Della serie: quante cose interessanti in un angolo di strada (ingrandire per credere).
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Della Marchesa Luisa Casati, famosa per la sua bizzarria, ricchezza e originalità, Vanna Vinci ci dipinge questo ritratto narrativo dall’aria un po’ familiare, un po’ ironica, senza perdere del tutto l’alone di favola che ha sempre circondato la divina Marchesa. Dopo i tanti ritratti pittorici che la Marchesa si è meritata in vita, simbolo sfavillante di un’epoca in cui il simbolismo era tutto, ecco un ritratto a fumetti, meno icastico, forse, meno favoloso, e magari, se la Marchesa lo potesse vedere, meno a lei gradito. Ma il racconto a fumetti è sì un racconto per immagini, come i dipinti di Boldini o della Brooks, però un racconto stereoscopico, sviluppato, fatto non di intuizione simultanea bensì di pennellate successive. Per cui il fascino ammaliante e un po’ artificioso della Marchesa può ben affiancarsi qui alla sua immagine più personale, con le sue debolezze ironicamente (ma affettuosamente e delicatamente) narrate. O sarà l’aria di famiglia che la Marchesa finisce per avere con altri precedenti personaggi femminili della Vinci, persino con la perfida Bambina Filosofica, che potrebbe esserne la sorella (minore) più smagata e concreta. Ma quest’aria di famiglia non fa male alla Casati. In fondo l’autrice del libro l’ha scelta perché potrebbe essere benissimo uno dei suoi personaggi; e non ha fatto molta fatica a farla rientrare nel proprio mondo. Decadenza e sarcasmo, occultismo ed eleganza, esibizionismo e timidezza: alla fine, questa biografia sotto forma di graphic novel si legge con una leggera malinconia, quasi un’allegria triste, quasi fosse l’angoscia felice che si può sopravvivere ai propri tempi, diventare un fossile vivente, ridotto in miseria, dimenticato da tutti, e nonostante questo ribadire ancora fieramente la verità della propria scelta – ed essere ricordati anche per questo.
Questa foto, presa ai confini del mondo (quello Vecchio, almeno) non mi piace solo perché è estiva (ma anche, ovviamente). Mi piace soprattutto perché il suo vero soggetto è piccolo, lontano, acentrato e sul fondo, mentre l’oggetto centrale, grande, contrastato e in primo piano ne è soltanto la rima, o la prefazione, se preferite. Ho ricevuto questa foto dall’Iran da un mio ex allievo ISIA che ora vive e lavora a Teheran, la sua città; come fotografo, ovviamente. La trovo così bella e inquietante che (una volta ottenuto il suo permesso) l’ho voluta mettere qui e le voglio dedicare qualche riga di commento. Ovviamente al fascino della foto contribuisce anche il fatto che provenga dall’Iran. Non sarebbe la stessa cosa se sapessimo che è stata scattata in Italia. Tutto quello che sappiamo sulla grande e antichissima cultura iraniano-persiana, tutto quello che sappiamo sulla condizione non facilissima in cui vivono le donne nel paese, e magari anche un sacco di reminiscenze dai racconti di Marjane Satrapi, entra in gioco qui. Il punto di prima attenzione è ovviamente il volto della donna, quasi illeggibile, nascosto da questa elegantissima decorazione floreale. È un’identità che viene insieme negata nei suoi dettagli naturali e fortemente affermata attraverso la scelta del tipo di velo. La donna nasconde la sua apparenza e ostenta la sua essenza. L’arabesco floreale è un modo violento per alludere alla stessa cosa cui allude il gesto deciso con cui le mani tengono il violino e l’archetto, ma è anche un’allusione implicita agli arabeschi musicali che lo strumento è in grado di produrre, proprio attraverso quelle mani. La donna si nasconde ma la violinista si mostra, si manifesta, si ostenta. A questo punto, il vestito nero su fondo nero finisce per diventare ciò che non importa, ciò che è destinato a mettere in risalto quello che importa: cioè le mani decise, lo strumento, lo sguardo negato eppure come incollato su di noi – ed è davvero difficile distogliere il nostro sguardo da quello che si intuisce dietro i merletti floreali. Di luce ce n’è appena quanto basta per dare realtà, consistenza, volume alla figura: senza l’alone luminoso sullo sfondo e senza il riflesso sul vestito, le parti luminose uscirebbero direttamente dal nulla – e non è questo l’effetto che si sta cercando. Per tutto questo, questa immagine è comunque una foto sottilmente e inquietantemente erotica. Già è erotica la musica, di per sé; ma qui, quello sguardo suggerito, quelle labbra che si intuiscono, quel braccio nudo e quel piede ancora più nudo in basso sono davvero conturbanti. Poco importa che quella mano e quel piede, a uno sguardo ravvicinato, non appaiano “belli” secondo i criteri vigenti in Occidente. È la forza con cui si impongono, è il mistero che suggeriscono a insinuare in chi guarda l’idea di una femminilità profonda. Brrrr! Non so se è freddo o caldo a corrermi per la schiena. Spero proprio che Changiz possa fare una splendida carriera. Mi sembra che se la meriti.
Un albero romantico, in mezzo a tanto classicismo. (Il posto è, ovviamente, questo) È uscito per Coconino il secondo episodio di Blast. Del primo ho parlato in termini entusiastici qui. Del secondo volume dovrei parlare in termini altrettanto entusiastici, ma preferisco rinviare a quello che ho già scritto allora. Voglio aggiungere solo due cose. La prima, breve, è che ho la sensazione di trovarmi di fronte a un’opera memorabile, di quelle che lasciano il segno nella storia del fumetto. Ma di questo riparliamo tra una ventina d’anni. La seconda, un po’ più lunga, è che su questo episodio l’ombra di Simenon si è fatta molto più lieve. Si fatica persino a ricordare che il protagonista sta raccontando una storia che dovrebbe portare a un omicidio. Ma la storia, nel frattempo, è così coinvolgente di per sé che il lettore (cioè io, e magari pure voi) ci si tuffa dentro e ci nuota con grande piacere. La cosa strana, però, è che questo succede nonostante la tensione verso la rivelazione finale si sia molto allentata rispetto al primo episodio: là tutto ci spingeva a leggere gli eventi come premessa al misterioso omicidio; qua l’omicidio è decisamente sul fondo, e stanno in primo piano degli eventi che non sembrano delineare una storia con un qualche fine riconoscibile. Il protagonista, si direbbe, vive, e basta; ed è il suo particolarissimo approccio al mondo a fare la parte del leone, nel gusto del racconto. È assai probabile che in un prossimo episodio la tensione verso il sapere come è accaduto l’omicidio torni a essere centrale; ma per adesso va benissimo così, con questa fascinosa semidigressione, e questo gusto (anche del protagonista) di raccontare, raccontare, raccontare semplicemente il proprio vissuto. Da non perdere (a partire dal primo volume, ovviamente). Ci sarà senz’altro una ragione per cui di questi due alberi, in apparenza esattamente uguali e fratelli, uno ha le foglioline appena nate verdi mentre l’altro ce le ha rosse. Ci mancava che quello in mezzo le facesse bianche, e avremmo avuto una composizione nazionalista naturale. Però la foto, generata qui, mi piace anche per la strana natura di sculture di questi poveri alberi troppo potati, quasi mani di dolore levate al cielo. Ahi! Più che in bianco e nero, L’intervista di Manuele Fior sembra una storia a colori dove il colore sia stato lavato via. Sarà la carta accuratamente e molto delicatamente giallino-rosata, o sarà la tecnica raffinata di mezzatinta dell’autore, o sarà il modo narrativo di affrontare i temi, sarà tutto questo o forse qualcos’altro ancora, ma sembra quasi di vederli affiorare qua e là, i colori, quelli che poi – ho controllato con attenzione – in verità non ci sono. (Complimenti anche al tipografo, tra parentesi) Non so se questa graphic novel piacerà al pubblico quanto la precedente. Strano il tema, strano il modo di raccontarlo, strano il modo in cui si passa alle conclusioni. Un futuro che non è fantascientifico se non per accenni, e sempre in secondo piano, a contatto con una quotidianità che per certi versi è identica alla nostra, e per altri contiene elementi diversissimi, e deflagranti – con persone normali, come me e te, che si trovano improvvisamente di fronte a fenomeni radicalmente nuovi, dei quali i più appariscenti sono quelli che meno influiranno direttamente sulle loro vite – mentre sono proprio quelli che sembrano baggianate a trasformare tutto. Fior, naturalmente, è il solito: un fantastico disegnatore, un narratore sottile e originale. Eppure questa storia, ambientata in uno scorcio di futuro molto simile al nostro presente che è sul punto di aprirsi a un futuro radicalmente diverso, dove uno psicologo cinquantenne in crisi matrimoniale prova una strana passione per una stranissima giovane paziente, questa storia potrebbe facilmente non piacere, perché sembrerebbe mettere insieme elementi troppo disparati, troppo diversi tra loro: elementi intimi, personali, privati, insieme con elementi globali, futuristici, quasi apocalittici. Ma gli uni sembrano confondersi con gli altri. In realtà, a legger bene, e magari poi a rileggere ancora, ci si rende conto che Fior basa la sua idea narrativa su una meditazione profonda rispetto al futuro e alle sue prospettive di novità, le quali, in verità sono tali proprio perché non sono proiezioni delle aspettative del presente, bensì piuttosto cose inizialmente incomprensibili, che si tende a rifiutare. Anche il protagonista di questa storia tenderebbe a rifiutare il futuro che gli si para davanti, ma quello che gli succede lo rende impossibile. Il risultato è una storia sottilmente inquietante, in più casi provocatoria, comunque non facile, comunque tutt’altro che ovvia. In questo senso anche l’assenza del colore è una (inquietante) presenza dell’assenza del colore – perché sembra quasi sempre di vederlo, il colore, e le figure sono inchiostrate come se ci fosse; e se ci fosse sarebbe una liberazione; ma la liberazione non c’è. A dire il vero è persino difficile dire se la storia abbia un lieto fine oppure no. La vicenda si conclude; ma che morale dobbiamo trarne? Non è una vicenda di redenzione, o di educazione sentimentale. Non è insomma, una storia morale – ma nemmeno una storia immorale, ovviamente. È come – di nuovo – se Fior ci volesse mettere di fronte alla difficoltà di comprendere il futuro, che non è, una volta tanto, quello che è di solito nelle storie di fantascienza, ovvero una proiezione delle tendenze del presente, arricchito di qualche meraviglia tecnologica (ma nessuno, nella fantascienza storica di qualche decennio fa, aveva previsto il PC e il Web – per la semplice ragione che, nelle tendenze dell’epoca, non c’era nulla che li suggerisse o li facesse aspettare).
Di questa immagine, rubata esattamente qui, mi piace il fatto che il bordo marcato delle pareti, che ogni casa possiede in diversa maniera, crei una composizione di verticali e diagonali che si impone alla percezione un attimo prima di vedere la naturale prospettiva che giustifica spazialmente quelle medesime diagonali. Per una frazione di secondo, dunque, questa è una composizione cubista alla Braque, in cui le diagonali si affastellano l’una sull’altra, creando uno spazio strano e complicato. Il responsabile principale di questo effetto è la lunga linea bianca della parete rossiccia al centro, ma una volta focalizzata quella, anche le altre case hanno linee dello stesso tipo, di per sé meno evidenti, ma ora rese evidenti dalla pertinentizzazione operata dalla linea bianca. Nella frazione di secondo che segue, abbiamo già ricostruito correttamente la terza dimensione, ma la prima impressione non scompare del tutto. Resta comunque un senso di disagio, di spazio incerto. Il fatto è che la casa sul fondo non è affatto parallela alla moschea in primo piano, mentre suggerisce di esserlo; e quindi il punto di fuga delle sue linee è divergente, anziché essere convergente, con quello delle linee della parete del primo piano. E poi,a guardarli da vicino, ingrandendo la foto, questi muri, anche singolarmente, mi sembrano così interessanti. In particolare quello della casa sul fondo. È un romanzo estremo Non costa niente, scritto e disegnato da Saulne (Sylvain Limousi), presumibilmente autobiografico. Un giovane francese, in procinto di ricevere una grossa eredità, decide di restare a Shanghai, in attesa del denaro. Decide di non farsi prestare soldi, e di vivere con quel poco che gli resta di liquido, sin quando il notaio non si deciderà a renderlo ricco. Ma la cosa va per le lunghe, e il nostro protagonista esperimenta la fame e la vita a contatto con la gente normale di Shanghai, quel mondo che i suoi conoscenti francesi in loco disdegnano di conoscere. Si potrebbe interpretare questo libro anche come un esempio di graphic journalism, vista l’attenzione che Saulne riserva ai dettagli della vita e della psicologia dei cinesi di Shanghai, però, in verità – e soprattutto da un certo punto del libro in poi – l’attenzione alla propria vicenda e alle conseguenze della denutrizione diventa dominante, sino a modificare la percezione (e, sulla pagina, la rappresentazione) dei colori: tutto diventa in bianco e nero (persino la carta su cui sono stampate queste pagine si ingrigisce) eccetto i cartigli gialli dei pensieri, e gli occasionali alimenti scorti dal protagonista, sempre coloratissimi, in quanto unico oggetto di attenzione veramente rimasto. Non ho capito bene se, nel suo complesso, il libro di Saulne mi sia davvero piaciuto oppure no. Da un lato, queste storie autobiografiche solipsistiche si trovano ormai sulla linea della mia capacità di sopportarle – quasi che per reagire alla dimensione iperbolica e semplicistica del fumetto di supereroi, o agli infantilismi più o meno marcati del fumetto di avventura, si possano raccontare solo storie di depressioni personali. Dall’altro, nonostante questo, Saulne ha una tecnica narrativa originale, un disegno interessante, e ci racconta Shanghai molto molto da vicino, il che non è poco, con gli occhi di un occidentale che cerca di immedesimarsi per quanto può. In questo senso, persino la sua temporanea, ma momentaneamente irrimediabile, povertà rappresenta implicitamente un avvicinamento alla condizione di vita del cinese medio, una volontà di immedesimazione portata all’estremo – che sfugge però al controllo e diventa il metro di tutto. |
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