Di una foto a Madras

Madras - Tempio di Kapaleeswarar a Mylapore

Madras - Tempio di Kapaleeswarar a Mylapore

Ho scattato questa foto a Madras (oggi Chennai), dentro al tempio di Kapaleeswarar a Mylapore. Ero affezionato a questa immagine anche prima che Elio di Raimondo la commentasse con termini lusinghieri, facendomi decidere di renderla pubblica.

Mi piace per via della composizione, con questo gioco di diagonali e di verticali. Mi piace per il gioco di piani diversi che si susseguono, dalla lamiera scura in primo piano in basso, alla statua della mucca, al lampione, alla cupoletta, fino alla bandiera dorata del tempio – senza contare altri piccoli dettagli. Mi piace per le rime visive: il rosso dello stendardo a sinistra col rosso del drappo sulla mucca, lo scuro della lamiera in basso con lo scuro della bandiera in alto, il bianco della mucca con il bianco della cupoletta, il giallo del muro in basso con il giallo dell’asta della bandiera, e l’altro giallo luminoso del lampione con l’angolo illuminato della cupoletta. Mi piace per il fondo di cielo piatto, quasi grigio.

E mi piace perché mi racconta di una prima sera appena arrivati in India (anche se questo non si vede), mentre i simboli della devozione (la mucca, la bandiera, la cupola) sono accostati a quelli della modernità (la lamiera, il filo elettrico che taglia a metà l’immagine, il lampione acceso). E che la belva sacra (come la definisce Elio) sia illuminata non dalla luce divina ma da quella elettrica mi pare così dolcemente ironico da essere davvero indiano, fino in fondo.

La malinconia della sera, l’ironia, il sacro, la tecnologia: tutto vi si trova insieme, e insieme è dolcemente trascurato. Come dire che tutto ha valore, ma niente ne ha troppo; e proprio per questo anche gli opposti possono convivere.


P.S. (del giorno dopo): Riguardando la foto mi sono reso conto che la belva sacra molto probabilmente non è una mucca, bensì un toro, anzi il toro Nandi. Di fronte alle immagini sacre di Shiva c’è sempre un toro Nandi in contemplazione e adorazione, e spesso attorno ce ne sono altri. Poiché il tempio in cui è stata scattata questa foto è un tempio dedicato al dio Shiva, è quindi probabile che si tratti proprio di lui.

Il toro Nandi è il simbolo della contemplazione mistica, è il proto-asceta, che si perde nella contemplazione del dio. Se lo riconosciamo in questo modo, la foto assume ancora altri significati, sia ironici sia appassionati. La luce che illumina l’estasi dell’asceta è infatti la povera luce elettrica di un lampione cittadino – ma per un indiano anche quella può essere luce divina, perché il divino è ovunque.

E il toro perso in contemplazione è anche l’immagine rispecchiata dell’occhio che ha visto questa scena, l’ha amata, e ha scattato la foto. Di nuovo, tutto è mistico, persino la contemplazione del turista, persino dentro l’inevitabile ironia della situazione. L’India è una specie di vortice da cui non si riesce a uscire.

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Di Frazetta e del perché dei sogni

Ieri ho commemorato troppo brevemente Frazetta utilizzando i pochi minuti che avevo a disposizione per farlo. Ho lodato l’originalità della sua donna-gatto, a dispetto del tema ormai troppe volte utilizzato da tanti. Voglio tornarci su ora, con più calma, per capire che cosa renda così intrigante quella immagine. Un po’ come cercare, attraverso un’attenta osservazione, di carpire qualche segreto dell’arte di Frazetta.

Osserviamo, dunque. L’immagine è complessivamente scura, ma i colori sono brillanti lo stesso. A parte la figura della donna, il colore che domina il primo piano è questo verde smeraldino, che sfuma ai lati verso il blu, con qualche macchia giallo-rossastra.

frankfrazetta-cat-girl

Frank Frazetta, Cat-girl

In quest’area che perde definizione man mano che ci si allontana dalla zona centrale sono nascoste le pantere, nere o maculate, che si rivelano allo sguardo progressivamente, una dopo l’altra, come se uscissero materialmente dall’oscurità in cui sono nascoste. Questo effetto è anche dovuto al fatto che l’attenzione di chi guarda è attirata verso il centro da diversi fattori, mentre la periferia gode qui di un privilegio decisamente minore. Questi fattori sono:

  • la presenza di una figura umana, in particolare femminile, con una certa carica erotica – nella quale si riconosce facilmente lo stereotipo inquietante della donna-gatto;
  • l’intreccio delle figure serpentine dei tronchi coperti di muschio, inanimati ma al tempo stesso contorti come se si stessero muovendo (quasi dei lunghi colli di dinosauri);
  • la minore definizione dell’immagine man mano che ci si allontana dal centro;
  • i colori poco saturi della figura femminile, contrapposti a quelli molto saturi attorno;
  • la luce improvvisa sul seno di lei, posto quasi al centro esatto dell’immagine;
  • lo sguardo della donna, rivolto verso di noi.

Al centro dell’immagine sta dunque l’elemento più palesemente erotico, il seno, che però è collegato allo sguardo della donna (anche per simmetria): l’attenzione viene catturata dal seno, per poi scivolare sullo sguardo. L’attenzione dello spettatore oscilla così tra questo centro ambivalente e i dettagli della periferia, dove la scoperta progressiva degli altri sguardi, quelli delle pantere, ribadisce sempre di più, momento dopo momento, il legame che lega i felini alla donna. Tutti ci stanno guardando, tutti emergono dall’ombra; ma gli occhi dei felini brillano, mentre quelli di lei sono della stessa ombra che circonda il suo viso. I suoi occhi oscuri si contrappongono ai suoi seni luminosi.

Questa è dunque la macchina retorica che guida l’attenzione di chi guarda, inquieta e oscillante. Il fulcro di questa attenzione è la donna stessa.

La donna è brevilinea e muscolosa, ma insieme anche morbida, rotonda: complessivamente all’opposto del modello longilineo che domina nell’immaginario del fumetto e del fantasy. È scura, dai capelli neri e dai lineamenti esotici, proprio come una pantera. Le sue gambe sono ancora più scure, o magari sporche di fanghiglia, proprio come quelle di un animale.

Nella zona illuminata spicca il dettaglio dell’asimmetria dei seni, essendo quello destro leggermente allungato dal sollevamento del braccio. Questa asimmetria, oltre a far risaltare la carnosità dei seni e della donna, rafforza la strategia antistatuaria. Se questa è una donna ideale, allora appartiene a un ideale che non è quello che normalmente ci aspetteremmo qui.

È quindi la sorpresa a rendere di colpo viva questa figura così volutamente imperfetta, e la sua carne immediatamente così vera che quasi ci sembra di poterla toccare. Ma se stiamo per toccarla, allora siamo lì, e quella che abbiamo davanti non è più donna di quanto non sia pantera, e ci sono i rami serpentini verde smeraldo, e le pantere immobili che respirano nell’ombra tutt’attorno. Se siamo lì, insomma, stiamo sospesi tra erotismo e pericolo mortale, e lo sguardo di lei promette insieme l’uno e l’altro; e lo stesso fa il suo gesto, di indifferenza e un po’ di sfida – come l’avessimo sorpresa, lei e le sue pantere, ma fossimo noi assai più sorpresi di lei, tutto di un tratto incerti tra il desiderio e lo spavento.

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Di una foto a Mamallapuram

Mamallapuram-palme

Mamallapuram, palme

Ho scattato questa foto in India, l’anno scorso, a Mamallapuram (o Mahabalipuram), dalla collina rocciosa dove si trovano i templi del Settimo secolo scavati direttamente nella pietra, guardando non verso il mare, ma verso la pianura attraversata dal fiume. La trovo una bella foto, ed è passato ora abbastanza tempo da quel momento da darmi una sufficiente illusione di distacco nella valutazione.

La collina rocciosa di Mamallapuram non è più oggi un luogo sacro, ma lo è stato, certamente, per lungo tempo, e molto tempo fa. Ora è un ridente e affascinante parco pubblico. Quando ho scattato questa foto mi trovavo in India da un mese, ed ero a Mamallapuram per la seconda volta, in attesa dell’aereo da Chennai per l’Italia.

Questa foto mi piace perché rappresenta un altare, e al tempo stesso non lo rappresenta affatto. La roccia sotto i miei piedi non è il dio Shiva, come ad Arunachala, e il fiume che si intuisce non è la Kavery. Ma tutte le acque sono sacre in India, e quella stessa roccia, a pochi passi da me, porta intagliate figure divine di bellezza straordinaria.

Tutto questo nella foto non si vede. Quello che sostanzialmente si vede – credo – sono puri rapporti geometrici tra le verticali delle palme e l’orizzontale della pianura. Sono questi rapporti a richiamare, alla mente di chi guarda, l’altare che non c’è, il tempio che manca alla vista.

Al tempo stesso, però, le verticali restano palme, e l’orizzontale resta pianura, e dietro c’è il cielo e sotto ci sono le rocce e gli alberi, e questo è un luogo mitico e lontano, che ci racconta che il sacro esiste, indipendentemente dal fatto che Dio sia uno, nessuno o centomila.

Per questo questa foto continua a piacermi.

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Della parola disincarnata

Con questo post mi limito a segnalare che è on line da oggi sul numero 2 (Corpo e linguaggio) della Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio un mio articolo dal titolo “La parola disincarnata: dal corpo alla scrittura“, in cui vengono sviluppati più ampiamente una serie di temi che sono stati affrontati anche in diversi post di questo blog (in generale quelli etichettati con il tag “sistemi di scrittura”). Un intero paragrafo era anche stato citato all’interno del post del 1 aprile “Della poesia in prosa”.

Riporto qui di seguito l’abstract dell’articolo (abstract che sulla rivista appare in inglese):

Non è possibile stabilire una corrispondenza diretta tra la parola orale, legata al suono, e la parola scritta, legata alla visione. Il suono scorre, fluisce, la visione resta; i suoni vibrano dentro di noi, le cose viste appaiono esternamente di fronte a noi: quando passa, storicamente, dalla prima dimensione alla seconda, la parola diventa astratta e disincarnata. Analizziamo qui in questi termini diverse forme di testualità, e il percorso storico seguito dalla parola per distaccarsi dalla corporeità. La poesia rimane ancora oggi il tipo di scrittura che mantiene i legami più forti con la dimensione orale: in poesia, infatti, continuano a giocare un ruolo determinante le dimensioni ritmica e rituale, vicine per loro natura all’universo del suono. Nella prosa la separazione è stata più netta, ma ha richiesto comunque un processo molto lungo, che ha avuto il suo momento cruciale nel trionfo della razionalità della Filosofia Scolastica. Nel passaggio dalla lettura ad alta voce dell’antichità alla lettura silenziosa, interiore, dei moderni, la parola scritta si separa radicalmente da quella orale, imponendo decisamente la propria forza di astrazione.

Mi piacerebbe approfittare di questo spazio di discussione per sentire qualche opinione e magari anche obiezioni sulle tesi che sviluppo in questo articolo.

Non ho ancora letto gli altri articoli presenti sulla rivista, ma dai titoli mi sembra che vi siano affrontati comunque diversi temi interessanti.

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Dell’optocentrismo, della scrittura e della musica

Percorsi vari di riflessione e di studio mi riconducono a un bellissimo libro che avevo letto qualche tempo fa: I segni della voce infinita. Musica e scrittura, di Gianluca Capuano (Milano, Jaca Book 2002). Il tema del libro è la scrittura, in relazione al suono – quello della parola, certo, ma soprattutto quello della musica. La tesi principale del libro è che il nostro modo di concepire le cose è vincolato a quello che Capuano chiama optocentrismo, ovvero una centralità della dimensione visiva (ottica) in relazione alla quale vengono valutate (e spesso svalutate) anche le conoscenze che noi ricaviamo dagli altri sensi. L’optocentrismo trova le sue origini, per quello che riguarda l’Occidente, nella filosofia di Platone, ma poi rimane pressoché indisturbato nella sua posizione dominante sino a oggi – anche perché al centro del privilegio della visione si trova certamente la scrittura, in quanto parola (cioè pensiero) che si vede. Nella prima parte del libro, Capuano ci illustra la posizione di Platone, e poi, nella seconda, il modo in cui il privilegio accordato alla visione è sfociato durante il Medio Evo nell’invenzione di una scrittura per la musica, la quale ha assunto un ruolo via via più importante non solo nella trasmissione, ma anche nella concezione della musica stessa, sino a trasformarla intimamente – anzi, fino a diventare, per gran parte delle persone che si occupano di musica, il mezzo principale per studiarla, produrla e analizzarla.

Voglio partire da qui per fare in questo post alcune riflessioni sulla scrittura e sulla comunicazione visiva in genere, specie quando applicate a una dimensione così diversa come è quella del sonoro.

In primo luogo, credo che l’optocentrismo sia di parecchio anteriore a Platone, anche se è stato certamente lui a farne il cuore di tutta la filosofia a seguire. Se riflettiamo sugli usi consueti del linguaggio, ci accorgiamo che le nostre metafore cognitive sono in generale di carattere visivo: si parla di idee (dal greco eidos, cioè forma), di osservazione (scientifica), di vedere le cose come stanno, di vedere lontano; e certamente non di ascolto (scientifico) o di udire le cose come stanno, né tantomeno di udire lontano. Queste ultime espressioni, anzi, ci appaiono grottesche, insensate. Parliamo piuttosto di ascolto interiore, o di sentire, per riferirci alla propriocezione, specie se emotiva.

Certo, questo nostro uso potrebbe essere una conseguenza della diffusione anche a livello popolare delle concezioni platoniche, tuttavia, di nuovo, l’etimologia ci suggerisce che la vicinanza concettuale tra il vedere e il sapere precedesse Platone. Il termine latino video (cioè vedo) è legato etimologicamente all’inglese witness (cioè, il testimone, colui che sa perché ha visto) e wisdom (saggezza), ma anche al tedesco wissen (sapere, conoscere) e ai termini sanscriti veda (vedere, comprendere, sapere, ma anche la denominazione dei libri della saggezza induista, risalenti almeno al 1000 a.C.) e vidya (conoscenza intuitiva, diretta). L’optocentrismo è dunque presumibilmente un pregiudizio molto antico tra gli indoeuropei – ma non mi stupirei di scoprire che di questo pregiudizio soffrono tutti gli umani del pianeta. In fin dei conti, la vista è davvero il più raffinato e potente dei nostri sensi, e gli studi sull’oralità primaria mostrano una serie di caratteristiche comuni alle culture che non conoscono la scrittura, che tendono comunemente a perdersi una volta che la scrittura sia acquisita.

Il tema è sconfinato. Voglio limitarmi a una curiosità, relativa proprio al rapporto tra musica e scrittura – che la dice lunga, a mio parere, sull’importanza che la dimensione visiva ha assunto anche per il mondo della musica. E racconterò una storia.

Questa storia ha inizio verso la fine del Medio Evo, quando la notazione musicale ha già diversi secoli di vita, e ha raggiunto un livello di notevole sofisticazione. Questo livello è richiesto anche dalla complessità che la musica ha raggiunto, a sua volta resa possibile dal fatto di poter essere scritta. I maestri della musica polifonica di quegli anni sono soprattutto fiamminghi, anche se poi molti di loro vengono a lavorare per le corti italiane. Nel 1436 Guillaume Dufay compone il mottetto Nuper Rosarum Flores, in occasione dell’inaugurazione della cupola di Santa Maria del Fiore di Firenze, progettata da Filippo Brunelleschi. È un fatto noto che Dufay struttura il mottetto secondo delle proporzioni matematiche, anzi geometriche, cioè spaziali: che sono quelle stesse che reggono il cupolone del Brunelleschi, e sulla base delle quali l’architetto ha edificato la sua (per l’epoca) incredibile costruzione.

Ma come si colgono all’ascolto queste proporzioni visive che avvicinano il mottetto di Dufay alla cupola di Brunelleschi? In realtà non si colgono, anche se, certo, se ne sente l’effetto. Al semplice ascolto non c’è modo di comprendere che il mottetto contiene quelle relazioni. E allora, se non si sentono, a che servono?

Per rispondere, bisogna tenere presente che, per l’ascoltatore dell’epoca, c’è sempre, oltre a lui, un altro ascoltatore privilegiato, che è in grado di cogliere immediatamente qualsiasi proporzione nascosta, perché la vede immediatamente, anzi l’ha già vista: quell’ascoltatore è ovviamente Dio, a cui qualsiasi mottetto è prima di tutto dedicato. Il fatto che un brano musicale (ma in generale una qualsiasi opera d’arte) contenga un messaggio nascosto, e comprensibile solo a Dio, è per l’epoca un fatto normale e normalmente apprezzato.

Però c’è un altro fruitore privilegiato del mottetto di Dufay, che è il musicista che legge la partitura. Anche lui può cogliere le relazioni matematiche (mentre ulteriori segreti rimangono nascosti, destinati al solo Dio), non perché le sente ma perché le vede.

Baude Cordier, Tout par compas, Codex Chantilly, ca. 1400

Baude Cordier, Tout par compas, Codex Chantilly, ca. 1400

Baude Cordier, Belle Bone Sage, Codex Chantilly, ca. 1400

Baude Cordier, Belle Bone Sage, Codex Chantilly, ca. 1400

Questo criterio di una visibilità importante quanto e più dell’udibilità è cruciale per moltissime composizioni del Quattrocento fiammingo, sino al punto di incentivare la creazione di partiture esse stesse con forme particolari, come quella famosa a forma di cuore (anche citata da Capuano) contenuta nel codice Chantilly (intorno al 1400). Senza arrivare a questi estremi, in quest’epoca le inversioni speculari (inverso, cioè le stesse note con i rapporti invertiti, e retrogrado, cioè le stesse note a partire dall’ultima verso la prima) stanno già giocando da tempo un ruolo importante: e parlare di speculare significa già mettere in gioco una dimensione visiva, che l’ascolto non è in grado autonomamente di riconoscere. Il bellissimo e famoso rondeau di Guillaume de Machaut “Ma fin est mon commencement” prevede tre voci: tra le prime due c’è un canone retrogrado (ovvero la seconda canta una melodia che è il retrogrado della prima), mentre la terza canta la propria melodia prima per moto retto e poi retrogrado. (Qui poi, persino il testo concorre al gioco speculare, come si può vedere a questo link).

L’idea di Dio come fruitore privilegiato si perde tra Cinque e Seicento, però mai del tutto. E anche le arditezze geometriche dei musicisti medievali vengono tendenzialmente abbandonate con il tramonto della polifonia. È un declino progressivo e mai totale, che trova un fantasmagorico ritorno di fiamma nell’opera del vecchio Bach, Johann Sebastian.

È un fatto ben noto, infatti, che i suoi contemporanei gli preferirono di gran lunga i figli, specialmente Johann Christian e Carl Philipp Emmanuel. Johann Sebastian era troppo difficile, troppo geometrico, troppo fuori moda, per gli azzimati e superficiali ascoltatori del Settecento. Lo si apprezzava più per la complessità del contrappunto che per la qualità del melodista. E d’altra parte, lui stesso, da bravo luterano, componeva sostanzialmente a maggior gloria di Dio, seguendo il proprio spirito e poco curandosi (però anche curandosi) del piacere dei propri ascoltatori.

Al di là della visione di lui che potevano avere i suoi contemporanei, Johann Sebastian rappresenta davvero una singolare combinazione: da un lato uno straordinario inventore di motivi e di melodie, dall’altro un matematico della musica, il più straordinario gestore di ars combinatoria che sia mai vissuto. Attraverso questa incredibile combinazione di passato e di presente, la musica di Johann Sebastian attraversa il proprio tempo, e lo supera quasi dimenticata per circa un secolo: quasi dimenticata, perché anche se nessuno l’ascolta più, tutti i musicisti la studiano, perché lì stanno le risposte a tutti i problemi del contrappunto.

Poi, Bach viene riscoperto almeno due volte. La prima dal romantico Felix Mendelssohn, che – pur così affascinato dal rigore geometrico da scrivere a propria volta i propri preludi e fughe – ne ripropone soprattutto l’aspetto di melodista e orchestratore: il Bach delle Messe, delle Passioni e delle Cantate, insomma. La seconda, ancora un secolo dopo, quando la sua fama è già piena, da Arnold Schoenberg, che fa del contrappunto di Bach il modello per la propria nuova tecnica compositiva: la dodecafonia.

Siamo negli anni Venti del Novecento. Schoenberg sta cercando un metodo compositivo che lo liberi dai vincoli della tonalità. Lo trova per mezzo di un espediente geometrico, con l’invenzione del concetto di serie dodecafonica, ovvero una serie di dodici note, in cui compaiano tutti (e dunque una sola volta) i dodici toni in cui è divisa la nostra scala. Invece di basare le proprie composizioni musicali sul concetto di tensione tonale, come si era fatto sino a quel momento, Schoenberg inizia a fare uso di questa tecnica, che ha al centro la serie dodecafonica e le sue permutazioni, con particolare risalto di quelle speculari: l’inverso, il retrogrado e l’inverso del retrogrado.

Se si leggono gli scritti teorici di Piet Mondrian di quei medesimi anni, vi si trova il medesimo spirito in una forma ancora più estrema. Mondrian arriva proprio a teorizzare una musica così antinaturalistica e così astrattamente geometrica quale Schoenberg non arriverà mai a comporre. D’altra parte, Mondrian lavora proprio in quel campo del visivo da cui la musica dovrebbe essere lontana.

E invece la tendenza della scuola di Vienna sarà proprio quella, prima con il grande allievo di Schoenberg, Anton Webern, e poi con gli esiti della scuola di Darmstadt del dopoguerra, quando Pierre Boulez arriverà a teorizzare un serialismo integrale, applicato non solo all’armonia ma a tutti parametri della composizione musicale.

Questo trionfo di una concezione geometrica, e quindi di base visiva, della musica segnerà tutta la musica colta della seconda metà del Novecento. La tendenza diventerà regola, così imperativa da sollevare persino le proteste di alcuni tra i musicisti più sensibili, pur appartenenti alla medesima scuola – perché di questo tipo sono le osservazioni che Gérard Grisey muove nel 1980 alla nozione di ritmi retrogradabili promossa trent’anni prima da Messiaen, definendoli risultato di una utopia basata su una “visione spaziale e statica del tempo”.

Sylvano Bussotti, Siciliano (immagine tratta da Andrea Valle, La  notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

Sylvano Bussotti, Siciliano (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)


R. Moran, Four Visions (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

R. Moran, Four Visions (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

A. Logothetis, Odyssee (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

A. Logothetis, Odyssee (immagine tratta da Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea, Torino, EDT 2002)

Non c’è da stupirsi se, all’interno di questa concezione visiva della musica, l’aspetto visivo della partitura ritorni a guadagnare importanza, come già era accaduto nel Quattrocento. Complice l’idea di musica aleatoria, ovvero basata in parte sul caso, o sulle scelte dell’interprete, le partiture finiscono per essere talvolta più delle immagini di carattere evocativo, destinate a stimolare l’immaginazione dell’esecutore, che non notazioni musicali vere e proprie, oppure una combinazione delle due. Come dire che la musica nasce, in tutto o in parte, dall’immagine: il trionfo definitivo del visivo sul sonoro. L’optocentrismo platonico portato alle sue estreme conseguenze.

Era un vicolo cieco. La musica colta contemporanea di oggi lo sa.

Altre strade che ha seguito la musica, nei medesimi anni, l’hanno invece portata molto più lontana dalla dimensione scritta di quanto non accadesse nella tradizione pre-schoenberghiana. In un mondo in cui per i critici musicali e i musicologi la musica si identificava con la partitura, ovvero con la sua dimensione scritta, questa non era una direzione facile. Ne parla un altro bel libro che affronta questi temi, quello di Davide Sparti che ha per titolo Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz (Bologna, Il Mulino 2007), dove si capisce davvero quanto poco del fascino delle sonorità di John Coltrane possa essere ricondotto all’universo visivo. Per quanto comunque il riferimento al visivo e alla scrittura ci sia, e non possa ormai che esserci, almeno in una qualche misura: la musica non potrà mai più essere un fatto sonoro puro.

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Di Will Eisner e della stilizzazione espressiva

Colgo l’occasione del dialogo seguito al mio post precedente (Della comunicazione visiva e della lista) per ricollegarmi ai temi di un libro importante appena uscito: è il libro di Will Eisner, L’arte del fumetto. Regole, tecniche e segreti dei grandi disegnatori (a cura di Fabio Gadducci e Mirko Tavosanis, BUR Rizzoli). Si tratta dell’edizione italiana congiunta di due libri diversi (ma evidentemente collegati) nei quali Eisner spiega le regole di base dell’arte sequenziale, ovvero della letteratura a fumetti. Per chi fa fumetti o aspira a farne, è una lettura obbligatoria. Per chi li legge con un interesse che vada al di là della risata o del sapere come va a finire la storia, è comunque una lettura fortemente consigliata – e anche piacevole, non foss’altro che per l’ampia quantità di esempi (anche storie intere) che vi vengono presentati.

Nel dialogo con Stefanelli e “un ospite”, quello che emerge è il tema della semplificazione, o meglio stilizzazione. Alla fine sembra che ci ritroviamo tutti d’accordo su questa frase: “da un lato si deve poter riconoscere con facilità i personaggi e le situazioni, dall’altra essi devono rimanere espressivi e vivaci”. Il manuale di Eisner è molto ricco, ma lo si potrebbe riportare, come morale di fondo, proprio a un principio di questo genere: da un lato il fumetto richiede una stilizzazione grafica e narrativa di personaggi e situazioni che permetta al suo lettore di riconoscerli (sia come esemplari di una casistica nota, sia nelle loro varie ricomparse nella sequenza di una vicenda narrata a fumetti); dall’altro, senza una complessità espressiva sufficiente non si producono fumetti interessanti.

Il principio non riguarda solo il fumetto. In ambito narrativo troviamo da sempre la stessa polarità tra stilizzazione ed espressività. Ma è interessante osservare che in ambito visivo il problema inizia a porsi con maggiore decisione nel corso dell’Ottocento, proprio quando la diffusione di una cultura visiva di massa (nella stampa e nella comunicazione aziendale) segna un punto di svolta rispetto alla visività tradizionale, espressa soprattutto attraverso la pittura e le belle arti in genere.

Non che in pittura il problema non si ponga, ma un oggetto visivo che deve rispondere sostanzialmente a una limitata committenza può contare su una specificità di competenze su cui non può contare un oggetto visivo pensato per una fruizione di massa. Sappiamo bene che il limite della stilizzazione grafica possibile è rappresentato dalla parola scritta: qualunque parlante italiano legga (per esempio) queste parole scritte, le riconosce al medesimo modo (poi magari le interpreterà in mille modi diversi, ma questo non è più un problema di stilizzazione visiva). I marchi aziendali che iniziano a diffondersi dalla fine dell’Ottocento tendono a una stilizzazione/standardizzazione di questo genere: vogliono essere una sorta di “parole visive”, che rimandano direttamente e univocamente all’azienda che rappresentano. Il linguaggio della pubblicità, che inizia a diffondersi in quei medesimi anni, nella misura in cui esibisce componenti visive (quelle verbali sono state per parecchio tempo dominanti), gioca su queste medesime stilizzazioni e immediate riconoscibilità.

Graficamente, il fumetto (e tutti i suoi predecessori ottocenteschi di letteratura per immagini) nasce e si sviluppa in un contesto di questo genere, e i suoi autori delle origini sono ben consapevoli del fatto che i loro personaggi possono diventare dei veri e propri marchi, immediatamente riconoscibili, purché siano progettati opportunamente. Questo aspetto è indubbiamente presente nel progetto di Yellow Kid (e in particolare di Buster Brown), ma anche dei Katzenjammer Kids, di Little Tiger e di Mutt & Jeff.

Ma non è questo l’unico motivo per cui il disegno del fumetto nasce in questa forma così semplificata. L’immagine stilizzata e facilmente riconoscibile permette una lettura più veloce, e quindi una scansione ritmica del testo che sarebbe messa in forte difficoltà da immagini più realistiche e più incertamente riconoscibili. Su questa dimensione ritmica del racconto a fumetti Eisner insiste diffusamente: una buona scansione ritmica è il requisito essenziale di una storia di qualità, ancora di più della qualità grafica delle immagini.

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier -2

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier - 2

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier - 3

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier - 3

Un esempio straordinario, più vicino a noi, di quanto la stilizzazione grafica abbia contribuito al successo e alla qualità di una serie a fumetti (e anche, va certamente detto, al suo sfruttamento in termini di branding) è quello dei Peanuts di Charles M. Schulz. C’è un articolo del 1976 (“Les Peanuts: un graphisme idiomatique” Communications, 24) in cui Guy Gauthier mostra come le figure dei personaggi dei Peanuts possano essere costruite articolando un piccolo numero di elementi grafici, corrispondenti alle teste, ad alcuni tipi di espressioni facciali, ad alcune posizioni del corpo e delle sue estremità, secondo un procedimento di articolazione che ricorda quello del linguaggio verbale. Ne otteniamo una sorta di grammatica grafica dei Peanuts, ovvero un sistema degli elementi di base e delle combinazioni permesse e vietate.

Seguendo questa metafora sino in fondo (e anche oltre le intenzioni di Gauthier) si potrebbe pensare che i Peanuts siano un sistema di scrittura, dove poi tutta la ricchezza interpretativa (che, come sappiamo, è in questo caso enorme) si dispiega al livello del significato – proprio come con la scrittura verbale: le parole sono in numero limitato, e si possono combinare in un numero limitato di modi; quello che si legge è, al livello del significante, immediatamente comprensibile e semplicissimo; tutta la complessità e la ricchezza semantica si dispiegano a livello del significato.

Le cose, di fatto, non stanno sempre così neanche con la scrittura verbale, nel cui ambito la dimensione poetica costituisce già un controesempio. Ma neppure il disegno dei Peanuts può essere davvero ridotto alla grammatica di Gauthier: per quanto Schulz giochi il più possibile sulla semplificazione e standardizzazione, già le stesse variazioni minime del suo segno grafico producono differenze espressive enormi. E se invece di Schulz prendiamo Floyd Gottfredson come oggetto di analisi, non solo la “grammatica” di base diventa talmente complessa che non vale la pena di descriverla, ma sono soprattutto gli scarti espressivi rispetto alle regole a farcelo apprezzare e amare: Mickey Mouse va rappresentato certamente in questo e questo modo (anche perché è – lui più di tutti – un marchio), tuttavia, una volta fatta salva la riconoscibilità, è l’espressività grafica che conta! Questo, ovviamente, non taglia fuori tutta quella complessità che appartiene alla dimensione del significato e che, come abbiamo visto, caratterizza la scrittura verbale: essa ci può essere anche qui, nel medesimo modo, ma è anticipata, percettivamente, da una complessità espressiva di carattere grafico che la parola non può avere (se non nelle sue dimensioni calligrafiche, o di tipografia espressiva – ma con modalità molto diverse, e non ne parleremo qui).

Eisner appare, nel suo libro, ugualmente preoccupato di costruire la riconoscibilità (attraverso forme di stilizzazione e standardizzazione) e di garantire l’espressività (attraverso opportune deviazioni dalla norma). Comunque sia, il realismo, o naturalismo, rimane del tutto fuori gioco: una storia che ci appare come realistica è una storia che si basa su delle stilizzazioni che noi riconosciamo perché sono le stesse che applichiamo al mondo reale per comprenderlo; e che poi si allontana da quelle stilizzazioni in una maniera che è grosso modo imprevedibile quanto lo è la realtà rispetto alle nostre aspettative – in altre parole, che è imprevedibile in misura che possiamo prevedere e accettare. Se ci si allontana da questo standard si va o verso il noioso (l’eccessivamente prevedibile) o verso il difficile (l’eccessivamente imprevedibile).

Tutte le raccomandazioni di Eisner vanno verso la ricerca di questa difficile via di mezzo. E il libro è, proprio per questo, prezioso – anche se non tutte le sue affermazioni vanno prese come oro colato. Per esempio, da qualche parte Eisner raccomanda di non usare i balloon collegati per far dialogare di personaggi nella medesima vignetta. Gli esempi che propone sono convincenti. Ma noi sappiamo bene che, per esempio, Andrea Pazienza è riuscito a ottenere effetti di grande espressività proprio con questa tecnica. Evidentemente esistono dei casi, sfuggiti all’esperienza di Eisner, in cui la si può utilizzare con profitto.

Allo stesso modo, è anche possibile rendere il gioco più complesso di quello di Eisner dal punto di vista grafico: il lavoro di Muñoz e Sampayo di cui ho parlato pochi giorni fa qui ne è un esempio. Tuttavia il lavoro grafico di Muñoz non è un esempio di realismo: la stilizzazione è in opera, e fortemente, pure lì. Anzi, la sua deviazione grafica appare così fantasticamente espressiva proprio perché si basa su una stilizzazione evidente.

Insomma – e questo lo dico in particolare agli autori esordienti che devono leggere questo libro – i principi di base della proposta di Eisner sono quelli cruciali. Sulla loro applicazione specifica bisogna invece ragionare. Eisner ha trovato un modo esemplare di applicarli; ma esistono molti altri modi per farlo.

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Della comunicazione visiva e della lista

Ritorno dal congresso di Venezia dell’Associazione Internazionale di Semiotica Visiva con alcune idee che provo qui a metter giù. Lo spunto me lo danno due delle diverse relazioni interessanti che ho ascoltato. La prima, di Vincenza Del Marco, riguardava la ricerca delle immagini sul Web e le difficoltà affrontate dai motori di ricerca per renderla possibile, con la conclusione che, tutto sommato, i motori che si basano sulle parole che accompagnano le immagini restano ancora più efficaci di quelli che si basano sulla somiglianza formale (eidetica e/o cromatica). La seconda, di Omar Calabrese, riguardava la natura di ”lista” (sulla scorta del libro recente di Eco) di diversi (non tutti) dipinti di Bruegel il vecchio, in particolare I proverbi fiamminghi e I giochi di bimbi.

Del discorso di Calabrese (che ha toccato più punti di quelli di cui mi occupo qui) mi interessa l’osservazione che, affinché il contenuto del dipinto possa essere concepito come lista (di proverbi, di giochi…) è necessario che gli elementi che costituiscono la lista siano ben riconoscibili e chiaramente concettualizzati: non a caso, infatti, sia dei proverbi che dei giochi (come dei diversi tipi di cecità che si possono osservare ne I ciechi) esistono liste verbali dell’epoca, da cui si vede chiaramente che i singoli elementi sono ben definiti. L’altra osservazione importante riguarda invece il modo di organizzare lo spazio, secondo una sorta di griglia di base prospettica, che permette di posizionare chiaramente ciascun elemento singolo, ponendolo in relazione con gli altri – e che deriverebbe, secondo la plausibile ipotesi di Calabrese, dalla frequentazione di Bruegel con il disegno delle carte geografiche dell’epoca, sulle quali era frequente non solo la visione assiale, ma anche quella assonometrica.

Ho già ragionato, in un post precedente di questo blog (e anche, in generale, su tutti i post etichettati con il tag sistemi di scrittura), sul legame che esiste tra la lista/tabella e la dimensione grafica. Dagli studi sull’antichità mesopotamica sappiamo che le liste sono precedenti alla scrittura intesa come trascrizione della parola orale, e che tutta una serie di capacità classificatorie (e matematiche) provengono da questa capacità di organizzazione grafica che ancora precede la parola scritta.

Insomma, le liste sono strumenti di organizzazione concettuale del mondo precedenti alla parola scritta, e che permettono di classificare, ordinare e contare su base grafica. Naturalmente, quando entra in gioco la parola, le liste si trovano ulteriormente avvantaggiate, perché la parola soddisfa con facilità il primo dei due requisiti elencati sopra: la riconoscibilità univoca e la chiarezza concettuale. Così, la lista (o tabella) di parole (o anche numeri, ovviamente) diventa facilmente il prototipo di un’organizzazione spaziale rigorosa (in questo caso, cartesiana) di concetti ben distinti e sufficientemente univoci.

Si noti che esiste un tipo particolare di lista che gode di un privilegio particolarissimo: quello di rendere graficamente la successione del discorso orale. Ne avete un esempio sotto gli occhi: questa lista di parole che state scorrendo in questo istante, organizzata secondo semplici regole che ne assicurano la sequenzialità (sinistra-destra, poi alto-basso), ha la proprietà di corrispondere, con sufficiente approssimazione, a una sequenza di discorso orale. Solo la sua natura grafica ci permette di coglierne la natura di lista: nell’oralità primaria la lista pura e semplice non c’è. Il passaggio attraverso la scrittura ci permette però di coglierla.

Voglio provare ora a fare un esperimento concettuale. Immaginiamo una tabella o diagramma cartesiano dove, nell’angolo in alto a sinistra posizioniamo le liste e tabelle fatte di parole (scrittura sequenziale compresa), intese come esempi (1) di massima chiarezza e distinzione dei singoli elementi e (2) di più rigorosa e definita organizzazione dello spazio che li organizza. Da questo massimo, procedendo orizzontalmente verso destra, immaginiamo di diminuire il valore (1), ovvero di porre artefatti visivi i cui singoli elementi sono, andando verso destra, progressivamente meno ben definiti. Andando verso il basso, invece faremo diminuire il valore (2) ponendo artefatti visivi con un’organizzazione complessiva sempre meno chiara. In questo modo, nell’angolo in basso a destra dovrebbero finire gli scarabocchi, ovvero le organizzazioni spaziali più confuse di oggetti per nulla definiti (quali sono infatti le unità di uno scarabocchio? lo scarabocchio è tale proprio perché non c’è nessuna chiara suddivisione possibile).

Tra i due estremi della lista/tabella verbale e dello scarabocchio può essere posizionata tutta la comunicazione visiva: verbale, non verbale e combinata. Una buona segnaletica, per esempio, come può essere quella che si trova ormai in tutti gli aeroporti, va posizionata praticamente nel medesimo angolo in alto a sinistra delle liste verbali: vi troviamo degli elementi ben distinti, univocamente significativi, organizzati secondo una griglia. È facile su questa base riconoscere alla segnaletica lo statuto di scrittura non verbale.

Tuttavia (e questo vale ancor di più per la scrittura verbale) le cose sono un po’ diverse quando la natura dei singoli elementi non ci è ancora del tutto chiara, perché ci troviamo ancora in una fase di apprendimento. Le segnaletiche sono create per essere autoapprese, e sono quindi molto più facili da acquisire della scrittura verbale; tuttavia al primo contatto con una segnaletica non è detto che i singoli elementi ci appaiano già del tutto chiari. In questo caso dovremo dunque posizionarla nel nostro diagramma un po’ spostata verso destra.

Un dipinto figurativo si trova invece posizionato di una certa e non piccola misura ancora più in basso e più a destra. Quanto spostato dall’origine esso sia dipenderà dalla qualità dell’organizzazione spaziale e dalla riconoscibilità dei singoli elementi. Tra i dipinti figurativi, quelli di Bruegel analizzati da Calabrese sono presumibilmente i più vicini all’angolo in alto a sinistra – ma certamente non possono arrivare a coincidere con la posizione delle liste verbali. Nella pittura è infatti necessariamente presente proprio una resistenza all’organizzazione troppo stringente e alla troppo semplice definizione degli elementi: un dipinto interessante non può assomigliare al tabellone di una stazione, il cui pregio è proprio quello di evitare di procurarci sorprese. Il valore di un dipinto, viceversa, sta proprio nel sorprenderci.

D’altra parte, il dipinto non può nemmeno raggiungere la posizione dello scarabocchio: neppure quello ci procura sorprese: la sua assenza di qualsiasi struttura lo impedisce.

Una tavola a fumetti, da parte sua, tende tende più del dipinto ad avvicinarsi all’angolo in alto a sinistra. Essa gode di un’organizzazione tabulare chiara (la gabbia grafica) e di elementi ben distinti (le singole vignette); tuttavia questi sono a loro volta al loro interno organizzati secondo una logica che è parente di quella del dipinto figurativo. Le tavole a fumetti tendono dunque a tenersi non lontano dal lato superiore, ma spaziano abbastanza nella dimensione orizzontale: l’elementarità delle figure dei Peanuts, per esempio, tende a posizionare il lavoro di Schulz piuttosto a sinistra nella nostra tabella, mentre la complessità di quello di Dave McKean o di Lorenzo Mattotti posizionerà il loro lavoro più a destra. Questo significa anche che McKean e Mattotti sono visivamente più interessanti (e meno semplici) di Schulz: il che, ovviamente, è sotto gli occhi di tutti.

Si potrebbe continuare il gioco, provando a posizionare lavori del mondo della grafica, della fotografia, del disegno tecnico e di vari generi illustrativi. Ma qual è l’utilità di questo gioco? Certo, il posizionamento è spesso difficile e quasi sempre discutibile. Ma il fatto di poter confrontare tutte le possibili comunicazioni visive nella medesima tabella ci permette (visivamente e tabularmente) di considerarle come istanze diverse di un medesimo principio, evitando o lasciando in subordine la tradizionale opposizione tra parole e immagini. Nel nostro diagramma le parole sono semplicemente immagini definite in modo molto chiaro, proprio come gli elementi di una buona segnaletica.

Naturalmente, la chiarezza e definizione di cui parliamo è una chiarezza e definizione, per così dire, di primo livello. Qualunque parlante italiano è in grado di riconoscere univocamente le parole del testo che avete sotto gli occhi – e il grande vantaggio della scrittura, specie se tipografica, è proprio questo. Quanto a interpretarne il senso, poi, l’univocità non c’è più. Tant’è vero che la scrittura poetica, prototipo dell’ambiguità e inafferrabilità completa del senso, segue di solito un’organizzazione spaziale che è ancora più regolata di quella della prosa: parte dell’effetto che produce deriva assai probabilmente dal contrasto tra questa organizzazione tabulare particolarmente rigorosa e l’abbondanza delle sorprese interpretative che ne saltano fuori. (E anche i Peanuts di Schulz, così semplici visivamente, trasmettono in realtà interpretazioni molto complesse)

Poi esiste anche la poesia visiva, che gioca proprio sull’allontanamento dalla posizione standard verso il basso, e talvolta persino verso destra, come accade, per esempio, negli Zeroglifici di Adriano Spatola, ai confini tra poesia e arti visive. L’accento sulla rilevanza della dimensione visuale significa infatti anche complicare il gioco sulla riconoscibilità dei singoli elementi e sull’organizzazione spaziale – e giustifica le perplessità di chi si domanda se questa si possa chiamare ancora poesia.

Che cosa ha a che fare tutto questo con i motori di ricerca per le immagini? Riflettiamo un attimo: la ricerca, o almeno quella che si fa sul Web, è un’operazione concettuale, ovvero si cerca qualcosa, e questo qualcosa dev’essere sufficientemente definito. Insomma, la ricerca stessa, così concepita, gode delle stesse proprietà delle liste (ed è pure internamente basata su quelle grandi liste che sono i database). Non c’è da stupirsi che funzioni bene per quelle cose che stanno sull’angolo in alto a sinistra del nostro diagramma, e sempre meno bene man mano che ci se ne allontana. Temo che dunque non si tratti solo di un problema tecnico, destinato a essere risolto in pochi anni.

P.S. Perché non inserisco un’immagine, che dia una chiara idea visiva del mio diagramma? La risposta è che si tratta di un esperimento concettuale, e non di un modo per creare una vera e propria mappa. Se mostrassi il diagramma dovrei per forza dare un posto preciso alle cose, e l’attenzione di chi legge questo post si sposterebbe sul dove metterle (un po’ più in alto, un po’ più in basso, più a sinistra, più a destra…). È poi un esperimento anche nel senso che si tratta di un’idea appena abbozzata, che mi appare suggestiva perché permette di mettere insieme tutto il campo del visivo. Ma richiede certamente ancora molto raffinamento per poter diventare una teoria.

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Del carattere lineare e del sublime nell’arte

Anche studiando la storia della tipografia si fanno strane scoperte sui percorsi di senso delle forme di cui facciamo quotidianamente uso. Prendiamo i caratteri lineari, o senza grazie (variamente chiamati, a seconda della lingua o tradizione o periodo, sans-serif, grotesque, antiqua, gothic o anche egyptian). Il dibattito tra i professionisti della grafica sulla loro leggibilità è tuttora in corso, senza che si possano assegnare vantaggi decisivi né a chi sostiene che i caratteri aggraziati sono comunque più leggibili, né a chi sostiene il contrario – salvo che per quanto riguarda la lettura su monitor, rispetto alla quale è largamente accettata la posizione secondo cui, a causa della bassa risoluzione, i caratteri lineari sarebbero più leggibili di quelli aggraziati. E questa è una delle ragioni per cui state leggendo queste medesime parole in un Verdana anziché in un Times New Roman.

Ma non è di leggibilità che voglio parlare. Un’altra posizione largamente condivisa è che i caratteri aggraziati siano, in linea di massima, più tradizionali, e quelli lineari più moderni. Di conseguenza l’uso dei caratteri lineari sarà in generale preferibile in tutte quelle situazioni in cui l’impostazione grafica vuole trasmettere un’idea di contemporaneità e di progresso. Si noti che ho insistito sull’“in linea di massima” e sull’“in generale”, perché ovviamente vi sono font di caratteri specifici e situazioni specifiche in cui il principio generale può trovarsi del tutto ribaltato. Inteso come un principio generale, comunque, quello della maggiore modernità dei caratteri lineari è praticamente un luogo comune – ormai talmente diffuso e acritico che non mi stupirei se si trovasse oggi sul punto di essere ribaltato.

Come si è arrivati a questo luogo comune? In altre parole che cos’hanno i caratteri lineari che li renda più moderni di quelli aggraziati? La strana scoperta si fa proprio quando si va a esplorare l’origine di questa concezione. Mi fa da conduttore un bellissimo saggio di James Mosley, “La ninfa e la grotta. La rinascita dei caratteri senza grazie”, contenuto nel volume Radici della scrittura moderna (Stampa Alternativa & Graffiti, 2001).

Per molto tempo si è ritenuto che il carattere lineare faccia la sua prima uscita moderna intorno al 1816, data attribuita alla sua più antica testimonianza tipografica. Da quel momento e per circa un secolo la sua sorte è legata unicamente ai contesti di segnaletica, insegne e manifesti. Solo con l’inizio del Novecento qualcosa nel suo destino inizia a cambiare.

Il Grotto di Stourhead (circa 1750)

L'iscrizione lineare del Grotto di Stourhead (circa 1750) trovata da Mosley

Mosley ci mostra invece come, al suo ingresso nell’universo tipografico, il carattere lineare sia già presente nella scrittura da oltre sessant’anni, soprattutto in ambito britannico, come carattere lapidario. Lo si trova nelle iscrizioni funerarie, ma anche in certi fregi architettonici, così come nei frontespizi di volumi che fanno riferimento a quei medesimi contesti.

Visto così, questo ingresso in scena del carattere lineare appare ancora più strano. Il carattere lapidario per eccellenza è infatti, nella nostra tradizione, quello romano classico, con tutte le variazioni moderne sul modello della capitale traianea: non solo un aggraziato dunque, ma il prototipo stesso del carattere con le grazie.

Se aggiungiamo che il periodo in cui avviene questa trasformazione è anche il periodo del ritorno in voga degli stili classici, nella forma – appunto – del neo-classicismo, l’ingresso in scena dei caratteri lineari può apparire ancora più incomprensibile.

Thomas Banks 1791

Thomas Banks Iscrizione funeraria, 1791

Non è però un caso che gli eventi di cui stiamo parlando avvengano sostanzialmente in Inghilterra. Nel mio post del 17 febbraio ho raccontato come il concetto di sublime abbia trasformato il modo di considerare l’arte nell’Inghilterra del Settecento e poi in tutta Europa sino a noi. C’è un altro aspetto importante di quella trasformazione, a cui là non ho accennato: si tratta dell’arcaicismo, del primitivismo, della ricerca di forme anticlassiche (quella stessa che porta, alla fine del secolo, a preferire l’anticlassico Michelangelo al classicissimo Raffaello). Questa tendenza si sposerà facilmente con l’imminente recupero del gotico, e già si sposa in quegli anni con la moda del romanzo gotico, ovvero dell’horror settecentesco.

Insomma, l’Inghilterra del Settecento si presenta come un laboratorio dei temi che poi esploderanno con il Romanticismo al volgere del secolo. Per quanto singolare possa apparire, il carattere lineare, con la sua povertà e geometricità, appare in questo contesto come un carattere dotato dei pregi di primitività e arcaicità – e quindi non di rado adeguato a esprimere lo spirito nuovo. I riferimenti sono le scritture lapidarie greche classiche, quelle etrusche e quelle romane antiche, precedenti alla grandiosità imperiale. Ma c’è un singolare riferimento anche alla scrittura egiziana: Egyptian vengono infatti definiti questi nuovi caratteri, nonostante di egiziano non possano ovviamente avere nulla.

A questo proposito fa notare Mosley come la moda dell’Egitto stia in quel periodo imperversando in Europa, e di come i francesi, ritornando in Grecia dopo la spedizione egiziana del 1802, si stupiscano di ritrovare l’arte greca deludente, dopo l’esperienza diretta dei semplici e massicci templi egizi, così dotati di “una nobile semplicità, e una maestosità che riempie lo spirito” (Description de l’Egypte, 1809-28). I caratteri lineari condividono con l’architettura egiziana questa medesima nobile semplicità, e il medesimo spirito arcaico.

Anche per questo, a partire dai primi decenni dell’Ottocento, essi diventano di moda. Non entrano ancora nei libri (al massimo, raramente, nei frontespizi) perché comunque si tratta di caratteri ancora troppo grezzi per competere con quelli tradizionali, ma si impongono in una molteplicità di combinazioni pubbliche. Così, paradossalmente, il fatto di essere considerati forme arcaiche diventa il motivo della loro modernità: arcaismo e modernità si fondono, nel comune anticlassicismo. Ecco come conclude Mosley il suo saggio, con una citazione da Georg Kurt Schauer (che ritiene comunque l’ispiratore della sua ricerca):

Questi caratteri senza grazie possono ben essere stati pensati per scopi puramente accademici, ma una tale evidenza delle forze elementari del passato deve aver avuto un fascino assai diverso per la Sensibilità coltivata dagli ammiratori dei poemi di Ossian e da quel primo Romanticsmo che era un anelito al ritorno a un passato puro, semplice e forte. Le richieste della pubblicità, la ricerca del sensazionale e la spinta commerciale alla novità possono ben essere state le ragioni immediate per la realizzazione dei caratteri tipografici “lineari”, senza grazie e a grazie squadrate; ma queste sono osservazioni superficiali, che oscurano piuttosto che rivelare le vere cause sottostanti. Il rifiuto della leggerezza e dell’armonia classiche è un impulso romantico. Lo spirito romantico considera la sobria semplicità un valore positivo. La forza barbarica è da ammirare, e così l’assenza di decorazioni superficiali. L’essenza del Romanticismo è nel desiderio di purezza e di forza. Queste qualità, che non possono essere trovate nel presente, vengono cercate nei movimenti arcaici, o in ogni passato per quanto lontano, assunto come più elementare. La rozzezza primitiva, nella sua lotta per il ritorno alla natura, era per i romantici tanto eccitante quanto era invece offensiva per chi aveva attitudini ortodosse e civilizzate. (Schauer, Über die Herkunft der Linearschriften, 1959)

Questo richiamo alla semplicità come valore ricorda facilmente l’equiparazione tra ornamento e delitto operata da Adolf Loos nell’inaugurare l’architettura e il design del Novecento. Non è difficile osservare come la storia successiva dei caratteri lineari si ponga tutta su questa linea, sia nella versione avanguardista (ispirata, più o meno da vicino, dal Bauhaus) di Paul Renner, Max Miedinger e Adrian Frutiger sia in quella umanistica di Edward Johnston ed Eric Gill.

Paul Renner Futura 1927

Paul Renner, il carattere Futura, 1927

È forse più difficile accorgersi di come l’idea del sublime continui a operare in queste creazioni, specialmente in quella di Renner. Il carattere Futura (1927), da lui disegnato, è infatti la migliore realizzazione in campo tipografico dell’utopia del Bauhaus e dei funzionalisti, l’idea di forme che siano al tempo stesso pubblicamente utili e graficamente semplici, senza bisogno di alcun riferimento alla tradizione. Una sublime semplicità, insomma, che esprime l’utopia del progetto di un’umanità non condizionata del proprio passato: primitiva dunque, almeno nel senso di un’umanità che può essere nuova, che può ricominciare di nuovo la propria storia.

Non posso comunque non essere colpito da questa singolare contiguità tra piramidi, horror e funzionalismo, che da questa storia salta fuori. E dovremmo aggiungerci pure la pubblicità, che dei caratteri lineari è stata poi di fatto la principale beneficiaria – quasi a farsi gioco di quella medesima utopia a cui essi devono l’esistenza.

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Dell’uso narrativo dell’immagine fotografica

Vorrei parlare del libro di Emmanuel Guibert, Didier Lefèvre e Frédéric Lemercier, Il fotografo (Coconino Press e Fandango 2010), non solo perché è un bellissimo libro di reportage a fumetti (nella tradizione inaugurata a suo tempo da Joe Sacco), ma anche perché presenta un modo del tutto originale di accostare l’immagine disegnata a quella fotografica per raccontare a fumetti. Ovviamente, è il tema stesso a fornire l’occasione: trattandosi del racconto dell’esperienza di un fotografo (Lefèvre) nel realizzare un reportage, il reportage stesso è giustamente parte del racconto, e il racconto è a sua volta un modo per dare ancora più senso e più gusto al reportage medesimo.

Il fotografo pp. 144-145

Guibert, Lefèvre, Lemercier, Il fotografo, pp. 144-145

Parlando in generale, l’immagine fotografica non è narrativamente autonoma: poiché essa consiste di un frammento visivo di mondo sottratto al suo contesto, ha bisogno che il contesto le venga in qualche modo ricostruito per acquistare significato (a meno che non si tratti di un gioco fotografico formale – il che va benissimo, ma in questo caso la fotografia non è così diversa dalla pittura, e il fatto di essere fotografia anziché pittura incide solo nella misura in cui aggiunge l’informazione che quelle forme lì che stiamo guardando esistono davvero nel mondo da qualche parte, e che bisogna solo saperle vedere). Il contesto viene ricostruito tipicamente attraverso titoli, didascalie, oppure inserendo le immagini come accompagnamento di un testo verbale narrativo (per esempio, un articolo sugli eventi che le foto mostrano).

I tentativi di fare racconto per immagini utilizzando direttamente le immagini fotografiche approdano di solito ai grotteschi risultati del fotoromanzo – riscattato solo in rarissimi casi da produzioni comunque di carattere intellettualistico e ostentatamente provocatorio. Il problema è che l’effetto realistico dell’immagine fotografica (in fondo si tratta davvero di un frammento visivo di mondo strappato al suo contesto) mal si armonizza con la natura grafica e convenzionale del balloon (qualsiasi forma esso prenda); mentre la scelta di accompagnare le foto con un racconto a pié di immagine (oltre a ricordare troppo le pratiche editoriali dei rotocalchi) non fa che sancire la separazione tra la funzione del raccontare (destinata alle parole) e quella del testimoniare-documentare (destinata alle immagini).

Anche ne Il fotografo è evidente che esistono parti con funzione di narrazione e parti con funzione di testimonianza; tuttavia la natura sostanzialmente visiva delle parti narrative rende lo scarto con le parti di testimonianza molto più piccolo. Così, le fotografie, pur essendo chiaramente testimonianza, riescono a essere insieme anche racconto, armonizzandosi con le vignette disegnate. L’effetto è quello di un racconto che costantemente ci sbatte di fronte alla realtà di quello che racconta, senza più la mediazione del disegno. Certo, c’è la mediazione della fotografia, ma Lefèvre è un reporter, ovvero qualcuno che (pur non negando, certo, la rilevanza del proprio punto di vista e delle proprie scelte) mira a rendere il più possibile il senso stesso della scena che sta riprendendo, e usa i propri strumenti per calibrare la foto in modo da trasmettere il più possibile il senso di quello che sta vedendo.

La fotografia è uno strano strumento comunicativo, che associa l’indubbia oggettività di quello che viene colto (immagini del mondo che impressionano la pellicola in maniera meccanica) con l’indubbia soggettività delle scelte che si fanno per coglierlo (dove puntare, in che momento scattare, che obiettivo e quanto zoom utilizzare…). L’accostamento con le vignette disegnate da Guibert sottolinea gli aspetti soggettivi delle foto di Lefèvre, rendendole parte della narrazione a tutti gli effetti. Tuttavia, questa parte stessa della narrazione è insieme anche la testimonianza, il documento, e l’oggettività di quello che Lefèvre ha visto ne viene fuori con una forza straordinaria.

Per diversi giorni dopo aver letto Il fotografo mi sono ritrovato a ripensarlo dentro di me come un grande film, perché l’effetto di coinvolgimento che aveva prodotto su di me era del medesimo tipo di quello del cinema. Il fotografo non è però un testo a fumetti particolarmente cinematografico in sé: è proprio la combinata di racconto e immagine fotografica a suscitare un tipo di coinvolgimento non dissimile da quello del cinema.

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Del non pensare all’elefante

Parliamo di Santoro e del suo Raiperunanotte di ieri sera. Giovanna Cosenza ne contesta l’ossessione antiberlusconiana, condividendo l’opinione di Aldo Grasso, e facendoci presente che l’elefante è sempre stato seduto (e progressivamente ogni minuto di più) al centro della conversazione. Il riferimento citato da lei stessa, da George Lakoff, è questo (link e neretti suoi): «Ricordarsi di “non pensare all’elefante”. Se accettate il loro linguaggio e i loro frame [degli avversari] e vi limitate a controbattere, sarete sempre perdenti perché rafforzerete il loro punto di vista» (trovi le altre regole QUI).

Le regole di Lakoff sono sensate, ma sono riferite a un contesto politico in cui la situazione dei contendenti è grosso modo paritaria. È del tutto ragionevole che, in un contesto in cui è possibile non mettere al centro del discorso i valori degli altri, farlo sia una pessima scelta. Ma le cose in Italia non stanno così.

Anche se in Italia ci sono una destra e una sinistra divise da dei valori differenti, la partita non si gioca su questo. Qui abbiamo di fronte un elefante a cui non è possibile non pensare, perché ha colonizzato tutti gli spazi del dialogo con la forza del suo denaro, delle sue televisioni, del suo fascino personale e del suo potere usato senza nessuna remora. Poter non pensare all’elefante sarebbe fantastico, ma è l’elefante stesso che provvede continuamente a far sì che lo pensiamo, e non abbiamo la forza mediatica per opporci a questo!

Non pensare all’elefante potrebbe essere una strategia vincente se fosse una strategia possibile, ma in Italia al momento non lo è. Di conseguenza o siamo destinati sino alla morte dell’elefante a vivere nella condizione dell’infelice metafora luttazziana (già peraltro anticipata da lungo tempo dall’ombrello di Altan), oppure dobbiamo trovare una strategia che permetta di indebolire l’elefante sino a far sì che sia divorato dai suoi stessi complici – dopodiché davvero potremo forse trovarci nella situazione di non pensarlo.

L’elefante è fortissimo, ma traballa. È vecchio. È troppo incazzato. Fa errori. Più è incazzato e più ne fa. Io credo che farlo incazzare sia la strategia migliore. Finché non saranno i suoi a scaricarlo, travolti dall’impossibilità di reggere la sua psicopatia, io credo che per la sinistra in Italia non ci siano speranze. Solo quando questo succederà il gioco tornerà ad assumere le sue regole normali.

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Di Charles M. Schulz e dei Peanuts

Appartengo a una generazione che ha avuto un rapporto controverso con l’opera di Charles M. Schulz: da un lato non si poteva non riconoscere il grande talento, la sottigliezza e la delicatezza, e insieme la profondità, con cui costruiva il suo mondo. Dall’altro, i nostri miti erano altrove.

Ben ricordo quando, sul finire dei Settanta o nei primi anni Ottanta, Oreste del Buono si scandalizzò per un’affermazione di Renato Giovannoli, il quale diceva (mi pare) qualcosa come: che i Peanuts erano una metafora della vita, mentre Doonesbury centrava la nostra condizione contemporanea, e per questo lo preferivamo. Giovannoli, all’epoca, voleva certamente essere provocatorio; ma la sua provocazione riguardava un po’ tutti noi giovinastri, che ci sentivamo rappresentati al momento più da Trudeau che da Schulz.

Il motivo di tutto questo, io credo, non riguardava tanto chi fosse più bravo tra Schulz e Trudeau, ma, molto più banalmente, che Schulz rappresentava per noi i nostri padri (quelli intelligenti), e noi comunque dovevamo distaccarcene.

A tutt’oggi continuo a percepire i Peanuts come un lavoro perfetto, così completo, coerente, coeso, che quasi non lo si può toccare. Continua a ergersi davanti a me come la norma che definisce il fumetto ideale, così ideale che fatico anche a parlarne, perché non si può parlare che per differenze, ed è rispetto a Peanuts che si definiscono le differenze di tutti gli altri.

E’ ovvio che non è così, e che il lavoro di Schulz si basa su un’ossessività e un minimalismo che lo tengono ben lontano dalla monumentalità. Quando mi immergo nella lettura delle sue strisce, è comunque un piacere. Ma quando ci penso in astratto, quello che prevale è questo senso di intoccabilità. Forse, benché se lo sia meritato, Schulz è stato davvero troppo celebrato.

O forse è stato troppo celebrato dalla generazione dei miei padri; e Freud ci insegna che non si finisce mai di ucciderli – tantopiù quanto più li si ama.

Charlie Brown ha sessant’anni. Domani Eco lo celebra insieme alla moglie di Schulz. I miei migliori auguri al mito dei miei padri dentro cui sono cresciuto anch’io!

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Dell’audiovisivo e di Youtube

A consultare Youtube ci si può rendere conto che in quello spazio viene riconfigurata drasticamente l’esperienza percettiva dell’audiovisivo. Dagli studi sull’oralità primaria (ovvero l’oralità delle culture che non hanno ancora fatto esperienza di scrittura – vedi i lavori di Walter Ong, di Jack Goudy e di altri, ben compendiati nel volumetto di Livio Sbardella, Oralità. Da Omero ai mass-media, Carocci 2006), sappiamo che la comunicazione verbale orale possiede delle caratteristiche che l’introduzione della scrittura indebolisce o cancella del tutto. Finché la parola appartiene esclusivamente all’universo sonoro, ne condivide infatti gli aspetti di fluidità, di coinvolgimento, di vibrazione, di musicalità, di non-permanenza: tutte caratteristiche che la rendono adatta a situazioni di carattere rituale, situazioni in cui, partecipando, la persona si immerge in una collettività che agisce (tendenzialmente) all’unisono.

La natura visiva della parola scritta è aliena da tutto questo. Il mondo visibile possiede caratteristiche di stabilità che quello sonoro non ha, e si presta, per questo, all’osservazione attenta e ripetuta. Non a caso le metafore della visione sono utili per parlare della conoscenza scientifica (si pensi, per esempio, all’“osservazione scientifica”) mentre quelle dell’ascolto tendono a essere usate piuttosto per la propriocezione (si pensi al campo semantico del verbo “sentire”, che usiamo tanto per le emozioni che come sinonimo di “udire”). Quando la parola incontra la scrittura (che esisteva, almeno in Mesopotamia, in una forma archetipica già da qualche migliaio di anni, e veniva usata come strumento per le registrazioni contabili – come ho raccontato in questo blog nel mio post del 9 marzo) la parola si arricchisce delle possibilità dell’osservazione ripetuta e del calcolo; e non è un caso che solo in questo contesto possa nascere la filosofia.

Certo, d’altro canto, il legame tra parola scritta e orale non viene comunque reciso mai. È interessante però osservare come si indebolisca per gradini, e che un importante gradino (quello della nascita della lettura silenziosa, eseguita solo con gli occhi, senza la resa sonora della parola) coincida con l’esplosione del razionalismo della filosofia scolastica, nei primi secoli del secondo millennio. Da quel momento in poi, esistono generi che si posizionano variamente nello spazio tra oralità e scrittura, ponendosi decisamente dal lato di quest’ultima (come la filosofia e in generale la critica) oppure, all’opposto, conservando una decisiva componente orale, come il teatro – e, con questa, una natura rituale, di cerimonia condivisa.

L’invenzione del cinema porta di colpo un tipo di discorso fondamentalmente visivo ad assumere elementi determinanti di oralità. Nel cinema l’immagine scorre e non può essere fermata, e scorre indipendentemente da noi: nella fruizione cinematografica la realtà visibile non è più, dunque, potenzialmente statica. Laddove nel mondo attorno a me, nel mondo reale, ci sono parti stabili, e la scrittura si aggiunge a queste, nel cinema il mondo si trasforma costantemente, e non è mai sufficientemente fermo a lungo per poter essere osservato con i tempi della nostra libera osservazione. Collegandosi naturalmente al teatro, anche il cinema implica una situazione rituale di fruizione, ma l’officiante principale non c’è più, sostituito da un dispositivo che avanza autonomamente, indipendente dalle reazioni del pubblico. Possiamo chiamare neo-oralità questa situazione dall’apparenza paradossale, rafforzata dopo pochi decenni dall’introduzione del cinema sonoro.

L’altro grande medium decisamente neo-orale è ovviamente la radio. Per queste loro caratteristiche, radio e cinema saranno i principali strumenti di creazione del consenso (cioè di creazione del mito di base) dei regimi totalitari tra le due Guerre Mondiali. È piuttosto evidente che la televisione non fa che perfezionare e rendere ancora più potente la dimensione neo-orale, con l’introduzione di una presenza virtuale, rafforzata dalla diretta, che mette tutti gli spettatori in sintonia con il medesimo rito, senza che nemmeno debbano entrare in contatto l’uno con l’altro.

Il Web nasce con caratteristiche radicalmente opposte. L’idea di Berners-Lee è esplicitamente ispirata all’utopia di Ted Nelson, che è un’utopia di tipo scrittorio, quella del “sistema ipertestuale distribuito per la letteratura universale”, esposta in un volume (Literary Machines) il cui dedicatario è George Orwell: Nelson sogna un mondo in cui la telematica permetta a tutti l’accesso immediato a qualsiasi testo, e renda impossibile la distruzione e il controllo dei libri. Persino l’idea (centrale) di link non è che l’implementazione tecnica di una consuetudine scrittoria, quella del riferimento (o della citazione) – ben poco praticabile in un mondo orale, dove è impossibile da un riferimento risalire alla sua fonte.

Quando l’audiovisivo viene inserito in questo universo profondamente visivo, profondamente scritto, qualcosa inevitabilmente cambia nella sua natura. Non siamo più, cioè, di fronte a un evento, che si presenta a noi nel flusso inarrestabile dei programmi TV, bensì a un documento, ben posizionato in un vastissimo archivio da cui possiamo in ogni momento prelevarlo, consultarlo, rivederlo, fermarlo, analizzarlo, ritornarci.

Insieme con la natura coinvolgente e immersiva dell’oralità, certo, l’audiovisivo perde anche una certa parte del suo fascino. Non è più ciò che sta accadendo, ma ne è semplicemente la registrazione, la scrittura. Quando appare in Youtube, poi, lo troviamo inserito in un dialogo, quello dei post di commento e degli eventuali video di risposta, che enfatizza la sua natura scritta, perché, comunque, rimane.

Certo, il Web 2.0 ha addolcito la propria natura scrittoria con alcuni tratti di oralità, come è facile vedere nel fenomeno delle chat (e gli audiovisivi si inseriscono bene in un contesto a cui qualche tratto di oralità rimane); ma si tratta di un’oralità di superficie che non scalfisce la durabilità e ripetuta osservabilità di quelle che sono comunque registrazioni, anche se magari registrazioni di dialoghi estemporanei.

Se la televisione è un grande creatore e diffusore di miti, Youtube è il luogo dove il mito si trasforma in mitologia, ovvero discorso sul mito, registrazione del mito, sguardo (razionale) sul mito. Tutto forse molto meno fantastico e affascinante che in TV o al cinema; ma, insomma, almeno qui si può discutere!

(questo post costituisce il resoconto essenziale di una conferenza dal titolo Youtube dal personale al sociale: l’audiovisivo come memoria, che ho tenuto a Urbino il 19 marzo 2010 – appare qui anche come supporto mnemonico per chi l’ha seguita dal vivo. Altri post su temi connessi a questo si trovano sotto la categoria Sistemi di scrittura)

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Di come non si fa

Ricevo da Fandango Libri, fresco di stampa, Astarte, di Andrea Pazienza. Anche se non vorrei dedicare i post di questo blog a fare recensioni, questo è un caso particolare. a cui vale la pena di dedicare qualche riga. Lo è perché Pazienza è stato un grande fumettista, è morto giovane, e questa accoppiata lo ha reso un mito mediatico. Per questo, qualunque cosa si pubblichi o ripubblichi di suo sembra destinato a vendere.

Pazienza è stato un fumettista di grande originalità, non un semplice disegnatore, uno che aveva non solo un segno spettacolare e una stupefacente capacità narrativa, ma anche doti di impaginazione e costruzione grafica della pagina. E il fumetto è fatto anche di questo.

E’ proprio per questo che trovo che il libro pubblicato da Fandango sia un’offesa a Pazienza e al fumetto. Il mitico Apaz non ha mai disegnato quelle robe che vediamo pubblicate lì: è come se si pubblicasse la Divina Commedia mettendo un verso per pagina, e si pretendesse di fare un servizio a Dante!

Dividere così le pagine significa uccidere il lavoro di Pazienza. Certo che emerge il disegno! Ma ci sono tanti altri modi rispettosi per farlo. Meno pagine, e molto più grandi, per esempio, in modo da contenere le tavole intere! Ma poi, certo, i librai non sanno dove metterlo, e non si vende.

Che questo libro sia fatto prima di tutto per vendere lo mostra benissimo la confezione, certamente accurata, con la prefazione ben ostentata di Roberto Saviano, che è uno i cui meriti sono innegabili, ma cosa ci azzecca con Pazienza? E a che serve la lunga appendice sulla storia di Annibale, se non a fare un po’ di pagine, visto che persino ridotto così, una vignetta per pagina, il lavoro del povero Pazienza non è lungo a sufficienza per giustificare la spesa dell’acquisto?

Che idea si farà di Pazienza chi non avesse mai visto l’originale, pubblicato a suo tempo sulla rivista Comic Art? Visto che già in Pompeo aveva fatto pagine di una sola vignetta, probabilmente starà facendo lo stesso anche qui. Ma come mai qui il segno è più grosso in un disegno e più sottile in un altro? E come mai certi disegni sono fatti di poche grosse righe, e altri sono pieni di dettagli e di linee? Potenza degli ingrandimenti e delle riduzioni, per cui cose che nell’originale erano molto piccole o molto grandi, qui si trovano ad avere la stessa dimensione!

Insomma, si tratta semplicemente di un falso, e solo nell’ultima riga della postfazione di Marina Comandini, nell’ultima pagina, si dice che “in questa edizione ci siamo permessi di scorporare la struttura originale delle tavole”. Ma se si fosse onesti, e davvero interessati a valorizzare il lavoro di Pazienza – e non potendo, per ragioni commerciali, utilizzare un formato troppo grande – perché non usare lo spazio dedicato a quell’inutile biografia di Annibale per far vedere, almeno in piccolo, la struttura originale delle pagine? Si sarebbe salvata la qualità del segno grafico, ma almeno si sarebbe avvertito il lettore del prezzo che si stava pagando.

I post di Luca Boschi avevano creato in me molte aspettative. Ma ho troppa stima di lui per pensare che li abbia scritti avendo già visto il libro. Presumibilmente avrà avuto la notizia e avrà pensato bene di divulgarla, come avrei fatto anch’io al suo posto, e chiunque altro ami il lavoro di Pazienza.

L’impressione, decisamente sgradevole, che mi resta, è che le spoglie di Pazienza siano un po’ come quelle del maiale: non se ne butta via nulla.

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Della scrittura senza la parola

How Writing Came About

Denise Schmandt-Besserat, "How Writing Came About", University of Texas Press 1996

C’è un bellissimo libro di Denise Schmandt-Besserat leggendo il quale si fanno delle singolari scoperte sulla natura della comunicazione visiva, sulla sua origine e sul rapporto con la scrittura. Sostanzialmente, vi si racconta come, a partire dal IX millennio a.C., in Mesopotamia venga adottato un sistema di contrassegni di creta, di semplice fattura e forme diverse (ci troviamo ancora nel Neolitico!) per contabilizzare i beni (pecore, grano, olio ecc.). Qualche millennio dopo, per ragioni di organizzazione della contabilità, si inizia a rinchiudere questi contrassegni, a gruppetti, in bullae di creta. E poiché queste sono chiuse e si possono aprire solo rompendole, si incomincia a disegnare sulla loro superficie la forma e il numero dei contrassegni contenuti.

Contrassegni sumeri

Alcuni dei contrassegni di cui si parla

Contrassegni sumeri

Una tavola di classificazione dei contrassegni

Qualche secolo dopo, qualcuno si accorge che non c’è bisogno in verità né delle bullae né dei contrassegni per operare registrazioni, ma è sufficiente utilizzare su una tavoletta piana di terracotta quei medesimi segni disegnati. Si noti che i contrassegni (e quindi i segni che li rappresentano sulla superficie), non sono figurativi, se non in pochi casi. Per contabilizzare tre pecore, si marcano dunque tre cerchi crociati (immagini del dischetto crociato che era il contrassegno per una pecora).

Tavoletta pittografica sumera

Un esempio di tavola, che registra 33 misure di olio

Intorno all’anno 3.100 a.C. qualcuno si accorge che può essere più comodo registrare i beni in un altro modo: invece di disegnare p.e. 23 segni di pecora, si può fare un solo segno di pecora, accompagnato da due segni rotondi (ciascuno corrispondente a una decina) e tre segni lineari (ciascuno corrispondente all’unità). Si verificano così due fatti cruciali al tempo stesso: per la prima volta si dà espressione al numero come concetto astratto (cioè “23” e non “23 pecore”), e il cerchietto crociato cambia significato (non vuol più dire “una pecora” bensì, più astrattamente “pecora” o “pecore”).

Nei secoli immediatamente successivi c’è un grande sviluppo, in Mesopotamia, della contabilità legata a questi principi. Ci sono rimaste, infatti, tantissime tavolette di creta con registrazioni di questo tipo.

Questo ci fa capire tre cose:

1. la scrittura nasce per risolvere problemi di amministrazione contabile

2. non si fa contabilità se non con un supporto visivo

3. la scrittura nasce attraverso un processo che è del tutto indipendente dalla parola orale.

Schmandt-Besserat ci racconta a questo punto che intorno al 3.000 a.C. qualcuno si accorge che esiste un modo per registrare i nomi dei possessori delle merci sulle tavolette di creta. Mi spiegherò con un esempio: “uomo”, in sumero, si dice lu e “bocca” si dice ca; se Luca fosse un nome sumero, lo si potrebbe registrare facendo uso del segno per uomo (pittografico o convenzionale che sia) seguito dal segno per bocca: lu-ca.

Questo è il punto di partenza della scrittura come registrazione della parola parlata. Ma il passo successivo non lo fanno più i contabili, bensì i sacerdoti, i quali, circa mezzo millennio dopo, iniziano a scrivere, con questo sistema, delle preghiere sulle offerte che accompagnano i defunti. Già nel 2.400 a.C. il sistema si trova però usato anche al di fuori dei riti mortuari, per registrazioni onorifiche di tipo storiografico.

Si noti che preghiere e litanie, che sono i primi tipi di testi che vengono trascritti, sono certamente all’epoca di cui stiamo parlando dei testi metrici, fatti per essere cantati. In una cultura orale, infatti, tutto quello che richiede di essere ricordato e tramandato ha questa forma.

La scrittura nasce dunque, in senso largo, in relazione alla contabilità; e, in senso stretto, in relazione alla musica. Nel primo caso permette davvero un nuovo tipo di organizzazione concettuale del mondo; nel secondo caso permette la memorizzazione di situazioni rituali con componenti ritmiche (e a questo proposito è esemplare il caso dei Greci, che nell’ottavo secolo a.C. adottano la scrittura dai Fenici per perpetuare i propri canti epici, primi tra tutti quelli omerici).

In tutti i casi, il racconto, che certamente come forma orale esiste già da lungo tempo, entra nella scrittura solamente dopo, e – almeno per un po’ – solo nella misura in cui si inserisce in dinamiche contabili o in situazioni rituali.

Dove voglio arrivare? Be’, intanto a far vedere come la scrittura possa esistere anche in maniera del tutto indipendente dalla parola, come un sistema diversamente potente e parallelo, un sistema unicamente grafico.

E poi, magari anche per questo, voglio arrivare a far vedere come, quando si racconta facendo uso di un sistema di scrittura, o comunque di un qualsiasi tipo di comunicazione visiva (e dunque tanto a parole, come per immagini, o complessivamente a fumetti), quello che leggiamo non si risolve affatto nel semplice racconto. Se domina la componente visiva (come nelle tavolette sumere sino al IV millennio) c’è comunque un effetto di organizzazione plastica dello spazio che non è detto possa essere interamente risolto nel racconto (anche quando per molti versi lo è); se domina la componente di registrazione della parola orale (come in tutta la scrittura in senso stretto dal 2.400 a.C. in poi), c’è comunque un rinvio a un elemento ritmico e implicitamente rituale che è tipico delle situazioni orali e a sua volta non si risolve nel racconto.

Insomma, il romanzo (né quello verbale, né quello per immagini, o graphic novel) non è un semplice strumento per raccontare storie. Inevitabilmente, nel raccontare storie, il romanzo ci mette dentro altre cose, che non di rado sono più influenti e suggestive delle storie stesse. Ovviamente, oltre a raccontare, un romanzo per immagini tenderà a trasmettere cose diverse da quelle trasmesse da un romanzo per parole; e questo dipende dalla diversa natura del suo tipo di “scrittura”.

Quando, nel 1991, iniziavo I linguaggi del fumetto dicendo che i linguaggi non sono solo strumenti (per comunicare) ma anche e soprattutto ambienti (dentro cui nascono anche le idee, cioè quello che poi viene comunicato), stavo facendo un’affermazione dello stesso tipo. Il romanzo (verbale o grafico che sia) non è solo (e forse nemmeno principalmente) uno strumento per raccontare. Il racconto è solo una delle forme con cui un romanzo ci mette in condivisione.

Se poi dal romanzo si passa ad altre forme comunicative, come la poesia o la pittura, la dimensione narrativa si trova ancora di più in secondo piano – senza mai, comunque, scomparire del tutto, presumibilmente.

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L’ossessione quadrata di Antonio Rubino

A Bilbolbul mi sono abbuffato di mostre e incontri (compreso quello sul mio libro). Tutto interessante e di alto livello; talvolta ancora meglio. Gli effetti di quello che ho visto e udito prima o poi salteranno fuori, magari anche in questo blog. Per adesso voglio concentrarmi su un tema solo, perché credo di aver fatto una piccola scoperta.Antonio Rubino - Quadratino - 1911

Ieri (6 marzo) pomeriggio, Fabio Gadducci e Matteo Stefanelli presentavano, insieme con Igort, il loro volume Antonio Rubino. Gli anni del “Corriere dei Piccoli”. Bello il libro, interessante la spiegazione e la discussione. A un certo punto è uscito il tema dell’ossessione di Rubino per la geometria, per le simmetrie e per le ripetizioni, e Igort è intervenuto con un’osservazione sulla natura un po’ ossessiva di tutta la produzione di Rubino.

A questo punto sono intervenuto anch’io, con un’osservazione che mi era divenuta sempre più evidente man mano che il loro discorso procedeva, e che ora esporrò ed espanderò qui.

Si tratta delle rimette. Le rimette sono un’invenzione tutta italiana, anzi, del medesimo Rubino (che inoltre, a quanto mi hanno poi assicurato Stefanelli e Gadducci, per lungo tempo la ha scritte per tutte le serie a fumetti del Corrierino). Negli altri paesi europei, lo standard era la sequenza di immagini accompagnata da una narrazione in prosa (come nell’esempio di Ally Sloper che Antonio Rubino - Italino - 1915abbiamo postato qualche giorno fa).

Ora, perché Rubino spinge così fortemente verso l’uso del verso anziché del più assestato racconto in prosa? La spiegazione più naturale è quella di far riferimento alla tradizione dei cantastorie, che raccontavano in versi accompagnandosi con delle figure. Ma la spiegazione vale solo in parte, perché i cantastorie facevano presumibilmente uso di un altro tipo di verso, cioè l’endecasillabo, che è il verso epico della tradizione italiana, e magari addirittura l’ottava rima, che è quella dell’Orlando Furioso e dei poemi cavallereschi. L’ottonario è piuttosto un verso da canzonetta o da burla, proprio per la sua natura ossessiva, che mal si presta a raccontare.

Credo che la scelta di Rubino sia dovuta invece proprio alla natura non solo popolare, ma soprattutto ossessiva e “quadrata” dell’ottonario. È una scelta, in realtà, tutt’altro che popolare e ingenua (se non magari in seconda istanza): il versus quadratus, o dimetro trocaico, era il metro che i latini usavano, in età classica, per indovinelli, cantilene infantili, scherzi popolari. È caratterizzato dall’espansione di un modulo binario, con accento sulla prima sillaba: Tàta. Se raddoppiate questo modulo e poi lo raddoppiate ancora (Tàta tàta Tàta tàta) avete l’ottonario; se prendete l’ottonario e lo raddoppiate e poi lo raddoppiate ancora, avete le quartine di Rubino: “Ha la zia dimenticata / la credenza spalancata: / Quadratino di soppiatto / v’entra lesto come un gatto.” Più quadrato e ossessivo di così è impossibile.

Nel contesto di questa struttura iper-regolare Rubino inserisce le sue Antonio Rubino - Rosaspina - 1922narrazioni, spesso strampalate e deliranti, e crea il proprio universo assolutamente antinaturalistico, dove l’uso stesso di un verso così eccessivo fa parte della strategia di straniamento.

Ora, se osserviamo le sue figure vi ritroviamo la stessa strategia: un universo di invenzioni strampalate, trasmesse attraverso uno studio, decisamente geometrico, sulla ripetizione, sulla regolarità e sulla rima visiva! Una strategia dell’anti-reale costruita assemblando elementi di carattere opposto: assurdi e irregolari narrativamente, geometrici e iper-regolari strutturalmente.

Il fascino di Rubino sta probabilmente proprio in questa fantasmagorica gestione di opposti. La si vede persino nel suo stile grafico, insieme floreale e liberty da un lato, e geometrico-futurista dall’altro. Credo che Rubino non si sia mai riconosciuto in nessuna di queste correnti. Era abbastanza complesso da sé, evidentemente!

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“Del fumetto prima del fumetto”: the New Adventures

Mi sa che stiamo discutendo un po’ del sesso degli angeli. Siamo d’accordo sull’importanza della narrazione per immagini dell’Ottocento, sul fatto che Outcault non ha inventato niente o quasi (ma ha usato lo strumento comunicativo giusto al momento e nel contesto giusto), sul fatto che non è possibile se non arbitrariamente decidere quale sia l’occasione d’origine del fumetto.

A questo punto l’unico punto di divergenza nella polemica sta proprio attorno all’espressione fumetto. Ma l’ambiguità su quando iniziare ad applicare questo nome corrisponde a un’ambiguità nel termine stesso. In verità, se stessimo alla lettera, poiché la parola fumetto fa riferimento alla fatidica nuvoletta, non ne dovremmo parlare prima che compaia – e questo taglierebbe fuori tutto quello che succede in Italia per un sacco di anni. Ma una simile, drastica, scelta sarebbe stupida, e valida solo per l’italiano: né comics, né bande dessinée, né historietas pongono un problema analogo. Anzi, di cose comiche, di strisce disegnate e di storielle ne esistevano tranquillamente assai prima del 1896.

Insomma, non se ne esce più. Il tempo speso nel dibattito non è comunque tempo perso perché ci costringe ad approfondire le nostre posizioni. Però a un certo punto i dibattiti sul sesso degli angeli (tipica questione indecidibile, perché qualsiasi posizione si prenda è ragionevole anche quella opposta) stancano. La mia proposta è di parlare della storia della narrazione per immagini, e poi ciascuno deciderà per sé da quale momento storico in poi utilizzare la parola fumetto – tenendo comunque ben presente che sostenere che Ally Sloper non è ancora un fumetto non significa sostenere che è irrilevante per la storia del fumetto.

Marco Graziosi mi segnala che Ally Sloper non era destinato all’infanzia, ma a un pubblico popolare, che non escludeva quello infantile: la stessa situazione di Yellow Kid, dunque. Graziosi segnala anche che probabilmente il suo successo è stato un po’ sopravvalutato e che c’era anche altro a costruire le ragioni del successo delle riviste su cui compariva. Sulla prima osservazione, ho controllato: ha ragione. Anche se poi il modello è quello su cui si sviluppano le riviste per ragazzi britanniche del periodo (cfr. Alan and Laurel Clark, Comics. An Illustrated History, London, Green Wood, 1991). Sulla seconda non so, non ho informazioni; però è credibile che al successo di una rivista contribuiscano molti elementi, e non solo quelli che fanno piacere a noi.

Resta il fatto che Ally Sloper presumibilmete contribuiva, e non in maniera marginale, altrimenti nessun editore avrebbe usato il nome della serie per fondare una nuova rivista.

Quello che mi colpisce, di tutta la faccenda, è che il periodo di cui stiamo parlando, cioè la seconda metà dell’Ottocento, è anche il periodo di diffusione della stampa popolare – cosa che coincide con il diffondersi dell’alfabetizzazione anche alle classi meno abbienti. Tipicamente, si giustifica l’uso delle immagini a scopo narrativo in questo contesto attraverso il fatto che sarebbero più facili e più immediate per un simile pubblico, ancora non pienamente alfabetizzato; e comunque sensibile alle trattazioni umoristiche, leggere, assai più che a quelle drammatiche.

Non voglio mettere in discussione questa idea, che mi sembra sostanzialmente corretta. Però c’è lo stesso qualcosa che non mi torna del tutto. Cerchiamo di chiarire i termini della questione.

Una popolazione non alfabetizzata è una popolazione abituata a una comunicazione (e a una narrazione) orale, nella quale – come è ovvio nell’oralità – sono naturalmente presenti intonazioni espressive e atteggiamenti teatrali del narratore. In questo senso la narrazione per immagini non fa che riproporre una situazione che si avvicina un poco a questa, a un pubblico che è alfabetizzato da troppo poco tempo per aver già perso questa consuetudine. L’uso della caricatura nel disegno corrisponde perciò graficamente alle smorfie e alle mimiche del narratore, e magari funge anche da sostituto per le intonazioni espressive della voce, che la scrittura inevitabilmente perde.

E però, nel passaggio dalla dimensione sonoro/performativa del racconto orale alla dimensione scritto/disegnata del racconto per immagini si consuma comunque una trasformazione cruciale. Intanto c’è il passaggio da qualcosa che scorre a qualcosa che sta; ovvero da qualcosa che c’è solo in quel momento e poi mai più (e anche una ri-esecuzione non è detto che sia ugualmente efficace) a qualcosa che è ripercorribile con lo sguardo ogni volta che si vuole.

Non è un fattore da poco: è la differenza tra stare dentro a un flusso, ovvero vivere un’esperienza immersiva in un contesto di cui si è parte, e stare di fronte a una scena, ovvero essere testimone di una presenza che non ci coinvolge direttamente, se non perché condividiamo spazi contigui. La prima situazione, estremizzando un poco, è quella emotivamente coinvolgente del rito; la seconda è quella distaccata dell’osservatore scientifico.

Così, Ally Sloper & c. sono (volutamente o meno) i fattori di una trasformazione culturale, per cui la contemplazione distaccata, tipica delle classi alte e acculturate, si trasmette anche a quelle basse ed emergenti. Poco importa che si tratti di comunicazione visiva: il gap davvero grosso non sta tra guardare e leggere, ma tra guardare/leggere e udire/partecipare. La comunicazione visiva è già in qualche modo scrittura, e anche se si tratta di una scrittura che mantiene molte caratteristiche dell’oralità, il salto è già fatto.

Certo, possiamo considerare preferibile la situazione orale/partecipativa. È sicuramente molto più gustosa: non ci sono  dubbi – credo – per nessuno. Ma una società complessa come la nostra (e già nell’Ottocento era così) la rende pericolosa perché troppo facilmente sfruttabile da chi la sappia controllare. L’educazione alla lettura (anche attraverso il visivo) è perciò educazione al controllo e alla democrazia: guardare e leggere permettono di riflettere, anche se (o forse proprio perché) il trasporto emotivo difficilmente è comparabile a quello di una situazione udita/vissuta.

In questi termini, allora, il vero passo all’indietro nasce con due invenzioni, visto che sia quella di Marconi che quella dei Lumière permettono un imprevedibile ripresentarsi dell’oralità. Solo che nella radio e nel cinema (o, meglio ancora, nella televisione di qualche decennio dopo) l’oralità viene messa in gioco senza che possa mantenere le sue antiche prerogative di compresenza e interattività. Il nuovo rito, insomma, è un rito frontale, da spettatore, proprio come quello del leggere e del guardare, salvo che di fronte c’è un flusso, che richiede di immergersi e di partecipare, ma senza poter interagire.

L’oralità ritorna dunque prepotentemente in gioco, ma spogliata della possibilità di interagire. Lo spettatore guarda, come il lettore di fumetti, ma è lo spettacolo a controllare lui e non viceversa; e il suono lo invade, come nell’oralità tradizionale, ma senza possibilità di replica.

In barba a tutti i Fredric Wertham, non era certo il fumetto a corrompere i giovani. E anche se forse non tutti i fumetti potevano dichiararsi innocenti, di sicuro c’era già stato un Goebbels e ci sarebbe stato poi un Berlusconi: e il loro potere non è passato attraverso la mediazione della carta.

Il nuovo Ally Sloper si chiama Web. Mentre radio e TV ci danno l’esperienza immersiva senza l’interazione, il Web ci propone l’interazione di fronte a un nuovo tipo di carta, e comunque guardando e leggendo. Persino l’audiovisivo, sulle pagine di Youtube, si trova immerso in una situazione di lettura, e assume alcune delle caratteristiche dell’immagine statica.

Il Web forse ci toglie ancora un po’ di magia ed emotività immersiva in più, ma ci dà anche qualche ulteriore strumento contro chi usa quella magia ed emotività per i propri scopi. Credo che i (proto-)fumetti dell’Ottocento andassero nella medesima direzione.

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Il figlio di “del fumetto prima del fumetto”

Rinvio al post immediatamente precedente per i termini della polemica (e ovviamente al post di Stefanelli che ha iniziato il tutto).

Ally Sloper, dalla voce di Wikipedia

Parliamo di Ally Sloper. Già nel 1884 (ovvero 12 anni prima di quel mitico 1896) aveva un successo tale in Gran Bretagna, da permettergli di apparire su una rivista dedicata (Ally Sloper’s Half Holiday). Ma era, non dimentichiamolo, una rivista per l’infanzia, e ancora per l’infanzia lavorava Wilhelm Busch. Le cose sono diverse per Caran d’Ache, ma questo non impedisce anche alla tradizione francese di essere prima di tutto rivolta ai ragazzi.

Da questo punto di vista, in Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania le cose avvengono all’incirca allo stesso modo; e il pregiudizio che associa il fumetto ai bambini ha proprio questa origine.

Negli USA, quello che fanno Outcault e soci è rivolto sin dall’inizio a un pubblico adulto (pur strizzando l’occhio ai bambini). Questo una differenza la fa. E il cinema non ha niente a che fare con tutto questo, né di qua né di là dall’oceano: oltre a non essere ancora nato quando queste cose hanno inizio, prima di diventare un modello a cui una parte dei fumetti si ispira bisogna arrivare almeno agli anni Venti.

Che poi la narrazione per immagini dell’Ottocento sia un campo di grande interesse, è difficile dubitarne. Ma bisogna anche capire a chi si rivolge il discorso; altrimenti si rischia di confondere le esigenze di semplificazione richieste dai testi per ragazzi con esigenze di differente espressività. Presumibilmente entrambi questi tipi sono presenti nella narrazione per immagini dell’Ottocento; e certamente i testi per ragazzi sono più sensibili alle innovazioni sia perché meno sacralizzati dalla dignità artistica, sia perché rivolti a un pubblico che vive già un mondo diverso.

Ma allora, in questi termini, il 1896 diventa anche il momento in cui una certa narrazione per immagini esce definitivamente e sistematicamente dal ghetto (protetto ma chiuso) della produzione per l’infanzia: quello che in Europa accadrà solo molti, molti anni dopo. (E non contano i casi singoli: stiamo parlando di grande diffusione)


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“Del fumetto prima del fumetto” strikes back

Rispondo a Matteo Stefanelli che commenta il mio post del 26 febbraio (che a sua volta commentava il suo del 3 febbraio).

Direi che tra la situazione dell’origine del cinema e quella dell’origine del fumetto c’è una differenza cruciale, che cambia tutto il modo in cui si possono considerare le cose. Il cinema deve la sua esistenza a un’invenzione tecnica, quella dei fratelli Lumière. Prima non poteva proprio esistere, per banali ed evidenti ragioni tecniche. Non c’è dunque problema a posizionare l’origine del cinema. E tutto quello che è accaduto prima e che in qualche modo lo anticipa ne è chiaramente preistoria.

Ma il fumetto non si basa sostanzialmente su nessuna invenzione tecnica. Tutti gli elementi che lo costituiscono sono già comparsi prima che compaia Yellow Kid. È un poco come cercare di decidere quando nasce il jazz: il periodo lo sappiamo, ma qualsiasi anno di nascita preciso si possa proporre è facilmente e legittimamente contestabile. L’origine del jazz è un fatto sfumato.

A meno che non si possa decidere, con una certa dose di convenzionalità, un evento particolare e particolarmente importante che faccia da spartiacque. È ovvio che la vita di un cittadino romano non è cambiata gran che dopo quel fatidico 476 d.C., e non sono stati in molti ad accorgersi di quel venerdì 12 ottobre 1492: sono date simboliche, per le quali si è scelto un evento le cui conseguenze avrebbero poi, col tempo, mutato la storia.

Il 1895 o 1896 (a seconda che prendiamo la data di pubblicazione di Hogan’s Alley, oppure il momento in cui Outcault si mette a usare il balloon e la sequenza) è dunque una data simbolica. Poiché non possiamo adagiarci sulla sponda tranquilla di un’invenzione tecnica, la più turbinosa e discutibile subitanea diffusione di massa che avviene negli USA in quel momento può essere una buona data per posizionare lo spartiacque.

Non che in Francia e Inghilterra e Germania non fosse già successo niente: era successo un sacco di roba, lo sappiamo! Ma Caran d’Ache, poniamo, era davvero consapevole di stare utilizzando un linguaggio nuovo? Sapeva di essere bravo, quello sì. Ma in fondo non faceva che realizzare (moolto brillantemente) dei racconti illustrati che potevano fare a meno delle parole.

Io ho la sensazione che il successo industriale del fumetto negli USA, proprio perché così improvviso e dilagante, dia da subito la sensazione agli autori dell’epoca di avere per le mani qualcosa di nuovo. E magari si sbagliavano (perché gli Americani, di solito, non sono particolarmente colti, e amano pensare di aver inventato qualcosa di nuovo, in barba alla vecchia Europa), ma, anche sbagliandosi, si sbagliavano tutti insieme: e in questa (forse) illusione collettiva l’espressione comics è passata ad essere un sostantivo dall’aggettivo che era.

Se non ci fossero stati gli americani, gli eleganti autori europei avrebbero continuato – come già facevano – a realizzare raccontini per immagini senza balloon e senza invenzioni di messa in pagina: non avremmo cioè avuto McCay, per esempio. Di fatto, è proprio questo che è successo in Europa sino a tutti gli anni Venti; e solo le spinte innovative provenienti dall’America hanno cambiato la situazione.

Poi, Rubino e Tofano sono ugualmente dei maestri, e io li amo molto entrambi; ma non dimentichiamo che fine facevano le tavole di Little Nemo quando diventavano il Bubu del Corriere dei Piccoli! È un po’ come quando, studiando la preistoria, si scopre che c’erano regioni in cui si era già all’età del ferro, mentre altre, poco distanti, magari stavano ancora scoprendo il bronzo. Ecco, rispetto al fumetto è andata un po’ così: il bronzo l’abbiamo scoperto noi, e l’abbiamo insegnato agli americani, poi loro hanno capito come si faceva il ferro e noi no.

Per questo, finché qualcuno non mi propone uno spartiacque altrettanto forte, io continuo a metterlo lì, tra il 1895 e il (meglio) 1896. Non è cambiata molto la narrazione per immagini tra poco prima e poco dopo quel momento; ma senza quel momento non so se avremmo la narrazione a fumetti oggi.

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Del fumetto prima del fumetto

La comunicazione visiva è sempre esistita, ma solo da William Morris in poi ha senso parlare di design, e in particolare di graphic design. Certo l’arte tipografica esisteva anche prima, ed esisteva l’artigianato che produceva gli strumenti della vita quotidiana e gli oggetti di arredamento. Ma ha senso parlare di design e di graphic design solo in un contesto di produzione industriale, ed è questo contesto che fa sì che dal XX secolo in poi il graphic design costituisca il cuore e la gran parte della comunicazione visiva.

Analogamente, la narrazione per immagini è sempre esistita, sin da quando si dipingevano i bisonti sulle pareti della grotta di Altamira, per farne presumibilmente gli attori di una storia raccontata a voce nel corso di una cerimonia rituale. Con l’avvento della scrittura e l’abitudine alla sequenzialità legata alla lettura, la narrazione per immagini prende talvolta essa stessa la forma di una sequenza, oppure inserisce filatteri di testo verbale in un contesto figurativo. In un certo senso gran parte della pittura medievale non è che narrazione per immagini, e non mancano gli esempi di sequenze narrative vere e proprie.

Ma il fumetto, che è certamente un tipo di narrazione per immagini, non esiste prima del 1895, e quello che fa la differenza tra Outcault e Töpffer non è un salto di qualità espressiva, bensì il sistema di produzione e consumo che li circonda – e all’interno del quale il lavoro di Töpffer appare come una curiosità mentre quello di Outcault come una novità di tale successo che bisogna immediatamente imitarlo.

Mi ricollego, dunque, alla segnalazione fatta da Matteo Stefanelli dell’uscita del libro di Thierry Smolderen Naissances de la Bande Dessinée. Preciso subito che il libro non ho ancora avuto modo di leggerlo, per cui i miei appunti vanno solo alla posizione di Stefanelli (e a Smolderen unicamente nella misura in cui il resoconto è fedele). Ci dice Stefanelli: “Quel che mi limito ad anticipare è che nel suo lavoro Smolderen ha messo al centro William Hogarth. La tesi è che la grammatica del linguaggio fumettistico si accende con Hogarth passando per Cruikshank, Töpffer e penetrando in tutti i big del fumetto ottocentesco come Cham, Wilhelm Busch, Caran d’Ache, fino ai ‘nipoti’ di inizio Novecento come Christophe, Outcault, Dirks, McCay ecc.” Sull’importanza di Hogarth non ci sono dubbi, e nemmeno sulla genealogia che ne segue. Ma perché dobbiamo confondere la specie fumetto con il genere narrazione per immagini?

Che oggi il fumetto sia la specie dominante all’interno del genere narrazione per immagini non ci autorizza a identificare le due cose. Vi sono tanti libri per bambini che sono indubbiamente narrazione per immagini, ma che non definirei mai fumetti. Gli storyboard sono narrazioni per immagini, ma non sono fumetti se non in senso lato, perché le somiglianze sono certamente forti ma le differenze anche. Quello che certamente possiamo dire è che Hogarth ha fornito un contributo sostanziale allo sviluppo della narrazione per immagini, e al coagularsi di convenzioni di successo, a partire dalle quali è nato il fumetto stesso. E tuttavia quello che succede negli ultimi anni dell’Ottocento negli Stati Uniti è davvero qualcosa di nuovo, che costituisce uno spartiacque così forte tra quanto c’era stato prima e quanto veniva ora ad esserci, come mai ce n’erano stati nella storia della narrazione per immagini.

Lo ripeto perché è importante: magari Outcault e i suoi contemporanei non hanno introdotto niente di nuovo nella narrazione per immagini (e non è così), ma quello che conta davvero è che essi hanno fatto la mossa comunicativa giusta al momento giusto e nel giusto contesto culturale e sociale. Questo ha scatenato una reazione fortissima, e ha fatto sì che in brevissimo tempo la gente fosse immediatamente in grado di distinguere che cosa fosse fumetto da che cosa fosse narrazione per immagini di altro tipo. Il linguaggio del fumetto si è perciò compattato in una serie di forme specifiche, riconosciute dal grande pubblico, e si è evoluto con rapidità sviluppandole e poi magari anche negandole (come sempre avviene nelle evoluzioni), ma non ignorandole. Dunque, mentre è del tutto legittimo – e anzi doveroso – esplorare la storia della narrazione per immagini partendo da 30.000 anni fa (e magari anche prima), la storia del fumetto non ne è che un episodio, iniziato poco più di un secolo fa. Mettere le cose diversamente significa giocare con le parole.

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E, visto che siamo in tema polemico, ne approfitto per affrontare un altro tema, molto più piccolo, un tema di parole, appunto. L’espressione graphic novel è entrata nell’italiano attraverso il suo uso al femminile: la graphic novel. Ci sarà anche un errore alla base di questo uso, ma è l’uso che fa la regola, e non viceversa. Altrimenti dovremmo correggere un secolo di trattati sul cinema, e sostenere che si dovrebbe dire la film, visto che pellicola è femminile in italiano. Qualcuno ha cercato di convincermi del fatto che film è maschile perché i termini stranieri che entrano in italiano vanno in maschile: ma allora dovremmo dire il weltanschauung, il sauna, il samba. Tutti e tre, questi ultimi esempi, mi suonano ridicoli almeno quanto il graphic novel.

Ovviamente, si può sempre tradurre, e invece di scrivere la graphic novel, possiamo scrivere il romanzo per immagini – e non sarebbe una scelta malvagia. Chi sostiene la tesi dell’errore (poiché novel significa romanzo, che è maschile) dovrebbe riflettere sul fatto che novel proviene dal francese novelle o nouvelle, che è a sua volta un calco dall’italiano medievale novella. E quindi l’errore si basa su una verità storica: sono stati gli inglesi a spostare poi il significato del termine. Che novella a un orecchio italiano continui a suonare femminile anche nella sua trasmigrazione linguistica non mi sembra un fatto così deprecabile!


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Del fumetto come forma di scrittura

Possiamo considerare il fumetto come una forma di scrittura? Sì, ma abortita. Abortita come scrittura, ovviamente, non come forma espressiva e narrativa che fa anche uso, al proprio interno, della scrittura verbale. E abortita perché non aveva bisogno di nascere, pur essendo, nella sua gestazione, arrivata a un certo livello di sviluppo.

Un sistema di scrittura in senso stretto trascrive efficacemente la lingua parlata; ne è cioè la notazione. Ma un sistema di scrittura in senso ampio è un sistema di registrazione sufficientemente potente di processi razionali e/o narrativi. In questo senso il nostro sistema di scrittura, quello di cui state facendo uso anche leggendo le mie parole, è qualcosa di complesso, perché pur essendo per molti versi la notazione del parlato, ne è per altri molto autonomo: è nel suo insieme, insomma, un sistema di scrittura che può essere inteso a volte in senso stretto e a volte in senso largo.

La cosiddetta notazione matematica è un sistema di scrittura in senso ampio, perlomeno per l’ambito specifico dei ragionamenti matematici: permette infatti di registrarli senza necessità alcuna di far riferimento alla lingua parlata. Viceversa la notazione musicale non è veramente un sistema di scrittura: non lo è in senso stretto perché non trascrive la lingua parlata; e non lo è in senso largo perché non registra processi razionali o narrativi.

A un sistema di scrittura, inoltre, largo o stretto che sia, è richiesta comunque un’articolazione, ovvero la possibilità di costruire un numero infinito di combinazioni a partire da un numero finito (e ben definito) di elementi di base, e seguendo precise regole combinatorie. Questi elementi rispondono a un tipo, e sono definiti principalmente per differenziazione reciproca. Le differenze individuali che non inficiano questo riconoscimento categoriale sono da considerarsi irrilevanti – esattamente come succede con una lettera dell’alfabeto quando sia scritta con caratteri differenti: p, p o p.

C’è un articolo del 1976 (“Les Peanuts: un graphisme idiomatique” Communications, 24) in cui Guy Gauthier mostra come le figure dei personaggi dei Peanuts di Schulz possano essere costruite articolando un piccolo numero di elementi grafici, corrispondenti alle teste, ad alcuni tipi di espressioni facciali, ad alcune posizioni del corpo e delle sue estremità.

Nonostante la costruzione di Gauthier sia convincente, e le figure di Schulz mostrino di corrispondere a queste modalità costruttive, in realtà non è affatto vero che i Peanuts sono fatti così, perché altrimenti chiunque seguisse le regole di Gauthier sarebbe in grado di disegnare efficacemente i Peanuts – mentre, di fatto, se ne ricavano al massimo delle utili indicazioni di metodo. Nel tratto grafico specifico di Schulz c’è infatti qualcosa che non può essere considerato irrilevante, e che contribuisce in maniera ineliminabile all’efficacia visiva dei suoi disegni.

Se il fumetto fosse davvero arrivato a essere un sistema di scrittura (in senso largo), sarebbe molto più facile disegnare i Peanuts, perché i lettori attribuirebbero molto meno (o nessun) valore alla qualità del tratto grafico.

Anche dove si è avvicinato il più possibile allo schematismo della scrittura, il fumetto si è in verità fermato prima di arrivare sino in fondo. I cosiddetti segni espressivi (di emozione, di movimento, il russare, l’avere un’idea ecc.) sono rappresentazioni pittografiche o ideografiche su base metaforica, giunti oramai a un grado di catacresi sufficientemente forte da poter essere considerati convenzionali. Eppure anche qui la componente grafica non è stata mai del tutto neutralizzata, e il modo in cui questi segni sono tracciati continua a essere significativo.

Ora, è vero che anche nella nostra scrittura latina, la scelta del carattere di stampa contribuisce alla significazione complessiva. Però sono innumerevoli i casi in cui l’aspetto grafico può venire neutralizzato, ovvero considerato irrilevante. Nel fumetto, viceversa, non succede mai.

Come dicevamo all’inizio, il fumetto è un sistema di scrittura abortito perché non ha avuto bisogno di nascere. A questo punto possiamo capire che non ne ha avuto bisogno per due ragioni:

In primo luogo perché il fumetto serve a raccontare, e non ha, se non occasionalmente, un uso pratico che richieda precisione e rapidità di comprensione e di azione conseguente. È proprio perché la parola ha funzioni di questo tipo che si richiede la minima ambiguità e la massima rapidità di comprensione possibili.

In secondo luogo perché la parola esiste già, e quando il fumetto ha bisogno di precisione e rapidità ne può fare tranquillamente uso. Per questa stessa seconda ragione, presumibilmente, l’utilità del fumetto è rimasta sostanzialmente estranea alla regione pratica.

Un volta chiarito questo, possiamo accettare tranquillamente l’idea che nel fumetto esista una quantità di elementi comuni alla scrittura (come quelli individuati da Gauthier, o come la semplice convenzione della sequenza delle vignette), specialmente al suo macrolivello. In altre parole, noi, sostanzialmente, guardiamo le vignette, ma leggiamo le storie a fumetti.

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di Daniele Barbieri

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