Di una foto di dettagli (43)

Dettagli (43)

Dettagli (43)

Intitolare questo Dettaglio “Rose al tramonto” sarebbe troppo facile e troppo d’effetto. La rosa è un fiore per la nostra cultura troppo carico di senso simbolico, per poter sfuggire al fascino di questa piccola catastrofe da giardino. Ma anche il contrasto tra il bianco soffice e luminoso dei petali e il bruno rugoso della terra sobillava l’esteta che si nasconde in me. Persino la luce aveva un che di apocalittico.

Insomma, banalità su banalità. Nel complesso, struggente.

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Della foto di una bella in contemplazione

La bella in contemplazione

La bella in contemplazione

Sì, se ne stava lassù, contro questa bella facciata di azulejos, perlomeno singolare nel suo fare assorto.

Bambola di gomma, scultura in materiale leggero, carne?

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Di “Oltremai”, di Lorenzo Mattotti

…stavolta ho incominciato a creare immagini narrative evocandole sul momento. Questa piena libertà che mi sono preso mi obbligava paradossalmente a un’estrema concentrazione sul soggetto e sulla composizione del disegno. Tutto doveva essere contenuto, svolgersi in quell’unica tavola e possedere abbastanza forza da stimolare l’immaginazione di chi l’avrebbe guardata. Ho l’impressione che la mente, in questi casi, si metta all’ascolto di lontani echi narrativi, di storie, simboli e immagini, visti in altri periodi della mia vita. Scava nella memoria e va a pescare immagini rimaste impresse nella mia pinacoteca personale, creando strane associazioni, mescolando miti, personaggi, luoghi.  È stato come se l’improvvisazione scartasse le idee di superficie, le inutili decorazioni, e puntasse direttamente all’essenza, potente, nascosta, sotterranea, della visione. Piano piano, si è concretizzato un universo fiabesco senza riferimenti precisi a storie esistenti, un racconto per immagini molto personale. Il pennello e il nero permettono questo linguaggio diretto, senza fronzoli, evocatore ma non descrittivo, misterioso, dove la luce e il buio vestono un ruolo da protagonisti. Sono disegni enigmatici anche per me, fanno parte di quell’esplorazione del “dentro” che ho intrapreso da un bel po’ di tempo ormai e che, in questo caso, si è indirizzata piuttosto verso i luoghi della fiaba, del mito, del fantastico. Ho l’impressione che le immagini si raccontino da sole, in maniera libera, indipendenti da qualsiasi frase con cui avrei potuto accompagnarle. Mi è parso che qualunque parola avessi aggiunto alla loro autonoma narrazione avrebbe solamente limitato l’evocazione affabulatoria che quelle immagini hanno in sé…

Lorenzo Mattotti, Oltremai (1)

Lorenzo Mattotti, Oltremai (1)

Mi fa sorridere pensare che i tre mondi del fumetto, dell’illustrazione e della pittura rivendicheranno come propria quest’opera di Lorenzo Mattotti. Tutti e tre hanno infatti ragioni per farlo, visto che l’autore vive tutte e tre queste realtà. Però Oltremai non è facilmente descrivibile come fumetto, perché non c’è né una sequenza né una storia; non è facilmente descrivibile come illustrazione perché non illustra nulla, e non c’è nessun testo di riferimento; non è facilmente descrivibile come pittura perché supporto e strumento sono atipici, e soprattutto perché fatica a inserirsi nel discorso corrente delle arti visive. Ma “pittura” è comunque il termine più generico dei tre, e solo per questo motivo alla fin fine Oltremai sarà riconosciuta nel suo ambito.

È la terza volta che mi trovo davanti a questi lavori. La prima mi trovavo nello studio di Lorenzo, mentre ancora li stava realizzando. La seconda, era nello splendore del salone della Pinacoteca di Bologna, dove sono stati esposti tutti e 53, uno dopo l’altro in una lunga fila, sino a pochi giorni fa.

Adesso sono a casa mia, e ho davanti il libro, pubblicato da Logos di Modena, stampato e confezionato con estrema cura, che vale pienamente il suo (non indifferente) prezzo. Certo, non sono gli originali; però adesso di fronte a queste curatissime riproduzioni posso prendermi tutto il tempo che voglio, guardare, osservare, tornare indietro, confrontare, ripensarci, metterle via, ripensarci ancora, tirarle fuori, confrontare quel dettaglio con un certo dipinto che ricordavo, pensarci ancora, guardare ancora, rimandare a domani, e poi guardare ancora…

Questi disegni mi fanno un po’ paura. E non sono i mostri che vi appaiono, a spaventarmi. O almeno, non loro direttamente. Ogni tanto mi viene da pensare che questi mostri sono solo i fratelli cresciuti di quelli (selvaggi) di Maurice Sendak. Quindi non spaventano: inquietano.

Ma inquieta anche la bambina, e il bosco, e l’acqua, e il cielo, e persino il paesaggio lontano. Tutte queste cose inquietano, e questo sommarsi di inquietudini mette un po’ i brividi. Ma quello che fa paura davvero è il fatto di riconoscere in queste immagini un sacco di cose che già conosco, e queste cose, qui, non si trovano al loro posto, oppure non stanno nel rapporto corretto tra loro: insomma, sono loro e insieme non lo sono. È così anche per gli stessi mostri, la bambina, i boschi, le acque, i cieli e i paesaggi lontani; ma è così soprattutto per tutti quegli echi di forme che riconosco e che in parte sono come dovrebbero essere e in parte no.

Nelle parole che ho citato all’inizio del post (tratte dall’introduzione del volume), Mattotti spiega come ha lavorato su queste immagini. Sono tutte improvvisazioni, spesso realizzate in un’unica sessione di lavoro (sto aggiungendo qui anche qualche informazione avuta dalla sua stessa voce). Si parte da un segno qualsiasi del pennello sul cartoncino bianco (di grande formato, 100×70), e quel segno ne evoca altri, e questi a loro volta evocano figure, e l’immagine così progressivamente si compone.

Una delle cose che mi piace fare su queste immagini è seguire con l’occhio  il gesto del pennello: il gesto che traccia grosse linee ondulate, il gesto che affianca sottili linee diritte, quello che lascia sequenze di macchie vagamente regolari… e poi la rottura improvvisa, quando a un tipo di gesto se ne sostituisce un altro, più netto, più violento, meno iterativo.

È come ascoltare un brano di musica. Ci sono dei temi che ritornano, dei leitmotif, cioè dei motivi portanti (il mostro, la bambina, l’oscurità, il bosco, l’acqua…), ci sono degli andamenti armonici che si susseguono (le varie tessiture, i vari andamenti del gesto…), e c’è questo loro stupefacente avvicendamento. Non c’è una storia?

In verità di storie ce ne sono tante quante sono le immagini, e hanno tutte qualche relazione tra loro; ma non c’è tra loro una continuità. Il che rende tutte queste storie molto vaghe, e non interessanti di per sé. Proprio come in un brano di musica: magari riconosci il momento di furore, o il momento di gioia, o quello di contemplazione estatica, ma non c’è modo di collegarli in un racconto. Eppure la musica funziona lo stesso.

Il fatto è che una storia è già, in sé, una spiegazione. Poter descrivere ciò che osserviamo come parti di una sequenza dotata di senso è qualcosa di confortante, che ci dà l’idea che il mondo sia, almeno in parte, spiegato; e quindi, almeno per quella parte, sotto controllo. In queste immagini, proprio come in musica, questo conforto non c’è. Queste immagini fanno paura perché non sono spiegate, non sono inseribili in un racconto. Sono come quei frammenti di sogno che non riesci a collegare alla sequenza principale, e non sei capace di dar loro un senso, una coerenza narrativa – e per questo motivo o li dimentichi subito (li rimuovi), oppure non li dimentichi mai più.

Un primo riferimento istintivo, per queste immagini di Oltremai, sono le Carceri d’invenzione di Giovanni Battista Piranesi. Certo, in Piranesi c’è molto più progetto di quanto non ci sia qui, non foss’altro per la differenza nella tecnica: l’incisione non permette di sicuro questa libertà d’improvvisazione. Tuttavia, l’oscurità, il senso di grandioso e di oppressivo, e la tessitura fitta delle linee, sono elementi comuni, che portano a un comune senso di inquietudine.

L’altro riferimento inevitabile è quello a Breton e all’automatismo surrealista. Ma in Mattotti è presente una consapevolezza che ai surrealisti era ancora sconosciuta: non si tratta di esplorare l’inconscio alla ricerca della sua forza distruttiva e rivoluzionaria. L’inconscio è forse anche distruttivo e rivoluzionario, ma è pure un sacco di altro cose, e contiene pure il proprio specifico ordine, quell’ordine che l’ordine consapevole non conosce.

L’ordine dell’inconscio è fatto di ritmi e di contrasti, di continuità e di rotture improvvise, di figure note che si rivelano improvvisamente collegate con altre figure note con cui il collegamento non ci dovrebbe essere. Non è l’inconscio di Lorenzo Mattotti quello che mi interessa, bensì piuttosto il fatto che attraverso la sua espressione il mio stesso inconscio si trova a lavorare. È questo che fa la differenza tra il lavoro di Mattotti che sfrutta il proprio inconscio e il lavoro di un Pinco Pallino qualsiasi che va dallo psicoanalista: non a caso Pinco Pallino deve pagare per trovare qualcuno che lo ascolti, mentre qui sono io, piuttosto, a pagare, per ascoltare Mattotti.

Ciò che rende interessante il lavoro di Mattotti non è quindi la scoperta del suo mondo personale interiore, che è probabilmente interessante, in sé, quanto quello di qualsiasi altro essere umano. È piuttosto la sua capacità di entrare in sintonia con qualcosa che, se fossimo junghiani, dovremmo chiamare inconscio collettivo, ma che io preferisco chiamare mito.

Il mito è ciò che non si comprende, non si racconta (quando lo si fa, si ottiene la mitologia, che è già un prodotto consapevole del mito), ma sta lì, sotto o dietro a tutti i nostri criteri di azione e valutazione del mondo. Spesso i racconti sono, appunto, mitologie, cioè parola del mito, ovvero mito spiegato, portato a coscienza. Anche i sogni, nella visione della psicoanalisi, portano a galla elementi del mito; e poi il racconto del sogno completa il quadro; e poi la spiegazione del racconto lo perfeziona ulteriormente, fornendoci l’illusione del controllo razionale.

Del mito però si possono rivelare solo brandelli. E nella misura in cui questi brandelli si rivelano è perché già non sono più centrali. Ci è comunque necessario tentare di rivelare quanto più possiamo, per poi poter raccontare, e poi spiegare, e infine illuderci di controllare. I disegni di Mattotti sono come sogni, però sogni collettivi, in cui possiamo tutti riconoscerci. Non sono i suoi sogni privati, bensì quella parte dei suoi sogni privati che coincide con i sogni privati di tutti. In loro il mito viene fuori con inquietante potenza, proprio perché non arrivano al racconto, ma danno la sensazione di essere sul punto di farlo, e ci sono, in loro, le figure e i ritmi e le armonie, ma con un ordine che non è quello del mondo esterno.

Ecco perché questi disegni mi fanno un po’ paura: perché ci cado dentro, mi ci perdo, mi tengono lì, fatico terribilmente a uscirne. Mi danno continuamente l’illusione di essere sul punto di tenerli, di capire, di raccontare, di spiegare, di controllare; e un attimo dopo l’illusione si disfa; e poi si ricrea, e poi si disfa di nuovo…

Nelle illustrazioni a colori di Mattotti, spesso quello che mi affascina sono le geometrie della costruzione, che forniscono al mondo rappresentato qualcosa come una seconda e differente dimensione di senso, e le figure di quel mondo finiscono così per essere al tempo stesso se stesse e anche qualcos’altro. Qui non ci sono geometrie, e di differenti dimensioni di senso ce ne sono ben più di due.

Lorenzo Mattotti, Oltremai (8)

Lorenzo Mattotti, Oltremai (8)

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Di una foto di dettagli (42)

 

Dettagli (42)

Dettagli (42)

Tutte queste linee parallele, verticali ma non esattamente! Verso il basso a destra prevalgono invece altre linee, meno diritte, più brevi e intrecciate. Verso l’alto a sinistra  (principalmente, ma non solo lì) ci sono le forme sfrangiate delle foglie. Qua e là, su questo sfondo, si impongono le singolarità spiraliformi dei germogli, unici dettagli un po’ meno verdi di tutto l’insieme.

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Di una foto di gabbiani

I gabbiani

I gabbiani

Quello che mi colpisce, e mi fa ridere, dei gabbiani è la loro aria stolida di sentinelle.

Presa qui.

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Dell’1 aprile e del suo pesce odierno

Il post di oggi (sul compleanno di Linus)  si trova sul Blog di Daniele Barbieri (che, forse, non sono io).

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Di una foto di dettagli (41)

 

Dettagli (41)

Dettagli (41)

Se io non sapessi già che quella sopra è acqua, e quella sotto è sasso/roccia, come farei a capire che quella sopra è una mobile onda, e quella sotto no? Se uno già non lo sa, la sabbia in primo piano è increspata più o meno quanto il mare sul fondo, e i sassetti in secondo piano stanno scivolando, a destra ma soprattutto a sinistra, attorno all’onda di pietra. D’altra parte, dietro, se uno già non lo sa, potrebbe essere tutto fatto di una gelatina morbida ma solida, blu e bianca.

Se conoscete un alieno che non sia mai stato sulla Terra, potete provare a sottoporgli la foto, e a domandarglielo.

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Di una foto di archi e diagonali

Archi e diagonali

Archi e diagonali

Dorata e grigioazzurra, scattata qui.

Saranno pure le mie solite geometrie, ma qui più in versione van Doesburg, piuttosto che Mondrian.

Insomma, c’è un sacco di movimento, persino ascensionale.

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Di Jacques Tardi e del suo segno grafico

Tardi e Manchette, "Pazza da uccidere"

Tardi e Manchette, “Pazza da uccidere”

 

Perché mi sono divertito così tanto leggendo Pazza da uccidere, di Jean-Patrick Manchette e Jacques Tardi (Coconino, 2013, trad. Federica Iacobelli)? Di fumetti di Tardi ne ho letti tanti, alcuni memorabili, altri comunque interessanti o divertenti, sempre comunque esemplari quanto a capacità di disegno, sceneggiatura e montaggio. Certo, qui c’è dietro una storia di Manchette decisamente originale e già di per sé piuttosto mozzafiato, ma quello che le dà Tardi non è comunque poco.

Mi limiterò a un esempio, un inizio di sequenza di due pagine, quello riportato qui sopra. Per farla breve, giusto per capire la situazione, la donna e il bambino sono inseguiti da un killer (non vi dirò il perché, dovrete leggere la storia per questo), e hanno trovato protezione presso l’omone che compare nelle prime vignette. Il killer soffre di un’ulcera perforante che gli procura attacchi atroci soprattutto quando è in opera. Tutto è piuttosto estremo, con aspetti paradossali. La missione professionale del killer a una vittima che continua a sfuggirgli è già diventata un’ossessione personale…

Osserviamo ora il segno di Tardi. Possiamo definirlo realistico, mimetico? Per alcuni versi certamente sì. Ma per altri versi, la semplificazione grafica a cui Tardi sottopone le sue figure fa sì che si possano enfatizzare certi tratti senza farli apparire fuori luogo. Guardate la vignetta tonda con il viso stupito della donna in alto nella pagina di destra: è un cerchio che contiene un viso circolare che contiene un cerchio piccolo piccolo (quasi un punto) che è la bocca.

L’economia di segni permette questi giochi. Nessuna bocca realistica è mai così piccola e rotonda. Ma in questo sistema grafico-espressivo la sintesi di Tardi è perfetta, e perfettamente enfatizzata dal duplice inquadramento circolare.

La vignetta tonda con lo stupore della donna si trova poi inquadrata tra due altre vignette, quelle in cui il killer spara al bambino e il bambino tira la freccia verso il killer. Dopo di che, le cose vanno a rovescio: è il bambino a centrare il bersaglio.

Tante cose sono irrealistiche in questa storia, proprio come nel disegno di Tardi. Ma la storia è avvincente proprio per la sua progressione di crescenti improbabilità. Non ci racconta un evento come ci aspetteremmo che accada nel mondo reale, ma un incubo simbolico con aspetti realistici e progressioni paradossali. E non è la vittoria del bene indifeso contro il male armato sino ai denti (un classico hollywoodiano): il bambino di questa storia non è proprio simpatico, e la donna che lo protegge è una psicopatica; mentre del killer, viceversa, vengono mostrate nel corso del racconto talmente tante umane debolezze che una certa simpatia finisce per ispirarcela.

Ecco, in ciascuna vignetta di Tardi è presente, in nuce, nel disegno come nel rapporto con le vignette circostanti, questo sistema di paradossi. Come dire che ogni vignetta è come una cellula nel cui DNA sta scritto il codice dell’intero organismo di cui fa parte; però ne vengono attualizzati in realtà solo quei tratti che le sono al momento narrativamente necessari. Gli altri tratti, pur potendosi rivelare a un’analisi molto attenta, restano impliciti.

Per questo, nel complesso, il sistema appare così coerente. A livello implicito, tutte le vignette danno il senso della storia nel suo complesso; a livello esplicito, ciascuna fa il suo specifico lavoro, raccontando il momento che racconta.

Il resto lo potete scoprire da voi.

 

 

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Di una foto di dettagli (40)

Dettagli (40)

Dettagli (40)

Questo Dettaglio mi piace perché c’è l’opera razionalizzatrice dell’uomo, che gli dà la struttura, e poi l’azione della natura (del caso) che gliela incrina.

Su un macromondo progettato per uno scopo umano si innesta un micromondo senza progetto: muschi, muffe, piccole piante, sassolini trasportati dal vento o dall’acqua.

Non potremmo vivere né senza il progetto razionale umano, né senza la resistenza infinita che gli contrappone la natura. Probabilmente è per questo che faccio foto così.

E poi c’è l’ombra: un’altra struttura geometrica, ma non umana. Che complica tutto…

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Della foto di una fine del mondo

Una fine del mondo

Una fine del mondo

Una volta, il mondo finiva qui. Potete scegliere se con “qui” si intende il punto da cui è stata scattata la foto, oppure il capo con il faro che si vede sul fondo. Non che cambi molto.

Oggi, evidentemente, non è difficile andare oltre. Ma questo posto continua ad avere il fascino di un posto dove il mondo finisce, dove al di là c’è altro.

Non è difficile percepire, stando qui, questi due speroni di roccia (quello dov’ero io, e l’altro sul fondo) come due estremi tentacoli d’Europa protesi sul nulla.

Non so se questa foto estiva riesca a rendere questa fascinazione…

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Di Sergio Toppi e del suo andamento musicale

Sergio Toppi, "Sharaz-de"

Sergio Toppi, “Sharaz-de”

Venerdì sera, al corso sul fumetto che sto tenendo (e ormai volge al termine), parlando di Sergio Toppi ho avuto una piccola illuminazione su di lui. Stavo parlando di Sharaz-de, e del modo in cui Toppi costruisce un effetto mitico, sintetizzando al massimo la storia ma espandendo gli elementi caratterizzanti, sia quelli stilistico-verbali che (soprattutto) quelli grafici. Le figure presenti nelle sue pagine alla fin fine sono molto poche, ma i segni con cui sono disegnate sono moltissimi e fortemente evocativi. L’effetto complessivo è quello di un racconto molto rapido (proprio come sono le favole e le leggende) ma di grande profondità, carico di un’infinità di rimandi potenziali. È come se il racconto, alla fin fine, non fosse che un espediente per far avanzare un meccanismo che, in realtà, vive sostanzialmente di altro.

Questo altro è il sistema delle evocazioni, come succede in poesia, ma come succede soprattutto in musica. È di questo che mi sono di colpo accorto, osservando che, pagina dopo pagina, si ripresentavano figure, forme, dettagli, anche al di là della loro specifica necessità per lo sviluppo della storia. Tutto accade, in queste pagine, come in un brano di musica in cui coesistono vari motivi, che si presentano e poi ritornano a più riprese, intrecciandosi con altri, e con lo sviluppo che la musica sta avendo in quel momento. In certi punti questi motivi ritornano in maniera netta, in altri appena appena accennati, mentre il discorso principale è un altro.

È un modo di lavorare non così diverso da quello che caratterizza la musica di Wagner, per esempio, con i suoi leitmotiv, anch’essa con un sottofondo narrativo (sempre di melodramma si tratta), ma molto più concentrata sull’evocazione musicale che sul racconto.

Guardate, per esempio, nella sequenza di pagine che riporto qui sopra (occorre ingrandire, naturalmente) come ritornano le figure della città, dell’uomo a cavallo, del nastro intrecciato, della lama fortemente ricurva. Al di là della capacità (straordinaria) che Toppi possiede nel costruire le singole pagine, queste ricorrenze forniscono un’unità dinamica al testo. E anche l’assenza o grande scarsità delle vignette, che rende le pagine degli organismi graficamente unitari, contribuisce alla fluidità del risultato, come fosse davvero un giustapporsi di masse e motivi non sonori ma grafici. (E guardate come nell’ultima pagina qui riportata il passaggio dalle tre vignette piccole in alto all’immagine grande del banditore dia graficamente l’idea di un improvviso fortissimo, ancora prima di leggere le parole)

Lo si potrebbe quasi suonare, nel complesso, questo testo…

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Di una foto di dettagli (39)

 

Dettagli (39)

Dettagli (39)

Questo Dettaglio mi piace perché sembra un disegno, perché è quasi un’immagine in negativo (col cielo nero e l’albero più chiaro) e perché i rami sono come serpenti impazziti che danzano, dritti come i cobra degli incantatori.

Viene voglia di girarla a testa in giù, questa foto, perché questo potrebbe sembrar ridarle stabilità. Temo che sia un’illusione, però.

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Di una foto di gente colorata

La gente colorata

La gente colorata

Questa foto è stata presa qui, lo stesso giorno di questa e questa e questa e questa e questa e ancora questa (sì, ho scattato varie foto quel giorno, ma diverse centinaia vi saranno risparmiate).

Mi piace perché la gente di sotto è colorata esattamente come i nastri e le bandierine di sopra, e il mondo del simbolico si rispecchia cromaticamente in quello del reale (e viceversa, naturalmente).

Tutti stanno guardando qualcosa, che qui è fuori quadro, ma il fotografo lo sapeva che il vero spettacolo erano loro, la gente, festiva quanto e più delle bandierine. E pure loro lo sapevano, quel giorno lì.

(Sì, è vero, ci ho dato su un pelino troppo di saturazione con Photoshop. Ma qui i colori sono tutto)

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Di alcuni omaggi all’Isola dei Morti

Arnold Boecklin, Isola dei morti, terza versione, 1883

Arnold Boecklin, Isola dei morti, terza versione, 1883

Non ricordo più chi sia stato a segnalarmelo. Fatto sta che mi sono trovato nelle note del cellulare un riferimento alla Galleria Ielasi di Ischia, e non ricordavo perché me lo fossi segnato. Sono andato perciò a vedere sul Web, e ho trovato questa pagina di Facebook, dove, scendendo un po’, ho capito il motivo per cui mi ero segnato questo nome.

Non per la mostra su Francesca Ghermandi del luglio scorso (che sarebbe stato comunque già un buon motivo), ma per l’Omaggio a Böcklin esposto in autunno, con opere di numerosi autori, tra cui diversi fumettisti. Riporto qui quelle che ho trovato in giro sul Web, ricollegandomi a un discorso su Böcklin e sugli omaggi al suo più famoso dipinto che avevo già avviato in un post di questo inverno, al quale rimando. Qualcos’altro, di quella mostra, oltre a ciò che sto mostrando qui, si può intuire dalle foto nella pagina di Facebook.

Qui sotto c’è un Bacilieri tristemente dissacrante:

Paolo Bacilieri, Omaggio a Boecklin

Paolo Bacilieri, Omaggio a Boecklin

Segue un Tota popolar-onirico, che trovo, nella sua ironia, molto centrato:

Alessandro Tota, Omaggio a Boecklin

Alessandro Tota, Omaggio a Boecklin

Piero Macola ritrae non l’isola dei morti ma l’isola del Castello Aragonese, proprio vicino alla Galleria Ielasi, a cui pare che lo stesso Böcklin si fosse ispirato:

Piero Macola Boecklin Ischia

Piero Macola Boecklin Ischia

Poi c’è questa tavola di Manuele Fior che sembra ritornare all’origine di tutto (o almeno così si capisce dalla sua spiegazione):

Manuele Fior, Der Maler

Manuele Fior, Der Maler

Trovo inquietante anche questa versione subacquea di Luigi Critone:

Luigi Critone, "Omaggio a Boecklin"

Per concludere, ci metto un’altra immagine, che non c’entra con la mostra, ma è sempre un omaggio a Böcklin, di qualche anno prima, che salda l’immaginario del pittore simbolista con quello dell’Alex Raymond di Flash Gordon (ricollegandoci quindi in chiusura a quello che raccontavo nel mio post precedente):

Philippe Druillet, da "Gail", 1978

Philippe Druillet, da “Gail”, 1978

Da un punto di vista strettamente grafico, forse Druillet non è il più capace dei disegnatori qui riportati, ma è sicuramente quello i cui deliri inquietano di più – ed è perciò, almeno in questo, il più vicino a Böcklin.

 

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Di una foto di dettagli (38)

Dettagli (38)

Dettagli (38)

Direi che in questa foto si possono riconoscere almeno sette livelli sovrapposti. A partire dal fondo:

1. uno sfondo non chiaramente definibile, forse con un accenno di panorama (se non è un riflesso sul vetro, il che aggiungerebbe un ulteriore, ottavo, livello);
2. quello che c’è fuori, vicino, cioè la pianta tipo dracena in basso al centro,
3. il reticolo diagonale posteriore;
4. quello che c’è dentro, dietro, cioè quella cassetta azzurra e la colonna di legno;
5. quello che c’è dentro, davanti, cioè la porta aperta sulla destra con il muro;
6. il reticolo diagonale anteriore, insieme col vetro sporco (in realtà due livelli diversi molto vicini);
7. il mondo dalla mia parte, palesato dalle ombre, specie delle foglie.

La foto mi piace anche, indubbiamente, per questa complessità. Però anche soltanto l’intrico di diverse diagonali e verticali, con questi colori appannati, potrebbe essere motivo di apprezzamento, almeno per me.

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Di una città da lontano

Da lontano

Da lontano

Da lontano, cioè da qui, una città può ben diventare una sorta di groviglio di volumi, quasi l’incubo di un funzionalista. Progettazione razionale su progettazione razionale, il risultato è un caos visivo, non privo, nell’insieme, di una certa confusa e irrazionale grazia (va be’, su questo deciderete voi).

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Della malinconia, o del lavoro di Gabriella Giandelli

Gabriella Giandelli, "lontano" (Canicola 2013)

Gabriella Giandelli, “lontano” (Canicola 2013)

Quando commentavo, pochi giorni fa, la foto del tavolo di Gabriella Giandelli, non sapevo che le pagine in corso di realizzazione lì appoggiate erano quelle di lontano, uscito per le edizioni di Canicola proprio in occasione di Bilbolbul (e visibili in questi giorni in originale presso la Galleria D406 fedeli alla linea di Modena, insieme con molti molti altri originali).

Grande formato (un A3, cioè il doppio di un A4), toni sul grigio con appena qualche tocco molto intenso di colore, lontano è una piccola meditazione sulla solitudine, che, per motivi diversi, mi ricorda altri due testi a me cari, di cui forse almeno uno l’autrice conosce. Il primo, quello meno noto, è una storia di Swamp Thing, scritta da Alan Moore, intorno al 1984, nella quale il mostro della palude, ormai reso da Moore negli episodi precedenti una specie di dio della flora, si trova teletrasportato su un pianeta deserto, dove esistono solo organismi vegetali, e non trova modo per andarsene. La solitudine lo divora, e così Swamp Thing utilizza i suoi poteri per fare evolvere i vegetali locali, sviluppando una sorta di simil-umani, con i quali interagire e vivere – sino al punto di ricreare anche un simulacro di Abigail, la sua amata. Ma di simulacri, appunto, si tratta; tutti mossi da lui, in fin dei conti: un grande teatrino di marionette. E così, all’inizio il gioco lo consola; ma alla fine lo distrugge.

Anche la storia di Giandelli è una storia di solitudine su un pianeta deserto, in cui dominano i ricordi e le illusioni. Si vive il medesimo vuoto, lo stesso senso di vacuità e di destino.

Il secondo testo è un film di animazione del 1973, Il pianeta selvaggio, diretto da René Laloux, con la sceneggiatura e i disegni di Roland Topor. Questo è facile che l’autrice lo conosca. È, tra l’altro, un bellissimo film. Non è tanto il tema della solitudine a collegarlo al libro di cui parliamo; ma c’è qualcosa, nella strana natura che circonda il protagonista di lontano, che me lo ha ricordato: o sarà l’atmosfera complessiva fantastica e onirica, ma insieme profondamente malinconica…

Trovo che la metafora fantastico/fantascientifica sia un bel modo per affrontare il tema della solitudine, evitandone i luoghi comuni e le facili tristezze. Qui, è come se un leggero spirito lirico attraversasse tutto il testo. Attorno al protagonista c’è un mondo meraviglioso ma inutile. Tutta quella bellezza non serve a niente, non risolleva lo spirito, non impedisce di arrivare a gesti di autolesionismo, pur di sentire qualcosa.

Però intanto quella bellezza c’è, in tutta la sua triste distanza, e sta davanti a noi, fatta della stessa polvere di cui sono fatti i sogni, proprio come noi; e proprio come nei sogni, anche nella solitudine, in assenza di un qualsiasi feedback da parte di altri, tutto diviene facilmente simbolico, tutto si riempie di sensi misteriosi, anche le ferite che il protagonista si procura – ferite che si aprono a mostrare un mondo interno troppo simile a quello esterno.

Tutto è lieve, sospeso. Anche la storia è, in verità, impalpabile. Di fatto si riduce a poco. lontano è più come una poesia per immagini, una meditazione sul non esserci, pur essendoci ancora.

p.s. Sul tavolo di Gabriella c’era, proprio sotto la lampada, un alce dei Playmobil; e quindi piccola così. Vedi qua sopra a cosa serviva?

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Di una foto di dettagli (37)

Dettagli (37)

Dettagli (37)

Questo Dettaglio è parente del Dettaglio 16, si capisce subito. Insomma, è sempre il “tè greco”. Forse sono addirittura le stesse piante di quello. Ma il punto di vista è differente, più basso e ravvicinato.

Ci si vuole stare dentro, insomma. E il blu appena accennato del mare dietro serve per dare più spessore a questo rosa pastello e a tutte le sue sfumature.

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Di una foto in un tempio disegnato

Nel tempio di notte

Nel tempio di notte

Un po’ di India fa bene, ogni tanto. Qui, come è evidente dalla scritta, siamo in Tamil Nadu, esattamente qui.

Be’, indubbiamente, a fare la parte del leone, qui, sono i contrasti cromatici. I colori (data anche l’esposizione notturna) sono già così saturi che mi sono guardato bene dal caricarli ulteriormente. Un po’ per questi contrasti, un po’ per le luci comunque notturne, molti elementi di questa immagine sembrano quasi disegnati: i capitelli, il lungo fastigio con la divinità e il cartellone, persino i dettagli architettonici sulla sinistra.

Probabilmente è proprio questa ambivalenza tra realtà fotografica e irrealtà disegnata a dare fascino a questa foto, riflettendo visivamente la stessa ambivalenza sul piano narrativo: una tranquilla situazione di una calda sera indiana, in uno dei luoghi più sacri e mistici dell’India, il tempio di Annamalai, ovvero di Shiva, nella città di Tiruvannamalai, cioè la città di Shiva, ai piedi della collina di Arunachala, la Collina dell’Alba, che è Shiva in persona.

La presenza del dio terribile non sembra preoccupare molto i fedeli. Ma loro sanno di vivere in Shiva, e di esserne in qualche modo un avatar, proprio come lo è il tempio in cui si trovano e il mondo intero. Insomma, la realtà è disegnata, proprio come in questa immagine. È il velo di Maya a impedirci di distinguere le cose così come esse sono. Siamo tutti parte della lila, il gioco degli dei, insomma, il loro disegno – proprio come qui.

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di Daniele Barbieri

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