svolgersi in quell’unica tavola e possedere abbastanza forza da stimolare l’immaginazione di chi l’avrebbe guardata. Ho l’impressione che la mente, in questi casi, si metta all’ascolto di lontani echi narrativi, di storie, simboli e immagini, visti in altri periodi della mia vita. Scava nella memoria e va a pescare immagini rimaste impresse nella mia pinacoteca personale, creando strane associazioni, mescolando miti, personaggi, luoghi. È stato come se l’improvvisazione scartasse le idee di superficie, le inutili decorazioni, e puntasse direttamente all’essenza, potente, nascosta, sotterranea, della visione. Piano piano, si è concretizzato un universo fiabesco senza riferimenti precisi a storie esistenti, un racconto per immagini molto personale. Il pennello e il nero permettono questo linguaggio diretto, senza fronzoli, evocatore ma non descrittivo, misterioso, dove la luce e il buio vestono un ruolo da protagonisti. Sono disegni enigmatici anche per me, fanno parte di quell’esplorazione del “dentro” che ho intrapreso da un bel po’ di tempo ormai e che, in questo caso, si è indirizzata piuttosto verso i luoghi della fiaba, del mito, del fantastico. Ho l’impressione che le immagini si raccontino da sole, in maniera libera, indipendenti da qualsiasi frase con cui avrei potuto accompagnarle. Mi è parso che qualunque parola avessi aggiunto alla loro autonoma narrazione avrebbe solamente limitato l’evocazione affabulatoria che quelle immagini hanno in sé…
Lorenzo Mattotti, Oltremai (1)
Mi fa sorridere pensare che i tre mondi del fumetto, dell’illustrazione e della pittura rivendicheranno come propria quest’opera di Lorenzo Mattotti. Tutti e tre hanno infatti ragioni per farlo, visto che l’autore vive tutte e tre queste realtà. Però Oltremai non è facilmente descrivibile come fumetto, perché non c’è né una sequenza né una storia; non è facilmente descrivibile come illustrazione perché non illustra nulla, e non c’è nessun testo di riferimento; non è facilmente descrivibile come pittura perché supporto e strumento sono atipici, e soprattutto perché fatica a inserirsi nel discorso corrente delle arti visive. Ma “pittura” è comunque il termine più generico dei tre, e solo per questo motivo alla fin fine Oltremai sarà riconosciuta nel suo ambito.
È la terza volta che mi trovo davanti a questi lavori. La prima mi trovavo nello studio di Lorenzo, mentre ancora li stava realizzando. La seconda, era nello splendore del salone della Pinacoteca di Bologna, dove sono stati esposti tutti e 53, uno dopo l’altro in una lunga fila, sino a pochi giorni fa.
Adesso sono a casa mia, e ho davanti il libro, pubblicato da Logos di Modena, stampato e confezionato con estrema cura, che vale pienamente il suo (non indifferente) prezzo. Certo, non sono gli originali; però adesso di fronte a queste curatissime riproduzioni posso prendermi tutto il tempo che voglio, guardare, osservare, tornare indietro, confrontare, ripensarci, metterle via, ripensarci ancora, tirarle fuori, confrontare quel dettaglio con un certo dipinto che ricordavo, pensarci ancora, guardare ancora, rimandare a domani, e poi guardare ancora…
Questi disegni mi fanno un po’ paura. E non sono i mostri che vi appaiono, a spaventarmi. O almeno, non loro direttamente. Ogni tanto mi viene da pensare che questi mostri sono solo i fratelli cresciuti di quelli (selvaggi) di Maurice Sendak. Quindi non spaventano: inquietano.
Ma inquieta anche la bambina, e il bosco, e l’acqua, e il cielo, e persino il paesaggio lontano. Tutte queste cose inquietano, e questo sommarsi di inquietudini mette un po’ i brividi. Ma quello che fa paura davvero è il fatto di riconoscere in queste immagini un sacco di cose che già conosco, e queste cose, qui, non si trovano al loro posto, oppure non stanno nel rapporto corretto tra loro: insomma, sono loro e insieme non lo sono. È così anche per gli stessi mostri, la bambina, i boschi, le acque, i cieli e i paesaggi lontani; ma è così soprattutto per tutti quegli echi di forme che riconosco e che in parte sono come dovrebbero essere e in parte no.
Nelle parole che ho citato all’inizio del post (tratte dall’introduzione del volume), Mattotti spiega come ha lavorato su queste immagini. Sono tutte improvvisazioni, spesso realizzate in un’unica sessione di lavoro (sto aggiungendo qui anche qualche informazione avuta dalla sua stessa voce). Si parte da un segno qualsiasi del pennello sul cartoncino bianco (di grande formato, 100×70), e quel segno ne evoca altri, e questi a loro volta evocano figure, e l’immagine così progressivamente si compone.
Una delle cose che mi piace fare su queste immagini è seguire con l’occhio il gesto del pennello: il gesto che traccia grosse linee ondulate, il gesto che affianca sottili linee diritte, quello che lascia sequenze di macchie vagamente regolari… e poi la rottura improvvisa, quando a un tipo di gesto se ne sostituisce un altro, più netto, più violento, meno iterativo.
È come ascoltare un brano di musica. Ci sono dei temi che ritornano, dei leitmotif, cioè dei motivi portanti (il mostro, la bambina, l’oscurità, il bosco, l’acqua…), ci sono degli andamenti armonici che si susseguono (le varie tessiture, i vari andamenti del gesto…), e c’è questo loro stupefacente avvicendamento. Non c’è una storia?
In verità di storie ce ne sono tante quante sono le immagini, e hanno tutte qualche relazione tra loro; ma non c’è tra loro una continuità. Il che rende tutte queste storie molto vaghe, e non interessanti di per sé. Proprio come in un brano di musica: magari riconosci il momento di furore, o il momento di gioia, o quello di contemplazione estatica, ma non c’è modo di collegarli in un racconto. Eppure la musica funziona lo stesso.
Il fatto è che una storia è già, in sé, una spiegazione. Poter descrivere ciò che osserviamo come parti di una sequenza dotata di senso è qualcosa di confortante, che ci dà l’idea che il mondo sia, almeno in parte, spiegato; e quindi, almeno per quella parte, sotto controllo. In queste immagini, proprio come in musica, questo conforto non c’è. Queste immagini fanno paura perché non sono spiegate, non sono inseribili in un racconto. Sono come quei frammenti di sogno che non riesci a collegare alla sequenza principale, e non sei capace di dar loro un senso, una coerenza narrativa – e per questo motivo o li dimentichi subito (li rimuovi), oppure non li dimentichi mai più.
Un primo riferimento istintivo, per queste immagini di Oltremai, sono le Carceri d’invenzione di Giovanni Battista Piranesi. Certo, in Piranesi c’è molto più progetto di quanto non ci sia qui, non foss’altro per la differenza nella tecnica: l’incisione non permette di sicuro questa libertà d’improvvisazione. Tuttavia, l’oscurità, il senso di grandioso e di oppressivo, e la tessitura fitta delle linee, sono elementi comuni, che portano a un comune senso di inquietudine.
L’altro riferimento inevitabile è quello a Breton e all’automatismo surrealista. Ma in Mattotti è presente una consapevolezza che ai surrealisti era ancora sconosciuta: non si tratta di esplorare l’inconscio alla ricerca della sua forza distruttiva e rivoluzionaria. L’inconscio è forse anche distruttivo e rivoluzionario, ma è pure un sacco di altro cose, e contiene pure il proprio specifico ordine, quell’ordine che l’ordine consapevole non conosce.
L’ordine dell’inconscio è fatto di ritmi e di contrasti, di continuità e di rotture improvvise, di figure note che si rivelano improvvisamente collegate con altre figure note con cui il collegamento non ci dovrebbe essere. Non è l’inconscio di Lorenzo Mattotti quello che mi interessa, bensì piuttosto il fatto che attraverso la sua espressione il mio stesso inconscio si trova a lavorare. È questo che fa la differenza tra il lavoro di Mattotti che sfrutta il proprio inconscio e il lavoro di un Pinco Pallino qualsiasi che va dallo psicoanalista: non a caso Pinco Pallino deve pagare per trovare qualcuno che lo ascolti, mentre qui sono io, piuttosto, a pagare, per ascoltare Mattotti.
Ciò che rende interessante il lavoro di Mattotti non è quindi la scoperta del suo mondo personale interiore, che è probabilmente interessante, in sé, quanto quello di qualsiasi altro essere umano. È piuttosto la sua capacità di entrare in sintonia con qualcosa che, se fossimo junghiani, dovremmo chiamare inconscio collettivo, ma che io preferisco chiamare mito.
Il mito è ciò che non si comprende, non si racconta (quando lo si fa, si ottiene la mitologia, che è già un prodotto consapevole del mito), ma sta lì, sotto o dietro a tutti i nostri criteri di azione e valutazione del mondo. Spesso i racconti sono, appunto, mitologie, cioè parola del mito, ovvero mito spiegato, portato a coscienza. Anche i sogni, nella visione della psicoanalisi, portano a galla elementi del mito; e poi il racconto del sogno completa il quadro; e poi la spiegazione del racconto lo perfeziona ulteriormente, fornendoci l’illusione del controllo razionale.
Del mito però si possono rivelare solo brandelli. E nella misura in cui questi brandelli si rivelano è perché già non sono più centrali. Ci è comunque necessario tentare di rivelare quanto più possiamo, per poi poter raccontare, e poi spiegare, e infine illuderci di controllare. I disegni di Mattotti sono come sogni, però sogni collettivi, in cui possiamo tutti riconoscerci. Non sono i suoi sogni privati, bensì quella parte dei suoi sogni privati che coincide con i sogni privati di tutti. In loro il mito viene fuori con inquietante potenza, proprio perché non arrivano al racconto, ma danno la sensazione di essere sul punto di farlo, e ci sono, in loro, le figure e i ritmi e le armonie, ma con un ordine che non è quello del mondo esterno.
Ecco perché questi disegni mi fanno un po’ paura: perché ci cado dentro, mi ci perdo, mi tengono lì, fatico terribilmente a uscirne. Mi danno continuamente l’illusione di essere sul punto di tenerli, di capire, di raccontare, di spiegare, di controllare; e un attimo dopo l’illusione si disfa; e poi si ricrea, e poi si disfa di nuovo…
Nelle illustrazioni a colori di Mattotti, spesso quello che mi affascina sono le geometrie della costruzione, che forniscono al mondo rappresentato qualcosa come una seconda e differente dimensione di senso, e le figure di quel mondo finiscono così per essere al tempo stesso se stesse e anche qualcos’altro. Qui non ci sono geometrie, e di differenti dimensioni di senso ce ne sono ben più di due.
Lorenzo Mattotti, Oltremai (8)
Dettagli (42)
Tutte queste linee parallele, verticali ma non esattamente! Verso il basso a destra prevalgono invece altre linee, meno diritte, più brevi e intrecciate. Verso l’alto a sinistra (principalmente, ma non solo lì) ci sono le forme sfrangiate delle foglie. Qua e là, su questo sfondo, si impongono le singolarità spiraliformi dei germogli, unici dettagli un po’ meno verdi di tutto l’insieme.
I gabbiani
Quello che mi colpisce, e mi fa ridere, dei gabbiani è la loro aria stolida di sentinelle.
Presa qui.
3 Aprile 2013 | Tags: Giovanni Della Casa, poesia, sonetto | Category: poesia |
Questa vita mortal, che ‘n una o ‘n due
brevi e notturne ore trapassa, oscura
e fredda; involto avea fin qui la pura
parte di me ne l’atre nubi sue.
Or a mirar le grazie tante tue
prendo: ché frutti e fior, gelo ed arsura,
e sí dolce del ciel legge e misura,
eterno Dio, tuo magisterio fue.
Anzi ‘l dolce aer puro, e questa luce
chiara, che ‘l mondo a gli occhi nostri scopre,
traesti tu d’abissi oscuri e misti.
E tutto quel che ‘n terra o ‘n ciel riluce,
di tenebre era chiuso, e tu ‘apristi;
e ‘l giorno e ‘l Sol de le tue man son opre.
.
Questo sonetto è parte delle Rime di Giovanni Della Casa, pubblicate postume nel 1558. È un testo che mi è molto caro, e vale la pena di osservarlo da vicino. Non è tanto il tema ad affascinarmi, quanto il modo poetico in cui l’autore lo affronta.
Un poeta italiano che scriva sonetti a metà del Cinquecento non si può sottrarre alle regole del perarchismo, e alla sua calibrata, classicistica, misura. Un sonetto petrarchesco o petrarchista può anche raccontare le più turbinose passioni dell’animo, le più sublimi ascese della passione, e tuttavia, proprio per il modo in cui è fatto, qualsiasi cosa esso racconti ci apparirà come inquadrata in una tranquilla e rassicurante cornice. Lo schema regolare delle quartine e delle terzine, con le loro rime obbligate, a cui si aggiungono i requisiti ulteriori dello stile petrarchista, è un’inevitabile rappresentazione del mondo in termini secondo i quali tutto è già composto e risolto, e ogni tensione che ne sia oggetto di discorso vi appare inevitabilmente sistemata nella posizione che meglio le si addice.
Una forma chiusa e perfetta, meravigliosa nella sua capacità di compensare e contenere i mali del mondo, risolvendoli in compassata contemplazione.
Il sonetto di Giovanni Della Casa non sfugge alle regole del gioco, e tuttavia nemmeno le rispetta sino in fondo. Il sistema degli accenti (che evita sistematicamente quello di settima sillaba) e quello delle rime (tutte in qualche modo imparentate tra loro) sono tranquillamente petrarcheschi, così come la progressione complessiva del discorso…
Ci sono però troppi e troppo cruciali enjambement. Tre versi su quattro nella prima strofa e uno ciascuna nelle due successive, sono tutti fortemente inarcati. L’enjambement crea una frattura tra l’organizzazione metrica e quella sintattica che non è prevista (se non in minime dosi) dal paradigma petrarchista. Questa frattura incrina il senso di risoluzione e compiutezza che l’insieme del testo deve produrre. L’espressione che prosegue oltre la fine del verso ci costringe a una sorta di sporgersi sull’orlo dell’abisso che non viene recuperato dalla regolarità della struttura, perché qui è proprio la struttura a inarcarsi, a imbizzarrirsi, a negare per un attimo il compimento rassicurante della forma.
Certo, Della Casa non è in grado di arrivare sino in fondo. I suoi enjambement sono frequenti all’inizio del componimento, per farsi rari e infine scomparire man mano che ci si avvicina alla fine. L’angoscia, l’inquietudine della non risoluzione ritmica viene suggerita insistentemente all’inizio, ma dimenticata alla fine (magari coerentemente con la progressione narrativa dall’angoscia personale alla gioia collettiva della contemplazione divina). Il finale è infatti tornato alla norma, all’inquadramento formale, al quadretto rassicurante (duecentocinquant’anni dopo – però duecentocinquanta! – Ugo Foscolo potrà permettersi di osare molto di più).
Ma è già straordinario, per la sua epoca, che Della Casa sia riuscito ad arrivare sin qui, a suggerire questa tensione iniziale, questa insistita assenza di risoluzione a fine verso. Il quadro petrarchista è rigido, sì, certo; ma proprio per questo basta appena un accenno per metterne in crisi l’effetto rassicurante, e suggerire il salto nel vuoto.
1 Aprile 2013 | Tags: fumetto, Linus | Category: comunicazione visiva, fumetto | Il post di oggi (sul compleanno di Linus) si trova sul Blog di Daniele Barbieri (che, forse, non sono io).
Dettagli (41)
Se io non sapessi già che quella sopra è acqua, e quella sotto è sasso/roccia, come farei a capire che quella sopra è una mobile onda, e quella sotto no? Se uno già non lo sa, la sabbia in primo piano è increspata più o meno quanto il mare sul fondo, e i sassetti in secondo piano stanno scivolando, a destra ma soprattutto a sinistra, attorno all’onda di pietra. D’altra parte, dietro, se uno già non lo sa, potrebbe essere tutto fatto di una gelatina morbida ma solida, blu e bianca.
Se conoscete un alieno che non sia mai stato sulla Terra, potete provare a sottoporgli la foto, e a domandarglielo.
Archi e diagonali
Dorata e grigioazzurra, scattata qui.
Saranno pure le mie solite geometrie, ma qui più in versione van Doesburg, piuttosto che Mondrian.
Insomma, c’è un sacco di movimento, persino ascensionale.
27 Marzo 2013 | Tags: Aldo Nove, Amelia Rosselli, Andrea Inglese, Elio Pagliarani, Gabriele Frasca, Gian Mario Villalta, Giovanna Frene, Giuliano Mesa, Ivan Fedeli, Lello Voce, Marco Giovenale, Mario Luzi, metrica, Patrizia Valduga, poesia, Sergio Rotino, Umberto Piersanti | Category: poesia | A che cosa serve l’artificiosità del vincolo che caratterizza la poesia nei confronti della prosa? Per quale ragione si coltiva così pervicacemente una forma di scrittura che si rifiuta di scorrere liberamente secondo l’andamento naturale del discorso?
Credo che la risposta debba essere cercata in un sospetto verso quella che potremmo chiamare la trasparenza della parola, ovvero l’idea che il discorso verbale debba essere considerato uno strumento di espressione del pensiero, tendenzialmente senza residui. A questa visione ideale della prosa – ideale perché in verità nemmeno la prosa più tecnica la raggiunge sino in fondo – la poesia contrappone una concezione della parola piuttosto come ambiente. In poesia la sequenza delle parole costruisce un piccolo mondo, i cui oggetti, come nel mondo reale, valgono sia per le loro proprietà fisiche che per quelle simboliche: un tavolo è un oggetto materiale, fatto di legno, metallo e plastica e in relazione spaziale con gli oggetti circostanti, non meno e non più di quanto esso sia il supporto per il rito del pranzo, il simbolo dell’unità famigliare, il ricordo della nonna a cui era appartenuto. Gli oggetti della poesia sono ovviamente le parole e le loro costruzioni, nella propria natura sonora e visiva (con tutte le loro complessità) non meno e non più di ciò per cui stanno (con tutta la complessità dell’universo del significato).
Nella misura in cui siamo abituati, nella vita di tutti i giorni, a un uso strumentale e trasparente della parola, la poesia cerca di restituirci una dimensione globale del linguaggio, in cui la parola riappaia come cosa simbolica e insieme materiale proprio come le altre cose del mondo. Il vincolo posto sulla dimensione del significante serve proprio a imporne la pertinenza, a togliergli ogni possibilità di trasparenza. L’artificiosità è necessaria proprio perché si fa notare. Quando non c’è nulla che si faccia notare non c’è infatti ragione di uscire dall’uso standard, quello assestato, banale: nel nostro caso, appunto, l’uso strumentale del linguaggio.
Riportare il linguaggio alla sua natura di cosa, di oggetto, non significa rivendicarne la naturalità. È per forza evidente che un costrutto linguistico è un manufatto, così come lo è un tavolo e come non lo è un albero. Che cosa resta al linguaggio se si prescinde dalla sua natura di strumento per comunicare idee? Credo che quello che resta sia proprio la sua natura di manufatto, e in particolare di manufatto collettivo: il linguaggio è…
Quello che avete appena letto è l’inizio del mio (piuttosto lungo) intervento, intitolato “Il vincolo e il rito. Riflessioni sulla (non) necessità della metrica nella poesia italiana contemporanea“, apparso in questi giorni sul numero 16 della rivista L’Ulisse, complessivamente intitolato “Nuove metriche. Ritmi, versi e vincoli nella poesia contemporanea”. L’articolo, dopo una breve introduzione metodologica, cerca di fare un resoconto (parziale, ma nelle mie intenzioni rappresentativo) delle diverse posizioni sulla metrica e dei diversi usi che ne vengono fatti dalla poesia italiana contemporanea.
La rivista è comunque, come sempre, di grande interesse anche a prescindere dal mio personale intervento. Segnalo con piacere che mi ritrovo citato, al suo interno, anche negli interventi di Rodolfo Zucco (“Lettera su Bonifazio e Cella”) e di Vincenzo Bagnoli (“Endecasillabi in quattro quarti. Fra Dante e il Rock”).
Tardi e Manchette, “Pazza da uccidere”
Perché mi sono divertito così tanto leggendo Pazza da uccidere, di Jean-Patrick Manchette e Jacques Tardi (Coconino, 2013, trad. Federica Iacobelli)? Di fumetti di Tardi ne ho letti tanti, alcuni memorabili, altri comunque interessanti o divertenti, sempre comunque esemplari quanto a capacità di disegno, sceneggiatura e montaggio. Certo, qui c’è dietro una storia di Manchette decisamente originale e già di per sé piuttosto mozzafiato, ma quello che le dà Tardi non è comunque poco.
Mi limiterò a un esempio, un inizio di sequenza di due pagine, quello riportato qui sopra. Per farla breve, giusto per capire la situazione, la donna e il bambino sono inseguiti da un killer (non vi dirò il perché, dovrete leggere la storia per questo), e hanno trovato protezione presso l’omone che compare nelle prime vignette. Il killer soffre di un’ulcera perforante che gli procura attacchi atroci soprattutto quando è in opera. Tutto è piuttosto estremo, con aspetti paradossali. La missione professionale del killer a una vittima che continua a sfuggirgli è già diventata un’ossessione personale…
Osserviamo ora il segno di Tardi. Possiamo definirlo realistico, mimetico? Per alcuni versi certamente sì. Ma per altri versi, la semplificazione grafica a cui Tardi sottopone le sue figure fa sì che si possano enfatizzare certi tratti senza farli apparire fuori luogo. Guardate la vignetta tonda con il viso stupito della donna in alto nella pagina di destra: è un cerchio che contiene un viso circolare che contiene un cerchio piccolo piccolo (quasi un punto) che è la bocca.
L’economia di segni permette questi giochi. Nessuna bocca realistica è mai così piccola e rotonda. Ma in questo sistema grafico-espressivo la sintesi di Tardi è perfetta, e perfettamente enfatizzata dal duplice inquadramento circolare.
La vignetta tonda con lo stupore della donna si trova poi inquadrata tra due altre vignette, quelle in cui il killer spara al bambino e il bambino tira la freccia verso il killer. Dopo di che, le cose vanno a rovescio: è il bambino a centrare il bersaglio.
Tante cose sono irrealistiche in questa storia, proprio come nel disegno di Tardi. Ma la storia è avvincente proprio per la sua progressione di crescenti improbabilità. Non ci racconta un evento come ci aspetteremmo che accada nel mondo reale, ma un incubo simbolico con aspetti realistici e progressioni paradossali. E non è la vittoria del bene indifeso contro il male armato sino ai denti (un classico hollywoodiano): il bambino di questa storia non è proprio simpatico, e la donna che lo protegge è una psicopatica; mentre del killer, viceversa, vengono mostrate nel corso del racconto talmente tante umane debolezze che una certa simpatia finisce per ispirarcela.
Ecco, in ciascuna vignetta di Tardi è presente, in nuce, nel disegno come nel rapporto con le vignette circostanti, questo sistema di paradossi. Come dire che ogni vignetta è come una cellula nel cui DNA sta scritto il codice dell’intero organismo di cui fa parte; però ne vengono attualizzati in realtà solo quei tratti che le sono al momento narrativamente necessari. Gli altri tratti, pur potendosi rivelare a un’analisi molto attenta, restano impliciti.
Per questo, nel complesso, il sistema appare così coerente. A livello implicito, tutte le vignette danno il senso della storia nel suo complesso; a livello esplicito, ciascuna fa il suo specifico lavoro, raccontando il momento che racconta.
Il resto lo potete scoprire da voi.
Dettagli (40)
Questo Dettaglio mi piace perché c’è l’opera razionalizzatrice dell’uomo, che gli dà la struttura, e poi l’azione della natura (del caso) che gliela incrina.
Su un macromondo progettato per uno scopo umano si innesta un micromondo senza progetto: muschi, muffe, piccole piante, sassolini trasportati dal vento o dall’acqua.
Non potremmo vivere né senza il progetto razionale umano, né senza la resistenza infinita che gli contrappone la natura. Probabilmente è per questo che faccio foto così.
E poi c’è l’ombra: un’altra struttura geometrica, ma non umana. Che complica tutto…
Una fine del mondo
Una volta, il mondo finiva qui. Potete scegliere se con “qui” si intende il punto da cui è stata scattata la foto, oppure il capo con il faro che si vede sul fondo. Non che cambi molto.
Oggi, evidentemente, non è difficile andare oltre. Ma questo posto continua ad avere il fascino di un posto dove il mondo finisce, dove al di là c’è altro.
Non è difficile percepire, stando qui, questi due speroni di roccia (quello dov’ero io, e l’altro sul fondo) come due estremi tentacoli d’Europa protesi sul nulla.
Non so se questa foto estiva riesca a rendere questa fascinazione…
20 Marzo 2013 | Tags: Caterina Davinio, poesia | Category: poesia | XVI
(Nella nebbia-fine)
Osavo,
ma non oltre il confine del
tuo passo
Perché non esistessero verità oltre te
E null’altro su cui posare lo sguardo.
E
quando il freddo la sapeva lunga sulle
mie ossa
di creatura scaltra ma senza piani
ricordavo che non potevo,
e l’indomani sarei
(andata)
dove terminano
tutte le stazioni
E le ore
E le curve
E i punti di fuga
E le infinite funzioni matematiche.
______________________________________________________________________
AUTOSTRADE
I
Volavo
come un angelo
dalle grandi ali
dolorose
per dimostrarti
crederti
cederti
sussurrarti
un avanzo di paradiso,
ubriaca e compunta
dinanzi
all’erebo e alla pietà
che veleggiano
alla velocità del suono
sulle curve
sotto i tunnel
intorno ad ampie costate
irte d’abeti
a laghi come specchi
e poi nel vento di lungomare
tra palmizi,
venuto da lontanissimo.
IV
E il cielo mi faceva
azzurra,
pesava su di me
insostenibile
di sole
tra le ciglia,
e pregavo
con la mente
accesa,
diamantina,
scintillante di blu
come le infinite speranze
distanze
e,
mio respiro (splendente),
felice
come mai.
____________________________________________________________________
Ho sotto gli occhi questa raccolta di Caterina Davinio, Fenomenologie seriali, Campanotto 2010, testi italiani con traduzione a fronte in lingua inglese, e sono perplesso. Se i testi fossero tutti come il primo dei tre che riporto qui sopra, potrei dire che si tratta di una buona raccolta; e invece la maggior parte sono più simili ai due testi successivi (parti diverse, queste, di una sezione unitaria più ampia), che non riesco a farmi piacere.
Eppure i tre brani condividono una certa uniformità stilistica, e non sono poi così diversi tra loro. Che cos’è che rende il primo, almeno ai miei occhi, un testo riuscito, e gli altri due no?
Ma i dubbi si assommano ai dubbi. Potrei dire che, in generale, questo tipo di stile poetico non incontra in generale i miei favori. Nonostante questo, il primo testo continua a piacermi. Per gli altri due non c’è un “nonostante questo”: non c’è niente in loro che riscatti lo stile che non so apprezzare. Ma se il problema è in generale un problema di stile, e non di singolo testo (anche se poi i singoli testi possono fare eccezione, di quando in quando) mi resta comunque il dubbio che la mia difficoltà ad apprezzarlo sia legata a un qualche tipo di inevitabile partigianeria per stili più vicini ai miei, come poeta.
Per fortuna il primo testo mi piace, il che mi permette di pensare che il mio giudizio possa non essere troppo di parte. Non è facile però capire perché quello mi funzioni e gli altri no. Proviamo.
Intanto, sul mio problema generale con lo stile di Caterina Davinio. Mi verrebbe da dire, come di getto, che questo modo di frazionare i versi sta agli antipodi di quello auspicato (e praticato) da Amelia Rosselli, a cui mi sento viceversa molto vicino. Ho citato varie volte questa affermazione della Rosselli nel saggio intitolato “Spazi metrici”: “In effetti nell’interrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi terminazione di frase o ad una qualsiasi sconnessa parola, io isolavo la frase, rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendole la sua idealità, ma scindevo il mio corso di pensiero in strati ineguali e in significati sconnessi. L’idea non era più nel poema intero, a guisa di un momento di realtà nella mia mente, o partecipazione della mia mente ad una realtà, ma si straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o da nessuna parte.” È proprio questa sensazione che conduce la Rosselli a utilizzare un verso che quasi non è un verso, in cui viene sottolineata la continuità anziché la frattura del discorso nell’andare a capo.
Qui, viceversa, è dominante la frattura. In questo, di per sé, niente di male, se non un pericolo; ovvero che la frattura, ripetuta molte volte, finisca per diventare il motivo ricorrente e ossessivo. Se questa ossessione è controllata, può essere anche un forte strumento espressivo, proprio come accade nel primo dei tre componimenti qui sopra. Se invece non lo è, finisce per ingenerare noia, stanchezza, senso di ripetizione, come succede nei successivi due.
Nel primo componimento il dominio della frattura sembra coerente col discorso che viene condotto, con questa esitazione, questa “assenza di piani”, con questo non arrivare a fare, che culmina nel bel crescendo degli ultimi quattro versi, che deve la sua forza proprio alla presenza (e dominanza) della frattura. Il verso che si allunga proprio mentre tematizza l’astrazione e l’impossibilità di raggiungere gli asintoti, è una bella invenzione conclusiva, e un bel modo per far finire le parole proprio nel punto più forte della progressione.
Quindi, bene, brava. Ma poi il miracolo non si ripete più. Non posso riportare ovviamente tutta la raccolta, ma qualche altro componimento ha un’efficacia simile a questo. La maggior parte, purtroppo assomiglia invece di più ai successivi.
In loro la frattura del verso breve tende a ripetersi, a stancare. E poi entrano in scena gli “angeli / dalle grandi ali /dolorose”, i “laghi come specchi”, “la mente / … /diamantina, / scintillante di blu / come le infinite speranze”, e tanti altri orpelli del poetichese. Non che non li si possa proprio usare (persino nei versi della Rosselli ci sono cose così) ma se vengono spiattellati in questo modo, posti al centro del discorso (e qui la frattura agisce da focalizzatore, e come!), senza nessuna presa di distanza, come se non fossero espressioni usurate dall’uso poetico, allora io proprio non posso permettermi di apprezzare.
Umberto Saba era capace persino di usare la rima fiore/amore, definendola “la più antica difficile del mondo”: era ben consapevole che la difficoltà derivava dalla sua estrema usura. Se non si è consapevoli di questo, oppure, pur essendone consapevoli, non si è capaci di uscire dalla calotta delle modalità usurate, non si ottengono grandi risultati – o, almeno, non grandi per me.
Sergio Toppi, “Sharaz-de”
Venerdì sera, al corso sul fumetto che sto tenendo (e ormai volge al termine), parlando di Sergio Toppi ho avuto una piccola illuminazione su di lui. Stavo parlando di Sharaz-de, e del modo in cui Toppi costruisce un effetto mitico, sintetizzando al massimo la storia ma espandendo gli elementi caratterizzanti, sia quelli stilistico-verbali che (soprattutto) quelli grafici. Le figure presenti nelle sue pagine alla fin fine sono molto poche, ma i segni con cui sono disegnate sono moltissimi e fortemente evocativi. L’effetto complessivo è quello di un racconto molto rapido (proprio come sono le favole e le leggende) ma di grande profondità, carico di un’infinità di rimandi potenziali. È come se il racconto, alla fin fine, non fosse che un espediente per far avanzare un meccanismo che, in realtà, vive sostanzialmente di altro.
Questo altro è il sistema delle evocazioni, come succede in poesia, ma come succede soprattutto in musica. È di questo che mi sono di colpo accorto, osservando che, pagina dopo pagina, si ripresentavano figure, forme, dettagli, anche al di là della loro specifica necessità per lo sviluppo della storia. Tutto accade, in queste pagine, come in un brano di musica in cui coesistono vari motivi, che si presentano e poi ritornano a più riprese, intrecciandosi con altri, e con lo sviluppo che la musica sta avendo in quel momento. In certi punti questi motivi ritornano in maniera netta, in altri appena appena accennati, mentre il discorso principale è un altro.
È un modo di lavorare non così diverso da quello che caratterizza la musica di Wagner, per esempio, con i suoi leitmotiv, anch’essa con un sottofondo narrativo (sempre di melodramma si tratta), ma molto più concentrata sull’evocazione musicale che sul racconto.
Guardate, per esempio, nella sequenza di pagine che riporto qui sopra (occorre ingrandire, naturalmente) come ritornano le figure della città, dell’uomo a cavallo, del nastro intrecciato, della lama fortemente ricurva. Al di là della capacità (straordinaria) che Toppi possiede nel costruire le singole pagine, queste ricorrenze forniscono un’unità dinamica al testo. E anche l’assenza o grande scarsità delle vignette, che rende le pagine degli organismi graficamente unitari, contribuisce alla fluidità del risultato, come fosse davvero un giustapporsi di masse e motivi non sonori ma grafici. (E guardate come nell’ultima pagina qui riportata il passaggio dalle tre vignette piccole in alto all’immagine grande del banditore dia graficamente l’idea di un improvviso fortissimo, ancora prima di leggere le parole)
Lo si potrebbe quasi suonare, nel complesso, questo testo…
Dettagli (39)
Questo Dettaglio mi piace perché sembra un disegno, perché è quasi un’immagine in negativo (col cielo nero e l’albero più chiaro) e perché i rami sono come serpenti impazziti che danzano, dritti come i cobra degli incantatori.
Viene voglia di girarla a testa in giù, questa foto, perché questo potrebbe sembrar ridarle stabilità. Temo che sia un’illusione, però.
La gente colorata
Questa foto è stata presa qui, lo stesso giorno di questa e questa e questa e questa e questa e ancora questa (sì, ho scattato varie foto quel giorno, ma diverse centinaia vi saranno risparmiate).
Mi piace perché la gente di sotto è colorata esattamente come i nastri e le bandierine di sopra, e il mondo del simbolico si rispecchia cromaticamente in quello del reale (e viceversa, naturalmente).
Tutti stanno guardando qualcosa, che qui è fuori quadro, ma il fotografo lo sapeva che il vero spettacolo erano loro, la gente, festiva quanto e più delle bandierine. E pure loro lo sapevano, quel giorno lì.
(Sì, è vero, ci ho dato su un pelino troppo di saturazione con Photoshop. Ma qui i colori sono tutto)
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