Sono apparso, non alla Madonna, ma in due antologie molto differenti tra loro uscite a breve distanza di tempo. Si tratta di Babel. Stati di alterazione, antologia plurilingue a cura di Enzo Campi (Bertoni 2022), e di Connessioni. Antologia di autoaiuto poetico in tempo di lockdown, a cura di Gabriella Musetti e Claudia Zironi (Vita Activa Nuova 2022).
Babelè una sorta di esercizio di traduzione plurilingue, alla quale un certo numero di poeti, italiani e non, hanno fornito un proprio testo, il quale è poi stato tradotto in tre lingue diverse da altri autori/traduttori. Gli autori di partenza sono, oltre a me, Karine Marcelle Arneodo, Vincenzo Bagnoli, Domenico Brancale, Marisol Bohórquez Godoy, Brice Bonfanti, Sonia Caporossi, Marthia Carrozzo, Laura Cingolani, Lella De Marchi, Francesco Forlani, Gianluca Garrapa, Michela Gorini, Alessandra Greco, Eugenio Lucrezi, Lorenzo Mari, Francesca Marica, Silvia Molesini, Fabio Orecchini, Jonida Prifti, Lidia Riviello, Massimo Rizza, Ranieri Teti, Ida Travi, Paolo Valesio, Sara Ventroni, Maria Luisa Vezzali. Gli autori/traduttori sono: Claudia Albu-Gelli, Antonino Bondi, Alice Bartolini, Fabiana Bartuccelli, Amal Bouchareb, Ani Bradea, Valentina Chepiga, Anna Maria Curci, Gianni Darconza, Francesca Del Moro, Irène Duboeuf, Gerhard Friedrich, Kaharu Inokuchi, Anna Chiara Peduzzi, Evangelia Polymou, Graziella Sidoli, Maria Laura Valente, Daniele Ventre, Patrick Williamson, Gabriella Zimmermann. Le lingue rappresentate sono: albanese, arabo, francese, giapponese, greco, greco antico, inglese, italiano, latino, lucano, napoletano, rumeno, russo, spagnolo, tedesco, turco, cui si aggiunge la lingua inventata (franco-italo-ispanica) di Forlani, e quella babelica in cui è trasposta la postfazione del curatore.
L’operazione è felicemente provocatoria, specie quando presenta lingue che pochi qui sono in grado di leggere, come l’albanese, il giapponese, l’arabo o il turco. Implicitamente, allude all’esistenza di una comunità poetica translinguistica (e di conseguenza transnazionale); e all’importanza del lavoro del traduttore, il quale, a differenza da quello che accade di solito nella nostra editoria, qui non è affatto in secondo piano, ma costituisce il senso stesso dell’opera, autore egli stesso, o autrice ella stessa.
Riporto più sotto il mio contributo e le sue versioni in inglese, tedesco e latino. Riporto anche uno dei quattro singolari contributi di Francesco Forlani, forse in se stesso simbolico dell’intera operazione del volume.
Connessioninasce invece a partire dall’esperienza del lockdown della primavera 2020. Come racconta Claudia Zironi nell’Introduzione (e come specifica poi Gabriella Musetti nella postfazione), l’idea del libro nasce dall’esistenza di una chat di poeti, nata a sua volta quasi per sbaglio, con funzioni di reciproco sostegno e scambio di idee e informazioni, in un periodo in cui si era tutti fisicamente isolati, e in cui l’idea della relazione, o delle connessioni tra le persone, era particolarmente sentita come cruciale. Appaiono nell’antologia, oltre a me: Luca Ariano, Francesca Del Moro, Leila Falà, Raffaela Fazio, Serenella Gatti Linares, Marilina Giaquinta, Loredana Magazzeni, Gabriella Musetti, Silvia Parma, Cetta Petrollo, Toni Piccini, Marinella Polidori, Valeria Raimondi, Sergio Rotino, Enea Roversi, Elisabetta Sancino, Claudia Zironi, Anna Zoli.
L’antologia nasce dai contatti di un gruppo di amici, ma una paradossale conseguenza del lockdown è stata quella di annullare tutte le distanze portando Catania, o Brescia, o Roma, a essere egualmente distanti dalla residenza bolognese di ciascuno dei membri appartenenti al capoluogo emiliano (comunque la maggioranza, ed espressione della comunità di partenza, con le iniziative precedenti di Versante Ripido); perché in quel periodo il divieto di andare in giro rendeva la strada accanto lontana quanto Tokio.
Per ciascun autore appare una breve introduzione sul tema che intitola il libro, e alcuni testi autoproposti, scritti per l’occasione oppure trascelti tra i propri con criteri di pertinenza. Ci sono anche alcune foto di fiori scattate da me, che in quel periodo, avendo il privilegio di abitare in campagna, ingannavo la solitudine con lunghe passeggiate.
Riporto più sotto alcuni dei contributi presenti nel libro, e una delle mie foto.
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Da Babel.
Il mio originale:
La versione inglese di Graziella Sidoli:
La versione tedesca di Anna Maria Curci:
La versione latina di Maria Laura Valente:
Una delle quattro poesie babeliche di Francesco Forlani:
(già pubblicato qui come nota critica a “Ipotesi per una bambina cyborg”, finalista a BIL 2021)
Quando l’altro è lo stesso, ma non del tutto, si generano delle inquietudini ossessive. Tutto scorre, ma è come se scorresse in circolo. Tutto ritorna, ma ogni volta è un poco differente. Identità e alterità si confondono, ma non possono confondersi del tutto, perché se un’identità è anche un’alterità, essa porta in sé il principio della diversità.
Una bambina cyborg non è un essere vivente, eppure lo è. Ha visto cose che voi umani…, ma sente le cose come tutti. È diversa, ma non lo è. È un’altra, e insieme è se stessa. Tornare a navigare nel grande vuoto, lanciando calci senza riceverne, in un liquido amniotico che torna più volte in queste poesie.
E tornano tante parole, a breve distanza, ossessive, e a lunga distanza, diversamente ossessive. E ritornano i suoni: assonanze, allitterazioni, paronomasie, bisticci. Una goccia stilla da una stella, di postille di pupille, tutto nel mondo si scinde, tutto nel mondo si sente, tutto è monco nel mondo. Del resto, io sono nata più volte. / inseguo nel niente una ripetizione costante.
C’è un andamento musicale, quasi danzante, in queste poesie di Lella De Marchi, anche se la danza non ci libera; è come una possessione, un ritmo da violino del diavolo a cui non si può resistere e che ci porta con sé. C’è anche un andamento narrativo, in queste poesie, ed è lì dentro che la possessione ci getta, a cavallo tra tenerezza, tenerezza e angoscia.
La bambina esiste davvero, è nata, gioca, viene presa per mano. Contemporaneamente, la bambina è la proiezione dell’infanzia di chi scrive. Il diverso è l’identico. L’identico è il diverso. La bambina è artificiale come l’amore che vive / e prolifera su questa terra. È unica e multipla. È lei stessa ed è tutte le cose e tutti gli animali che ci parlano, che naturalmente intervengono nel dialogo/monologo, nel ritratto/autoritratto. Del resto siamo la doppia immagine che può vedersi da sola.
Non si tratta però di un mondo di illusioni. In questa mise en abîme, di specchi che riflettono altri specchi, il sentimento traluce. Rischia di diventare falso solo quando se ne parla. Necessariamente c’è e si trasmette, perché tra l’io e l’altro c’è continuità, ci sono le cose che tornano, le parole che tornano, i suoni che si ripetono: sostanze, materia, carne.
Viceversa, l’amore non si cura della forma l’amore sa che la forma / non è che un antidoto alla paura. Poco importa mostrare di amare. Amare è ritrovarsi nel vortice di una differenza che insieme non lo è, eppure lo è, ma ancora lo nega. Ritornare ossessivamente, appassionatamente, musicalmente, sull’assenza di una distanza che c’è ma non c’è. E che in questa oscillazione ugualmente, paradossalmente, scorre.
(già pubblicato qui come nota critica a “Unità stratigrafiche”, Premio BIL 2021)
Gli archeologi come i paleontologi scavano strati di cose morte per ricostruire la storia delle cose vive, quelle umane gli uni, le naturali gli altri. Le unità stratigrafiche corrispondono a livelli storici omogenei, separati da quelli adiacenti da un qualche tipo di frattura. A Troia dieci strati archeologici differenti furono scoperti corrispondendo ad altrettante città, un tempo vive e poi morte, e sepolte dagli anni. Scavare è l’attività comune a queste ricerche sulla vita attraverso le cose morte; come scavare è pure l’attività simbolica del passaggio dalla vita alla morte.
Non c’è dubbio che a Laura Liberale interessi la vita, ma quando la si guarda da quel punto di vista particolare che si pone al suo limite, se non addirittura fuori dal suo limite, la vita può rivelare risorse insospettate. Si tratta solo di scavare, strato dopo strato, nella presenza di questa assenza, senza distogliere lo sguardo, senza orrore, con distaccata e un po’ meravigliata naturalezza; e ancora senza perdere la consapevolezza, la compassione.
Non c’è niente di più facile che diventare retorici, parlando della morte. In una cultura che idolatra l’individuo, il soggetto, l’io, la sua dissoluzione è evidentemente una tragedia. In questo libro c’è il dolore, sì, ma la tragedia non si affaccia mai. La morte vi è evidentemente un evento importante, che fa pure un po’ paura, ma appare tranquillamente parte dell’ordine naturale delle cose, persino quando muore un ragazzo, persino quando muore una bambina.
Impossibile, qua e là, non pensare a Spoon River, specie quando sono i morti stessi a parlare. Ma qui non c’è commemorazione e nemmeno compianto. C’è solo una sorta di consapevolezza diversa, un poco aliena; quella di qualcuno che è stato umano, magari vorrebbe tornare a esserlo, ma non lo è più.
Nei diversi strati del libro il rapporto con i morti cambia. All’inizio è un contatto diretto con i loro corpi, tramite il prendersene cura, dove il morto è insieme una persona dotata di un nome e un oggetto di cui occuparsi – e si fatica a tenere insieme le due dimensioni. La signora S., protagonista delle prime poesie, per esempio, l’hanno estratta dal frigo e ora trasuda brina, e la sua mano rimane ancora tutto sommato una mano finché stendiamo sulle unghie / lo smalto rosa a coprire il vecchio rosso smangiato. Il punto della questione è che continua a persistere un qualche tipo di commercio fra vivi e morti, ed è questo a tenerci, pur labilmente, insieme.
Poi, progressivamente, i morti in quanto tali si fanno più lontani, e il tema diventa il morire, il passare oltre. C’è un padre che per molti giorni ritorna in forma di mosca, qualcun altro tenta per nove volte di rientrare nel suo stesso corpo; ci sono i vivi che si chinano sul proprio morto, come sperando che lui possa aggrapparsi ai loro capelli per tornare. Un’intera, piccola, sezione, è dedicata a i mezzi, ovvero i medium, coloro che con i morti hanno contatto, che li sentono, ci parlano. Sono normali e anormali insieme, sono il tramite, la colonna di luce / intorno a cui si accalcano i morti falene.
E ancora, ci sono poi coloro che stanno per morire, uomini o animali che siano; coloro che lo sanno o non lo sanno, o magari lo sentono. La cagnetta Laika, il topo transgenico, la pecora Dolly, il verme che al morire si fa fluorescente… Parlano con i loro affetti, o parlano al mondo via Twitter… E c’è anche altro, che magari non sembrerebbe di per sé collegato alla morte, ma tutto tiene, qui – in un linguaggio poetico molto piano, spesso quasi argomentativo, con periodi lunghi scanditi internamente dalla divisione in versi.
È la vita a trovarsi singolarmente rappresentata, in questo modo. Non che si debba arrivare a pensare, con Heidegger, che “si vive per la morte”, ovvero immersi in quella prospettiva. Ma nemmeno si dovrebbe vivere come se la morte non esistesse. Il fatto che esista dà alla vita il senso che ha, quello di qualcosa che si esaurisce, che ha valore proprio perché prima o poi smette. Non c’è altro scampo che vivere al presente, concentrati in quello che si fa come Siddharta dalla volizione chiara immerso in meditazione o come il gatto concentrato sulla preda. Il dolore, la paura, non vanno negati, bensì compresi, accettati. Il male non ci potrà turbare se agiremo in questo modo.
Su Paola Nasti, Il libro degli affetti e delle restituzioni
(già pubblicato qui come nota critica al libro inedito di Paola Nasti, vincitore del Premio Speciale del Presidente della Giuria a BIL 2020)
Paola Nasti gioca sull’orlo delle cose. Le cose appaiono come illuminazioni improvvise nel Libro degli affetti e delle restituzioni, misteriosi correlativi oggettivi di una dimensione più astratta e più interiore. Anche al centro della psicoanalisi di Jacques Lacan sta una cosa, anzi la Cosa, la Chose, o meglio, per dirla con lui das Ding. Il termine è freudiano, ma Lacan sa bene di giocare con una Cosa ben più nota nella storia della filosofia, das Ding an sich, la cosa in sé di kantiana memoria, caratterizzata dalla sua intrinseca inconoscibilità, insomma il noumeno, contrapposta al fenomeno, ovvero ciò che appare e si può conoscere. Questa Cosa che si trova al centro dell’essere di ciascuno di noi è infatti, per Lacan, un’assenza, un buco, qualcosa che non può mai essere conosciuto, e quindi raggiunto, né nel rapporto autoriflessivo con sé e neppure nel corso di un’analisi. Ma si tratta di un buco costitutivo, perché causa lo squilibrio fondamentale che ci tiene vivi, desideranti, in continua tensione verso qualcosa che, volta per volta, proviamo temporaneamente a mettere al suo posto.
Forse programmaticamente, forse inconsapevolmente ma comunque in modo rivelatorio, il libro di Paola Nasti inizia così: “un blocco di creta / di poco più grande di un pugno / scavi il centro col dito / tornio di carne / fingere la forma attorno al vuoto”; e poi prosegue, poco sotto: “il vasaio finge il vuoto, lo contorna / di parole, adorna spazi / di fregi e di colori / tutto quello che scrive / non intacca mai il centro”. Sono le prime due Restituzioni. Inizialmente è la materia medesima a prendere forma attorno al vuoto, definendo la forma, fingendola; poi è la parola a fare lo stesso, come se fosse un altro tipo di materia. La parola, qui, è certamente quella della poesia, ma è anche quella degli affetti, quella dell’io – quel moi che Lacan definisce una costruzione, una sovrastruttura, una finzione, per quanto indispensabile.
Evocato vagamente in questa sede, l’io è destinato a non tornare in tutti i versi che seguono, dove dominano gli infinitivi, le seconde e terze persone, e al massimo qualche prima plurale. Nei pochissimi versi in cui l’io si manifesta come persona grammaticale, non fa che accostarsi alle cose, è insomma un io dinamico o forse percettivo, senza dignità psicologica, senza interiorità; perché sono sempre le cose a dominare il campo, e le relazioni tra loro. D’altra parte lo stesso approccio alle cose è sempre costruito, come in questi due primi componimenti, per improvvise illuminazioni, magari affastellate in sequenza, ma mai davvero sviluppate, mai contrastate con un’esplicita dinamica interiore.
Si direbbe una realtà fredda, oggettuale, dove lo spirito non può mettere piede, perché qui non si manifesta (mai) nessuno spirito, e il mondo è fatto di queste fredde relazioni tra cose, di questi vuoti che in realtà né la materia né la parola possono intaccare. Ma questa freddezza sparge attorno una diffusa inquietudine, questo vuoto di affetti chiede di essere riempito, mette in movimento tutto. E tutto come d’improvviso appare tiepido, caldo, vivo; ma senza che l’inquietudine si risolva e scompaia.
Sembra che Paola Nasti cerchi di ricostruire un’esperienza e un’emozione dell’attimo di fronte al mondo, senza pagar pegno all’io che la fa; ricostruire e non necessariamente descrivere: metterci di fronte, magari. La poesia sembra volerci porre nella condizione di vivere, per quanto indirettamente, quella stessa esperienza e quell’emozione come se fossero un impatto reale, con tutta la sua eventuale parzialità, manchevolezza. Eppure, questa mancanza della reazione dell’io fa sì che a loro volta le cose, in questo modo evocate, ci appaiano metafore inevase, correlativi oggettivi di qualcosa che non è chiaro cosa sia, eppure c’è, producendo una sorta di brivido, come quando, in quella situazione in cui non ci sentiamo affatto tranquilli, percepiamo d’improvviso una presenza ma non riusciamo a metterla a fuoco, e il senso di pericolo cresce, e non ci abbandona più.
Tra cose concrete e cose astratte, queste restituzioni sono forse davvero solamente apparenti, nomi di qualcosa che si manifesta, ci balza incontro, ci colpisce, ci bisbiglia parole che non riusciamo a capire (ma capiamo che dovremmo). Forse parlano di affetti, forse parlano di me, dell’io. Forse parlano del vuoto che ci dà forma. Si trovano sull’orlo di quel vuoto. È solo così, non cercando di descriverlo, che la poesia ne può parlare.
Mi rendo conto di disprezzare le poesie che danno troppo peso alle cose di cui parlano trascurando la qualità delle parole. A rigore, nemmeno avrebbero il diritto di essere chiamate poesie: sono semplice prosa che va a capo, e di solito anche cattiva prosa, perché scimmiottano senza accorgersene le parole della poesia. Quello che Sanguineti chiamava il poetese è questa lingua assunta acriticamente, attraverso la quale si pretende di arrivare alle cose facendo poesia. Certo, una di queste cose che emergono così importanti a dispetto della qualità delle parole è non di rado l’io: così eccoci nel campo della cattiva lirica, apoteosi del poetese. Ma può uscire ugualmente l’ineguaglianza, la rivendicazione sociale, la vita quotidiana: il civile non ci salva dal poetese, il minimalismo nemmeno.
Scarsa attenzione alle parole vuol dire ripetizione di moduli già pronti e un poco frusti, spesso nella convinzione che la giustezza delle idee e l’importanza dei temi riscatteranno la scarsa attenzione al modo in cui li si espone. Ma se questo può essere vero in politica, già tentenna vistosamente quando applicato alla prosa letteraria. La poesia, per parte sua, si trova proprio altrove.
Diffido, con qualche difficoltà in più, anche delle poesie che danno troppo peso alle parole con cui parlano, trascurando la qualità delle cose. Mentre il primo è un atteggiamento facilmente accusabile di ingenuità, questo secondo normalmente non lo è, poiché denota comunque un qualche tipo di consapevolezza letteraria, specie della poesia del Novecento, e una qualche riflessione in merito. Per questo mi è più difficile diffidarne, poiché appartengo al medesimo ambiente che produce testi di questo tipo.
È anche più difficile spiegare le ragioni di questa mia seconda – in realtà non meno effettiva – diffidenza. Poiché ritengo che anche le parole siano cose, dovrei pensare che lavorando sulle parole si lavori implicitamente anche sulle cose. E c’è indubbiamente del vero in questo. Ma questo lavoro sulle parole, sull’ostensione (critica) dei luoghi comuni, sulla combinatoria linguistica che produce lo straniamento, sull’elencazione secca, finisce talvolta per diventare a sua volta così secco da apparire sterile. Non mi convince la tesi secondo cui dev’essere il lettore a trovare la sua strada nel testo e i propri motivi di interesse: questo posso farlo anche con i fondi del caffè, con le configurazioni delle nuvole e con le parole estratte a caso da un sacchetto. Se si accettasse questo principio come principio estetico generale, qualsiasi cosa sarebbe una poesia o un’opera d’arte; e se è pur vero che io posso scoprire grandi verità e grandi bellezze in qualsiasi cosa o evento naturale o artificiale, e il ruolo del lettore è comunque importante, una poesia o un’opera d’arte dovrebbero essere qualcosa costruito apposta per favorire esperienze di questo genere – altrimenti la loro esistenza non avrebbe senso…
Piccole corone di spine (Nota critica a A un’ora di sonno da qui)
Come in una sorta di misticismo laico, le poesie di Franca Mancinelli trasfigurano il quotidiano nel tentativo di cogliere una qualche pienezza dell’impatto del vissuto. Forse la stanza cui ha fatto riferimento Milo De Angelis presentando una sua raccolta, dall’interno della quale l’autrice percepirebbe il mondo attorno, non è che una straniata, fuori fuoco, messa in scena dell’io, anch’esso comunque qui trasfigurato al medesimo modo.
Metafore, similitudini, correlativi oggettivi, pur apparendo certo differenti sulla superficie del discorso, manifestano in realtà una natura profonda comune. Essi tendono infatti ugualmente, con maggiore o minore forza, a mettere in dubbio l’organizzazione del mondo per cose tra loro distinte, per proprietà tra loro distinte, per azioni tra loro distinte, cui corrispondono, nel linguaggio, le rispettive parole: nomi, verbi, aggettivi. Questa organizzazione del mondo ci è necessaria per sopravvivere, e si è dimostrata nel tempo efficace, pragmaticamente vincente, non meno di quanto lo sia l’illusione dell’io, l’illusione della coscienza. Nondimeno la poesia esiste anche per ricordarci che non si tratta della realtà, ma solo di un espediente efficace per tenerle testa; e che c’è molto di più, sia nel linguaggio che nel mondo, di quello che la comunicazione quotidiana sembra permetterci di pensare. Le relazioni tra le cose, e quelle tra le parole sono assai più sottili e complesse di quello che la razionalità della nostra stabile concezione del mondo ci autorizza ad accettare. Come dire che tanto il linguaggio quanto il mondo possiedono un inconscio che la parola standard non conosce.
Molto tempo prima che esistessero le religioni come le intendiamo oggi, il misticismo era il tentativo di oltrepassare la barriera razionale del linguaggio, alla ricerca di una totalità che le parole e la normale immagine del mondo non permettevano di raggiungere. Si trattava di un tentativo destinato a fallire: nessuna totalità può essere davvero colta da una finitudine come quella umana. Nondimeno si trattava di un tentativo fertile, perché metteva in discussione quello che sembrava assodato e assestato: il mondo, l’io, e magari, da un certo punto in poi, persino Dio.
Non c’è bisogno di andare lontano per incontrare questo straniamento. Da un io deragliato, da una stanza poco messa a fuoco, il mondo può apparire come un reticolo di relazioni inaspettate tra le cose, gli eventi, le proprietà, i quali, pur essendo quello che sono, sono di colpo anche tutt’altro, e ci aprono la vista su panorami insospettabili del senso, e quindi del mondo.
Gli animali che migrano in noi, le formiche del sangue fermo, o al posto delle ciglia, magari rosse e velenose, la biscia, la lucertola, gli uccelli che insegnano alla voce, gli insetti costanti, le bestie buone sono altrettanti animali e insieme altrettante immagini di un’interiorità che è sempre insieme esteriorità, di un raccoglimento che è sempre insieme dispersione. Non troverete verità confortanti nelle poesie di Franca Mancinelli, ma solo suggestioni inquiete, piccole corone di spine, frammenti di corpo insieme a frammenti di mondo.
In verità anche il sacro, questa pienezza terribile che il mistico cerca a costo della ragione e magari della vita (e la Chiesa, a suo tempo, parecchi ne ha bruciati come eretici, da Margherita Porete a Giordano Bruno), anche il sacro non appare qui che spezzato, frammentato, percepibile solo per brevi folgorazioni. Se qualcosa la ragione stessa ci ha insegnato è a non prendere fino in fondo sul serio né lei stessa né le sue negazioni. Questo forse distingue la modernità dalle epoche che l’hanno preceduta.
Intuizioni e frammenti, dunque. E le parole come cose che costruiscono un mondo, fatto di suoni e di linee di scrittura, non meno che dell’universo di senso che emerge da quei suoni e da quelle linee. Echi di suoni, echi di andamenti ritmici, echi di forme del mondo rimandate da quei suoni e da quei ritmi: non c’è realtà senza ricorrenze. Questo lo sa anche la parola quotidiana, come lo sa la prosa del mondo, pure se fingono di ignorarlo. La poesia, come la musica, mette a nudo l’illusione, e ci rilancia nel ritorno delle cose, dei suoni, delle relazioni.
Nel mondo che gira attorno alla stanza di Franca Mancinelli le cose trovano un posto imprevisto, eppure familiare, come le nostre vene, il cui profilo ci è così bene noto quando affiorano alla pelle, ma per il resto…
Daniele Barbieri porta avanti da qualche tempo una ricerca ritmica costante e coerente, che originariamente prendeva spunto dalla metrica spagnola. Da questa operazione piuttosto originale nasce una versificazione omogenea, che si concretizza in componimenti brevi, suddivisi generalmente in distici di versi lunghi. In passato Daniele utilizzava prevalentemente versi di sedici sillabe, ottonari doppi con accento sulla settima e sulla quindicesima, mentre di recente ha allentato il vincolo sulla lunghezza del verso, e dopo le prime sei sillabe (con accento sulla quinta) spesso ce ne sono dieci, ma a volte anche nove o undici (con accento sulla quattordicesima o sedicesima). In un ritmo generalmente sincopato, si inserisce una trama sonora costruita con grande accuratezza sull’incalzare di ripetizioni, riprese con minuscole variazioni, allitterazioni, rime, rimealmezzo e assonanze. I versi tendono a sollecitare una lettura veloce, trascinante, ragion per cui le pause tra le strofe si offrono come pause confortanti di respiro. Sembra di trovarci in presenza di un flusso di coscienza, che non di rado prende la forma di domande, affermazioni che si ribaltano, si negano o si ampliano, si precisano, in un dialogo asfissiante con sé stesso, in cui i pensieri scaturiscono l’uno dall’altro, spezzandosi vicendevolmente, specchiandosi, tallonandosi, sbocciando dalla pagina bianca in un punto apparentemente casuale del loro svolgersi, in barba a qualsiasi consuetudine riguardante l’articolazione del discorso. Se in Distonia, l’ultimo libro di poesie di Daniele Barbieri, si indagava soprattutto il rischio di scomparsa delle parole, il dissolvimento di ogni possibilità di comunicazione, in uno svuotamento di significato a metà tra il temuto e il desiderato, i testi più recenti fanno spazio a un dialogo io/tu in cui ci si rivolge a un’interlocutrice femminile, ora con dolcezza e malinconia ora dando voce, anche attraverso immagini violente e inquietanti, al dolore bruciante della perdita. Ne risultano poesie d’amore originali e struggenti, ammalianti canti della fine, in cui non si ha paura – e questo è un tema che anticipa quello che forse sarà il prossimo libro di Daniele – di giocare, anche in chiave parodica, e donare una nuova veste e una nuova luce alle parole abusate del cosiddetto “poetese”. (Francesca Del Moro)
Amarene, di Silvia Secco, è un volume autoprodotto. EdizioniFolli, la casa editrice, è in verità sempre lei, la medesima persona. Questo ha come conseguenza certo anche la cura dell’edizione, della carta, della stampa, della rilegatura: un libretto prezioso, da questo punto di vista. Ma inevitabilmente distribuito a mano, regalato agli amici, in copie numerate. E questo è un peccato. Certo, visti i numeri esigui anche delle raccolte più vendute in Italia, si potrebbe dire che non fa una grande differenza. Ma poi è d’altra parte davvero un peccato vedere come gran parte di quello che viene stampato dalle case editrici patentate, grandi e piccole, è ben lontano da questo livello di qualità. (Poi, il volume è anche disponibile, in versione print on demand, su Amazon. Sarà forse meno accurato come confezione, ma quello che conta è lo stesso)
E non mi riferisco più, adesso, solo alla confezione grafica, ma anche e soprattutto ai versi originali e profondi di Silvia Secco, sempre evocativi e mai banali. La “Nota di lettura” di Alberto Bertoni si conclude dicendo “Questo libro, per compattezza tematico-stilistica e per intensità intonativa, la consacra ai livelli più alti della poesia di oggi”. Potrebbero essere parole di occasione, come capita tante volte nelle pre- o postfazioni. Ma in questo caso non lo sono affatto.
Questo scritto non ne è una recensione. Pongo qui di seguito una piccola selezione di componimenti dal volume. Poi mi soffermerò un poco sull’ultimo, che è anche l’ultimo dell’intera raccolta.
Dovunque s’è gridata devozione
a voce stridula e braccia levate
di splendide bambole rotte, usate
fino al cavo. E no che non sapevamo
d’essere involucro vuoto: niente
cuore né carne né spina. Sedute
ci mantenevamo dritte: al segno
del comando cantavamo tutte
le sue canzoni –
***
Poi ho scordato di dirti di dio
che abita le alture dei rami e che mai
è caduto a baciarmi, mai – al café de paris
una notte di gennaio ad esempio –
Di come invece stento a credere sia poco
il perduto, se anche la neve si tiene
non scesa e non ci perdona. La mia fede
si fonda sulle virgole, riapre sempre la frase
e persino la luna pare abbia mentito
almeno una volta mentre cresceva.
***
Insegnami il coraggio dei papaveri
ai margini di strada, l’ilarità
di certe spighe, a spasso con le folate.
Fammi capace di gentilezza
– l’erba sul piede nudo, l’attitudine del sasso
a tacere le erosioni, la pazienza che hanno i pesci
coi costumi dei bagnanti – dammi la fede del frutto
che maturerà, come ne ha la neve in altitudine
a maggio inoltrato.
***
Niente, è solo il cuore e io ne ho due.
Non è che il cuore, uno, entrambi
sventa, che sbatte gli scuri: lo senti
che è il cuore – di che ti spaventi
se sale alla gola, alle tempie, coi marosi
nei frastuoni delle feroci città
e stridore di treni, passi di passanti quali siamo
povera umana cosa – Respira,
stanotte non moriremo, non senza esserci toccati.
Nessuno, questa notte, si toccherà.
Nel sangue, lì rimarrà il tuo nome nel luogo dei rovi.
Dopo, ti dico, si romperanno le chiuse.
Potremo piangere finalmente, fino a casa.
***
Dentro la notte mi nuotano i pesci,
parlano con me senza emettere suono
antichissime storie degli abissi, epoche
che gli uomini, animali e foglie
abitavano le acque – liquidi nei liquidi –
e le dita, e perfettamente le labbra
di tutte le bocche e di tutte le mani
che si erano unite nel tempo anteriore
si riconoscevano di nuovo.
Io ti aspettavo, con gli occhi che hai
mutevoli – d’acqua e d’altro, come mio padre –
Ti ho pensato a lungo prima,
similitudine interna di pace.
Luna compiuta sopra la casa.
***
1 Le parole del mattino ripetute all’orecchio
. io ti amo, ripetute al mattino all’orecchio del sonno
. nell’ultimo anfratto del sonno, deposte nel cavo
. grembo di ogni equilibrio e di ogni memoria. Le parole
5 io ti amo del mattino mandate a memoria, ripetute
. e ripetute, depositate come un monile d’argento
. nel cavo – delle nostre mani abbandonate, dell’orecchio –
. nel sonnolento cavo della logica, nel tempo
9 ancora cavo del mattino, dentro – minimo embrione
. d’argento, ciondolo di profezie e fortuna – Io,
. io ti amo, le parole ripetute nel tempo, le antiche parole
. madre e padre del tempo, ripetute al mattino all’orecchio
13 nel sonno del tempo, nelle profonde cavità senza suono.
Sono tredici versi molto lunghi, da 15 a 18 sillabe, eccetto il verso 11 che ne conta 21. Si tratta di una misura inconsueta nell’intera raccolta, dove i versi così lunghi appaiono solo in maniera occasionale. Ed è inconsueto anche il tessuto ossessivo di rimandi e di echi che ne costituisce l’ossatura.
L’espressione le parole ricorre 4 volte, di cui 3 sono associate all’espressione io ti amo, che compare sempre a inizio di verso. Mattino, così foneticamente simile a io ti amo, appare 5 volte. Ripetute, una delle parole chiave del componimento, c’è ben 6 volte, di cui due accostate. Orecchio 4 volte, di cui 3 all’orecchio e un dell’orecchio. Sonno 3 volte, cui si aggiunge un sonnolento. Deposte ritorna come depositate. Cavo 4 volte (di cui una come aggettivo), cui si aggiunge, in conclusione un cavità. Memoria 2 volte, ma poi appare tempo, che ritorna 4 volte, sostenuto anche da un antiche, cui potremmo aggiungere profezia e fortuna, che ne condividono il campo semantico. D’argento è prima un monile (che ritorna come ciondolo), e poi un embrione (altro riferimento allo sviluppo, e quindi al tempo). Alla fine, le parole che non ritornano sono davvero poche, e in verità anche lì il gioco del rimando si compie in altro modo: il grembo del verso 4 ritorna nell’embrione del verso 9 e nei madre e padre del 12. Il cavo / grembo di ogni equilibrio dei versi 3 e 4 si sposa con il sonnolento cavo della logica del verso 8. Il mandate (a memoria) del verso 5 risuona con il mani abbandonate del 7. Il profonde della chiusa richiama l’antiche del verso 11. Così come il suono con cui si chiude tutto, rafforzato dall’allitterazione con senza, richiama fortemente il sonno, più volte ricorrente, per sonorità e per senso locale.
La divisione in versi confligge con quella sintattica, giocando con frequenza di enjambement. Ma la discrasia è confermata anche dalla presenza di numerose rime, e sempre interne, come se si suggerisse pure in questo modo un meccanismo di imprevedibile ripresa, come di una ragione che confligge con un’altra, e questo conflitto fa sì che i ritorni siano imprevedibili, e che il ritmo che ne consegue sia insieme cullante e inquietante. Alla stessa dimensione ipnotica appartiene il gioco delle allitterazioni e paronomasie, che si aggiungono alle ricorrenze lessicali, così da costruire un tessuto complessivo quasi ciclico, danzante e quasi immobile. Magari non così dissimile da quello che succede quando nella nostra sonnolenza entra ricorrentemente uno stimolo piacevole, senza davvero svegliarci, ma senza nemmeno restare inconsapevole.
Si tratta però di una quasi-immobilità. Il componimento è costruito come un brano di musica, in cui interagiscono diversi motivi, ritornando e sviluppandosi, e magari lasciandone emergere di nuovi nell’intreccio di quelli già noti. Le parole io ti amo, leitmotiv dominante (e per questo ricorrenti sempre a inizio verso), sono due volte precedute dall’espressione le parole, una prima volta a distanza, una seconda nella tensione dell’enjambement. Ma la terza volta esse riappaiono precedute da una ripetizione del pronome io, anche qui nella tensione e nell’esitazione dell’enjambement, e ora l’espressione le parole le segue. Si tratta di una variazione di carattere musicale, certo, da un lato; ma dall’altro il raddoppiamento del pronome, sottolineato dall’enjambement, e la posticipazione della descrizione, rendono di colpo l’espressione più forte, più diretta, privata del distacco, come ricevuta in prima persona, ora – salvo poi rientrare nell’alveo della sonnolenta descrizione. Certamente non è un caso che il verso 11, in cui questo accade, sia, con le sue 21 sillabe, decisamente più lungo degli altri, come a mantenere il più a lungo possibile questo picco di tensione, e in questo modo ulteriormente sottolineandolo.
Poco dopo la metà, nel verso 8, compare il tempo. Era stato anticipato dalla memoria, nei versi 4 e 5, ma la memoria è tempo congelato. Adesso invece esso si sviluppa in embrione, profezia, fortuna, antiche, madre e padre. La condizione del sonno continua a dominare, e lo farà sino in fondo, e gli eventi rimangono confusi, ondeggianti; e tuttavia adesso chiaramente ci sono, determinano un’evoluzione, un cambiamento. Anche se non possiamo davvero uscire dal sonno del tempo, le parole possono entrare in qualche modo nelle profonde cavità senza suono, e quindi anche senza avere suono, cioè forse senza avere sonno, pur essendo profondamente, anticamente proprio dentro il sonno.
Il gioco dell’ambivalenza ritmica tra versificazione e sintassi, tra versificazione e rime si rispecchia dunque nell’ambivalenza semantica dei termini, che ritornano ogni volta oscillando nel loro significato, rimandando ogni volta a sfumature ed evocazioni diverse.
È così che Silvia Secco riesce a costruire una poesia originale ed efficace facendo uso delle parole più usurate del poetese, del lirismo più banale. A partire da io ti amo, quasi impronunciabile in poesia, per seguire con mattino, sonno, abbandonate, tempo, antiche, madre e padre. Manca la rima fiore amore la più antica difficile del mondo, ma non ho dubbi che se ci fosse, l’autrice sarebbe in grado di ridare senso anche a lei.
È che qui, il gioco delle ripetizioni e delle interferenze crea una complessità d’insieme e un complessivo straniamento che ci costringono a tornare a percepire quelle parole consumate, sino al loro fondo mitico. È come se fossero nuove, adesso, pur rimanendo quelle che sono. Quando funziona, la poesia ci sa liberare dalle incrostazioni della retorica – magari quelle stesse che ha contribuito a costruire quando non funziona, o quando, trasformata in slogan, deve servire a qualche scopo poco nobile.
Posso? Nel senso di: mi date il permesso? Mi autorizzate? Non mi fate annegare o mettete in prigione se provo a entrare? Posso scrivere queste cose? Non c’è dubbio che ne avrò facoltà nella misura in cui le mie parole arriveranno solo a chi già la pensa come me, e quindi non sposteranno nulla. Ma, potrei scrivere queste cose là dove effettivamente le arrivassero a leggere tutti? Una volta le dittature mi avrebbero comunque impedito di dirle. E questo avrebbe potenzialmente creato un caso. Oggi i governi democratici sono meno ingenui, e distinguono bene ciò che è davvero pericoloso per loro da quello che non lo è. Finché parlo ai miei, finché parlo a quattro gatti, finché dico cose tutto sommato banali, già dette, non corro nessun rischio. Posso. Il poeta, in generale, oggi parla ai suoi. Anche per questo, in generale, nessuno gli negherà il permesso. Potrà persino essere usato a dimostrazione che non esiste nessuna repressione delle idee. Nel nostro paese, il prestigio culturale di cui la poesia gode è inversamente proporzionale al suo peso. Se va contro al potere potrà essere perciò bellamente ignorata; se invece lo favoreggia, quel prestigio potrà diventare una mostrina all’occhiello. I poeti amici dei ministri sono facilmente importanti poeti, anche quando non hanno mai scritto una poesia decente. Io non credo alla poesia civile. La poesia non diventa migliore né parlando bene né parlando male del potere. Al massimo, il poeta si fa degli amici; raramente dei nemici. È più facile farsi dei nemici con un buon editoriale su un giornale di ampia diffusione, che con la migliore delle poesie civili. L’impegno politico e civile è tutt’altro che vietato ai poeti, anzi! Ma è meglio che lo lascino al di fuori della propria poesia, se davvero desiderano che pesi in qualche modo. Non ha a che fare col potere, dunque, la poesia? Posso? Nel senso di: mi date il permesso di dire qualcosa di forse sgradevole? Non me lo potete negare, a questo punto. Certo, potete smettere di leggere. Se una poesia è davvero buona ha il potere di impedirvi di smettere di leggere. Non vi può costringere a iniziare, ma se iniziate, rimarrete lì sino alla fine; e magari tornerete pure. La poesia non è politica, e non è civile, se non per caso, quasi per sbaglio. Ma la buona poesia, persino quando parla di alberi, non implica affatto il silenzio sulle stragi. La buona poesia, persino quando parla di alberi, porta alla luce uno strato più profondo, parla alla nostra anima e alla nostra coscienza attraverso i nostri miti. Per questo, la buona poesia è etica e civile anche quando parla di alberi. E parla del potere anche quando parla di alberi. Non dice che il potere è corrotto, che il potere è potere, che il fascismo striscia attraverso le azioni dei potenti ogni volta che può. Non lo dice, ma anche parlando di alberi, ci conduce verso la condizione in cui lo possiamo poi capire da soli. Ci costringe a essere sinceri con noi stessi, individualmente ma anche collettivamente. Ci porta a rivelare lo stato di menzogna in cui annaspa il nostro quotidiano, che a sua volta sostiene e ci fa sostenere, magari inconsapevolmente, quel potere che crediamo di stare combattendo. La buona poesia si muove al livello degli strati profondi della nostra cultura, del nostro patto sociale, anche quando in apparenza parla di alberi. Se non sapremo discendere fino a questo livello, se non sapremo riconoscere quello che sussurra nel nostro profondo, di individui e di società, qualsiasi opposizione al potere non farà che rafforzare il potere, perché ne confermerà i principi condivisi. I quali sono così condivisi che la poesia, ahinoi, è ormai rimasta un’arte di élite, e col potere, in un modo o nell’altro, siamo tutti ingenuamente collusi.
Barbieri riesce in una scrittura che inseguo da tempo, una scrittura che possa liberarsi di alcune vecchie dicotomie. Nei testi di Distonia essa trova il suo modo per affrancarsi dall’ossessione per la realtà e la comprensibilità senza diventare oscura. Tratta il materiale verbale con cura dell’andamento metrico e strofico (appena nascosto nel verso lungo, ma ritmicamente evidente) eppure evita la concettosità. Dice dalla condizione dell’osservatore lirico riuscendo a darcene conto in un acquerello astratto, dove l’acqua sta forse per il noto liquido baumaniano, forse per i regimi turbolenti della coscienza. La poesia di Barbieri, che gioca con la mancata possibilità di additarne l’oggetto, o con la presunzione delle ‘cose in sé’ di costruire un mondo, ha la capacità di essere calda e astratta allo stesso tempo. Va ragionando della condizione instabile, opaca, inefficiente dell’identità nell’anonimità fitta e rumorosa del contemporaneo, ed è insieme intima, immersiva senza essere personale. (rm)
Franca Mancinelli, da A un’ora di sonno da qui, italic pequod, 2018
Mi ha molto colpito la lettura di A un’ora di sonno da qui, dove Franca Mancinelli riunisce due raccolte precedenti: Mala kruna (2007) e Pasta madre (2013) più qualche inedito. Il testo che cito qui sopra è il primo di Pasta madre.
Scrivo queste righe come esercizio di comprensione, per cercare di capire perché questo specifico componimento mi sia apparso così significativo. Procederò accumulando osservazioni sparse, inizialmente senza un progetto, sperando di arrivare, alla fine, a tirarne le fila.
Pur non essendo una poesia con rime, non posso fare a meno di notare che la coppia di vocali terminali dei versi genera la seguente sequenza: o-o, a-i, o-o, o-i, a-o, a-i, a-i, o-i, o-i, a-i. Dopo un inizio appena più incerto, gli ultimi cinque versi hanno chiaramente uno schema di assonanze di tipo AABBA, ma anche i primi cinque si tengono foneticamente in zona, come a creare una nebulosa che arriva poi a essere alla fine più nettamente definita. Eccetto il primo verso, poi, tutti gli altri contengono una lettera n o m tra le ultime vocali, o in loro prossimità (come nel quarto, nel terzultimo e nel penultimo, peraltro vicinissimi tra loro: noi-noi-nostri). Anche questa consonanza rafforza l’effetto di ricorrenza.
Ma la rima troppo netta viene evitata. Per questo, mi sembra, la parola ali inizia il quarto verso invece di terminare il terzo. La rima, pur imperfetta, sciami-ali, sarebbe risultata molto forte, con una chiara intonazione conclusiva. L’enjambement invece nega decisamente questa conclusività, e il punto fermo dopo ali viene immediatamente riaperto dal seguito del verso. Questa riapertura, inoltre, segnala l’inizio di una nuova fase: dopo due periodi molto brevi, il periodo che si apre qui proseguirà sino alla fine. Ma il fatto che i due soli punti fermi intermedi della poesia si trovino entrambi in posizione non conclusiva di verso li rende più deboli, suggerendo implicitamente quella stessa continuità che poi si manifesta compiutamente dal quarto verso in poi.
Sembra che queste due osservazioni, una fonetica e l’altra sintattica, ancora prima di prendere in considerazione elementi più apparentemente centrali, concorrano nel mostrare come nel corso dei versi si passi da una minore a una maggiore compiutezza. La stessa sensazione si prova iniziando a guardare più da vicino la sintassi e il discorso che ne viene articolato.
Il primo periodo, iniziando in minuscolo, dà l’idea che manchi qualcosa prima del suo inizio effettivo. L’espressione stessa cucchiaio nel sonno, prima di poter essere compresa come un’apposizione de il corpo, si presenta come un’apparizione irrelata, enfatizzando l’anormalità dell’associazione del cucchiaio con il sonno. Quando, a fine verso, scopriamo che il cucchiaio è il corpo, l’espressione cucchiaio nel sonno ha già sollecitato in noi degli interrogativi. Il seguito della proposizione li risolve e insieme rilancia: cucchiaio è infatti semanticamente compatibile con raccoglie, e sonno con notte. Di conseguenza si capisce che il corpo raccoglie la notte perché è cucchiaio nel sonno. Ma che cos’è il raccogliere la notte? (Aggiungo, en passant, l’allitterazione tra i tre termini cruciali cucchiaio, corpo e raccoglie)
Il secondo periodo è breve e compiuto, ma inizia e finisce a mezzo verso. Come il primo periodo, è tagliato in due da una virgola, anche se qui la virgola separa due diverse proposizioni (ma questo potrebbe valere anche per il primo periodo, leggendolo come il corpo, che è cucchiaio nel sonno, raccoglie la notte). Mentre il primo periodo delinea un’operazione di raccolta, qui erompe una figura di dispersione (Si alzano sciami), secondo un classico schema tesi-antitesi. Si noti che questo schema tesi-antitesi si trova ribadito foneticamente anche lungo i tre versi su cui il secondo periodo è distribuito: nel verso 2 e nel 4 le vocali dominanti sono a e i (Sialzano sciami, ali), mentre nel verso 3 dominano o ed e (sepolti nel petto, stendono); nel verso 2 e nel 4 dominano le consonanti liquide e nasali (Si alzano sciami, ali), mentre nel 3 le esplosive palatali e dentali (sepolti nel petto, stendono). L’allitterazione sulle sibilanti è invece pervasiva.
Un’opposizione tesi-antitesi richiede una sintesi. Il terzo periodo, prima ancora di mostrarsi tanto più complesso e duraturo dei precedenti, si apre con un’aggettivo esclamativo-interrogativo, come quanti, il cui tono è immediatamente diverso da quello dei periodi precedenti. Un buon attacco, insomma, per la sintesi. Ed ecco che, infatti, gli animali richiamano gli sciami, e il migrare il movimento già evocato dall’alzarsi; ma gli animali adesso migrano in noi, richiamando la raccolta evocata dal primo periodo, e non la dispersione del secondo. Tuttavia questa raccolta viene negata subito dopo perché la migrazione è di passaggio, e il corpo evocato all’inizio si specifica concretamente ora nelle parti del suo interno, come fossero davvero luoghi di passaggio di un migrare, passando, sostando.
Il corpo è diventato, favolosamente, un paesaggio, dove persino il cuore non è che un luogo fisico – pur non potendo smettere del tutto di essere il luogo del sentimento – come l’anca, le costole. La sintesi si è posta come tesi per una nuova antitesi: l’interno, rispetto a cui si opponevano raccolta e dispersione, ambedue presenti nel transito del migrare, ora si trova a essere al tempo stesso un esterno.
La ripresa del quanti non è preceduta da un punto, ma da una semplice virgola, il che sottolinea la continuità pur nella riapertura del discorso. Ma di colpo gli animali, sin qui figura materiale, naturale, oggettiva, si trovano a essere a loro volta soggetti: vorrebbero! E poiché vorrebbero non essere noi, evidentemente invece lo sono, configurandosi come metafora di qualche pulsione o desiderio, che ci appartiene ma non del tutto, che sta nel nostro corpo ma non coincide e non appartiene davvero al nostro io. Vorrebbero, insomma, non restare impigliati tra i nostri contorni di umani. Ed ecco che le figure del corpo nominate prima, specie le costole, sembrano delineare il contorno di una gabbia (toracica, ma non solo).
Il movimento verso la dispersione c’è, e continua a essere forte, ma di colpo diventa impossibile, negato, e la raccolta finisce per vincere (ecco, insomma, che cos’è quella notte che il corpo raccoglie). Interno ed esterno sono adesso la stessa cosa, ma sono anche un interno da cui non è possibile uscire. Si arriva insomma a una sorta di fallimento della dispersione: e tuttavia gli ultimi verbi significativi sono quei non essere noi e non restare impigliati, che evocano invece un successo – pur già negato dal condizionale di vorrebbero.
L’ambivalenza tra raccolta e dispersione continua a manifestarsi, insomma, anche nel momento in cui la conclusione sembra sancire la vittoria della prima delle due istanze. E le figure del mondo esterno in cui quegli animali si muovono continuano a mantenere la loro materialità anche quando diventa chiaro che solo l’interno è in gioco qua.
Insomma, tutto il gioco formale ci porta a questa chiusa apparentemente così preparata e definita (anche la rima debole, ma in questo contesto assai significativa, tra quanti e umani rafforza il senso di chiusa – proprio come avrebbe fatto, più sopra, quella invece negata tra sciami e ali), ma la chiusa stessa è piena di ambivalenze proprio mentre sembra fornirci una conclusione.
Sedere a una tavola ignota.
Dormire in un letto non mio.
Sentire la piazza già vuota
gonfiarsi in un tenero addio.
Non so. La questione della semplicità in poesia mette a me, e non solo a me, dei problemi. Questi quattro versi di Sandro Penna, scritti in qualche momento tra il 1938 e il ’55, quando in Italia imperava la complessità semantica neodannunziana degli ermetici e già si preparava l’ipercomplessità antidannunziana della neoavanguardia, mi imbarazzano davvero. Voglio dire: perché questa quartina di banali novenari, fatti di parole del tutto normali, con rime del tutto scontate, alla fin fine mi sommuove e magari mi turba, mentre gli alti lai di una recente giovane poetessa che canta il proprio (legittimamente doloroso) cambio di sesso continuano ad apparirmi banali e noiosi?
Poesia semplice contro poesia semplice, per riprendere i termini di un tutt’altro che banale intervento di Mario De Santis uscito in questi giorni e più volte ripreso nel dibattito in rete. Dovrei dire, per semplificare, che quella di Penna mi appare poesia semplice, mentre quella della Vivinetto poesia banale, dove la differenza sta nel fatto che di semplice in Penna c’è solo – per così dire – il livello di base, e quindi si tratta, in verità, di una pura apparenza di semplicità; mentre nella Vivinetto si resta tutti lì, e dalla semplicità non si esce: c’è solo quello, nient’altro. Dirlo è facile, ma spiegare perché lo è forse un po’ meno.
Diciamo che troppo spesso, leggendo la poesia banale, succede esattamente quello che ti aspetti che succeda: escono le parole che è normale che escano, insomma. La poesia banale parla con parole non sue: sono le parole della chiacchiera, direbbe Heidegger, quelle depositate nei discorsi che si fanno continuamente. Ma non solo parole: nella poesia banale escono anche i concetti che ti aspetti che escano. Il discorso è quello preconfezionato del parlare quotidiano, del pour parler, tanto per usare un’altra espressione cara agli esistenzialisti. Nella poesia banale il discorso è preconfezionato due volte (e in verità molte di più). Non c’è mai una sorpresa: il dolore è come deve essere, il sollievo pure; l’amore, la morte, il piacere, il sesso, l’avventura… tutti sono come devono essere, come ci aspettiamo che siano.
La spocchia di un poeta complicato come Edoardo Sanguineti non gli ha impedito di definire efficacemente poetese la lingua della poesia banale. In verità, il poetese non parla, non dice. Si limita a confermare quello che ci aspettiamo. Si limita a rinchiudere un dolore (se è di un dolore che si parla) nella cornice scontata del dolore, quella che tutti con facilità riconosciamo come tale. In altre parole, si limita a nominarlo: insomma, il poeta dice “dolore”, e tutti i lettori rispondono “ah”!
Molto più difficile è spiegare perché i versi di Sandro Penna, nonostante la loro semplicità di superficie, non ricadano sotto la specie della banalità e del poetese. Meglio: non ricadevano quando sono stati scritti e continuano a non ricadervi oggi, tanti anni dopo. Potremmo dire, quanto a quando sono stati scritti, che la loro semplicità discorsiva si contrappone agli Avorio luziani che costituivano il modello di quegli anni. Ma sarebbe facile allora ribattere che la semplicità delle parole della Vivinetto si contrappone alla complessità della cosiddetta poesia di ricerca (modello, anche se molto meno, di questi anni). Evidentemente non si tratta di una ragione sufficiente.
La mia impressione è che, nella loro semplicità, le parole di Penna non siano affatto scontate. Per esempio, queste frasi così brevi si interrompono prima di poter diventare banali. Gettano l’amo della banalità, ma poi non abboccano. Ci fanno credere per un attimo alla scontatezza, ma poi non ci cadono.
A ben guardare, poi, questa colloquialità normalità innocenza quasi improvvisazione sono davvero soltanto apparenti. Guardiamo da vicino questi quattro regolari novenari, che giocano astutamente il loro appartenere metrico a uno schema popolare frustissimo, ma già ambiguamente nobilitato da Giovanni Pascoli qualche decennio prima. Si tratta di quattro versi con il medesimo andamento ritmico e la medesima struttura proposizionale, fatta di un verbo all’infinito, un complemento e un suo attributo. I versi sono a rima alternata, ma le rime alternate non si limitano al finale del verso: anche sedere si riallaccia foneticamente a sentire, e tavola a piazza, a livello di assonanze e consonanze, specie se contrapposte, negli altri due versi, a dormire con gonfiarsi (prima vocale o, e poi la r e la i) e letto con tenero (insistenza sulle e, t e o).
Eppure, questa struttura, resa ancora più regolare e quadrata attraverso queste insistenze, mostra a un certo punto un’asimmetria del tutto imprevista. Tra il primo e il secondo verso c’è un punto (come tra il secondo e il terzo), mentre tra il terzo e il quarto verso si va di seguito. Questa sorpresa (non proprio un enjambement, ma quasi) mette in movimento tutto, quasi rovinando il sistema delle simmetrie. Non è solo questione di parole e di sintassi: sedere e dormire sono due verbi che esprimono delle azioni indipendenti, ma sentire non lo è, e serve sostanzialmente a introdurre un gonfiarsi che, pur esprimendo di nuovo un’azione indipendente, è riflessivo, e quindi di colpo diverso dagli altri.
Tutto questo non è banale esibizione di controllo verbale. Esibire un controllo verbale di questo livello vuol dire far capire bene che il controllo è stato ugualmente esercitato anche sulle parole all’apparenza banali. Dimostrandosi così perfettamente consapevole di quello che sta facendo, Penna, insomma, si può davvero permettere, a questo punto, di usare le parole più banali e trite di questo mondo, senza che esse appaiano per nulla banali e trite. La sua operazione finisce per essere simile a quella (molto posteriore) della musica minimalista: nella ripetizione ossessiva ogni diversità, ogni minima discrepanza emerge enfatizzata: è proprio perché il lessico e la sintassi di Penna sono così banali, in un contesto così evidentemente controllato, che le non banalità saltano all’occhio, ci colpiscono e intrigano. Quella vaga, smagata ironia che sempre traspare attraverso le parole di Penna finisce per essere indizio di questo attentissimo controllo e del gioco consapevole sul banale; ed è attraverso di lei che le parole più usurate, proprio quelle consunte della quotidianità, possono riacquistare il peso semantico che avrebbero se non fossero consumate dalla chiacchiera, dalla banalità dei mille discorsi in cui sempre appaiono.
Non si tratta di una strategia facile. Più spesso i poeti preferiscono sancire il gap col banale rendendo più complicata la superficie del componimento. Quando leggete Montale non ricavate mai l’impressione di una poesia facile. Ma certamente la banalità si può nascondere, in altro modo, che non ci riguarda qui, anche nella poesia complicata.
I mille imitatori della semplicità di Sandro Penna vedono insomma le sue parole semplici e la sua semplice sintassi, ma non colgono il suo controllo né la sua vaghissima ironia. Per questo finiscono per risultare alla lettura semplicemente banali. Ha ragione De Santis a riconoscere alle traduzioni una certa responsabilità in questa caduta: non è davvero facile riportare in un’altra lingua la sottilissima deformità che rende affascinante il discorso di Penna! E così sarà per i tanti grandi poeti di altre lingue, ridotti in italiano alla lettera di quello che dicono. Riducete Penna alla lettera di quello che dice e avrete qualcosa di simile ai versi della Vivinetto: un ininteressante resoconto di privati turbamenti, buono giusto per spiare dal buco della serratura l’intimità di qualcun altro, che magari gode pure della propria esibizione. Certo, in tutto questo niente di male, eticamente: sono fatti di chi guarda e di chi si fa guardare. Ma che non mi si parli di poesia, please.
Non è vero che i cosiddetti contenuti non hanno alcun valore in poesia. Ma l’errore opposto a questo è peggiore e molto più diffuso. Nelle nostre scuole si studia il Pessimismo Leopardiano e pure quello di Eugenio Montale. Nei testi critici i poeti vengono presentati come filosofi (minori) che si esprimono in versi. Tutto il discorso critico si concentra su quello che nei loro versi viene detto.
Come se fossero versetti biblici da cui è necessario ricavare ermeneuticamente (così come ci insegnò a fare Origene nel Terzo Secolo) delle profonde verità nascoste, i versi dei poeti diventano profetici e ieratici: la sensualità della vita in D’Annunzio, le piccole cose quotidiane dei Crepuscolari, la follia di Dino Campana, il senso tragico della vita in Montale, i rapporti familiari in Saba, la tradizione gitana in García Lorca, lo svuotamento del senso della vita in Eliot, l’esaurimento storico in Sanguineti… Questo è – quando va bene – ciò che si deve ricordare dei poeti.
Proprio perché si tratta di grandi poeti, ciascuno di loro ha provocato in noi, prima o poi, almeno un fremito, e lo abbiamo amato per questo. Questo, io credo, è ciò che la poesia dovrebbe fare: provocare fremiti. Non si tratta di orgasmi da quattro soldi; la poesia non è eroina. Quando la poesia ci procura un fremito è perché ha smosso qualcosa di profondo; ha spostato delle pietre assestate sul fondo della nostra coscienza, pietre di cui talvolta nemmeno ricordavamo l’esistenza. Ma non è affatto detto che queste pietre concettuali che vengono smosse abbiano qualche campo in comune con ciò di cui la poesia parla.
Più volte mi sono ritrovato a pensare che amo Leopardi nonostante il suo pulcioso pessimismo…
Ho partecipato a una polemica su Facebook rispondendo a caldo. Continuo a pensarla come in quelle risposte a caldo; tuttavia, a freddo, mi rendo conto che c’è in gioco qualcosa di più.
Ecco i fatti, cercando di fare meno nomi possibile (ma qualche identità è ovvia, e qualche altra molto facilmente ipotizzabile da chi segue le notizie del piccolo mondo della poesia italiana). Qualche giorno fa si diffonde la notizia (via Facebook, ma citando un noto quotidiano nazionale) che un noto poeta, di dichiarata appartenenza a CL, avrebbe ricevuto uno specifico apprezzamento da parte del Ministro degli Interni, cui avrebbe risposto positivamente, avrebbero bevuto un caffè insieme e si sarebbe “consolidata un’amicizia schietta”.
Qualche giorno dopo il noto poeta pubblica su un noto sito di critica un’appassionata autodifesa nei confronti dei suoi detrattori. Un poeta e critico, che scrive sul medesimo noto sito pur non condividendo per nulla le posizioni del noto poeta, ci tiene a far sapere che il noto sito, pur essendo diretto dal noto poeta, non gli ha mai richiesto nulla né censurato nulla – e che quindi, pur scrivendo sul medesimo noto sito diretto dal noto poeta, non si sente affatto colluso; e continuerà a farlo, anche eventualmente parlando male del noto poeta.
Il poeta e critico aggiunge che sino a poche ore prima nemmeno sapeva che il noto sito fosse diretto dal noto poeta, e che a maggior ragione per questo non può essere colluso. Salterà fuori più tardi che l’informazione era falsa, e che il noto poeta non è il direttore del noto sito, ma solo un suo (importante) collaboratore.
Nel frattempo, il dibattito su Facebook si è già scatenato. Quello che io ho obiettato (gentilmente – ma altri l’hanno fatto con molta più durezza) all’amico poeta e critico è che poco importa che non sapesse e che esprimesse con libertà il suo pensiero, antagonista a quello del noto poeta. Se il noto poeta era il direttore del noto sito, avrebbe certamente potuto spendere il fatto di dirigere un luogo di libere opinioni per mostrare al mondo di essere un vero democratico. Qualunque cosa il mio amico poeta e critico scrivesse sul noto sito sarebbe stata utilizzabile in questo modo, fornendo una patente di democraticità al ciellino amico del Ministro degli Interni.
Qualcun altro ha detto molto più chiaramente di me che non sapere non è una scusa; e che, una volta che sai, il minimo sarebbe prendere pubblicamente le distanze. In caso contrario si sarebbe comunque collusi con il noto poeta e con i suoi amici politici.
La notizia che il noto poeta non è davvero il direttore del noto sito, arrivata nel bel mezzo della discussione, non ha placato la polemica, perché comunque il noto sito è condotto da qualcuno dei suoi, e il gioco si trova soltanto appena differito.
Non mi dilungo sulla polemica perché non è di quello che voglio parlare. Il punto è che, riflettendoci a freddo, mi sono reso conto che qualcosa di cruciale è successo. Fino a sei mesi fa il fatto che un poeta e critico potesse scrivere in uno spazio di opinioni politiche diverse dalle proprie non sarebbe apparso un grande problema. Il noto sito si occupa di poesia, non di politica. Le divergenze sono di carattere estetico e poetico. Si tratta di uno spazio di dibattito come altri, dove le personali convinzioni di chi lo conduce contano poco, purché tra queste ci sia il rispetto delle opinioni di chi ci scrive e di chi commenta.
In altre parole, io so che tu non la pensi come me, ma nella misura in cui tu rispetti il mio pensiero io rispetto il tuo, e possiamo discutere – anche aspramente, se serve, ma discutere. Poiché mi fornisci lo spazio per farlo, grazie, e va bene così.
Qual è la soglia oltre la quale questo accordo non diventa più possibile? Credo che la soglia stia proprio nell’assenza di rispetto reciproco; o meglio, per quanto mi riguarda, anche solo nel sospetto che l’altra parte non rispetterebbe il mio pensiero – censurandolo o (assai peggio) strumentalizzandolo. Personalmente non avrei mai dato il mio contributo a spazi che io sapessi legati a personalità fasciste o leghiste, nemmeno per dire peste e corna di loro. Avrei sentito comunque come una sorta di connivenza il fatto stesso di scrivere sul loro spazio, persino scrivendo male di loro: perché comunque la legittimazione dello spazio di pubblicazione che gli si dà pubblicandovi viene prima ed è assai più fondamentale di qualsiasi opinione ci si vada a esprimere. Il vostro scritto potrebbe anche non venire letto, ma il vostro nome è lì.
Sino a qualche mese fa il noto sito stava ancora tranquillamente dal lato buono della soglia; ora si trova invece sul lato cattivo. Che cosa è successo? Be’, certamente la notizia della collusione del noto poeta con il Ministro degli Interni ha la sua parte in questo, ma se il Ministro fosse stato quello di una qualsiasi passata legislatura, probabilmente il passaggio di soglia non sarebbe stato così brusco.
Il punto è che l’attuale Ministro degli Interni sta rappresentando in questo momento esattamente il modello di quella intolleranza che non è proprio possibile tollerare. Lo si vede, visto che parliamo di social media, proprio dagli interventi che lui vi fa; per non dire di quelli, atroci, stupidi, disinformati, aggressivi, dei suoi sostenitori. A leggere, quando capita, quelle frasi, si ha davvero la sensazione che con queste persone non sia proprio possibile alcun tipo di dialogo. Non puoi addurre ragioni; non puoi spiegare; non puoi fare informazione.
Certo, il noto sito non è questo. Il noto sito pubblica interventi colti, scritti da persone che hanno opinioni critiche e anche politiche molto diverse tra loro. Ma che fiducia potrò avere io in un luogo di pubblicazione che non possa dissociare le proprie opinioni da quelle di un amico del Ministro degli Interni? Cioè di un amico di colui che è il primo a fare disinformazione, a spacciare notizie false e allarmismi infondati, fomentando la marea dei suoi ottusi sostenitori.
Me ne rendo conto a partire dagli stessi aggettivi che mi vengono fuori. Tra le vittime della politica di quest’uomo c’è prima di tutto la possibilità di dialogo: che dialogo posso avere con chi non è capace di dialogare? Ma siccome quest’uomo è furbo, lui sa benissimo che in questo preciso momento rendere difficile il dialogo lo favorisce, porta acqua al suo mulino. Possiamo sperare che questa condizione non duri a lungo, ma al momento sembra che sia davvero così.
Per questo mi ripugna la sola idea di collaborare con spazi di pubblicazione che facciano riferimento, diretto o indiretto, a quel mondo. Non li sosterrò, e mi dispiace se dentro ci sono persone oneste che non hanno capito di che cosa si stanno rendendo complici. Non smetterò di dialogare, ma certo non da lì dentro. Per fortuna almeno il Web ci fornisce tutto lo spazio che vogliamo.
E non vale l’argomento che sostiene che qui si discute di poesia, non di politica. Il primo a fare politica attraverso il proprio essere poeta è, tra l’altro, proprio il noto poeta. Personalmente, sono pronto a difendere la poesia di Ezra Pound, tra i maggiori poeti del Novecento, ma non difenderò le sue scelte politiche e certamente mai e poi mai farei né l’una né l’altra cosa in uno spazio gestito da CasaPound. Io magari parlerei di poesia, ma il mio nome non parlerebbe di poesia: il mio nome parla comunque di me, e dice che io sono lì. Sono responsabile di chi si può fregiare del mio nome quanto e più di quanto sono responsabile per quello che dico e scrivo; anzi, tanto più scrivo cose intelligenti, libere e apprezzabili, e tanto più il mio nome vale, e non può essere lasciato in mano a certa gente.
Leggo l’articolo di Andrea Inglese “Iconoclastia artistica e concetto di littéralité”, apparso su Nazione Indiana (ma già prima in un volume collettivo) e apprezzo, come sempre, la chiarezza di esposizione e l’originalità del tema. Ne condivido, oltre a una serie di premesse, l’atteggiamento critico e “anticalcistico” (sottolineato in uno dei commenti), ed è proprio in questo spirito di critico apprezzamento che vorrei chiarire perché la posizione della littéralité è a mio parere sostanzialmente indifendibile, a meno (come talvolta Inglese sembra suggerire) che non la si prenda come semplice utopia, tendenza influente ma irraggiungibile – e tuttavia, in questo caso, non so quanto davvero desiderabile.
Partiamo dalla breve antologia dei presupposti, o delle anticipazioni del letteralismo, che Inglese traccia. Si incomincia con Van Doesburg, 1930, che nel suo manifesto Basi della pittura concreta scrive: “L’opera d’arte deve essere interamente realizzata e formata dallo spirito prima della sua esecuzione. Essa non deve accogliere nulla dei dati formali della natura, della sensualità, della sentimentalità. Noi vogliamo escludere il lirismo, la drammatizzazione, il simbolismo, ecc.” E poi: “Il quadro dev’essere interamente costruito con degli elementi puramente plastici, ossia piani e colori. Un elemento pittorico non ha altro significato che ‘se stesso’, di conseguenza il quadro non altro significato che ‘se stesso’.” E poi ancora: “La tecnica deve essere meccanica, ossia esatta, anti-impressionista”.
Credo che Mondrian, già compagno di strada di Van Doesburg, prima di andarsene sbattendo la porta perché l’amico non era sufficientemente conseguente (aveva introdotto gli angoli di 45 gradi nelle sue composizioni!!), avesse già espresso concetti simili con chiarezza ancora maggiore ben dieci anni prima. In un suo articolo del 1920, “Il Neoplasticismo. Principio generale dell’equivalenza plastica”, Mondrian arriva addirittura a spiegare come dovrebbe essere una musica che segua i principi del neoplasticismo; e così ecco l’idea di una musica che abbandona l’armonia tonale e adotta nuovi strumenti che eliminano l’espressività dai suoni, in nome del tentativo di raggiungere la forma pura, fatta di contrasti puri tra elementi essenziali. Potrebbe sembrare una precognizione della dodecafonia di Schönberg, che il musicista viennese sta sviluppando nei medesimi anni; ma Schönberg non arriverà mai a essere così estremista. Siamo più vicini, semmai, al serialismo di Pierre Boulez, che troverà campo a partire dalla fine degli anni quaranta; ma pure Boulez non arriva a voler eliminare l’espressione dai suoni.
Proviamo a leggere qualche riga al proposito. Mondrian inizia dicendoci che in musica, a parte le fughe di Bach, “nella maggior parte dei casi la plastica costruttiva è velata dalla melodia descrittiva”, espressione dell’individuale; mentre “nella musica, come altrove, lo spirito nuovo esige una plastica equivalente dell’individuale e dell’universale governata da una proporzione equilibrata”. E più sotto: “La scala musicale con le sue sette note si basava sulla morfoplastica. […] La vecchia armonia rappresenta l’armonianaturale. […] La nuova armonia è una doppia armonia, una dualità di armonia spirituale e armonia naturale. […] Pertanto la nuova armonia non può mai essere com’è in natura: essa è l’armoniadell’arte”. E infine: “Se lo spirito nuovo deve essere espresso plasticamente, si deve bandire dalla musica la vecchia scala tonale, insieme agli strumenti tradizionali. Per giungere a una nuova tecnica si devono creare, oltre a una nuova composizione, anche altri mezzi plastici, come avviene nelle cosiddette arti plastiche. […] Archi, fiati, ottoni ecc. vanno sostituiti da una batteria di oggetti duri. […] Per la produzione del suono sarà preferibile ricorrere a mezzi elettrici, magnetici, meccanici, in quanto essi impediscono più facilmente l’intrusione dell’individuale.” Così, ecco la conclusione a cui Mondrian arriva: “Il contenuto della nuova opera d’arte deve essere un’esteriorizzazione plastica chiara, equilibrata ed estetica dei rapporti sonori, niente di più”. (tutti i corsivi di queste citazioni sono di Mondrian)
Mondrian parla della musica, ma ci sta dicendo anche quale sia la sua idea della pittura. Scrivete visivi invece che sonori nell’ultima affermazione, e avrete l’ideale mondrianiano della pittura: la forma pura, irrelata, intesa come un sistema di rapporti plastici. Non siamo lontani dalle affermazioni degli altri precursori citati da Inglese, come Judd, Manzoni, Klein e Buren, attraverso i quali l’iconoclastia novecentesca diventa un’affermazione della sostanza dell’opera, del suo essere stesso. Come dice Piero Manzoni: “Qui l’immagine prende forma nella sua funzione vitale: essa non potrà valere per ciò che ricorda, spiega o esprime (casomai la questione è fondare) né voler essere o poter essere spiegata come allegoria di un processo fisico: essa vale solo in quanto è: essere”. Non siamo lontani nemmeno, come fa giustamente notare Inglese, da certe affermazioni di Adorno: “In generale – scrive Adorno – le opere d’arte potrebbero valere tanto di più quanto più sono articolate: laddove non è rimasto nulla di morto, di non-formato; nessun campo che non sia stato percorso dal configurare. Quanto più profondamente questo se ne è impadronito, tanto più l’opera è riuscita. L’articolazione è il salvataggio della molteplicità nell’uno.” Qui l’articolazione è il progetto, è la plastica costruttiva di Mondrian, è l’essere interamente realizzata e formata dallo spirito prima della sua esecuzione di Van Doesburg. Ciò che è morto, non-formato, è quello che si presenta come semplice imitazione del mondo, melodia descrittiva, morfoplastica.
Andando in una direzione simile (ma senza arrivare tanto in là), nel 1964 Susan Sontag già lamentava l’ossessione dell’interpretazione rispetto ai testi letterari, ormai impostasi a tal punto da portare talvolta gli autori stessi a produrli in funzione di un’interpretazione critica. L’accezione del termine interpretazione nell’uso della Sontag è diversa da quella di uso semiotico corrente, e più vicina semmai a quella dell’ermeneutica, e potrebbe essere considerata grosso modo equivalente a trovare un senso nascosto profondo. Gli autori letteralisti o pre-letteralisti di cui parla Inglese vanno certamente nella direzione auspicata dalla Sontag, e in questo senso la loro posizione è apprezzabile. Eppure, temo, finiscono per buttare via il bambino insieme con l’acqua sporca.
Trovo comunque di grande interesse la posizione di Ponge, e la descrizione che ne fa Inglese. Mi permetto di citarla qui integralmente:
Prenderò in considerazione Méthodes, libro di Ponge uscito nel 1961 e contenente delle riflessioni di poetica redatte negli anni Cinquanta. In esso, è raccolto il testo di una conferenza presentata in Germania nel 1956 dal titolo La pratique de la littérature. Ponge insistite qui su una caratteristica tipica del poeta – sorta di precondizione psicologica o esistenziale al suo mestiere –, che è la particolare sensibilità all’esistenza del mondo e degli oggetti. Questa sensibilità riguarda, nella formulazione che ne do io, l’esteriorità radicale del mondo, ossia il versante più inospitale della realtà. Versante, per altro, che è sempre schermato dall’interiorità del sistema culturale e linguistico in cui siamo per lo più immersi. Ma Ponge sottolinea un altro aspetto cruciale della postura poetica. Bisogna infatti aggiungere a questa sensibilità generale, una sensibilità più ristretta. Ed ecco cosa scrive: “Quindi, c’è questa sensibilità nei confronti del mondo esteriore. E poi c’è una sensibilità a un altro mondo, anch’esso interamente concreto, stranamente concreto ma concreto, che sono il linguaggio, le parole. Credo che siano necessarie entrambe le sensibilità per essere un artista, ovvero avere la sensibilità nei confronti del mondo e avere la sensibilità nei confronti del proprio mezzo espressivo”.
Sembrerebbe una frase tutto sommato banale, se non nascondesse abissi di carattere epistemologico. Nel momento in cui il poeta è colpito, provocato, investito dalla realtà materiale del mondo e degli oggetti, egli reagisce, dando però le spalle a quel mondo, per concentrarsi su un altro mondo, altrettanto materiale, ma più piccolo e sfuggente, che è quello del linguaggio e delle parole. Per altro, in questo scenario si è saltati dal mondo e dagli oggetti al linguaggio e alle parole, senza soffermarsi sul soggetto, sulla sua mente, la sua interiorità, i suoi sentimenti, ecc. Ci si è limitati a sottolineare che il soggetto che scrive poesia dovrebbe possedere una propensione all’attenzione e alla sorpresa nei confronti di ciò che materialmente lo circonda. Ma veniamo al paradosso enunciato da Ponge. Per andare verso il mondo che lo provoca con la sua circostante inospitalità, il poeta è costretto a ripiegarsi sul linguaggio e sulle parole, che hanno una loro specifica consistenza materiale. Ma così facendo, non potrà mai più uscire da quel ristretto mondo linguistico, fatto di certi suoni e certe tracce, per appropriarsi in qualche magico modo dell’oggetto esteriore. L’esito di questa riflessione sembrerebbe condurre allo scacco, all’ammissione di essere finiti in un vicolo cieco. Ma Ponge fa proprio di questa difficoltà lo specifico motore della sua scrittura. La sua strategia potrebbe essere così riassunta: giocare l’estraneità del mondo contro la familiarità del nostro linguaggio; curare il nostro linguaggio, sferzandolo con l’estraneità del mondo. Ma da cosa bisogna curarlo? Innanzitutto dalle idee che in esso si depositano, dai significati, dagli usi comuni delle parole, ma anche – visto che stiamo parlando di linguaggio poetico – dagli usi che la comunità poetica fa del linguaggio. Quindi il linguaggio va s-poeticizzato, o se vogliamo s-figurato, ossia bisogna liberarlo anche dalle figure letterarie e retoriche. Tutto ciò infatti fa ombra alla realtà dell’oggetto, fa ombra alla consistenza del mondo. Questo tipo di cura è stata ben compresa e valorizzata da Gleize. La littéralité, infatti, è animata innanzitutto da un’ideologia dell’emancipazione, e ciò da cui bisogna emanciparsi sono i significati ordinari, da un lato, ma anche le immagini poetiche, dall’altro. Siamo di fronte al sogno iconoclasta di liberare la lingua dalle immagini soggettive, che sono poi, come già sostenevano gli artisti citati in precedenza, inconsapevoli sedimenti di ideologie dominanti.
Mi sembra sufficientemente evidente che le immagini soggettive evocate qui non sono lontane dalla melodia descrittiva aborrita da Mondrian, né dal morto di Adorno. Così come ugualmente evidente mi pare che questo estremo andare verso il mondo, verso il reale finisca per ribaltarsi in un concettualismo altrettanto estremo, come quello di Mondrian, di Boulez e di Adorno. E il paradosso evidentemente c’è, ma non è quello suggerito da Inglese.
L’opposizione di cui paradossalmente in Ponge si vedrebbe la negazione è infatti quella tra parole e cose, ma si tratta di una falsa opposizione. Ponge ha del tutto ragione nel trattare le parole come cose, anzi come quelle cose che ci sono familiari più di tutte le altre: curare il nostro linguaggio, sferzandolo con l’estraneità del mondo è un programma che non si può che condividere. Ma bisogna riconoscere che le cose non sono oggetti meno semiotici delle parole: sono solo strumenti che vengono utilizzati all’interno di pratiche diverse da quelle del parlare (o scrivere) che caratterizzano l’operato del poeta. Riconoscere questa identità semiotica di fondo tra parole e cose è la condizione per un programma come quello di Ponge, ma al tempo stesso lo destituisce di senso (il programma, non le opere, sue e di Gleize, che continuano ad avere un senso e un valore).
Se infatti le cose sono oggetti semiotici quanto le parole, allora anche loro sono stracolme di significati ordinari e di figure retoriche (seppur diverse da quelle dalle parole), così come di immagini soggettive cariche di ideologia (seppur diverse da quelle delle parole). L’operazione di Ponge può allora funzionare non perché ripulisca il linguaggio sporco di soggettività e poeticità attraverso il contatto con il mondo pulito, ma perché questo confronto sporca il linguaggio con una sporcizia che non è specificamente la sua, ma semplicemente quella di un diverso ambito semiotico. Si tratta, insomma, di un effetto di Verfremdung, di straniamento, qualcosa che è ben noto al Novecento anche senza andare a disturbare la letteralità e i suoi antecedenti.
In questa prospettiva, per emanciparsi dai significati ordinari e dalle immagini poetiche non c’è bisogno di idealizzare il mondo, non solo perché il mondo non è che un altro campo di significazione, ma anche perché basta giocare con un qualsiasi campo diverso di significazione per ottenere un effetto analogo (certo, poi, non tutte le scelte saranno ugualmente efficaci, ma non è l’opposizione parole/cose a fare da linea discriminante).
In questa prospettiva, inoltre, nessuna letteralità è davvero possibile. Le forme pure di Mondrian non sarebbero gli oggetti straordinari che spesso sono se non si stagliassero contro vari millenni di immagini, che forniscono inevitabilmente il quadro concettuale di riferimento attraverso cui comprenderle. Qualsiasi paesaggio cittadino è pieno di angoli e incroci di linee e colori molto simili a quelli di Mondrian, ma noi non passiamo le giornate con il naso all’aria estasiati da quello che vediamo, come succede di fronte a una sua opera. Poi, certo, arriva un Franco Fontana a fotografare quelle stesse cose che possiamo vedere tutti i giorni e di colpo ecco che riacquistano quella potenza che in libertà non avevano; ma l’operazione di Fontana è proprio quella di riproporre quelle forme come immagini, e quindi di riproporle nel confronto con i millenni di immagini che hanno dietro, e quindi con il carico di significazione che questo comporta.
La letteralità è l’illusione di poter arrivare a toccare direttamente almeno quelle cose che sono le parole, senza pagare lo scotto che già lamentava la Sontag. Eppure, nel momento stesso in cui Ponge, e Gleize, e gli autori di Prosa in prosa spoetizzano il linguaggio, si stanno già confrontando con l’ombra del linguaggio poetico, e da questa condizione non si esce. L’unico modo per uscirne sarebbe non fare letteratura: così come gli incroci di linee in giro per la città non sono opere di Mondrian, allo stesso modo le banalità dei discorsi quotidiani non sono le quartine da tavolino da caffè di Alessandro Broggi, così come il prodotto quotidiano delle deiezioni di Pietro Manzoni non è la sua Merda d’artista. Uscire dal dominio dell’illusione, come proporrebbe Daniel Buren, abolendo l’arte, impedendo le proiezioni soggettive sull’oggetto artistico, non riproporrebbe nessun accesso diretto al reale, ma semplicemente alimenterebbe l’illusione di poterlo avere, là dove l’arte, almeno, riconosce e ostenta la propria dimensione illusoria, rendendola discorso.
L’interpretazione in senso ermeneutico, esecrata dalla Sontag, è spesso davvero una jattura, e spesso a sua volta una mistificazione di carattere religioso-rivelatorio, come se il critico (novello ermeneuta biblico) potesse rivelare una profonda verità nascosta dell’opera d’arte. Io condivido con Inglese la propensione, piuttosto, a un atteggiamento più vicino al misticismo, all’evitare di spiegare, all’evitare di cercare profonde verità nascoste. Ma di interpretare, in senso semiotico, non possiamo fare a meno. La nostra stessa azione per mezzo degli oggetti è sempre interpret-azione. E non è possibile fermare l’interpretazione al primo passo, quello letterale, specialmente quando ciò che dobbiamo interpretare si presenta come operazione artistica. Senza voler arrivare alle verità profonde, di cui facciamo volentieri a meno, il percorso su cui un’opera d’arte ci conduce è evidentemente un percorso interpretativo: accanirsi contro le immagini, accusandole di tutti i mali della poesia (o della pittura, prima) è come prendersela con i migranti per i mali dell’Italia. Un falso bersaglio, insomma, per uno scopo politico (di solito, in campo artistico, almeno meno becero di quello di Salvini). Per questo, anche solo come polo tensivo, la letteralità non è desiderabile.
E’ divisa in quattro sezioni: Fiore, Calore, Rumore, Tremore.
Quando avevo quindici anni, scoprii la Quarta Sinfonia di Mahler. La trovai (la trovo tuttora) bellissima, in particolare il terzo e il quarto movimento. Ma quello davvero strano era il secondo, lo Scherzo, basato su una melodia un po’ sghemba suonata da un violino studiatamente stonato. Nella nota critica che accompagnava il disco, là dove si parlava di questo secondo movimento, comparivano le parole “una nuova utilizzazione del banale“.
Questa espressione mi colpì molto, così come mi colpirono, poco tempo dopo, le parole con cui Proust invitava a non disprezzare la cattiva musica, perché era piena dei sogni di tante, tantissime persone. Non disprezzare la musica banale, insomma. Quello che Mahler aveva fatto, in quel suo movimento di sinfonia, era proprio prendere la cattiva musica, la musica banale, e ridarle senso, semplicemente ricombinando le modalità di presentazione e accostamento dei motivi. I motivi, straniati in questo modo dalla particolare modalità di apparizione, dal contesto diverso dal solito in cui si venivano a trovare, non apparivano più banali, pur restando riconoscibili per quello che erano.
Ecco: questo è esattamente ciò che ho cercato di fare in cuore amore dolore. Ho preso sul serio la proposta di Umberto Saba, e ho usato la rima fiore-amore “la più antica difficile del mondo”. Ho giocato con le parole del poetese più abusato, senza escludere la passione, senza escludere i temi preferiti dal poetese più abusato. Che si tratti di un gioco si deve percepire, senza che questo nasconda il fatto che non si tratta di un gioco. Si tratta di ridare senso a quello che lo ha perso, inflazionato dall’abuso poetico.
è quello che voglio dire
è quello che voglio fare
è così che voglio incidere
è così che voglio amare
come un silenzio che grida
voglio entrare nel tuo cuore
come un grido nel rumore
voglio restarci invisibile
voglio restare acquattato
nelle pieghe del tuo amore
come una mistica tenia
che si nutre di dolore
Potrà apparire strano, ma questo video l’ho scoperto solo oggi. La parte che mi riguarda va da 1.06.38 a 1.35.08. Buona visione!
(basta cliccare su Play e dovrebbe partire già dal punto giusto)
RicercaBO. Laboratorio di nuove scritture a cura di R. Barilli, N. Lorenzini, G. Pedullà. Sala Borsa, Bologna, 29-30 ottobre 2015
PAOLA SILVIA DOLCI – I PROCESSI DI INGRANDIMENTO DELLE IMMAGINI – NOTA CRITICA DI DANIELE BARBIERI
Nel 1929, l’esperienza di un viaggio in America porta Federico García Lorca a scrivere Un poeta en Nueva York. È un libro molto diverso da quelli che ha scritto prima, e vi si susseguono e accavallano immagini molto dure e molto forti, con accostamenti di senso imprevedibili. Viene considerata un’opera surrealista, probabilmente il miglior prodotto del Surrealismo spagnolo.
È lo stesso anno, quello, in cui, in tutto un altro mondo, Frida Kahlo sposa Diego Rivera e inizia di fatto la sua carriera di pittrice. Il suo soggetto, nei venticinque anni successivi, sarà con grande frequenza un’immagine straniata di se stessa, un vedersi da fuori che permette di guardarle dentro. Anche la sua, in generale, è considerata un’opera surrealista, probabilmente il miglior prodotto del Surrealismo messicano.
Tra le tante citazioni che attraversano il libro di Paola Silvia Dolci, I processi di ingrandimento delle immagini, non compaiono né il poeta spagnolo né la pittrice messicana, e nemmeno si potrebbe davvero dire che lo stile di questo libro vada ricondotto ai loro. Eppure c’è qualcosa, nel procedimento di Dolci, che può essere ricondotto ai loro procedimenti, o forse qualcosa che rimanda a quelle atmosfere. Non è certo solo il fatto di iniziare a New York, anche se pure questo qualche suggestione in merito la crea. È piuttosto, soprattutto, l’amore per gli accostamenti inaspettati, e spesso sorprendenti, con immagini a volte violente, ma soprattutto violente relazioni tra concetti che si trovano vicini e resi vividi proprio da questa vicinanza…
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