Gianni De Luca: continuità del tempo e vignette implicite

Gianni De Luca, Amleto, tavv 45-46

Gianni De Luca, Amleto, tavv 45-46

Rileggendomi le riduzioni shakespeariane di De Luca, mi è venuto da fare un paragone. Come tutti i paragoni, anche questo regge sino a un certo punto; tuttavia, almeno sino a quel punto aiuta a capire qualcosa, a cogliere qualche idea, che poi andrà sviluppata per conto proprio, anche al di là del paragone stesso.

Il paragone è quello col melodramma, ovvero con la riduzione per musica che si fa, ed è più volte stata fatta, da un dramma teatrale per il teatro di prosa a un dramma per musica. Pensate, tanto per restare in tema shakespeariano, all’Otello, e alla sua riduzione verdiana, per esempio.

Che cosa si fa, quando si trasforma un dramma per renderlo adatto alla musica? Prima di tutto si taglia, si taglia moltissimo; e poi si riscrive, affinché le parole siano più adatte al nuovo contesto. Quello che deve restare è una versione essenziale della storia originale, sufficientemente riconoscibile nella sua concisione. Certo, il libretto perde moltissimo dei contenuti della versione originale; ma il libretto non è un testo definitivo, bensì un semplice supporto per un’opera che sarà prima di tutto un’opera musicale. Quello che si perde in termini di azione e dialoghi viene recuperato in termini musicali, se il musicista è sufficientemente bravo. E così, ci sono splendidi melodrammi tratti da drammi mediocri, così come mediocri melodrammi tratti da drammi splendidi, ma anche mediocrità da ambo i lati, oppure capolavori, come nel caso dei due Otello.

Nel caso delle riduzioni shakespeariane di De Luca….

Prosegue su Conversazioni sul Fumetto.

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Di una foto di Dettagli (47)

Dettagli (47)

Dettagli (47)

Senza parole.

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Della foto di una spiaggia così

La spiaggia

La spiaggia

Come si fa a non desiderarla, una spiaggia così?

In verità, il luogo è ancora più bello di quello che sembra, e questo è uno spot pubblicitario. Però bisogna svegliarsi alle sei, e farsi un’ora di strada terrificante, più mezz’ora a piedi, per essere in questo paradiso verso le otto, godersi un paio d’ore di meraviglia. Poi incomincia ad arrivare gente, e a mezzogiorno si scappa dalla bolgia, si fa mezz’ora a piedi, in salita sotto  il sole, e un’altra ora di strada terrificante.

Ne vale la pena.

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Del perché, in linea di massima, non amo la poesia in prosa

pIl fatto che io abbia dei problemi in generale con la poesia in prosa non mi impedisce di apprezzare certe poesie in prosa. Ma indubbiamente parto prevenuto. Ecco alcune delle mie ragioni.

Intanto, non c’è dubbio che, come espressione del non-verso, la poesia in prosa abbia un valore espressivo. Si tratta però di un valore in negativo – non nel senso di un cattivo valore, ma nel senso di un valore (buono) che si basa su una negazione, su un’assenza, quella della divisione in versi. Qualcosa che si presenti come poesia, ed esibisca altri aspetti tipici della poesia, può ben essere poesia anche se non è in versi, proprio perché gioca sul fatto che, pur dovendo esserci, essi non ci sono.

Il principio non è però troppo generalizzabile. Come tutti i valori in negativo, anche questo ha bisogno, per poter funzionare, dell’esistenza stabile e sancita, nell’ambiente culturale, del suo corrispondente positivo, in questo caso quindi del verso. Se la poesia in prosa diventasse la maggioranza della poesia, questa assenza non sarebbe più percepibile, e il suo valore espressivo si perderebbe. Si tratta quindi di un’espressività abbastanza contingente, l’espressività dell’eccezione, non in sé sostenuta da ragioni in positivo.

Ma non è questo che, principalmente, rimprovero alla poesia in prosa. Ci sono due ragioni assai più forti.

La prima è che, con il verso, se ne va, almeno in parte, l’attenzione sulla componente sonora, prosodica, fonetica del discorso poetico. Non scompare del tutto, perché è ben possibile alla prosa poetica riguadagnarsela. E tuttavia essa parte svantaggiata, proprio perché, assumendo la forma visiva della prosa, essa assume anche – di principio – l’attenzione focalizzata sui contenuti che è tipica del discorso prosastico. Giocare di ambiguità con la prosa significa dunque giocare ad attenuare o addirittura annullare ciò che di specifico possiede la poesia nei confronti della prosa. Non è un peccato mortale. Tutto, se espressivamente funziona, si può fare. Però attenuare o annullare gli elementi sonori significa anche marginalizzare gli elementi più direttamente coinvolgenti, gli elementi immersivi del linguaggio poetico, quelli che – prima degli altri – creano Stimmung, accordo collettivo, ritmo condiviso.

La seconda ragione è che, con il verso, se ne va completamente l’organizzazione visiva della poesia, ciò che, visivamente, distingue la poesia dal blob grafico della prosa – la quale è, dal punto di vista grafico, sequenza informe, mattone o mattoncino di caratteri. Anche l’organizzazione visiva della poesia contribuisce a richiamare l’attenzione sul piano del significante, a dichiarare la parola non del tutto trasparente nei confronti del significato che trasmette, come un qualsiasi oggetto del mondo che, oltre ad avere gli eventuali rimandi simbolici che ha, è comunque se stesso, con le sue caratteristiche fisiche e materiali. Prendere la forma visiva della prosa vuol dire favorire l’uso molto più funzionale che la parola ha nella prosa, l’uso (vicino all’uso quotidiano finalizzato) per cui la parola si risolve interamente nel suo significato, in quello che essa vuol dire.

Quello che tendenzialmente si perde, in tutti e due i casi, è la ragione per cui la poesia è importante, cioè proprio la sua differenza con la prosa, ovvero il fatto di portare alla luce la natura condivisa del linguaggio, e non solo quella espressiva. Dal Romanticismo in poi, la vulgata ha fatto coincidere la poesia con la forma più alta di espressione. Si tratta di un fraintendimento. La poesia è certamente espressione, ma non c’è bisogno della poesia per esprimersi: quando ci si schiaccia un dito col martello piantando un chiodo, il proprio grido e la propria imprecazione sono già estremamente espressivi, anche se per nulla poetici. Che la poesia sia, di espressione, la forma più alta, è invece probabilmente legato a questa natura collettiva, condivisa, ritmica, rituale, del linguaggio poetico – insomma qualcosa che magari non è proprio contrapposto all’espressione, ma le è certamente almeno del tutto trasversale.

La poesia in prosa, tendenzialmente, affossa proprio questa componente specifica della poesia, in nome dell’espressività; in nome, di conseguenza, di un qualche predominio dell’io. In altre parole, insomma, la poesia in prosa è forse, in fin dei conti, l’estremo travestimento della lirica.

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Valvointerviste 1988. 7: Lorenzo Mattotti

Lorenzo Mattotti 1988

Lorenzo Mattotti 1988

Sono affascinato dal fumetto soprattutto per la sua complessità, come mezzo per la complessità. Per il rapporto tra tre aspetti: le immagini, il ritmo, la sceneggiatura. Quello che più mi interessa è metterle insieme, organizzarle. C’è il problema dell’immagine, della sceneggiatura… le immagini sono fatte di segni, molto spesso sono fatte di colori, la pagina ha una struttura portante, ci sono delle componenti di ritmo… Ogni elemento è necessario alla riuscita di una storia ed è in rapporto stretto con gli altri, per cui deve esistere equilibrio e contemporaneamente tensione. Ora sto parlando semplicemente del mezzo, del rapporto tra la lingua e l’immagine, tra i silenzi e l’immagine solo disegnata che crea tensione, una tensione che esiste tuttavia soltanto se è stata preceduta da un parlato. E queste sono le componenti del ritmo. Poi c’è la struttura della pagina, formata dalle varie vignette, che sono corpi singoli e sono nello stesso tempo in relazione tra loro e con le pagine precedenti. Le vignette sono poi contemporaneamente segno e colore, due elementi anche questi in rapporto tra loro e tra vignetta e vignetta, nell’arco di tutta la storia.

Sicuramente, tra tutto quello che ho fatto, dall’illustrazione alla pittura al cartone animato, il fumetto è il linguaggio che amo di più. Nel cartone animato c’è il movimento, il rapporto col cinema… Ma è quasi tutto detto. Nel fumetto invece c’è un’organizzazione finalizzata a creare qualcosa che in effetti non è detto a priori. Il tempo e il passaggio del tempo hanno un altro valore. Anche nelle immagini più astratte io parto sempre da un’idea narrativa. Anche nelle illustrazioni, per la moda e per la pubblicità, mi piace molto essere narratore. E mi piace raccontare cose molto leggere, impalpabili, anche i silenzi, qualcosa che nel fumetto diventa più difficile esprimere che con altri linguaggi.

 

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Il fumetto deve essere una cosa estremamente diretta. Bisogna trovare la tensione giusta, quella che coinvolge il lettore. Se l’immagine, la storia, la forza dell’immagine non riescono a catalizzarlo, allora deve esserci un ritmo naturale, nel quale si entra senza sforzo e affascinati. Non è come nel cinema, in cui sei in una stanza buia, con il volume alto, la grande immagine. Già anche con la televisione sei molto distratto, ma il fumetto ha un rapporto con la concentrazione che è più simile a quello del libro. Il fumetto deve avere un ritmo e delle immagini forti, che catturano subito. Tutto sta sempre sulle righe, nel fumetto.

A volte lo paragono al melodramma: lì i testi sono completamente privi di consistenza, non esistono, però il rapporto con la musica fa sì che se tu ascolti un melodramma seguendo i testi, grazie alla musica essi assumono immediatamente un altro valore. È la musica che li fa volare, per cui ti trovi completamente coinvolto, subito colpito da questo fatto. Penso che si possa tracciare un parallelo tra l’innaturalità che deve avere il fumetto e la struttura dell’opera lirica. Anche nel fumetto puoi inserire dei testi estremamente retorici, forti, che estratti da quel contesto letterariamente non reggono. Però una volta che sono accompagnati alle immagini, ecco che volano anche loro. È comunque importante raccontare delle storie delicate, quasi inesistenti. Non puoi pretendere di concepire le immagini in maniera cinematografica, come fai con la cinepresa, come Andy Warhol che registra un uomo che dorme per otto ore. Nel cinema questo può avere il suo fascino, ma nel fumetto non ti è consentito. Lo puoi fare forzando molto.

 

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Una delle più grosse tensioni della mia storia ha riguardato proprio il dover raccontare la realtà e contemporaneamente il disegno, l’immagine. Facevo Incidenti e mi sarebbe piaciuto fare del cinema, volevo catturare con una cinepresa quello che avevo attorno e cercavo di raccontarlo nel fumetto. È stato lì però che ho capito che dovevo accettare la “falsità” del disegno, l’artificiosità completa. E infatti la storia è scoppiata: a un certo punto sono entrati i Sidra, personaggi del tutto irreali. Non potevo andare avanti altre cinquanta pagine tenendo duro con quel rapporto con la realtà, la storia non reggeva, non aveva forza. All’interno dell’artificiosità, invece, a un certo punto si può riuscire a far entrare il lettore in campi o momenti impalpabili, di pure sensazioni. Questo mi interessa molto, e l’ho poi tentato anche con Fuochi, ma diventa possibile far provare, far respirare al lettore l’aria, il colore, il vento, solo dopo che l’hai catturato.

Tutto deve essere quindi sopra le righe. Tutto deve essere vissuto in maniera diretta. Io sento che il racconto funziona se riesco a viverlo in maniera diretta, a costo che le cose possano apparire semplicistiche, semplificate all’osso. A livello personale, penso che le cose funzionino quando le affronto direttamente… la paura, l’amore, la felicità… quando è appagato il mio rapporto con la fisicità dei sentimenti.

Si tratta certo di sentimenti diversi tra loro, ma hanno in comune il fatto di essere fisici. Hanno tutti un rapporto con il sentire. Io sono molto emotivo, molto passionale con il mio lavoro. Non sono concettuale in questo senso, devo sentire il disegno, le emozioni. E cose come la malinconia, la paura, il correre, il rapporto con la natura, se da una parte sono “i grandi temi”, dall’altra sono probabilmente molto romantici, molto emotivi, legati molto alla fisicità. La fisicità che viene fuori anche nei mezzi che uso, mezzi con i quali ho un rapporto molto stretto. Anche quando uso dei materiali leggeri, non particolarmente spessi o pastosi, dalle matite ai pastelli a olio, c’è un rapporto di fatica o di piacere nella stesura dei colori, un gusto per la stratificazione, per il graffio, per l’impasto creato attraverso numerosi passaggi. E quando lavoro con il pennino capisco che le cose migliori vengono fuori quando io sento il pennino: è cioè importante per me il rapporto di sensibilità con la linea e con quello che si sta creando. Il rapporto fisico con la punta, che è estremamente sensibile, diventa un tramite, un prolungamento delle mie emozioni. La mano è in rapporto diretto con il mio sentire e qualsiasi emozione varia il segno. Questo è un rapporto fisico, dove la mia emozione sulla carta mi affascina e mi influenza. È tutto molto legato al corpo, alla mia pelle. Il pennarello, ad esempio, crea tra me e il lavoro un rapporto “di mestiere”, non è proprio una sensazione artigianale, ma in ogni caso sento il distacco. Mentre quando uso la matita e realizzo una storia che già conosco – e quindi può essere mestiere – sento di più il senso del lavoro. Il retino è come il pennarello: mi affascina e alcune volte lo uso, ma non è richiesta una partecipazione fisica, soltanto pazienza e precisione. Mentre la mia precisione è più legata alla rappresentazione esatta del mio sentire e dei miei sentimenti.

 

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Il bianco e nero rappresenta un problema, forse per un mio eccesso di controllo. Il bianco mi piace perché è puro. Vorrei lavorare soltanto con il pennino. Mi imbarazza invece il rapporto tra pennino e pennello, perché è difficile contenere le proporzioni e l’equilibrio tra queste due tonalità. Mi piace molto il pennello, così come forse mi piace troppo il nero. Lo uso poco proprio per contenermi, perché quando comincio a usarlo non smetterei più e tendenzialmente farei tutto sul nero, lavorerei sulle penombre totali. Un po’ come Muñoz.

Il nero è estremamente prepotente. In Fuochi a un certo punto ho cominciato a sentire il fascino delle penombre, e ci sono delle vignette in cui sono arrivato a dei punti “limite”, non sapevo nemmeno che risultati di stampa avrei potuto avere. Ma ero così affascinato dalle differenze nell’oscurità che non riuscivo a fermarmi. Lo stesso problema ce l’ho quando comincio ad adoperare il nero. Se mai affronterò una storia in bianco e nero, so che dovrò passare almeno un mese a combatterci.

 

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Per quello che riguarda i miei temi, mi interessa la scommessa di riuscire a raccontare delle cose che con il fumetto sono difficili da raccontare, cose che forse appartengono ad altri territori espressivi. Ad esempio, la contemplazione… il cambiamento delle nuvole, l’aria, il colore, sono cose che non generano azione, ma piuttosto degli itinerari interiori. L’idea di riuscire a raccontare queste cose mi affascina, perché non mi interessa il fumetto come serialità, ma il fumetto come scommessa. C’è gente che dice che è impossibile  raccontare certe cose; io dico: “Proviamoci. Proviamo a vedere se si può raccontare, se ci si riesce”. Non ho pregiudizi per il mezzo. Lo uso nella sua specificità, senza però limitare la gamma dei temi possibili. Questo non implica la distruzione, non sono per la distruzione del fumetto, ma voglio cercare di lavorare nell’ambito di zone non ancora investigate, zone che molti ritengono inagibili.

È importante insomma vedere se è possibile espandere il campo, prima di dire che non lo è. Certe volte mi sono ritrovato in vicoli ciechi, da cui si entra nella concettualità esasperata, oppure totalmente nella pittura. In Fuochi credo si senta questa tensione enorme tra pittura, intimo, narrazione, eccetera. L’importante è trovare un equilibrio, grazie al quale nulla si distrugge, ma tutto convive al meglio. Capitava che quando c’erano dei sentimenti di un certo tipo da esprimere, mi scattavano fuori le immagini di pittori che io amo e che per me hanno parlato nella mia lingua. Veniva perciò automatico e naturale coglierli, seguire la loro lezione. Certo, esiste anche un mio distacco di lettore, una consapevolezza riguardo alle mie fonti di ispirazione, però devo sentire di essermene completamente appropriato per essere in grado di utilizzarle.

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

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Questo è l’estratto dell’intervista a Lorenzo Mattotti contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. Le interviste agli altri autori di Valvoline sono apparse nei giorni precedenti. Qui un’introduzione a Valvoline.

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Valvointerviste 1988. 6: Jerry Kramsky

Jerry Kramsky 1988

Jerry Kramsky 1988

La mia origine come sceneggiatore è piuttosto casuale. Ho cominciato a scuola a fare sceneggiature per fumetti conoscendo Lorenzo (Mattotti) e scoprendo questa passione in comune. Io, a dire il vero, venivo esclusivamente da Topolino e Jacovitti, e tramite lui ho incominciato a conoscere Asterix, e Linus.

Quelli erano gli anni, penso, in cui uscivano più novità.  Avevamo incominciato a guardare anche dei giornali semialternativi: c’era Outside, che non credo sia durato più di un anno, che pubblicava certe storie di fantascienza di Crepax, L’astronave fantasma, e pubblicava anche qualcosa di Druillet. È stato così, adagio adagio, che ci si è interessati a questi autori, che per noi davvero venivano da un altro mondo, e facevano un altro tipo di fumetto, un fumetto che io non avevo nemmeno mai pensato potesse esistere. Era quello il momento – anche come età, credo, sui sedici-diciotto anni – in cui si sentivano gli echi dei vari movimenti, delle manifestazioni, cose che succedevano anche a scuola, cose che ci apparivano come alternative alla nostra realtà quotidiana.

Si era intorno al ’68, ’69…, fino al ’71-’72. Noi abitavamo in un paesetto, per cui le cose arrivavano sempre un anno dopo. Per me poi, che oltretutto non abitavo neanche a Como, e stavo proprio in un paese piccolo piccolo, nella periferia, si apriva proprio un altro mondo. Io avevo visto solo l’oratorio e… non so… i piccoli atti di teppismo paesano. Como mi sembrava una metropoli. Così, c’era attorno a noi tutto questo insieme, questo coinvolgimento a tanti livelli… Insomma, non ho mai pensato al fumetto, e tanto meno alla sceneggiatura, come lavoro. Era più che altro una voglia, un fare qualcosa. Ancora più casuale è stato il mio dirigermi verso la sceneggiatura, perché anch’io facevo disegni, schizzavo qualcosa. Lorenzo e io arrivavamo prima a scuola e incominciavamo a fare lo schizzetto sulla lavagna; e vedendo queste cose scoprivamo che avevamo voglia di farne altre. Dopo di che, strada facendo, ci siamo divisi i compiti, perché lui era più bravo, e allora si guadagnava sul campo il diritto a fare la parte delle immagini.

 

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In me c’è Pogo e Krazy Kat, due classici. Mi piaceva moltissimo anche Spirit. E il conoscerli è stato proprio uno sbloccarmi, aprirmi, farmi vedere che potevano esistere altre cose al di là di quelle poche che conoscevo.

E poi ci sono i Moomin. Hanno un po’ un aggancio casalingo, loro. Un altro è Bodé, che però è venuto dopo, quando avevamo già incominciato a produrre qualcosa, e incominciavamo già a svezzarci un po’ di più. E Bodé era più pop, nel senso musicale del termine, più psichedelico se vuoi.

 

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Al di fuori del fumetto… c’era, c’è sempre stata, una vaga influenza un po’ da Kerouak, anche se mai molto approfondita, ma che era sintomatica del momento, del tipo di cose che mi arrivavano, come anche quel guardare un po’ all’America; più tramite la musica in effetti, ma comunque come a qualcosa che fosse in un certo senso un faro, una luce guida, qualcosa che fosse avanti. Quello che di alternativo piaceva di più arrivava da lì. Ma questo succedeva solo all’inizio.

Poi, una delle prime cose che mi ha molto influenzato, come spirito, anche se probabilmente non tanto come stile, è stata la fantascienza, quella del tipo più assurdo, quella un po’ sul surreale, come Robert Sheckley o altri che basavano le loro storie sull’esasperazione, sul portare al paradosso delle situazioni molto normali. Mi affascinavano molto quelle situazioni in cui vedevo delle normalità portate alla pazzia.

Anche queste sono però in realtà influenze iniziali, come era stato l’impatto visivo con i lavori di Druillet, molto forti ma destinati un po’ a diluirsi nel tempo. È come con una torta con troppi sapori: dopo un po’ che la mangi incominci a preferire la torta margherita, a sentire anche le sfumature di quest’ultima.

Più avanti, chi ho trovato molto coinvolgente è stato Queneau, con Zazie nel metro, ma anche nelle sue altre cose… e anche Buzzati, una riscoperta dell’Italia. Un’altra cosa che ho sempre cercato infatti, tutto sommato, mi sembra che sia un poco quel suo sottofondo di favola, o anche un po’ di ingenuità.

 

***

Nel mio fare – adesso forse più coscientemente di prima, ma lo ritrovo in me fin dall’inizio – mi sono sempre molto appassionato alla mia attività; e questo mi ha procurato anche qualche svantaggio, perché in questo modo si ha meno controllo, si può esagerare; ma non sono  mai riuscito a fare una cosa solo perché dovevo farla. Ho sempre dovuto crederci molto. Ho sempre dovuto appassionarmi. Quello che provo adesso quando lavoro – e sono contento quando ci riesco – è il lasciarmi andare all’amore verso quello che sto facendo, al trovare il tipo di atmosfera, la storia, la battuta o il dialogo, la parola su cui magari perdo mezz’ora per sentire qual è la variante che mi procuri la sensazione, o qual è il suono che mi convinca di più. Voglio avere ancora questo tipo di sentimento, ma voglio riuscire poi anche a osservarlo con distacco; voglio riuscire a buttare giù lo schizzo della sceneggiatura, del dialogo, con questo grande sentimento, e subito dopo riuscire a guardarlo come se io entrassi in quella stanza e mi dessero in mano il foglio e me lo facessero leggere. Non sempre ci riesco. Non so bene quanto ci riesco. A volte mi sembra di riuscirci, perché quello che trovo… non proprio più difficile, ma più importante per me, quando produco, è cercare appunto di non innamorarmi troppo di una frase o di un periodo o di qualcosa che sta succedendo.

 

***

La parola lavoro, la parola anche sceneggiatura in se stessa, mi inibiscono abbastanza, perché non riesco a entrare in quello che io immagino che sia il personaggio dello sceneggiatore, nel quale io non mi ritrovo assolutamente. Un altro fatto, collegato a questo, è che lavorando su fumetti di questo tipo, che sconfinano un po’ nella cultura – un’altra parola che uso sempre un po’… che credo di non saper neanche usare bene – a volte non ne sento dentro di me le giustificazioni, nella mia preparazione, in quello che io so, appunto nella mia cultura. Non mi sento molto preparato, professionalmente, in un certo senso, né molto studioso e a conoscenza di un panorama letterario, o di un panorama artistico molto vasto, e quindi mi sembrerebbe di imbrogliare facendo finta di mettere cose di questo genere in quello che sto facendo, perché non sono vere; possono ugualmente esserci, ci sarà probabilmente qualcosa, ma si tratta di cose molto istintive. Cose che poi cerco, col distacco di cui parlavo prima, di vedere e di aggiustare al meglio. Ma per me è ancora qualcosa di molto molto dilettante. Ho provato per certi periodi a fare lo sceneggiatore proprio come mestiere, e avrei anche potuto continuare, secondo me, perché le occasioni c’erano; era anche un momento più facile. Però a quel punto subentrava la non voglia: era il fatto di doverlo fare per lavoro, di dover fare delle cose che ne coinvolgevano anche altre in cui non credevo fino in fondo.

 

***

Mi ritrovo poi sempre il gusto, più che dello sceneggiatore, del lettore. A me piace, quando rivedo le mie cose, vederle con lo spirito di uno che le sta leggendo, più che di quello che le ha fatte, e questo nel fumetto è abbastanza fattibile, perché il fumetto è principalmente immagine, per cui anche se una tavola, una sequenza è stata realizzata con nessun cambiamento da quello che io avevo scritto, ha un’angolazione, una luce, è comunque qualcosa di molto diverso.

Il metodo di lavoro che io prediligo è quello del discutere la trama, il soggetto più o meno a grandi linee, poi una volta stabilita bene la sequenza, i tempi, le immagini da privilegiare, riprendere in mano la storia con i disegni già finiti, e lì inserire i dialoghi. Magari prima avendo deciso che in un certo punto è meglio la didascalia, in un altro è meglio il balloon, cioè studiando il ritmo che si vuol dare all’insieme.

 

***

Un’altro discorso che mi piace, quando mi sembra di capire qualcosa di quel poco che ho fatto, è quello dei compromessi. All’inizio Lorenzo e io facevamo pagine di trenta vignette e storie di settanta pagine, e andava così solo perché ci si stancava, se no sarebbero state di centocinquanta. Cioè, grande libertà. E più avanti invece ti accorgi che tante volte se sai usare i compromessi a cui devi sottostare – perché magari hai solo quello spazio a disposizione – alla fine questi ti servono di più. I limiti ti danno più metodo, ti danno una struttura. Da lì cominci a capire che le cose devono avere sotto una struttura che le deve sostenere. Ecco, in questo mi è molto stato di aiuto Queneau, anche nei suoi articoli, nelle sue teorizzazioni, nelle polemiche che aveva con i surrealisti, sul lasciarsi andare oppure nell’avere il canone classico sotto.

 

***

Una cosa che vedo in me è una mia crescita lenta – una crescita che trovo molto lenta rispetto a quello che potrebbe essere. Affrontando le cose in maniera così giocosa, magari imparo il meccanismo giusto, quello che mi serve, in quattro anni invece che in tre mesi.

 

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

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Questo è l’estratto dell’intervista a Jerry Kramsky contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. L’intervista a Lorenzo Mattotti seguirà domani. Qui un’introduzione a Valvoline.

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Valvointerviste 1988. 5: Charles Burns

Charles Burns 1988

Charles Burns 1988

Ho iniziato a disegnare fumetti giovanissimo. Prima ancora di imparare a leggere, guardavo fumetti come Tin Tin di Hergé, e Mickey Mouse, e anche Pogo di Walt Kelly. Il fatto è che a mio padre piacevano i fumetti e ne possedeva molti libri, e io avevo perciò anche da giovanissimo la possibilità di leggerli. In America, quando ero piccolo, i fumetti erano considerati una pessima cosa, erano visti come spazzatura, immondizia; e io sono stato in effetti molto fortunato ad avere una famiglia a cui non interessava il fatto che potesse trattarsi di immondizia.

In seguito sono andato a scuola d’arte, e lì ho studiato disegno e pittura e scultura, cose che non sono necessariamente collegate al malconsiderato fumetto. Eppure, a un certo momento della mia vita ho sentito che quello che mi interessava era proprio il suo modo di espressione: mi colpiva il fatto che i fumetti fossero un medium molto accessibile, estremamente poco costoso; non come le belle arti, non come la pittura o la scultura, rispetto alle quali è necessario essere molto ricchi o raffinati per comprendere e per comperare. Bastano pochi soldi per accedere ai fumetti.

Oltre ad Herge, del quale apprezzavo la chiarezza della linea e la chiarezza delle storie – storie molto forti e semplici, ma splendide – sono stato lettore di tutti i vari comic book americani, come i super eroi, Batman, Superman, Spiderman, e così via. Conoscevo anche alcuni buoni fumettisti dei giornali, come Al Capp, che faceva Li’l Abner, Walt Kelly con Pogo, e Chester Gould, che faceva Dick Tracy. Più avanti, quando ho incominciato a crescere, all’epoca dei tredici o quattordici anni, ho conosciuto i fumetti underground, e quella è stata una vera rivelazione: artisti come Robert Crumb, e altri ancora, erano davvero potenti, perché mentre la maggior parte dei fumetti erano per ragazzini e ragazzine, quelli erano per la prima volta fumetti per adulti, che parlavano di cose da adulti.

 

***

Ho incominciato a interessarmi alla qualità grafica dei miei fumetti molto presto, quando ero ancora molto giovane. Mi interessava disegnare immagini di forte attrazione, mentre mi interessava molto meno raccontare. A un certo punto, tuttavia, circa otto o dieci anni fa, mi sono reso conto che avrei potuto comunicare meglio se avessi potuto disporre della combinazione di una storia – una storia molto forte – e di una grafica altrettanto forte. Penso di essere migliore come artista che come scrittore, ma penso anche che la combinazione di scrittura e immagine crei un tipo di espressione forte, la più forte di cui mi senta capace. Mi sono anche reso conto, a un certo punto della mia vita, che volevo raccontare storie molto chiare e pulite, chiare da un punto di vista grafico, e chiare nella sceneggiatura; e ho cercato da allora di evitare le oscurità inutili, ho cercato di creare le più semplici e chiare presentazioni possibili.

 

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Io voglio raccontare storie forti, e per qualche ragione gravito nei mondi delle storie di horror. Quando racconto una storia molto forte qualche volta la trovo troppo seria, e dopo un poco mi rendo conto che è necessario un po’ di umorismo per renderla più appetibile, più accettabile. Penso che  humor e horror vadano molto bene assieme; in America il nome è “black humor”, umorismo nero, ed è un buon appellativo. Ci sono molti fumetti di horror in America e sembrano tutti seguire una formula molto semplice, banale; come fa anche il cinema horror americano, nel quale esiste una formula semplicissima per spaventare il pubblico. Per parte mia, io ho cercato di non fare riferimento a queste formule; ho cercato di creare un nuovo stile di horror.

 

***

E’ comunque piuttosto ovvio, guardando alla maggior parte delle mie storie, che io sono influenzato dalla fiction di genere in generale, e quando si dice fiction di genere si intende, oltre allo horror, anche fantascienza, poliziesco. A dir la verità sono molti quelli che  mi hanno domandato se io sia un accanito lettore di romanzi di fantascienza, e la risposta è no. In genere trovo la fantascienza molto noiosa; non mi interessa molto. Quello che mi piace è il romanzo poliziesco americano duro, tradizionale, quello che viene da Raymond Chandler. Tuttavia, non lavoro in senso stretto con questa tradizione; si fa uso delle strutture ma non si rimane nella tradizione. Preferisco usare cose più bizzarre, che parlino degli aspetti strani della cultura americana. In fin dei conti, io uso la struttura del romanzo poliziesco come un metodo per scoprire certi aspetti della cultura americana a cui sono interessato. Uso il mio detective, El Borbah, per esempio, come colui che scopre i fatti, scopre la storia che a me interessa scoprire, qualsiasi siano le strane circostanze che la circondano.

Sono anche piuttosto influenzato dal cinema, specialmente da quello cattivo, dal cinema americano di pessimo livello. Mi è stato già domandato come mai io sia tanto attratto dai film di fantascienza e di horror, quelli peggiori. Non mi è facile spiegare quello che vi trovo. Quando guardo film veramente brutti, da pochi soldi, degli anni quaranta, dei cinquanta o dei sessanta, proprio per il fatto che sono stati realizzati con così poca spesa, pochi mezzi, pessimi attori e pessime sceneggiature, emerge da tutti questi fattori una certa verità, una certa onestà, e questa onestà è difficile da spiegare; ma qualche volta penso che quei film siano più onesti e più trasparenti di quanto non lo siano film più costosi e raffinati, perché in fin dei conti parlano in un linguaggio molto comune, un linguaggio veramente non raffinato. Questi film esistono solo per sfruttare la situazione, esistono solo per ragioni di denaro, e quindi ogni strana verità vi può emergere.

 

***

I supereroi, e i comic book in generale sono un fenomeno americano, e sono qualcosa a cui io non posso sfuggire. Sono qualcosa insieme con cui io sono cresciuto, e li capisco molto bene; ma continuo a pensare che siano una creazione per ragazzi, per ragazzi dai cinque ai quattordici anni. Ci sono persone che non crescono mai, non superano mai quell’età; a loro i supereroi piacciono sempre. C’è un problema in America, che deriva dal fatto che le persone che crescono leggendo supereroi finiscono poi a disegnare e a scrivere storie di supereroi. Non arrivano loro influenze dal mondo dell’arte, non arriva nessuna influenza al di là di quella dei fumetti di supereroi, e così essi finiscono per produrre brutte versioni di brutti fumetti; producono immondizia in cima all’immondizia. Non creano nulla di nuovo. Imparano, per esempio, a disegnare dai fumetti, e non imparano dalla vita o dalla propria esperienza. Per questo considero i supereroi come responsabili di una situazione pessima, perché non vi è nessuna possibilità di crescita, non vi è luogo ove si possa crescere.

 

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Da giovane reagivo contro la pop art perché assomigliava ai fumetti. La pop art assomiglia ai fumetti dei comic book per il suo legame con la narrazione e per il suo umorismo. Ora la apprezzo per queste stesse ragioni: penso che essa sia davvero in buona parte così perché ha distrutto alcune nozioni sulla serietà delle belle arti, e ha dimostrato che si può ricavare arte partendo dall’immondizia. C’è bellezza nel mondo commerciale, c’è qualcosa di interessante in ogni parte del nostro ambiente, se si possiede un occhio buono. Penso che la pop art abbia avuto ragione a distruggere la santità delle belle arti, a distruggere l’atteggiamento che mette le belle arti sul trono.

 

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Sono stato in Italia due anni e non parlavo bene italiano. La situazione era sempre quella in cui i componenti del gruppo Valvoline parlavano un ottimo inglese, mentre io parlavo pochissimo o niente italiano. Perciò, ovviamente, per la partecipazione ad un gruppo di artisti, la cosa si presentava piuttosto difficile. Ma penso che più importante sia stato il fatto che potevo finalmente condividere le mie idee su fumetti e grafica con gli altri del gruppo, e loro mi potevano mostrare da vicino quello che facevano e quello a cui erano interessati. La mia partecipazione interiore a Valvoline è stata decisamente positiva e coinvolgente; può sembrare stupido ma la sensazione globale era molto forte.

Mentre ero in Italia mi veniva domandato “Perché non crei un fumetto, una storia sulla tua esperienza in Italia?”, e sebbene fossi molto impressionato dall’Italia, e ne apprezzassi moltissimo la cultura, rimane il fatto che io mi sento comunque troppo strettamente legato alla cultura americana: sono sempre stato americano, che mi piaccia o no. Qualche volta non mi piace, per ragioni politiche molto ovvie, come Ronald Reagan. D’altra parte, i due anni che ho passato in Italia hanno reso la mia visione dell’America molto più forte. Mi hanno messo infatti in grado di guardare la cultura americana da un diverso punto di vista e di capire che è ancora più strana e oscura e brutta di quanto avessi capito prima. In un certo senso la cultura americana è molto forte, ma penso che resti comunque vero che è molto strana, e molto difficile.

Lo horror è il mezzo di espressione che mi piace usare per esprimere la mia visione di questa cultura, la mia visione del lato oscuro dell’America. Come ho già detto, penso anche che ci dovrebbe essere sempre dello humor nello horror, ci dovrebbe essere sempre humor nel lato oscuro; mi sembra cioè, in definitiva, che il modo migliore per esprimere il mio punto di vista sulla cultura americana sia attraverso horror e humor.

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

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Questo è l’estratto dell’intervista a Charles Burns contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. Le interviste Jerry Kramsky e Lorenzo Mattotti seguiranno nei prossimi giorni. Qui un’introduzione a Valvoline.

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Di una foto di Dettagli (46)

Dettagli (46)

Dettagli (46)

Quello che non capisco, e che mi affascina in questo Dettaglio, è come si possa essere formato questo effetto a partire dalla calce del muro.

È come un qualcosa di biologico, una specie di carne sezionata, che in realtà è muro.

Inquietante.

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Di una foto d’estate

D'estate

D’estate

 

Quando su ci si butta lei,
Si fa d’un triste colore di rosa
Il bel fogliame.

Strugge forre, beve fiumi,
Macina scogli, splende,
È furia che s’ostina, è l’implacabile,
Sparge spazio, acceca mete,
È l’estate e nei secoli
Con i suoi occhi calcinanti
Va della terra spogliando lo scheletro.

Giuseppe Ungaretti (da Sentimento del tempo, 1931)

(è la poesia che sempre mi viene in mente quando penso all’estate – anche se questa foto è meno apocalittica)

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Valvointerviste 1988. 4: Giorgio Carpinteri

Giorgio Carpinteri 1988

Giorgio Carpinteri 1988

Penso che la ragione per cui ho incominciato a disegnare fumetti sia sostanzialmente generazionale. Come accade frequentemente, la scelta iniziale è legata al caso; ho iniziato a disegnare i miei primi fumetti a undici anni, se non prima, per gioco… Mi piacevano i fumetti, era l’unico tipo di letteratura che da bambino leggevo, e quindi è evidente che per me la comunicazione passasse attraverso un fumetto, una storia, una fiaba, e non attraverso il cinema o la pittura. In poche parole il fumetto coniugava perfettamente le esigenze di un bambino: aveva storia, narrazione e disegno: la capacità di esprimersi attraverso personaggi e atmosfere disegnate.

Poi questa idea di fumetto, questa passione per il fumetto si è sviluppata attraverso diverse fasi. Prima disegnavo perché era il mezzo più espressivo e mi divertiva semplicemente farlo; in seguito il divertimento ha continuato a essere una costante, ma gli elementi che mettevo in gioco col passare degli anni erano evidentemente sempre più ricchi, diversi, e cambiavano secondo la mia età, le mie letture, quello che vedevo intorno a me, e anche secondo la storia stessa del fumetto. Ho passato fasi in cui io stesso sottovalutavo il fumetto, lo consideravo un’arte di serie B. Oggi, dopo un periodo di allontanamento in cui ho lavorato per la televisione, penso che il fumetto sia un’arte favolosa, perfetta, ricchissima, ancora da sfruttare. E quell’intuizione casuale che ebbi da bambino la confermo oggi; anzi sono pronto a ritornare a disegnare fumetti, convinto che siano un campo di ricerca espressiva, di letteratura visiva e non, capace di competere con qualsiasi altro tipo di espressione artistica.

 

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Ad un certo momento il mio stile è cambiato, diventando quello che mi ha fatto più conoscere dal pubblico, diventando più geometrico e meccanomorfo. Le ragioni di questo cambiamento sono di ordine espressivo. Era molto più utile per me avere un controllo  totale su quello che mettevo in scena. Un’esigenza di ricostruzione del mondo che si soddisfaceva attraverso forme meccaniche, con un alfabeto mentale, umano, prevalentemente razionale, che è quello delle forme geometriche, che consentono il controllo di traiettorie, gesti e movimenti. Il mio procedere meccanomorfo nel ricostruire la realtà attraverso un atomo uguale e immutabile (sia per il mondo animale che per quello vegetale e minerale), questo modo di ricostruire con lo stesso materiale il mio teatrino, tutto di cartapesta, è un metodo che mi è servito ad esercitare più controllo sul mio lavoro. Così come alcuni dei più prestigiosi autori di fumetti italiani si sono conquistati il proprio controllo espressivo appropriandosi della tecnica di autori classici del fumetto americano quali Milton Caniff, io ho soddisfatto la stessa esigenza guardando anche alle esperienze artistiche europee del dopo-Cezanne.

 

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Una storia a fumetti nasce da un’intuizione. L’intuizione è un sogno che diventerà sceneggiatura e regia. La prima è la ricostruzione razionale del sogno e il suo inevitabile ampliamento. È la necessità di dare un senso e una scansione logica a quello che si è immaginato.

La seconda è la sua realizzazione visiva: la scelta delle inquadrature, dei colori, del ritmo, ma anche delle tecniche con cui costruire l’immagine.

Il prodotto dell’incontro di questi due elementi è la singola immagine e la somma delle singole immagini: cioè la storia a fumetti. L’armonia e l’equilibrio che legano questi elementi (il contenuto e la forma) determinano lo stile e la riuscita del lavoro.

C’è qualcosa di significativo in ogni intuizione, anche in un’intuizione che prende le mosse per partorire un fumetto. Non vedo nessuna differenza insomma tra un buon libro e un buon fumetto e un buon film e un buon quadro.

 

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Il pattern è già di per sé un elemento neutro che si offre come ripetizione di un’immagine, comunque piatto, di sfondo. E quindi narrativamente all’interno di un fumetto deve e può essere usato qualora la narrazione lo consenta per esprimere nel modo più evidente questo suo carattere di neutralità, questo suo carattere di piattezza. In Lichtenstein, per esempio, il pattern era usato come brutalmente preso dal fumetto, cioè era un retino, puntinato o a linee parallele, e lui non osava mutarlo, non aveva nessun senso mutarlo per lui; Lichtenstein ricercava la neutralità, l’astrattezza appunto da macchina, da stampa, e la ritrovava perfetta, la traduceva perfetta sulla tela. A lui non interessava operare una modifica su un pattern di stampa; lo prendeva come significante di per sé. Io se uso il pattern all’interno di una storia lo faccio esclusivamente per fini narrativi.

 

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Il fumetto e la televisione sono due media completamente diversi; anche se la pratica del fumetto è in questo caso un buon punto di partenza per avvicinarsi alla televisione. Apparentemente, lo storyboard di una sigla grafica è un fumetto muto, ma in questo caso il movimento delle sequenze è progettato per diventare reale, non per rimanere virtuale. Il movimento è infatti l’elemento aggiuntivo rispetto al fumetto che determina un radicale mutamento delle regole espressive. La televisione è un fiume di immagini che scorrono, davanti ai nostri occhi senza sosta. Questo flusso di immagini procede per sostituzione. Ogni immagine soppianta la precedente rendendo impossibile il confronto contemporaneo di due singoli fotogrammi. In televisione quindi una buona immagine non è da considerarsi tale se non è realizzata tenendo conto che si tratta di una delle venticinque immagini (fotogrammi) che compongono un secondo.

Naturalmente anche il rapporto immagine-contenuto è diverso, non avendo la sigla televisiva altro scopo se non quello di introdurre il programma o rubrica nel modo più spettacolare e appropriato, fornendo inoltre i titoli di testa. Ciononostante, nelle mie sigle non rinuncio ad elementi narrativi, come ad esempio il mago di Sotto le stelle, il quale nel corso della sigla trasformava stereotipi della stagione invernale in stereotipi della stagione estiva; una sorta di Mandrake dello stereotipo.

Un’altra differenza rispetto al fumetto consiste nell’uso di mezzi tecnologici, e non poveri e artigianali. La conoscenza dello strumento elettronico è fondamentale sia per l’ideazione che per la perfetta realizzazione dell’idea. A volte penso che i veri artisti siano gli ingegneri che ideano e rendono possibili le nuove funzioni del computer.

In televisione infine, al contrario che nel fumetto, non è possibile attuare la realizzazione del prodotto esclusivamente in prima persona. E si impone quindi un metodo di pensiero, prima che di lavoro, tale che trasformi le idee in informazioni inequivocabili, che possano cioè essere trasmesse agli operatori e da questi perfettamente rispettate.

 

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Il meccanomorfo, una volta servitomi ad acquistare padronanza di linguaggio, rischiava, col proprio ingombrante significato, di precludermi nuove e più ampie possibilità espressive. L’avere accettato la coesistenza nel mio lavoro sia del controllabile che dell’incontrollabile (come con alcune tecniche coloristiche) è ora fonte di più fertili risultati atmosferici. In ogni caso il fumetto, comunque lo si pensi, rimane fedele alla propria caratteristica fondamentale: l’artigianale povertà di mezzi. Nonostante la diversità di riferimenti e di propositi, mi piace immaginarmi il Jack Kirby di oggi: un cocktail di spettacolarità e tenera povertà di mezzi.

 

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Le mie storie, violentemente espressive? Espressive e basta. La violenza è uno dei contenuti da esprimere. Espressive è il mio ottimo, quello che ricerco. Espressività e basta.

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

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Questo è l’estratto dell’intervista a Giorgio Carpinteri contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. Le interviste agli altri autori di Valvoline seguiranno nei prossimi giorni. Qui un’introduzione a Valvoline.

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Valvointerviste 1988. 3: Marcello Jori

Marcello Jori 1988

Marcello Jori 1988

È per via dell’arte concettuale che mi sono messo a disegnare fumetti. Ho iniziato la mia carriera “ufficiale” di artista in pieno periodo di arte concettuale, e come artista concettuale sono nato. In quel momento, più che soddisfare la mia voglia di manualità e di pittura, cose che ormai non si facevano più, io progettavo i lavori. Il mio era infatti soprattutto un lavoro di progettazione, dopo il quale passavo il progetto agli artigiani, e vedevo realizzate alla fine le mie opere quasi senza toccarle. È stata così questa mancanza di sfogo della manualità a farmi venire una voglia immensa di ricominciare a disegnare e a dipingere; e il fumetto mi sembrava la strada più adatta.

Per di più, l’arte stava diventando totalmente chiusa al mondo esterno; l’artista lavorava su se stesso, lavorava sull’arte, e il lavoro era diventato talmente poco comunicativo che un’altra cosa che mi mancava era proprio la comunicazione, il contatto con il grosso pubblico, il contatto con quel mondo dell’immagine che entrava nelle edicole, dell’immagine che veniva riprodotta: insomma tutto quello che era negato più che mai in quel momento all’artista figurativo. È quindi questo uno dei motivi che mi ha spinto a fare il fumetto; un fumetto comunque, il mio, che era assai poco fumetto, che era quanto di più lontano ci fosse dal fumetto. Un fumetto molto concettuale: ho cominciato a piccoli passi, a piccole dosi. E infatti l’impatto con il pubblico è stato difficile, perché il mio lavoro era quasi offensivo. Io usavo le pagine dei giornali con un segno elementare, usavo magari un’intera pagina per fare una testa, quando invece il pubblico del fumetto allora voleva le pagine piene, voleva il fumetto classico, eccetera eccetera.

All’inizio Minus era di un bianco e nero asciuttissimo, povero povero, elementare, ed è andato poi riempiendosi di colore, e il colore ha introdotto quelle atmosfere, quel lirismo, quella poesia che il personaggio richiedeva. Il colore in Minus è fondamentale, perché è un po’ la poesia del mio fumetto, è quello che riempiva quei grandi vuoti, è quello che creava lo spettacolo in un fumetto che era eccessivamente povero. È ciò che mi permetteva di ricordare, di sognare Klee, cose che non potevo fare in pittura, perché lì non facevo il pittore. Il colore di Minus è influenzato dal colore dell’arte, è influenzato da Klee, da Steinberg, da tutti questi personaggi che stavano altrove e non nel fumetto.

Curiosamente poi, nel momento in cui io passo a Valvoline – e questo è l’unico legame che c’è tra la mia figura di artista e la mia figura di disegnatore di fumetti – nel momento in cui io torno a fare l’artista, cioè ritorno a usare i colori, ad usare le mani, a sfogare la mia manualità, a fare il pittore, ecco che in quel momento incomincio a fare veramente il fumetto fumetto, il vero fumetto; la mia sensibilità ormai gratificata nel mondo dell’arte non aveva infatti più bisogno di fare Minus e di sognare.

E così a questo punto mi è venuta una grande voglia di sottostare a quelle che erano le vere leggi del fumetto, naturalmente da alieno quale ero io, senza in realtà adattarmi perfettamente alle sue regole, ma proprio divertendomi a sbagliare, a finire in altre zone, ad arrivarci anche lentamente, senza copiare nessuno, così come avevo fatto prima con Minus. Il sistema che ho adottato: non guardare nessuno per essere sicuro di arrivare a un prodotto completamente originale, e quindi non guardare neanche come si indica il movimento, come si sintetizzano le cose, niente. Era stato proprio partendo da zero che avevo tentato di ricostruire il mondo con Minus, dove tutto doveva corrispondersi: gli alberi, le case dovevano essere alla Minus. E poi sono ripartito da zero di nuovo nel momento in cui ho incontrato questo gruppo di persone, prima Carpinteri, e poi gli altri amici di Valvoline; ed è stato lì che ho avuto uno dei più grossi impatti emotivi che mi sia mai capitato di avere.

 

***

Io sono sempre stato un solitario, come artista e anche come fumettista fino a Minus. Ma nel momento in cui tornavo alla pittura da una parte e arrivavo al fumetto vero dall’altra, scoprivo di trovare più energia cosiddetta artistica in questi fumetti che in qualsiasi pittore che in quel momento ci fosse in circolazione. Ho avuto proprio un colpo di fulmine per il lavoro di Carpinteri, di Igort e degli altri. Ed ecco che ci siamo aggregati, senza capire bene il perché all’inizio, perché io in fondo non avevo niente del loro segno. Avevo però una mentalità che poteva combinare con la loro, e trovavo in loro per la prima volta un modo di affrontare il fumetto da artisti, con quella libertà e quella sorpresa, quel mistero che normalmente era solo nell’arte, e non era mai stato nel fumetto in genere. E loro trovavano in me delle attrattive che non trovavano negli altri autori di fumetti. Ed era anche un momento in cui la sperimentazione era forte, e l’entusiasmo era enorme. E tutto questo curiosamente accadeva proprio nel momento in cui riesplodeva la pittura, in cui riesplodeva nell’arte la grande carica emotiva.

All’inizio della mia storia con Valvoline c’è quindi questa voglia di lavorare insieme, e ci sono le mie esperienze con Carpinteri, dove io portavo la mia mentalità, la  mia follia, il mio squilibrio da una parte, e lui il suo segno dall’altra. E lavorando insieme arrivavamo a fumetti che non erano mai rigorosamente fumetti, che erano profondamente sperimentali e che continuavano a irritare il pubblico, ma che avevano dentro delle tracce di futuro, di un lavoro interessante.

 

***

Per arrivare a lavorare con gli altri, per realizzare questa voglia di far fumetto vero, mi sono così convinto a ripartire da zero, a cambiare completamente quello che avevo fatto fino a quel momento, a fare l’opposto di quello che avevo fatto in altri momenti; ma a fare l’opposto anche – almeno a prima vista – dello stile che avevano i miei amici. Ho visto infatti che si stava formando un gruppo molto compatto, compatto anche nello stile, e proprio in quella compattezza, e in quella precisione di stile e impatto notevole vedevo anche la possibilità della fine del gruppo, vedevo il pericolo, la troppa riconoscibilità. E quindi il mio compito, la mia voglia è stata quella di essere il diverso nel gruppo, l’elemento più imprendibile, che avesse la caratteristica della durata nel tempo, che fosse meno consumabile.

Così mi sono quasi violentato. Con quale segno è più difficile fare ricerca, fare avanguardia? Con il realismo. Io sono andato all’opposto di quello che stavano facendo loro. Ho voluto brutalizzare proprio il gruppo, in questo senso, e ho scelto di essere realista fino in fondo, al massimo livello. Sono partito quindi dalla fotografia, per essere al massimo del realismo, per liberarmene poi col passare del tempo. All’inizio il contatto con la fotografia è stato strettissimo, e poi più sono andato avanti e più ho cercato di allontanarmene, arrivando infine ad atmosfere che non sono più legate alla fotografia, ma arrivando ciononostante a uno stile così preciso che anche quando la fotografia non c’è, sembra reale e fotografico quasi allo stesso modo.

Poi, dentro il realismo e oltre il realismo, con la mia prima storia sono andato ancora più a fondo, partendo da quanto di più sgradevole si potesse immaginare in quel momento. Qual era la cosa che interessava in quel momento di meno in assoluto? I contadini, il mondo contadino. Il realismo e il mondo contadino insieme creavano in fondo quanto di meno prevedibile in quel momento si potesse immaginare, e che meno aveva a che fare col lavoro dei miei amici.

 

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Mi è difficile parlare del mondo rappresentato nei miei fumetti. Perché io ho sempre lavorato in una condizione di leggera incoscienza, da una parte lucido e preciso, razionale, e dall’altra uno stato di follia e di non lucidità e di non razionalità voluta, che mi serve a creare le storie. È questo che mi fa nascere le idee. Nelle prime storie che pubblicavo su Frigidaire la storia era irreale, addirittura c’era il contratto con l’aldilà: in una di queste storie il protagonista costruisce un fucile e degli occhiali che per la prima volta vedono l’anima, e dopo aver abbattuto un personaggio, indossa gli occhiali, vede l’anima, innesca un secondo colpo e uccide anche quella. Poi arriva a capire di essere mandato da Dio, di non avere nessuna colpa perché il mondo altro, l’aldilà è talmente zeppo di anime che non ne può più contenere; e quindi la prossima guerra necessiterebbe di armi nuove che eliminino anche quelle. Da una parte un realismo totale quindi, e dall’altra una profondissima irrealtà, ma cercando sempre un equilibrio, cercando di agganciare sempre l’attenzione del pubblico con il vero, perché se ti spingi troppo oltre in questo gioco puoi far svanire ogni interesse per la storia.

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

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Questo è l’estratto dell’intervista a Marcello Jori contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. Le interviste agli altri autori di Valvoline seguiranno nei prossimi giorni. Qui un’introduzione a Valvoline.

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Valvointerviste 1988. 2: Daniele Brolli

Daniele Brolli 1988

Daniele Brolli 1988

Sono stato per anni un lettore accanito di fumetti. Rispetto a letture d’altro tipo non ho una formazione classica, se non in senso scolastico. Ci sono stati i libri di Salgari, i romanzi di fantascienza, i romanzi gialli, la letteratura di genere e i fumetti. Poi, da un certo periodo in avanti sono comparsi vari interessi per la letteratura d’autore, che mi hanno spinto a scrivere in un certo modo, e mentre prima quello che facevo era solo una riscrittura, la bottega, il senso dell’imitazione, la copia e l’apprendistato, da quel momento in poi è diventato davvero un’invenzione.

Comunque, ritornando ai fumetti, sono stato di preferenza un accanito lettore di Topolino, fino all’abbandono. Già all’inizio, inconsciamente – non per conoscenza vera e propria – tendevo a leggere solo la produzione americana, piuttosto che quella italiana. E poi leggevo tutti i supereroi, non uno escluso, con sogni di superomismo.

Detestavo Linus; e le strip, le ho sempre detestate. Questo accadeva fin verso i sedici anni. Leggevo con molta diffidenza queste cose; però poteva capitarmi di leggere Eureka, o Il Mago, in particolare Roy Crane e Jacovitti. E infatti è tramite Il Mago che ho incominciato a leggere il fumetto d’autore, intendendolo davvero come fumetto d’autore.

Ho incominciato a disegnare a sedici anni, mentre avevo incominciato a scrivere a nove. Ed è stato in quel periodo che ho capito che i fumetti si potevano fare. La radice di tutto stava nella mia passione per il cinema: per esempio la scrittura era per me come una cosa già fatta, che io provavo a fare senza capire bene com’era fatta, e tutto era troppo oscuro per me; invece nel cinema rintracciavo subito il momento, per esempio, di uno stacco nel montaggio. Una volta che avevo scoperto che il cinema non mostrava le cose così com’erano allora in quel momento, vedevo tutto, mentre con la scrittura, anche se capivo, mi era molto più difficile farlo. Il fumetto rappresentava quindi in quel momento una certa possibilità di avvicinarmi a quello che vedevo fatto nel cinema – a quella caratteristica di montaggio, di creazione di mondo. Scoprivo che disegnando potevo riuscire a ricostruire quell’effetto.

E poi, sia per quanto riguarda il disegno che per la scrittura, era una questione di piacere personale. A nove anni scrivevo romanzetti illustrandoli – il che ancora non aveva niente a che fare col disegno vero e proprio del fumetto. E fornivo da leggere le mie cose a tutti i miei compagni di classe… C’era quindi anche questo stimolo della curiosità degli altri che leggevano le mie cose. Una volta che fai una cosa del genere poi – è un meccanismo infantile – ti imitano tutti; e cominciavano a girare un sacco di cose.

Questo è stato il modo in cui mi sono avvicinato al fumetto. Sono sempre stato comunque un fruitore smodato di tutte le cose che mi piacciono, per cui ne ho lette tantissime. Ho già citato qualcosa, ma c’è anche Raymond, c’è Mandrake; ci sono poco i supereroi della DC: mi piacevano meno. Quelli della Marvel li leggevo tutti. Superman non lo sopportavo: lo leggevo perché il mio consumo di fumetti era proprio smodato, ma non lo sopportavo, insieme all’Uomo Atomo, a Flash.

 

***

In molti miei fumetti ci sono quasi due narrazioni diverse che corrono parallele, una verbale e una visiva, che si contrappongono, e sono pochi quelli in cui la parola è dentro l’immagine, nel senso in cui è normalmente dentro l’immagine nei fumetti, cioè come balloon. Di solito tra le due c’è un rapporto di complementarità e giustapposizione. È così perché spesso trovo insufficiente lo spazio. E allora è questo il metodo per creare una terza via di narrazione. Da una parte ho le immagini che procedono; ma voglio anche poter dire tutto quello che in queste immagini non c’è. Voglio cioè provocare la sensazione come in una fotografia, o come in un’inquadratura: l’inquadratura cinematografica simula il fatto che attorno non ci sia nulla, mentre la fotografia è arrivata a un punto – probabilmente è un fatto storico, di evoluzione dell’arte – in cui tutti sanno che quell’immagine sta per tutto quello che c’è attorno, che non c’è nell’immagine. Ecco, io volevo riunire tutte e due le cose nel fumetto, la parte della narrazione, per cui quella storia ha un rapporto diretto con te perché è tutto quello che c’è da vedere in quel mondo lì – e questo la rende plausibile, perché tutto quello che devi vedere è lì – e l’altra parte dove allo stesso tempo voglio dare la sensazione che c’è tanto altro che tu non stai vedendo, che è altrettanto plausibile, ed è forse importante quasi allo stesso modo per la storia, ma è anche emblematico; e allora questo non lo ottieni costruendo una narrazione troppo realistica, come è quella del balloon, ma attraverso una narrazione più straniante, portando fuori le parole. E allo stesso modo con le parole puoi suggerire tutto quello che non c’è, puoi suggerire qualcosa che banalmente diventa atmosfera, ma è anche un intreccio di situazioni, significati.

Puoi costruire un intero mondo semplicemente creando la sensazione dello spazio vuoto, che non c’è. Per esempio, se tu costruisci troppo realisticamente la sequenza del fumetto, perdi gli spazi bianchi tra le inquadrature, tra disegno e disegno. Invece la maggior parte della storia sta lì dentro, nello spazio bianco; perché se si concepisce la realtà come un arco di punti, per esempio centomila, un romanzo ne può prendere… cinquantamila, poniamo, un film può prenderne diecimila, ma in un fumetto hai una sintesi incredibile, e tutta la storia sta allora in quelle parti bianche che dividono le vignette. Sono quelle che devi potenziare, perchè la capacità di costruire la storia sta proprio lì. E devi costruire un mondo, devi costruire la sensazione che sia qualcosa di articolato, non qualcosa come quello che accade nella produzione di serie. La produzione di serie funziona cancellando quel tipo di cose, appiattendo; invece tu le devi amplificare, ed è con questo che procuri una sensazione più profonda, più duratura.

 

***

Mi piacerebbe avere una libreria di cose fatte da me tutte nei diversi generi. Per esempio quando ho fatto Alan Hassad volevo fare il melò rosa, e poi l’horror un po’ grottesco con Mortimer Caidin, poi la storia hollywoodiana che sarà Mucho Mas con Fara, e la storia col pupazzo che era Chez Mixioll disegnata da me direttamente. Mi piacerebbe avere un libro di ogni genere, avere fatto un passo dentro ognuna di queste strade, insomma, piuttosto che averne percorsa una fino in fondo. Se ne devo percorrere una fino in fondo è quella che riguarda me e basta. Mi piacerebbe essere una mayor insomma, mi piacerebbe avere una intera casa di produzione hollywoodiana. Mi piace Spielberg per questo, non tanto perché mi piacciano i suoi film, ma perchè mi piace quest’idea di disperdersi… Più sincronica che diacronica. In realtà si esiste in senso diacronico, ci si sviluppa; il tempo si addensa, e questo mi piace. Ma è qualcosa che è già in me, non ho bisogno di sforzarmi. Invece mi piace questa idea di sincronicità del mondo, questo allargarsi, piuttosto che alzarsi.

 

***

Una delle scoperte brutte della mia infanzia è stato il fatto che il mio rapporto con gli oggetti si trasformava. A un certo punto è stato evidente quale era la loro dimensione. Io non passavo più sotto i tavoli, non avevo più lo stesso rapporto. Si ha un rapporto diverso con lo spazio, con lo spazio della casa.

C’era un’altra cosa, che era, per esempio, addormentarsi sui braccioli delle poltrone, oppure i cuscini sotto il sedere per arrivare al piano del tavolino…

Per quanto mi riguarda, c’è stata una trasformazione improvvisa dal sentire le cose fatte così, fatte per essere grandi, per avere un rapporto benigno, materno, con me, alla dimensione invece del tutto estranea, quella che si lascia dominare – ma che non mi piaceva e non so ancora se mi piace – degli oggetti che son fatti per essere impugnati, per essere usati. Questo è il presente; adesso quelli sono diventati oggetti: io mi sento uguale dentro, come se il tempo non passasse, mentre invece il mio corpo si modifica. E allora mi piace nei fumetti costruire gli oggetti come se fossero delle presenze. Se è umano tutto questo allora sono umane anche loro, e questo mi piace. E poi esiste anche una cultura della fantascienza, in cui l’oggetto si anima davvero, vive: è tutta la fantascienza del periodo d’oro, per esempio, con l’esperienza della possibilità di rendere gli oggetti qualcosa di più che oggetti. Come coi robot, per esempio: per me non c’è differenza tra la poltrona e il robot, o le case che parlano.

I miei interni sono interni che ricordano, perché gli oggetti hanno memoria. Questa è una cosa che mi costringo a dire ma preferirei non dirla; tra poco me ne sarò dimenticato.
A me piacciono le cose già usate, ma che sono ancora nuove. Io leggo i libri tenendoli quasi chiusi, per non rovinarli. E la notizia che vanno in polvere mi ha distrutto. Penso che farò tanti pacchi di plastica, perché questa è una cosa insopportabile. Ma non sopporterei che i libri fossero freddi, che fossero delle cose fuori da  me; devono cioè avere questo aspetto usato, ma nuovo. E allora mi corrispondono, altrimenti no. Sarebbero cose che non avrebbero nessun rapporto con quello che faccio io. I libri sono dei parenti, insomma.

Non immagino una produzione di serie dei miei oggetti. Mi fa orrore. Li faccio solo perché so che non verranno mai realizzati, perché se no ci si espone troppo.

 

***

Sì, potrei riconoscere nell’idea di memoria il punto centrale della mia poetica, ma una memoria che è anche futura. Per me la vera memoria è quella che determina il presente. È quel tempo che ricorda il passato e anticipa di un attimo il futuro, in cui c’è tutto. Io ho un’adesione completa a una teoria “scemo-filosofica” di Vonnegut, a cui io credo lui creda seriamente quanto credo io; che è quella dell’universo, del tempo, non come qualcosa che va, che passa, ma come di una lunga pellicola, in cui tutti i fotogrammi sono segnati per sempre. Un pellicola che non ha inizio e non ha termine, ma in cui ogni fotogramma è identificabile, in maniera precisa; e non è qualcosa che viene distrutto, che va in polvere, ma è qualcosa che ha ancora il suo momento; è ancora lì, e noi siamo ancora qui, in questa pellicola. Ci sono poi tanti altri momenti che vengono dopo e tanti altri momenti che vengono prima. E c’è qualcuno, qualcosa, qualche meccanismo che la fa girare, per cui gira. Quello che è passato rimane indietro, ma sai com’è, se uno lavora alla moviola poi… Può anche fare l’avanzamento veloce… Sì, sì, è la memoria il centro, in questo senso, l’essere il punto di riferimento di tanti altri punti di riferimento che esistono, sia al passato che al futuro. Esiste solo il presente in questa teoria, un presente totale.

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

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Questo è l’estratto dell’intervista a Daniele Brolli contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. Le interviste agli altri autori di Valvoline seguiranno nei prossimi giorni. Qui un’introduzione a Valvoline.

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Valvointerviste 1988. 1: Igort

Igort 1988

Igort 1988

Il metodo che seguo nel mio lavoro è, in generale,  abbastanza codificato. Ho come dei percorsi obbligati: non seguo sempre gli stessi, ma si creano in genere delle strade che attraverso e che ripercorro. Uso sempre prendere appunti, molti appunti rispetto a personaggi e situazioni, e i personaggi non nascono mai isolati, ma come parte di un contesto più generale. A partire da questo, poi, il mio metodo tende a fare fluire le cose in maniera abbastanza naturale: si potrebbe dire che tutto il lavoro, come nello Zen, è più un lavoro di preparazione che un lavoro finalizzato all’esecuzione. Quello che mi prende più tempo è il trovare la lunghezza d’onda secondo la quale poi le cose mi vengono naturali.

Parto da un’idea anche vaga, un tipo di situazione, una lunghezza d’onda o un taglio, un modo anche tendente all’astratto di concepire situazioni. Per esempio, ho cercato in passato per mesi dei romanzi, un certo tipo di letteratura – quella che mi interessava di più era americana – che potesse contenere delle componenti di crudezza, qualcosa che di per sé è difficile da definire. All’interno di questa letteratura mi interessava un gioco sulla mitica del crudo, sulla descrizione di una violenza anziché sulla violenza vera e propria. Si trattava di un’intuizione, qualcosa che io stavo inseguendo e che mi interessava, una strada che mi serviva.

Leggo quello che leggo sempre in relazione a ciò che voglio fare; la mia impostazione di lettore tende ad avere la dimensione del furto. Fa parte del mio metodo il non avere mai delle cose aperte o chiuse. Quando sto realizzando una storia non sto solo lavorando a quella storia; ho un continuum, un flusso continuo, lavoro sempre, come Muñoz e Sampayo. Tra le due scelte, tra quella hollywoodiana e quella di Bazin, ho scelto quella di Bazin: cinema come vita, quindi arte come vita; per me lavorare significa che qualsiasi cosa io legga in qualsiasi momento, o qualsiasi cosa pensi, che io sia in dormiveglia o appena salito in studio per lavorare, qualsiasi cosa rimane comunque per me all’interno di un flusso continuo di pensiero, che è sempre finalizzato alla costruzione di un mondo, il mio mondo.

Penso che quello di ispirazione sia un concetto astratto. A me l’ispirazione interessa relativamente poco, perché è come qualcosa che ti piomba addosso – mentre quello che a me interessa è un lavoro di metodo, un lavoro in cui l’ispirazione è solo una parte, è un flash, una marcia in più di un lavoro continuo che consiste principalmente di concentrazione: è come l’ebbrezza di correre, e poi a un certo punto c’è lo scatto e le gambe vanno più veloci; non ti annoi quando corri, sei coinvolto dalla corsa. Per me è lo stesso: io sono astratto completamente quando lavoro. Raggiungo degli stati di concentrazione solida, e poi provo un’enorme difficoltà a riatterrare e occuparmi di altre cose.

 

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Lo straniamento è legato a un rapporto abbastanza particolare che ho coi personaggi. Ci sono autori, per esempio, che lavorano con un’idea di partecipazione nei confronti dei personaggi, e altri che lavorano invece con uno stile di odio nei loro confronti, il che significa tutto sommato ancora coinvolgimento. A me interessa invece la possibilità di creare una dimensione che stia tra il raccontare delle passioni molto forti sottovoce e il raccontare usando accorgimenti particolari: raccontare, per esempio, come un personaggio venga sconvolto da una bufera di sentimenti, per mezzo di un barometro che segna la quantità e la qualità di variazioni nel fisico di questo personaggio.

Il rapporto con i personaggi è sempre un rapporto molto complesso, molto difficile, di amore e di odio, ma è tuttavia  fondamentalmente un rapporto strumentale. I miei personaggi sono uno strumento per esprimere qualcosa che va oltre il personaggio stesso, un humus, una cifra di umanità, che va espresso non parlando e definendola, non facendo la didascalia dell’umanità, ma tentando di evocare una serie di situazioni che ti conducano a leggerla a partire dal personaggio stesso.

 

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Il mio lavoro non è, come potrebbe sembrare da queste dichiarazioni, esistenzialista. Il mio è un lavoro che fa i conti con caratteristiche proprie del linguaggio; mi interessa cioè lavorare sul progetto, inteso come contaminazione possibile e possibile apertura tra elementi che di per sé appaiono a un primo sguardo contraddittori tra loro: i Giapponesi, re dell’elettronica, imperatori di quanto c’è di più imitativo, tecnologico o imprenditoriale – dal punto di vista della aggressività, della asetticità – comprendono poi nella loro stessa disciplina, nella loro cultura, elementi decisamente antitetici rispetto a quelli, elementi di religione; lo Zen deriva dallo Chan giapponese, ma è chiaramente una disciplina spirituale. Quello che ho fatto, mettendoci un pizzico di nonchalance, è stato di portare il tango in Giappone, finendo poi per scoprire da Muñoz che in Argentina arrivano veramente delle orchestre giapponesi, e avere da Sampayo la conferma che queste orchestre lavorano suonando tanghi e cantando in spagnolo, seguendo di fatto dei principi apparentemente caldissimi. Mi piace insomma lavorare per contrasti, utilizzare e unire delle strutture diversissime – come parlare del dolore sorridendo.

Questi aspetti determinano poi l’esistenza di un’altra prospettiva, che è quella del melodramma. All’interno dei miei personaggi ci sono molto spesso storie di grandi passioni, di passioni devastanti, che aprono, squartano il personaggio, non possono essere contenute in un cuore così piccolo, in un cuore di carta come quello di un personaggio. La mia freddezza, anche quando utilizzo la prima persona, nel parlare di queste cose, il fare uso di elementi narrativi estranei, stranianti, mi portano a considerare con un po’ di ironia questi personaggi, queste grandi passioni, questi grandi dolori. È da questo che mi viene la propensione nei confronti del melodramma: a me piacciono anche le cartoline di queste passioni sconvolgenti.

Non mi piace invece la caricatura. Io credo che l’uomo sia anche cartolina; sto molto attento, quando mi documento, a non tradire mai la prima impressione, la freschezza, la facciata delle cose. Anche questo fa parte dell’uomo, e ne è una componente estremamente vera. Credo che all’interno di ciascuno di noi ci sia fondamentalmente un grande interesse nei confronti della prima impressione. E sto attento a utilizzarla anche come chiave per poter entrare in un universo più complesso.

 

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Una caratteristica del metodo che mi sono imposto quando ero più giovane – un metodo molto teutonico, rigido, estremamente quadrato – era quella di cercare di capire quale fosse la lunghezza del mio respiro, quale fosse biologicamente la mia possibilità. Io credo di usare il pennino in un certo modo, di fare le cose asimmetriche perché la mia parte sinistra è diversa dalla mia parte destra, perché il mio corpo biologicamente reagisce all’universo in una maniera differente nella mia parte sinistra dalla mia parte destra. E questo si ripercuote nei miei disegni: io teorizzo un disegno mancino, asimmetrico, teorizzo una musica mancina. Non sono però, di fatto, mancino; o, almeno, ho sempre pensato di non esserlo.

 

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Per quello che riguarda il mio uso dei colori, credo che c’entri il moderno. Penso che il moderno sia una delle cose di cui mi sono innamorato di più; con un concetto di eleganza, quindi, nel quale quello che si rappresenta non è soltanto un contenuto estetico, ma anche una ricchezza interiore. Il moderno ha anticipato per me qualcosa di quello che sarebbe accaduto poi in Giappone, cioè – non so – una bellezza ghiacciata, nella quale era già contenuta una carica di esistenzialismo congelato – mentre d’altra parte il moderno è tutto un gioco di contrappunti, un gioco di elementi che tra di loro contrastano.

Michelangelo, per esempio, non è elegante; Michelangelo è potente. Quando vidi Berni Wrightson dissi “Questo è Michelangelo elegante”, perché era potente e delicato. Questa capacità così ricca che Berni Wrightson contiene è contenuta anche nel moderno: è freddo e contemporaneamente esistenziale; è il frutto di un distillato che contiene due odori che sono in apparenza contrastanti tra loro, mentre in realtà sono solo elementi sovrapposti; hai una parete rocciosa, la apri e trovi una cosa nuova, come con una noce di cocco. Dentro il nero c’è il bianco. I miei colori tendono a un equilibrio di questo tipo.

Tutte le mie storie nascono da particolari situazioni, e alcune situazioni nascono dall’evocazione di alcuni colori associati, che mi muovono corde interiori. Il rosso carminio e il blu elettrico, se la percentuale del rosso è superiore a quella del blu, per me è antipatia. Questo ha probabilmente qualcosa a che fare con la mia infanzia. Io tendo a sfruttare le mie sensazioni, aprendo il più possibile, entrando in una dimensione quasi catalettica, un territorio neutro, di pace, all’interno del quale penetro tramite la memoria di tipo creativo, artistico. Non saprei ricordare esattamente l’avvenimento a partire dal quale mi sono poi diventati antipatici il rosso e il blu in quella percentuale, né lo voglio fare; non mi interessa farlo. Quello che mi interessa è giocare con questo tipo di situazioni limite: credo che quando riesco a cogliere il cuore di questa mia situazione riesco a evocare veramente l’antipatia, riesco a suscitarla.

Penso insomma che quando fai un lavoro che comincia a toccare delle corde di te, se riesci a esprimerti direttamente – e per questo mi interessa la freschezza – allora veramente riesci a comunicare cose che sono grandi, molto grandi. Il limite di alcuni autori considerati ottimi disegnatori, virtuosi, è il fatto che sono disegnatori, anche se ottimi. Mentre invece un autore come Loustal, che è un disegnatore naif, molto limitato, ha lavorato da subito sulla capacità di esprimere delle situazioni, delle sensazioni, e non di descriverle. E questo gli ha dato la forza di essere un grande autore, non solo un disegnatore.

 

***

Per quello che riguarda le altre mie attività le cose non stanno diversamente. In musica, per esempio, la parte musicale ridiventa narrativa, nel senso che utilizzo, insieme alle parole, anche i rumori, mischiandoli alla musica, determinando situazioni che ricollegano a una memoria cinematografica. Se tu senti determinati rumori, che sono tipici del cinema, li ricolleghi subito a determinate situazioni visive, perché nella tua mente si sono depositate in quel modo. Un elemento, una chiave comune per tutta la mia produzione è insomma l’evocazione, la capacità di utilizzare delle componenti evocative.

Rispetto alle scenografie, il lavoro è quello di evocare situazioni, per esempio con accostamenti di colori: il colore funziona in maniera astratta, una maniera che è figlia di un atteggiamento disinvolto nei confronti della cultura. L’evocazione è una grande scoperta. Per me è fondamentale. Io penso che la forza di moltissimi artisti sia quella di lavorare non sulla didascalia ma sulla possibilità di alludere. Io sono contro la descrizione e per l’allusione.

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

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Questo è l’estratto dell’intervista a Igort contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. Le interviste agli altri autori di Valvoline seguiranno nei prossimi giorni. Qui un’introduzione a Valvoline.

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Di cosa fu Valvoline

Valvoforme valvocolori

Valvoforme valvocolori

Si è appena chiuso il Comicon di Napoli, con la sezione dedicata ai trent’anni dal supplemento Valvoline su Alter Alter. Cosa è stato Valvoline? Per me certamente qualcosa di importante, visto che mi ha spinto a pubblicare il primo libro della mia vita (copertina qui a fianco).

Ma per me la storia era incominciata già prima del 1983. Non ero rimasto particolarmente impressionato dalle prime prove di Mattotti (“Alé trantran”, “Incidenti”), pur apprezzandole. E anche “Minus” di Jori aveva indubbiamente qualcosa di apprezzabile, senza però appassionarmi… Meglio il Carpinteri che già appariva su Frigidaire. Nel 1982 passai i primi sei mesi dell’anno all’estero. Per non correre il rischio di perdermi qualcosa, mi ero abbonato sia a Linus che ad Alter Alter. Quando tornai, a fine giugno, mi lessi tutti di seguito sei numeri e feci due scoperte cruciali.

Si trattava di “Goodbye Baobab”, di Igort e Daniele Brolli, e di “Il signor Spartaco” di Lorenzo Mattotti. Anche se il mio destino successivo di lettore e critico sarebbe stato legato più a Mattotti che a Igort e Brolli, in quel momento era soprattutto “Goodbye Baobab” ad appassionarmi, quella storia di carne, di ossessione e di morte, narrata lentamente, e soprattutto così diversa dalle cose magnifiche, ma gridate e provocatorie a cui ci aveva abituato Frigidaire, con Pazienza e amici. A me, della storia di Brolli e Igort piacevano soprattutto le pause, i silenzi – silenzi che erano già presenti pure in “Spartaco”, ma non con altrettanta intensità (per Mattotti, bisognerà aspettare “Fuochi”, nel 1984, per trovare dei silenzi ancora migliori).

Il supplemento Valvoline fu il risultato di una sorta di scommessa fatta dalla direttrice di Linus e Alter, Fulvia Serra, con il gruppo degli autori: una sezione della rivista (praticamente la metà delle pagine) interamente gestita da loro. Igort, Brolli, Giorgio Carpinteri, Marcello Jori, Mattotti e Jerry Kramsky. La scommessa fu stravinta dal punto di vista artistico, ma persa da quello commerciale: Alter può vantare il 1983 come il suo anno d’oro, qualitativamente, però commercialmente era già iniziata per il fumetto in Italia l’onda del riflusso, e la difficoltà e l’eccessiva novità di questi nuovi autori accelerarono per Alter la tendenza all’abbandono.

In che cosa consisteva la novità di Valvoline in quegli anni? Bisogna precisare, prima di tutto, che la novità di questi autori non era un caso isolato nel deserto. Nel calderone effervescente del nuovo fumetto italiano, tutto proteso al rinnovamento e alla maturità del fumetto come forma artistica, si distingueva una corrente più politicizzata e movimentista, di cui Frigidaire era la rivista di bandiera, e Pazienza, Scòzzari, Tamburini e Mattioli tra i principali rappresentanti; a fianco di questa, non del tutto distinguibile, e non di rado implicata nelle stesse operazioni, c’era un’altra corrente più espressiva e artistica. Di questa seconda corrente, Valvoline rappresentava, se vogliamo, il momento di punta, la componente di avanguardia organizzata.

Ecco, con il senno di poi (perché all’epoca la mia adesione ideologica era totale), mi verrebbe da dire oggi che gli autori di Valvoline hanno fatto le cose giuste per le ragioni sbagliate. Se davvero lo dicessi starei però esagerando, perché la poliedricità e l’attenzione a diversi linguaggi mediatici che caratterizzavano quegli autori non aveva nulla di sbagliato. Quello che, col senno di poi, mi disturba oggi, è un po’ l’imitazione dei comportamenti dei gruppi e dell’avanguardie pittoriche che caratterizzò Valvoline proprio nel suo essere un gruppo; un’avvicinamento al mondo dell’arte visiva che valse indubbiamente a Valvoline (e dintorni) uno spazio nella grande mostra di Renato Barilli Anni Ottanta, ma che aveva ugualmente un che di artificioso, un che di adeguamento agli stili dominanti…

Comunque, la mossa politicamente riuscì, e alla fin fine si rivelò davvero più una mossa politica che di sostanza. A rileggerle oggi, quelle storie del supplemento Valvoline sono tutte bellissime storie a fumetti, persino quella del più “artista” del gruppo, Marcello Jori, da far rimpiangere che lui, come pure Carpinteri, dopo qualche anno abbiano abbandonato del tutto il campo del fumetto. L’accusa di estetismo, che aleggiava su Valvoline in quegli anni, alla resa dei conti si rivela infondata, basata più sull’apparenza che sui risultati. A rileggere oggi quelle storie, ci si accorge benissimo che quella grafica che appariva allora così sconvolgentemente innovativa, era però perfettamente adeguata alle storie che raccontava. E c’era forse sì un accenno di spocchia artistoide in alcuni degli autori, ma poi le loro opere non erano affatto degli scimmiottamenti a fumetti delle arti visive; al contrario, erano il lavoro di autori di fumetti appassionati a quello che stavano facendo, che però conoscevano anche l’arte, e ne sfruttavano le forme e le potenzialità espressive.

Solo se si capisce questo, si capisce anche perché, nell’anno da lui trascorso in Italia, Charles Burns non abbia avuto problemi ad essere cooptato dal gruppo, diventandone un componente effettivo. Il suo atteggiamento nei confronti delle arti visive, in fin dei conti, non è molto diverso da quello, per esempio, di Igort; è solo che, essendo americano, le sue arti visive di riferimento sono un po’ differenti…

Come andò che realizzai quel libro? Fu Igort a propormelo, dopo due anni che esisteva già un progetto di un libro sul gruppo, che però ristagnava, e l’autore non dava segni di vita. Andai dall’editore, e feci la mia proposta. Seguirono non so quanti incontri con gli autori, per le interviste e la selezione delle immagini. Il libro uscì nel 1990, quando ormai il gruppo esisteva solo nominalmente.

La mia introduzione al volume può essere scaricata da qui.

Qui invece c’è una pagina di Facebook dedicata ad allora (dietro alla quale sospetto si nasconda Igort).

Un’ultima cosa. Nel 1983 Marcello Jori aveva 32 anni, Jerry Kramsky 30, Lorenzo Mattotti  29, Igort e Giorgio Carpinteri 25, Daniele Brolli 24, Valvoline (di fatto) 3.

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Di una foto di dettagli (45)

Dettagli (45)

Dettagli (45)

Questo Dettaglio vi deve piacere per forza. È un angolo di bagno che gioca a fare Mondrian.

Non può fare a meno di metterci qualche diagonale, però le linee ortogonali proseguono comunque nel riflesso, per cui lui può sperare che l’intromissione non sia davvero così grave.

C’è anche un pochino (poco poco) di sporcizia. Ma insomma, è un bagno! Non si può chiedergli proprio tutto (e persino nei dipinti di Mondrian, a guardare bene bene bene qualche volta qualche minima sporcizia si trova).

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Di una foto con i ponti (e il gabbiano)

Il gabbiano e i ponti

Il gabbiano e i ponti

I ponti si vedono. Il gabbiano (di sentinella) pure. La nostalgia emerge. Il fiume spaventa per la sua bellezza.

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Del verso libero e di alcune sue conseguenze

pVoglio presentare un’ipotesi provocatoria. Un’ipotesi e non una teoria, perché richiede ancora verifiche e conferme, puntualizzazioni e distinguo (con una ovvia possibilità che, approfondendo, essa si riveli falsa); e tuttavia, a una prima ricognizione, mi appare plausibile. Riguarda il verso libero, questa forma/non-forma che viene sentita ancora, a due secoli e passa dalla sua invenzione, come liberazione dalle pastoie della metrica tradizionale, e strumento base della possibilità del poeta di dare alla propria opera la forma che più le si confà.

A dispetto delle apparenze, il verso libero non è una forma informe. In apparenza, è una forma di verso che, del verso tradizionale, mantiene solo il principio dell’a capo, senza regole interne, fornendo tuttavia ugualmente al componimento una scansione, per quanto irregolare. Nella sostanza, il verso libero non solo ha il più delle volte una matrice sintattica (come si capisce bene dal fatto che l’eventuale enjambement emerge benissimo pure nel verso libero), ma flirta anche inevitabilmente con varie forme metriche tradizionali, in primis l’endecasillabo (almeno nella poesia italiana).

Se si vanno a studiare le origini del verso libero, nella poesia di lingua inglese, da Blake a Whitman, ci si accorge che il verso libero non nasce dal niente. Blake e Whitman, per fare il loro gran passo, hanno inevitabilmente bisogno di una stampella, ovvero di qualcosa che possa ancora essere sentito come verso dai loro lettori pur facendo a meno della metrica tradizionale. Essi trovano così questa stampella nella Bibbia, e nell’andamento non dei suoi versi, ma dei suoi versetti, ritualmente consacrati da secoli di recitazione. Si tratta di un ideale ritorno alle origini, al testo mitico per eccellenza – del tutto coerente con il tono oracolare che contraddistingue la poesia di entrambi.

La poesia in versi liberi che li segue eredita precisamente questa tensione oracolare, pur temperandola a volte, modulandola, modificandola, però senza perderla mai del tutto. Non la può perdere del tutto, perché la tensione oracolare è implicita nell’uso di una formula che permette di isolare una proposizione o una sua parte, sino una parola, rendendola assoluta nel suo isolamento, senza nemmeno la giustificazione tradizionale del metro, senza la scusa della cantabilità. È la musica che è scomparsa, insomma, lasciando il posto al verso libero come scultura di parole, monumento alla clausola verbale. Il verso non è più una struttura del canto, come almeno formalmente continua a essere nella metrica tradizionale, anche quando la poesia nemmeno viene più letta a voce alta; il verso è una sorta di cornice, che rende icastico, oracolare, assoluto, ciò che contiene.

Questo è ciò che succede in linea di principio. Nella pratica poetica del Novecento sappiamo tuttavia come la metrica tradizionale rimanga ben viva, e come l’endecasillabo, per esempio, rappresenti il calco su cui molti versi liberi si trovano di fatto formati. Molti versi liberi, in altre parole, non sono veri e propri versi liberi: sono piuttosto una versione “liberata” dei metri tradizionali (endecasillabi ipermetri o ipometri, per esempio) che cerca di conciliare una certa cantabilità con una certa oracolarità, giocando a spostarsi ora più sull’uno ora più sull’altro dei due poli.

Alla fin dei conti, dunque, il verso libero non è propriamente un verso liberato, bensì un verso che a un tipo di gabbia ne sostituisce un’altra: non più la gabbia metrica, ma la gabbia dell’icasticità, dell’incorniciamento espressivo.

Si noti che prima dell’entrata in scena e della vittoria del verso libero, la poesia – anche quella italiana – stava già sperimentando strade diverse. E non è solo lo sperimentalismo sui versi latini o sui versi popolari di Carducci e di Pascoli (che è comunque un tentativo di mantenere la cantabilità modificandone le basi metriche – pur mantenendo, nella coincidenza tendenziale tra clausola metrica e clausola sintattica, una certa icasticità e oracolarità). È piuttosto il ricorrente ricorso all’enjambement di Foscolo e Leopardi, che della cantabilità conserva un’apparenza ancora più debole, ma che indebolisce pure la cornice del verso, proprio per il suo trapassare del discorso da un verso all’altro – il che rende impossibile isolarli davvero.

Probabilmente, questo uso insistito dell’enjambement esprimeva in quegli anni una tensione verso l’espressività che  il metro tradizionale faticava a contenere; ma nel momento in cui il metro tradizionale viene poi sostituito dal verso libero, scompare anche questa tensione, che non ha più ragione di esistere là dove l’espressività può essere garantita, verso per verso, dal verso stesso. Questo è il prezzo che la poesia paga al verso libero: la coincidenza del verso con la clausola espressiva, senza l’attenuante musicale; l’asservimento del verso al discorso, all’espressione dell’io; la riduzione della poesia stessa a espressione dell’io, a lirica.

Chi comprende molto lucidamente la questione, nel mondo del verso libero, è Amelia Rosselli, mostrandolo nella pratica della sua poesia, ma anche in quel breve ma cruciale saggio del ’63, intitolato “Spazi metrici”, là dove dice: “In effetti nell’interrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi terminazione di frase o ad una qualsiasi sconnessa parola, io isolavo la frase, rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendole la sua idealità, ma scindevo il mio corso di pensiero in strati ineguali e in significati sconnessi. L’idea non era più nel poema intero, a guisa di un momento di realtà nella mia mente, o partecipazione della mia mente ad una realtà, ma si straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o da nessuna parte. L’aspetto grafico del poema influenzava l’impressione logica più che non il mezzo o veicolo del mio pensiero cioè la parola o la frase o il periodo”.

Proprio per evitare l’icasticità prodotta dal verso libero, e l’effetto oracolare che ne consegue, Amelia Rosselli inizia quindi a suddividere i versi in maniera apparentemente arbitraria (in realtà con una regola rigorosa, ma che impedisce che l’unità del discorso possa coincidere con quella del verso), facendo dell’enjambement un principio talmente pervasivo da vanificare l’idea stessa del verso come unità conclusa (pur provvisoriamente). In realtà, anche nell’artificio della Rosselli continua a giocare un principio musicale: non è più la cantabilità, nemmeno formalmente, ma è comunque un principio di costanza ritmica, di quantità prosodica ricorrente.

Se veramente il verso libero implica la lirica e l’espressione dell’io, e la metrica tradizionale implica la cantabilità tradizionale (almeno formalmente) con le sue belle forme che non ci rappresentano più (e i poeti neometricismi giocano proprio su questa ostentata e invalicabile distanza), allora la strada indicata da Amelia Rosselli potrebbe essere davvero l’unica praticabile per portare la poesia fuori dalla lirica, senza ricadere nella tradizione. Questo non vuol dire né che si debba per forza fare poesia come faceva lei, e nemmeno che si debba tagliare il verso come faceva lei; ma restano fondamentali, nel mio modo di vedere le cose, la sua messa in crisi del verso libero e il recupero di una qualche musicalità che non coincida con la cantabilità. La Bibbia, con tutto il suo innegabile fascino, ha fatto un’altra volta il suo tempo.

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Del passo inquietante di Marco Galli

Marco Galli, "Oceania Boulevard", Coconino 2013

Marco Galli, “Oceania Boulevard”, Coconino 2013

Confesso che non conoscevo Marco Galli. I suoi due libri precedenti mi erano proprio sfuggiti. Questo, però, ha colpito nel segno, molto intensamente.

È una storia un po’ assurda, vagamente da Pasto nudo di Burroughs, che non evita qualche riferimento qua e là all’Alack Sinner di Muñoz e Sampayo, e che riesce a costruire un senso malsano di mistero crescente in maniera non così lontana dal Pennac del vecchio Paradiso degli orchi, ma senza il riscatto morale e in fin dei conti ottimistico di Malaussène & c.

Qui di morale e di ottimistico non sembra rimasto proprio nulla, a parte forse l’apparente mitezza del protagonista. I temi sono quelli dell’hard boiled socialmente impegnato alla Muñoz e Sampayo, con l’approfondimento psicologico dei personaggi… ma tutto è deragliato verso l’assurdo, lo splatter, l’inquietante, a partire dal suicidio iniziale di un venditore televisivo d’arte, che si butta dal trentesimo piano e fa veramente splat, inondando di sangue e frammenti di corpo gli esterrefatti passanti.

Bello questo ritmo costante, apparentemente uguale, delle ricorrenti due vignette per pagina su sfondo nero, accompagnate (ma non sempre) da un racconto esterno oggettivo, secco. Un ritmo sempre uguale su cui si appoggia benissimo il lento ma inesorabile crescendo narrativo, a mano a mano che le indagini avanzano e gli eventi si sviluppano, prendendo pieghe sempre meno prevedibili – mentre la realtà stessa sembra deragliare progressivamente e inevitabilmente, e tutto si rivela diverso da quello che sembrava.

Lungo questo passo così coinvolgente si posizionano poi una serie indimenticabile di cammei di personaggi, dai colleghi poliziotti agli artisti interrogati dall’investigatore (e altri ancora), presi con poche immagini e poche parole, sempre devastanti.

Mi sembra che Marco Galli dimostri una grandissima capacità di sintesi e di ritmo, e allo stesso tempo un’eccellente qualità descrittiva. Ecco qualcosa che al fumetto è possibile molto più che al romanzo: là dove al romanzo per descrivere con precisione sono necessarie molte parole, che magari (se scritte con competenza) non rallentano il ritmo espositivo, ma rallentano per forza quello narrativo, il ritmo dello svilupparsi degli eventi, al fumetto è possibile, grazie all’immagine, e al disegno, descrivere senza fermare l’azione, descrivere nell’azione. Quando si guarda, si vede tutto, l’evoluzione narrativa e l’aspetto di ambiente e personaggi. Ottimo ancora, persino in questo, il segno grafico sottile e lineare di Galli, forte della sua stessa innaturalità.

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Di una foto di dettagli (44)

Dettagli (44)

Dettagli (44)

Il protagonista narrativo di questa immagine è quello che non si vede, ma se ne deduce la presenza attraverso le ombre che attraversano il campo. Ombre orizzontali su filari verticali: e questo incrocio è a sua volta il protagonista visivo di questa foto altrimenti vuota, fatta sostanzialmente di assenze.

Ora provate a guardarla così: su tre lati il campo visivo è incorniciato dal verde; dal quarto lato irrompe l’ombra. Il campo al centro è un campo di battaglia: ombre scure orizzontali contro filari luminosi verticali…

Ma è solo una parodia di battaglia, che non riesce scalfire il dominante senso di pace. Nell’insieme, è solo un Dettaglio di mondo, senza un soggetto specifico focalizzato; in modo che emerga la composizione, l’effetto di insieme. (Ma le storie stanno sempre in agguato)

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Di una foto con l’orizzonte ricurvo

L'orizzonte ricurvo

L’orizzonte ricurvo

Chi l’ha detto che l’orizzonte è dritto? Se si è nel posto giusto, la curvatura della lente dell’obiettivo aiuta, certamente, ma una buona parte il mondo la fa de sé, proprio come qui.

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di Daniele Barbieri

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