Dell’esprimere quello che non si può raffigurare

Lorenzo Mattotti, Fuochi, pagg. 7 e 8

Lorenzo Mattotti, Fuochi, pagg. 7 e 8

A proposito di cose che il fumetto cerca di esprimere anche se l’immagine non le può rappresentare (come il caldo, di cui abbiamo parlato nel post precedente), ecco due pagine da Fuochi di Lorenzo Mattotti (1984). Sono le pagine dove si racconta del primo contatto del tenente Assenzio con l’isola di Sant’Agata.

L’isola ha due volti, molto diversi fra loro ma entrambi caratterizzati da una forte emotività: quello solare e pacifico del giorno, e quello bruciante e drammatico dei fuochi che illuminano la notte. Assenzio ha già avuto una premonizione del secondo, e ora sta entrando in contatto col primo. In queste due pagine Assenzio lascia l’universo freddo, meccanico e geometrico della corazzata per scoprire quello caldo, soffuso e naturale dell’isola. Sono – in particolare la seconda – tra le pagine più belle della storia di Mattotti.

Dal momento in cui i marinai approdano all’isola, eccoli ridotti a figure minuscole immerse in una realtà naturale soverchiante, un immaginario figurativo sospeso tra impressionismo e Nabis. Questa natura non ha forme se non indistinte; è fatta di macchie di colore, a loro volta macchiate di luce, e questa luce possiede ancora altri colori. Le parole pronunciate dai personaggi sono poche, proprio mentre si inserisce una voce fuori campo che non è quella del narratore, ma quella di qualcuno che gli sta parlando dentro. Le immagini disegnate da Mattotti raffigurano i paesaggi dell’isola, ma è il modo in cui questi paesaggi vengono rappresentati a rappresentare, a sua volta, l’esperienza di coinvolgimento stordente che sta vivendo il protagonista: sono i suoi occhi a vedere in questo modo, a restituirci una realtà che sembra uscita da un dipinto di Vallotton.

Noi intuiamo come dovrebbe apparire quella realtà se fosse rappresentata realisticamente, ed è attraverso il confronto tra come dovrebbe essere e come invece è che comprendiamo il vissuto di Assenzio. Più che comprenderlo, forse lo viviamo pure noi, attraverso non solo i suoi occhi ma anche attraverso il modo in cui la sua percezione deforma il mondo. In qualche modo, il senso di solare meraviglia che suscitano i dipinti campestri di Monet, di Renoir, di Vallotton, si trasforma qui in narrazione del sentimento del protagonista; proprio come accadrà, poche pagine più avanti, in un segno emotivo opposto, con gli angosciosi deliri delle figure di Francis Bacon.

Invece di usare parole, Mattotti usa modi di raffigurare. Non ha bisogno di dire che cosa sente Assenzio, e naturalmente non può direttamente mostrarlo nell’immagine: nessuna rappresentazione delle espressioni del volto potrebbe mai trasmettere tutto questo. Lo può invece trasmettere una serie di inquadrature soggettive, o semisoggettive, attraverso l’andamento dell’alterazione del mondo percepito.

È poi c’è, di colpo, questo rallentamento dell’andamento ritmico. Proprio quando compaiono le parole della voce fuori campo, la storia incredibilmente rallenta, quasi si ferma: anche la sospensione narrativa racconta lo stato emotivo di Assenzio.

Quando le immagini sanno raccontare con tanta forza, il loro fascino si deposita dentro di noi. Da quel momento tendiamo a vedere il mondo anche attraverso di loro. Nella foto che ho messo qui sotto, scattata da me qualche anno fa, c’è sicuramente la traccia di queste pagine di Fuochi.

Prato a Villa di Sassonero

Prato a Villa di Sassonero

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Del caldo

Frank Miller, Klaus Janson, Lynn Varley, The Dark Knight Returns pag. 3 (dettaglio)

Frank Miller, Klaus Janson, Lynn Varley, The Dark Knight Returns pag. 3 (dettaglio)

Ci dicono che farà ancora più caldo i prossimi giorni, e a me vengono in mente le prime pagine del capolavoro di Frank Miller. Gotham City è immersa in un’afa mortale, una tensione climatica che corrisponde alla tensione che agita lo spirito del vecchio Bruce Wayne. Non a caso, qualche pagina dopo, l’arrivo del temporale coinciderà con il primo rientro in scena del Batman.

Mi viene da domandarmi allora come faccia il fumetto a rendere l’effetto caldo. Le immagini che Miller ci propone sono efficaci, ma da sole non bastano: potrebbero benissimo rappresentare anche l’alba su una città invernale, il cui cielo è attraversato dai fumi dei camini o dell’inquinamento. Tuttavia, quando arriviamo a queste vignette, Miller ci ha già introdotto narrativamente il tema del caldo, ed è per questo motivo che in queste immagini riconosciamo non dei fumi ma delle volute di umidità, e il sole vi appare come una sorta di demone maligno e spietato.

Il fumetto, e in generale l’immagine, non può esprimere l’eccesso di calore se non attraverso i suoi effetti sulle persone e sulle cose. Però una volta che il tema è impostato, può anche riuscire a essere drammaticamente efficace. Guardate come nella sequenza riportata qui sotto, anche senza leggere le parole, il tema del calore salga nelle prime quattro vignette per poi esplodere nell’ultima, dove persino la grande dimensione diventa espressione del grande caldo!

Dobbiamo aspettare anche noi una qualche risoluzione emotiva di un qualche Batman per trovare un po’ di respiro? Magari, se vivessimo in una storia, in una bella storia…

Frank Miller, Klaus Janson, Lynn Varley, The Dark Knight Returns pag. 6 (dettaglio)

Frank Miller, Klaus Janson, Lynn Varley, The Dark Knight Returns pag. 6 (dettaglio)

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Di una foto nel tempio di Kailasanatha

Volto di cavaliere sul muro esterno del Kailasanather Temple a Kanchipuram

Volto di cavaliere sul muro esterno del Kailasanather Temple a Kanchipuram

Il tempio Kailasanatha a Kanchipuram è il più antico tempio costruito del sud dell’India, e risale ai primi anni dell’ottavo secolo. Più indietro nel tempo ci sono solo i templi scolpiti direttamente nella pietra delle colline rocciose di Mamallapuram, non lontano da qui.

Il tempio è dedicato a Shiva, ed è di una bellezza straordinaria. Vi ho scattato centinaia di foto, cercando di portarmene a casa l’anima, peraltro inutilmente. Sul muro esterno c’è una sequenza di rilievi di cavalieri, che montano creature fantastiche. Molti sono erosi dal tempo, ma alcuni rimangono ben conservati. Al volto di questo ho scattato diverse foto, perché aveva qualcosa di indicibilmente attraente.

Poi Elio Di Raimondo ha avuto la sfacciataggine di commentare questa immagine con queste parole: “vorrei essere guardato così almeno una volta al giorno. Potrei vivere cent’anni di felicità”.

E grazie a lui ho capito il fascino di quella lontana figura.

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Dello spazio bianco e del suo senso

Dino Battaglia, La caduta della casa degli Usher (da Poe), 1969

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Gli antichi, greci e romani, non conoscevano lo spazio bianco. Non conoscevano neanche la minuscola, né la punteggiatura. COSIITESTISCRITTIAPPARIVANOALOR OINQUESTOMODOELEGGERENONERAAFFATTOUNCOMPITOSEMPLICECOMESIPUOF ACILMENTECAPIREDAQUESTERIGHE. I romani, che avevano uno spirito più pratico dei greci, a volte (non sempre) inserivano un puntino per separare le parole. Ma si capisce bene perché la lettura interiore, senza la voce, fosse prerogativa di pochissimi intellettuali. Se provate a leggere ad alta voce, vi accorgerete che il testo continuo acquista più facilmente senso.

L’invenzione (medievale) dello spazio bianco rende distinguibili le parole al colpo d’occhio, e permette, col tempo, lo sviluppo della cosiddetta lectio spiritualis, ovvero la lettura interiore, fatta solo con gli occhi, quella che noi pratichiamo normalmente. Lo sviluppo della punteggiatura migliorerà ulteriormente questa situazione.

Senza lo spazio bianco il fumetto non potrebbe esistere. Lo spazio bianco è ciò che ci permette di distinguere non le singole parole del fumetto, ma quelle unità narrativo-ritmiche che sono le vignette. In effetti, non è necessario che di uno spazio bianco si tratti. Tutto sommato, anche il puntino separava abbastanza bene le parole, però lo spazio bianco si è imposto perché mediamente più efficiente. Nel fumetto, la situazione è analoga: al posto dello spazio bianco possiamo avere uno spazio di un altro colore, o una semplice linea, o un semplice palese cambio di sfondo (come in tante pagine del secondo Eisner). Però il fatto che nella maggior parte dei fumetti il separatore sia lo spazio bianco è un forte indizio della sua maggiore efficienza media (maggiore efficienza media non vuol dire che sia sempre meglio – c’è sempre qualche caso in cui può essere migliore una scelta diversa – ma vuol dire che è la scelta migliore nella maggior parte dei casi).

Lo spazio bianco funziona bene perché è un vuoto, un’assenza, uno iato, un non-essere; lo si guarda senza vederlo, senza che l’attenzione gli si rivolga mai. Ma se lo si elimina non c’è più il racconto, non c’è più la sequenza; oppure, nella migliore delle ipotesi c’è una sequenza continua e confusa da sbrogliare come succede nell’esempio verbale in tutto maiuscolo fatto sopra. Qualcosa, insomma, che richiede uno sforzo intellettuale notevole, e che deve garantire al lettore una soddisfazione fruitiva per lo meno equivalente (una ricetta insomma dal successo poco probabile).

Questa natura neutra dello spazio bianco lo rende un buon candidato per dei raffinati giochi di senso, in cui il bianco come confine tra le immagini si mescola e confonde con il bianco di sfondo, e le figure emergono al tempo stesso dal nulla del loro sfondo spaziale e dal nulla del tempo sospeso tra un evento e l’altro (tra una vignetta e l’altra, tra un battito e l’altro del racconto).

Anche Eisner ha fatto spesso uso di questa ambivalenza del bianco, ma il maestro di questi giochi è stato sicuramente Dino Battaglia, ai cui spazi bianchi ho dedicato, nella mia vita, diverse pagine in diverse occasioni, e che non finisco mai di apprezzare.

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Aggiungo qui due brevi segnalazioni, di tema differente.

La prima, se leggete il francese, è quella di questo bellissimo post su
Science-fiction et bande dessinée : années 1960, dedicato sostanzialmente a Jean-Claude Forest e ai suoi indimenticabili Barbarella e Les Naufragés du temps (con Paul Gillon). Il post compare sul blog Phylacterium, dove gli scritti interessanti e competenti sono tutt’altro che rari.

Forest è indubbiamente uno degli autori francesi di fumetti più importanti del Novecento, e uno che mi ha fatto molte volte sognare, anche proprio con quelle stesse serie di cui si parla qui.

La seconda segnalazione è che domani 1 luglio su questo blog non appariranno post, ovvero questo blog tacerà, in adesione alla manifestazione indetta dalla Federazione Nazionale della Stampa, contro la legge bavaglio.

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Del fumetto, della sua nascita e dell’Europa del primo Novecento

Geo McManus, <i>Les jeunes mariés</i>, da <i>Nos Loisirs </i>n. 25, 1907

Geo McManus, Les jeunes mariés, da Nos Loisirs n. 25, 1907

Nel post del 29 giugno del suo bel blog, Neuf et demi, Thierry Groensteen ci presenta questa immagine, che lui trae a sua volta da uno studio di Eckart Sackmann e Harald Kien pubblicato nel volume Deutsche Comicforschung 2010. (L’immagine che Thierry ci propone è purtroppo a bassa risoluzione, per cui è inutile cercare di ingrandirla). Si tratta della versione francese di una serie americana, di Geo McManus, The Newlyweds, precedente di qualche anno alla più nota Bringing up Father.

La pagina ci viene proposta come esempio della difficoltà che all’inizio del Novecento i giornali europei hanno, e per parecchi anni continueranno ad avere, ad accettare l’idea di una narrazione fatta principalmente d’immagini. Ma l’esempio in questione è particolarmente interessante perché, a differenza di quello che accade di solito, i balloon non sono stati cancellati, e ciononostante il testo che accompagna le vignette è un testo di dialogo, fatto di battute così esplicitamente teatrali da riportare, qua e là, le stesse note che a volte portano i copioni teatrali stessi: “a parte”, “a se stesso”…

Questo ci fa intuire alcune cose su come doveva essere inteso nella vecchia Europa il nuovo fumetto che proveniva dall’America. Non una narrazione per immagini indipendente, come oramai erà già negli USA, dove la parola fa parte della scena rappresentata, bensì un set di tipo teatrale, dove la parola precede l’immagine ed è comunque più importante, come succedeva chiaramente nel teatro dell’epoca, basato sulla testualità letteraria del copione e sulla sua messa in scena. Visto in questo modo, il teatro non è poi così lontano dal racconto illustrato, con il tramite del cantastorie che racconta a voce alta mostrando le immagini.

Questo modello tutto basato sulla parola scritta è talmente forte da permettere ai lettori di Nos Loisirs di accettare anche una situazione testuale assurda come quella che vediamo qui, in cui ci sono dialoghi che accompagnano le immagini e dialoghi dentro le immagini – senza che si possa capire in che relazione stiano tra loro. È un po’ come se i dialoghi nei balloon facessero parte delle immagini stesse, cioè della parte illustrata, mentre il racconto vero scorre sotto, nelle didascalie.

Questo mi dà ulteriore ragione di pensare che qualcosa di nuovo è davvero successo in America, qualche anno prima, e che il fumetto non poteva nascere in Europa, perché questa è la fine cui sarebbe stato destinato: una versione statica del teatro, una narrazione per immagini, dove la narrazione è inevitabilmente legata alla parola. Forse Outcault e i suoi immediati contemporanei non hanno inventato molto, ma il piccolo passo che hanno fatto non sarebbe mai stato possibile nell’Europa di quegli anni (e di molti anni a venire), troppo letteraria, troppo legata alla parola e alla scrittura.

Mi viene da pensare che, paradossalmente, la fortuna del cinema è di essere nato muto, e di essere stato costretto, per questo, a nascere come arte dell’immagine in movimento, e non del racconto. Se fosse nato con la parola, è piuttosto probabile che in Europa non avrebbe avuto una sorte molto differente da quella del fumetto.

Magari l’America si sarebbe salvata lo stesso. E comunque, quando il sonoro è arrivato, per fortuna, c’era già abbastanza storia per non poter più tornare indietro.

E infine – guarda un po’ – gli anni dell’adozione del balloon in Europa sono grosso modo gli anni dell’invenzione del sonoro nel cinema. Non ci sarà un legame?

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Di una foto nel tempio di Kachabeshwarar

Vasca nel tempio di Kachabeshwarar a Kanchipuram

Vasca nel tempio di Kachabeshwarar a Kanchipuram

Anche se leggermente mossa, questa foto esercita molto fascino su di me. L’ho scattata nel tempio di Kachabeshwarar, a Kanchipuram.

Nel Tamil Nadu, tutti i templi di grandi dimensioni contengono una o più vasche: l’acqua è sacra, in India. Molte volte, però, esse non sono accessibili.

Sarà che quest’acqua in cui vediamo il riflesso dei recinti e delle cupole del tempio mi appare come una metafora del velo di Maya, che ci impedisce di vedere il mondo come è davvero; o sarà per il ribaltamento tra pietra e cielo, con quegli alberi che si intravvedono proprio in basso. Sarà per la composizione a strisce orizzontali, interrotta qua e là dagli eventi. Sarà anche per l’andamento irregolare dei gradini, speculare a quello delle cose nell’acqua.

O sarà appunto per l’evento della marginale conversazione tra quei giovani, a sua volta riflessa dall’acqua, mentre il gesto languido della ragazza che muove il piede nella freschezza della vasca crea un ponte, un tramite tra i due mondi. Sarà perché quel gesto me l’ha fatta desiderare, e qui, nella foto, lo ripete all’infinito.

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Di Dago e dei suoi misteri

Carlos Gomez, Dago

Carlos Gomez, Dago

Riprendo questo tema che ha lanciato Harry qui, e l’ha poi ripreso qui, dopo un mio commento in cui gli chiedevo di spiegarmi perché anch’io leggo così volentieri Dago. Intendiamoci, si parla delle storie contenute nel mensile Dago Ristampa (che contiene le ristampe delle storie già pubblicate sui settimanali della Eura/Aurea), scritte da Robin Wood e disegnate da Carlos Gomez – e non confondiamolo col mensile Dago, che pubblica storie nuove, scritte e disegnate da altri apposta per il mercato italiano, di qualità mediamente molto bassa, e di cui non varrebbe affatto la pena di parlare (e nemmeno di leggerlo, in verità). A vantaggio di chi si è perso quello che è uscito sin qui, dal 2008 è iniziata anche la ristampa della ristampa, a colori, nella Collezione Tuttocolore.

Il mistero è questo: Dago è un fumetto seriale. I disegni, prima di Alberto Salinas e in seguito di Carlos Gomez, sono di ottima qualità. Le storie, a giudicare dalla passione con cui io stesso e tanti altri le leggiamo, pure: ma i temi ormai si ripetono, e anche prima che all’interno della serie si ripetessero erano noti e stranoti, puri stereotipi di genere, strabordanti di un moralismo che in altre circostanze io troverei stucchevole, popolati di personaggi già conosciuti mille volte. Inoltre, se uno ha praticato un po’ il fumetto argentino, tutto questo appare ancora più vivido, e più ossessivamente ricalcato.

Insomma, la mia testa mi dice che, se devo giudicare da questo, Dago non è che un ennesimo prodotto seriale che non fa che ricalcare percorsi già pesantemente calcati da altre mille storie, roba buona per lettori poco esperti, o dal palato grezzo. Eppure, a dispetto di questo, mi ritrovo ogni tanto a domandarmi quando uscirà il prossimo numero; e poi, quando torno a casa dall’edicola dove ho fatto incetta di nuove uscite, la mia prima lettura è inevitabilmente Dago. Di conseguenza, o il mio palato fumettistico è davvero grezzo, oppure in quello che la mia testa mi dice c’è qualche errore o mancanza.

Harry suggerisce questo:

Ma osservando da un altro punto di vista la risposta è antropologica: Wood sa raccontare la vita nei suoi bisogni primari. Prima ancora che tecnico, è un successo basato sulla sensibilità artistica dello sceneggiatore. Wood mette a nudo le dinamiche primarie che muovono le esistenze. Il filtro della guerra in forma di dramma svela gli attaccamenti, il desiderio sessuale, il bisogno di affermazione, la crudeltà, la fame, la vendetta, la sacralità della vita, e così via. Di questo Wood sa raccontare alla perfezione. E ogni tassello, ogni ritorno, ogni variazione, offrono un’opportunità di comprensione. Il gioco funziona, insomma, per forza dell’occhio con cui Wood osserva e della sua forza evocativa. Doni rari.

Tutto questo è vero, ma in realtà non mi basta. Ci sono tanti fumetti che affrontano questi temi e non hanno certo la qualità di Dago. Però quello che Harry dice è ugualmente utile a circoscrivere meglio il problema: ovvero, dunque, come fa Wood a mettere a nudo così bene queste dinamiche primarie? In che cosa consiste la sua perfezione?

Voglio approfittare anche di un suggerimento che proviene da un altro lettore appassionato di Dago, cioè Umberto Eco, che nell’introduzione al convegno La linea inquieta, nel 2004, diceva:

Cito Dago come caso interessante perché in esso si manifestano tre fenomeni molto ben distinti: (i) la rivisitazione visiva sia della tradizione rinascimentale che della tradizione dei grandi illustratori moderni come Gustavino; (ii) la sapienza narratologica di Robin Wood nel realizzare una combinatoria infinita di vari topoi romanzeschi, da quelli picareschi a quelli neogotici e romantici; (iii) l’assoluta banalità stilistica del discorso verbale, che si attiene a una retorica da feuilleton ottocentesco, e senza alcuna ironia sottintesa. Aggiungerei che dal punto di vista sociologico è forse proprio questa strana commistione che giustifica il successo popolare della serie, ma ecco che si vede come un’analisi sociologica debba sovente essere preceduta da una valutazione critica molto rigorosa.

Anche qui non andiamo molto al di là di qualche intuizione, però trovo che sul fuoco ci sia già più carne. Intanto vi si osserva che non è che Salinas e Gomez siano semplicemente bravi disegnatori, ma che in questa bravura è presente una competenza iconologica che ci permette di collegare continuamente Dago a una serie disparata di tradizioni, da quella rinascimentale (epoca di ambientazione delle vicende) a quella otto-novecentesca degli illustratori (epoca in cui si forma la nostra competenza visiva di lettori).

La banalità stilistica del racconto verbale è quello che potremmo definire il basso continuo della serie: una specie di accompagnamento necessario, senza il quale non si comprenderebbero le vicende, ma che è il più banale e scontato possibile proprio perché non deve attirare l’attenzione: si legge e scorre via. L’accento è su altro.

E poi c’è la combinatoria infinita dei topoi romanzeschi, presi dalle tradizioni più diverse, che corrisponde, sul piano narrativo, alla competenza iconologica su quello visivo. È come dire che il lettore di Dago ritrova continuamente il già noto, però intrecciato in combinazioni non necessariamente note.

Di nuovo, tutto questo è vero, ma ancora non basta. Ci avvicina un po’ alla soluzione, ma non ce la dà.

E allora proverò a esplorare dentro di me, a capire quali sono le sensazioni che mi tengono avvinto a queste storie, senza escludere neanche le più banali.

Così, intanto, c’è l’ambientazione storica. La prima metà del Cinquecento è un periodo già di per sé affascinante (per me in particolare, anche prima di Dago): l’Europa è ricca, piena di artisti e di entusiasmo, ma è già scivolata in un’epoca di guerre feroci e di contrapposizioni religiose, che la stanno portando molto vicina al disastro. Da questo punto di vista la documentazione di Wood è davvero rigorosa; è ovvio che la storia di Dago è fantastica, però ogni tanto si incrocia con eventi e personaggi storici: ho fatto diversi controlli, ma non sono riuscito a cogliere Wood storicamente in fallo.

Poi, c’è la ricchezza dei temi: è vero che i temi si ripetono e che si rifanno sempre a un qualche modello noto, però sono tantissimi, e di conseguenza è multiforme la loro combinatoria. Non so se si possa dire che Wood è capace di sottigliezza psicologica: i personaggi appartengono tutti a casistiche abbastanza ben definite, di provenienza follettonistica. Però sono combinati così intelligentemente con la storia in cui agiscono che anche nel rispetto dello stereotipo appaiono credibili, convincenti, molto umani.

Poi c’è la questione del moralismo. Certo, in Dago il bene è bene e il male è male, però c’è anche un’ampia zona intermedia, e non è detto che il bene trionfi sempre pienamente. Lo stesso Dago, il protagonista, sempre pronto a battersi per cause giuste, porta nel cuore un desiderio sanguinoso di vendetta. Complessivamente i morti sono tantissimi sia dalla parte del bene che da quella del male. Lo potremmo definire un moralismo amaro, e pieno di comprensione per le debolezze della vita. Insomma, anche qui, qualcosa di sufficientemente complesso da non essere sentito come banale.

Infine, collegato a tutto questo, c’è la questione dell’epica. Per certi versi Dago è un romanzo cavalleresco popolare, fatto di schemi e stereotipi come già pure quelli del Pulci e dell’Ariosto, che erano i capolavori che erano anche a ragione di questi schemi e stereotipi.

In fin dei conti, la mia idea è che il piacere che Dago produce nella lettura sia una questione di ritmo, e di rito. Senza componenti rituali (di cui il ritmo è comunque la base) non si producono testi con qualità estetiche. Nella nostra cultura, alla componente rituale si deve associare una componente di originalità e di novità; ma non è sempre stato così. O meglio, la rilevanza della componente innovativa è diversa da epoca a epoca, da luogo a luogo, da genere a genere, da attività a attività. Nel rito vero e proprio, come quello religioso, la componente innovativa è nulla. Nelle produzioni estetiche, viceversa, è ciò che tiene vivo il nostro interesse, permettendoci di trovare piacere nel frattempo anche in quel ritorno del già noto che crea ritmo e rito. Così, il piacere delle produzioni estetiche ha due tipi di fonte: da un lato quello della scoperta (dovuto alla novità), dall’altro quello della conferma e sicurezza (dovuto al ritmo).

Credo che Wood (con Salinas e Gomez) abbia trovato una via inedita per riproporre quell’idea antica di racconto popolare di cui il poema cavalleresco è stata anche a suo tempo espressione, e che è il modello anche del mito: tutto quello che succede ci è in qualche modo già noto e i valori espressi sono i qualche modo i nostri; e tutto è rassicurante, ma non perché sia banalmente positivo, ma semplicemente perché rispecchia, anche nel male, l’idea che abbiamo della vita e del mondo.

Dago è una sorta di rassicurante liturgia, che si legge volentieri perché non mette in questione nulla, fondamentalmente, però ci porta alla mente tante cose diverse. È, in questo senso, una telenovela d’alto bordo, dai contenuti tutt’altro che banali. Non dobbiamo aspettarcene nessuna proposta particolarmente originale, perché Wood è sempre attento a tenersi eticamente e psicologicamente sul generico – e la distanza storica aiuta. Ma il suo gioco è comunque affascinante e confortante.

Tutto questo forse non svela del tutto il mistero di Dago, però qualche passo avanti mi sembra di averlo fatto.

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Delle visioni di Jim Woodring

Jim Woodring, Weathercraft, pp. 24-25

Jim Woodring, Weathercraft, pp. 24-25

Jim Woodring è un figlio deviato dell’underground americano. Deviato come tutti i figli di valore. Ma la sua deviazione rimane comunque molto underground. All’inizio della scarna autobiografia contenuta nel suo sito, sostiene che da bambino aveva allucinazioni. In seguito ha fatto di questo problema la propria fortuna. Certo, se questo è vero, essere stato adolescente negli anni Sessanta deve averlo aiutato molto nella sua presa di coscienza, quando allucinazione e psichedelia erano un obiettivo, mentre lui le aveva come punto di partenza.

Jim Woodring, Weathercraft

Jim Woodring, Weathercraft

Jim è stata la sua rivista a partire dal 1980, ed era sua in tutti i sensi – almeno sino a quando, qualche anno dopo, la Fantagraphics non ha deciso di finanziarne la pubblicazione e distribuzione. Weathercraft è invece il titolo comune sotto cui, da qualche anno, Woodring raccoglie una serie di storie allucinate. Proprio con questo titolo, dunque, Coconino Press ha appena pubblicato un volume che ne contiene una lunga: l’incubo di un uomo-maiale in un mondo di creature ancora più strane di lui.

È una storia assurda e intrigante, una sorta di viaggio, nel senso psichedelico del termine. Si potrebbe sostenere che non ha né capo né coda, ma tra questi estremi mancanti si stende un mondo pieno di fascino sinistro. Proprio per questo fascino, e perché lascia il segno sul lettore, mi è venuto voglia di segnalarlo qui.

Giusto a titolo di confronto, e forse perché Woodring, in fin dei conti, come fumettista è anche migliore, metto qui in fondo due immagini allucinate di Robert Williams, realizzate quando Woodring aveva circa 18 anni. Indubbiamente, tra l’altro, Robert Williams è uno dei disegnatori che più hanno avuto influsso sul giovane Andrea Pazienza. Guardatele da vicino!

Robert Williams, Coochy Cooty Men, 1970

Robert Williams, Coochy Cooty Men, 1970

Robert Williams, Coochy Cooty Men, 1970

Robert Williams, Coochy Cooty Men, 1970

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Dell’arte, del rito e del fare

Già molti decenni fa (ma io l’ho imparato solo in questi giorni, leggendo il suo Come interpretare un’opera d’arte, Milano Rusconi 1977) Ananda K. Coomaraswamy faceva osservare che la parola arte, tradizionalmente, nelle culture europee, non fa riferimento a oggetti o a una categoria di oggetti (le opere d’arte), bensì a un modo di operare. Per capire cosa questo voglia dire basta far caso al fatto che quest’uso della parola arte è ancora ben presente nell’italiano di oggi, quando si dice, per esempio, che qualcosa è fatto ad arte, o che qualcuno lavora con arte. Come è ovvio, pure la parola artigiano deriva da arte, intesa in questo senso; mentre la parola artista sembra che indicasse, in origine, semplicemente qualcuno che eccelleva nella propria arte (ovvero abilità costruttiva), qualunque essa fosse.

Coomaraswamy fa anche notare che anche il fatto di considerare le arti come oggetto di un’estetica è un’invenzione occidentale e recente. La parola estetica deriva da aisthesis, ovvero sensazione, e che la riflessione sull’arte abbia nome estetica tradisce l’idea di base che il campo dell’arte sia quello della sensazione, nello specifico quello della sensazione piacevole. L’invenzione dell’estetica avrebbe dunque deviato verso il campo della sensazione quello che prima apparteneva al campo della conoscenza.

Credo (io, non Coomaraswamy) che questa deviazione sia parallela allo sviluppo di un’idea di conoscenza razionale esclusiva, che sfocia ai primi del Seicento nella concezione cartesiana della scienza. Dove la conoscenza debba essere fatta di idee chiare e distinte non c’è più posto per una conoscenza tradizionale su base rituale, con una forte componente religiosa. Progressivamente (perché queste cose richiedono secoli, e né Cartesio si è inventato tutto da un giorno all’altro, né dal giorno dopo l’enunciazione delle sue idee il pensiero occidentale è cambiato di colpo) una serie di cose che prima erano sentite come centrali per la vita e la conoscenza del mondo vengono relegate a un ruolo più marginale. Nella misura, poi, in cui esse sono anche legate al culto religioso, secondo il nuovo criterio illuminista finiscono per ritrovarsi nel campo della superstizione.

La parola estetica, usata in senso moderno, è settecentesca; ma l’idea dell’arte come qualcosa che riguarda la sensibilità piuttosto che la conoscenza la precede. Potremmo dire che l’invenzione dell’estetica come tale, nel Settecento, è il tentativo illuminista di dare un posto decoroso all’arte all’interno di un sistema cognitivo che la lascia fuori. Alla fine di questa lunga trasformazione, siamo passati da un sistema in cui la pittura, la scultura, l’architettura e la musica erano modalità rituali (o collegate a situazioni rituali) di conoscenza del mondo, a un altro sistema in cui queste medesime attività sono diventate testimonianza dell’espressione dell’io, e al tempo stesso manifestazioni del sublime – con questa particolare e interessante coincidenza di due estremi, entrambi tenuti ai margini di un mondo sempre più dominato da una conoscenza di tipo razionalistico e dalla sua applicazione attraverso una tecnica che per sua natura esclude l’arte, cioè l’abilità manuale.

Dobbiamo a William Morris e alla sua utopia neoumanistica della seconda metà dell’Ottocento l’idea del design industriale, ovvero l’idea che l’arte (intesa come cura della qualità) possa essere applicata anche ai prodotti della tecnologia. E gli dobbiamo, in qualche modo, anche l’idea del graphic design, ovvero l’idea che pure i prodotti della comunicazione possano essere progettati con cura e con arte.

Ma Morris non poteva cambiare, evidentemente, le regole di fondo. In una società deritualizzata, o in cui i nuovi riti sono effimeri e sempre collegati a una razionalità produttiva, le nuove arti (in senso antico) inventate da lui non possono ricoprire lo stesso ruolo che avevano nel mondo fortemente ritualizzato al cui interno si erano sviluppate. Benché sia figlio della cura dell’artista medievale (ovvero colui che eccelleva nella sua arte), e sia in questo senso ciò che davvero potrebbe legittimamente essere definito arte, il design non può godere della stessa considerazione sociale di cui godeva nel medioevo l’arte: gli manca quel legame con il sacro che allora era parte di qualsiasi opera, di qualsiasi operazione, anche quotidiana.

Nella nostra cultura, quel legame è diventato appannaggio dell’Arte (con la A maiuscola, cioè nel senso corrente dell’espressione), la quale, però, ha dovuto separarsi in maniera radicale dalla tecnica, dalla produzione di buoni oggetti d’uso, e relegarsi nel campo di un tipo particolare di comunicazione, quella espressiva – cercando di ricostruire, solo con i propri mezzi, delle situazioni rituali a cui la società concede diritto di esistere a patto che non riguardino il campo del sapere, e si limitino a quello del bello, dell’aisthesis, della sensazione. L’Arte finisce per diventare, in questo modo, solo una forma più complessa (magari più colta) di intrattenimento – e il sacro stesso finisce per essere oggetto di aisthesis.

Dobbiamo avere nostalgia per come era prima, o per come sarebbe altrove? Non so. Non so quanto prima fosse meglio. Non mi interessa seguire Coomaraswamy in questo. Non credo che sia questo il punto. Quello che è importante, piuttosto, è capire bene quanto fossero diverse prima le cose, e che il senso in cui Giotto era un artista era molto diverso dal senso in cui lo definiremmo tale oggi. Giotto era (di gran lunga) il più bravo a esprimere visivamente quello che la collettività sentiva; a raccontare per immagini quello che tutti sapevano e intorno a cui tutti si raccoglievano.

Non esiste niente di simile a questo, oggi. I presupposti sono cambiati. Il nostro stesso sentire e il nostro stesso conoscere sono differenti.

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Di una foto a nord di Pondicherry

Su una spiaggia a nord di Pondicherry

Su una spiaggia a nord di Pondicherry

Di questa foto, presa appena a nord di Pondicherry, mi piace quel fazzoletto arancione agitato dal vento, che sembra un po’ un’onda come quelle che gli si intuiscono dietro. Lo vedo ancora svolazzare nell’aria calda, col frastuono dell’oceano attorno.

E poi c’è quella conversazione con gli occhi tra i bambini, la mamma e il venditore di noci di cocco, una primitiva prelibatezza, dissetanti e dolci.

E ci sono, qui, le strisce di colore che compongono la superficie della foto, di colori caldi quelle relative al mondo dell’uomo, di colori freddi quelle dell’altrove, mare o cielo che sia. Però è azzurro anche il legno del carretto, dello stesso colore del mare, appena un po’ più vivo. E poi c’è il verde, unico nell’immagine, delle noci da cocco.

Mentre scattavo questa foto avevo in mente una figura, quella di un dipinto di Giovanni Fattori, che riporto qui sotto. In realtà è molto diverso da come lo ricordavo in quel momento, ma alcune analogie ci sono veramente. E ce ne sono abbastanza per far risaltare, invece, le differenze: da un lato un’Europa elegante e compassata, col mare gentile e la tettoia un po’ leziosa, dall’altro un’India calda e inesorabilmente popolare, col mare sempre tumultuante, e la gente che sorride.

In mezzo io, che non riesco a vedere l’una se non attraverso il filtro dell’altra, che è la mia, inesorabilmente, nonostante tutto il fascino della prima.

Giovanni Fattori, La rotonda di Palmieri, 1866

Giovanni Fattori, La rotonda di Palmieri, 1866

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Del battito (poetico) del fumetto

Nell’intervista che mi ha fatto Fabio Sera per Flashfumetto a proposito del mio libro Il pensiero disegnato, mi viene domandato di parlare del concetto di battito-vignetta-evento che è oggetto di alcune pagine dell’Introduzione. Vedo poi che House of mystery cita proprio quel medesimo spezzone dell’intervista; e io stesso presentando il mio libro su questo blog qualche mese fa avevo riportato parte di quelle medesime pagine dell’Introduzione. Mi sembra di capire che il tema interessa; e so per certo che interessa me; e anzi lo trovo centrale per capire che cosa sia specifico del linguaggio del fumetto.

Sarà perché la poesia è un altro dei miei interessi specifici, ma io qui ci vedo un nesso non banale. Purtroppo, la deriva degli ultimi secoli (e in particolare a causa del Romanticismo) ha fatto sì che quando si dicono le parole poesia e poetico, la mente corra subito all’universo rarefatto della lirica, sicché diventa del tutto lecito parlare anche di poesia in prosa o poesia visiva… Tutte cose interessanti e apprezzabili, di cui ho avuto anche occasione di parlare in altri post. Ma non è quello che mi interessa qui. Piuttosto, in una visione tradizionale e per nulla tramontata, la poesia è quella forma di scrittura in cui si va a capo a fine di ogni verso, contrapposta alla prosa, dove i versi non ci sono, e si va a capo solo quando finisce lo spazio della pagina o quando termina il capoverso. Si tratta di una contrapposizione tagliata con l’accetta – è evidente – però è quella che mi serve qui, e anche se non esaurisce la differenza tra poesia e prosa, è sufficiente da sola a spiegare tutta una serie di diversità.

Intanto, questo andare a capo arbitrario, proprio perché arbitrario, è necessariamente significativo, e, dal punto di vista della scansione della lettura, crea una pausa, o comunque una cesura. I cattivi attori ignorano questa cesura quando recitano poesia, riducendo la poesia a prosa: lo fanno perché non ne capiscono il senso.

Il verso è la versione stilizzata del respiro. Non che, leggendo poesia ad alta voce, si debba per forza respirare a fine verso, però possiamo ipotizzare che, quando la poesia era improvvisata dagli aedi ed esisteva solo come forma orale, fosse davvero così. Di fatto è così anche oggi nelle improvvisazioni in ottava rima dei poeti da braccio della Maremma. E il respiro è a sua volta modulato al suo interno dall’andamento metrico e ritmico del verso, in una (relativa) uniformità che avvicina la poesia al canto (e una volta davvero non erano cose distinte) e accresce la memorizzabilità.

Nella poesia più recente, il verso resta spesso solo un respiro stilizzato. Ma anche se non coincide necessariamente con il ritmo del fiato del lettore ad alta voce, influisce lo stesso; e i versi corti producono un effetto un po’ ansimante che si contrappone a quello disteso dei versi lunghi. Scrivere poesia in versi liberi significa anche saper calibrare questa portata variabile del respiro.

Osserviamo che la lingua possiede anche un’altra e più frequente forma di respiro stilizzato, che è quella espressa attraverso la punteggiatura. Si tratta però, ormai, di una stilizzazione ancora più antica e catacresizzata – per cui è ormai da secoli normale che si usino i punti e le virgole per sostenere più il senso del discorso che la voce. In poesia, comunque, due sistemi di respirazione stilizzati si confrontano e convivono, e la poesia (nel senso in cui ne stiamo parlando qui) è l’effetto di questa dialettica.

Sergio Toppi, Sharaz-de

Sergio Toppi, Sharaz-de

Nel senso in cui ne stiamo parlando qui, dunque, il fumetto assomiglia molto alla poesia. Il battito-vignetta-evento è qualcosa che ricorda il verso, con l’inevitabile cesura che lo separa dal successivo e il suo carattere comunque unitario, pur all’interno della sequenza di cui fa parte. La scelta della complessità visiva della vignetta (che determina la velocità con cui sarà letta) è relativamente indipendente da ciò che essa racconta; così come anche la scelta della dimensione dell’evento è indipendente dalla storia raccontata. Come accenno anche nell’intervista di Flashfumetto, gli eventi-vignetta di Toppi sono ben diversi da quelli di Koike e Kojima, o anche da quelli del Dark Knight di Miller (che tanto ha imparato dagli autori di Kozure Okami). Quello che cambia è il respiro (qui anche nel senso metaforico in cui si parla di respiro narrativo): le storie di Toppi sembrano viste da una lontananza infinita, che dà loro un respiro epico; quelle di Miller o di Koike e Kojima sono viste invece da molto, molto vicino, con un effetto di compartecipazione emotiva inevitabilmente molto forte.

Kazuo Koike, Goseki Kojima, Kozure Okami (Lone Wolf and Cub)

Kazuo Koike, Goseki Kojima, Kozure Okami (Lone Wolf and Cub)

Frank Miller, The Dark Knight Returns

Frank Miller, The Dark Knight Returns


Il respiro del lettore di Dark Knight è un respiro rapido e affannato, che costruisce nel lettore direttamente (con il respiro stesso) quella medesima situazione emotiva che si sta intanto raccontando. Le pagine di Toppi hanno invece il respiro del canto epico, del mito, di quello che è lontano ma anche profondo, e profondamente innestato in noi.

Il modo di raccontare non dipende da quello che si racconta; però produce effetti molto differenti sul racconto stesso, anche a parità di racconto. Il racconto in sé ha i suoi momenti e i suoi eventi propri. In sé, essi non coincidono con i battiti-vignette-eventi del fumetto, proprio come l’articolazione del discorso creata dalla punteggiatura non coincide con quella procurata dalla divisione in versi e dal loro ritmo interno. O meglio: in qualche caso le due articolazioni possono coincidere del tutto, in qualche caso possono essere più o meno convergenti o divergenti, in altri casi sono del tutto diverse. La modulazione di questo rapporto è uno strumento fortissimo che sia il poeta che il fumettista hanno a propria disposizione per costruire il proprio discorso complessivo, e l’emozione di chi legge.

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Di un’altra foto a Tiruchirapalli

Contatti elettrici a Tiruchirapalli

Contatti elettrici a Tiruchirapalli

Questa foto dal contenuto complicato è stata scattata la sera successiva alla foto contenuta nel post del 5 giugno, dalla medesima terrazza (in attesa di ripetere l’esperienza gastronomica della sera prima), ma da un tavolo diverso, giusto un paio di metri dal precedente. Nonostante la sovraesposizione, si può distinguere, nell’angolo della foto in basso a destra, la bancarella della foto precedente. Alle sue spalle c’è la grande cisterna buia; davanti e attorno le vie illuminate e affollate.

Tutta quella luce ha ovviamente un’alimentazione elettrica. E non potevo dunque non fotografare questo totem dell’improvvisazione elettrotecnica che si trovava proprio di fronte a me!

Questo oggetto ha davvero qualcosa di straordinario – ma solo per noi: in India, a quanto o potuto osservare poi, è un fenomeno diffuso e normale.

Nonostante la sovraesposizione e la confusione, questa foto a me piace, e non solo per la paradossalità del suo oggetto. Il fatto è che quando si riesce a dipanare la massa degli stimoli visivi, e a separare visivamente il mostro in primo piano dallo sfondo, vi appare una vita ricca e vivace, insieme a un grande spazio di silenzio e di oscurità. La complessità inestricabile della rete dei contatti elettrici che si vede qui, e ci fa sorridere, corrisponde a una complessità inestricabile della cultura indiana, i cui collegamenti sono spesso imprevedibili – e ci danno l’idea di un garbuglio senza né capo né coda.

E invece, incredibilmente, la cosa funziona, esattamente come questo impianto elettrico. Chissà: magari a un occhio indiano potrebbe apparire semplicissimo, immediatamente evidente nella sua banale ovvietà!

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Di una foto a Tiruchirapalli

Bancarella a Tiruchirapalli

Bancarella a Tiruchirapalli

Ho scattato questa foto a Tiruchirapalli (anche detta Trichy) nel Tamil Nadu, di notte, dalla terrazza del ristorante dove stavamo aspettando la cena. È una foto che a me piace molto, non solo per l’ordine maniacale con cui i commercianti indiani dispongono la frutta, che contrasta singolarmente con il disordine che regna tutt’attorno; non solo per i colori brillantissimi, a grandi macchie, e per lo spazio irrisorio in cui il fruttivendolo si trova costretto ad agire.

E poco importa anche che alle spalle della bancarella si stenda un enorme spazio buio: una grande cisterna, praticamente un piccolo lago quadrato nel bel mezzo della città. Davanti, viceversa, c’è luce e vita, e un sacco di gente che passa e si ferma a far compere.

Qui, in quello che si vede nella foto, il rettangolo della bancarella illuminata si staglia sul rettangolo più grande e oscuro intorno, ripreso, in piccolo, dalla macchia nera dell’uva proprio al centro. E poi, qui, sono tutte macchie rettangolari, cesto di frutta accanto a ogni cesto di frutta, compreso il corpo del fruttivendolo in alto. Rettangoli irregolari, molto creativi evidentemente, però ugualmente mattoni per assemblare questa composizione un po’ funzionalista.

E così mi viene in mente che l’India è in verità un paese di grandi matematici, che i nostri numeri sono stati inventati lì, e che al giorno d’oggi vi si scrive anche la maggior parte del software che si produce al mondo. A camminare per le strade magari non si direbbe; ma poi quell’anima nascosta e astratta si rivela, a livello popolare, anche nel razionalismo maniacale dei fruttivendoli, e nei contrasti geometrici tra rettangoli di luce e quadrati d’ombra.

La cena, comunque, qualche minuto dopo è stata buonissima.

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Del pennello di Raymond e della resa a stampa

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio. Edizione Comic Art 1992

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio. Edizione Comic Art 1992

Ecco di nuovo il nostro Maciullatore, questa volta dalla striscia di Rip Kirby del 2 novembre 1946. Siamo nell’ultima striscia di una storia. Il nostro villain, dato poco prima per morto, riemerge dall’acqua e viene salvato da una nave con destinazione Sudafrica, buono per la prossima riapparizione, ma per il momento fuori gioco.

Ho scansionato questo dettaglio dall’edizione da edicola realizzata da Comic Art, pubblicata nel 1992. La potrei trovare anche una bella immagine, magari un po’ scura, se non avessi sotto mano il confronto con l’originale, che potete vedere qui sotto, alla fine del post – scansionato dalla tavola di Alex Raymond conservata presso il Fondo Gregotti. (Ho giocato un po’ di luminosità e contrasto con Photoshop, giusto per rendere bianco il fondo, e per scurire appena quei neri che nell’originale non sono pieni ma nella stampa lo diventerebbero: insomma, in modo da simulare l’effetto di una resa a stampa di buona qualità)

Non vi pare che la differenza sia impressionante? Confrontate gli occhi, o il naso, e il modo in cui – per esempio, le piccole ombreggiature tratteggiate dell’originale diventano una linea spessa di nero nella copia. L’edizione Comic Art è anche leggermente deformata: a parità di altezza, è un poco più stretta. Ma questo sarebbe davvero un peccato veniale, al confronto dello scempio a cui risultano sottoposte le pennellate affilate e intensamente modulate di Raymond, che finiscono per trasformarsi in un blob di melassa d’inchiostro, dove tutte le estremità sono arrotondate, e dove tutte le linee sottili diventano spesse, non di rado fondendosi con quelle vicine.

Come accade? Non è difficile capirlo: si usa una fotocopia della fotocopia di una fotocopia. Spesso con i fumetti storici non ci sono molte alternative; e per un’edizione a basso costo le alternative, anche quando ci sono, non sono economicamente percorribili.

La cosa che stupisce è che Rip Kirby resta molto godibile persino in queste condizioni di stampa; segno che la qualità del disegno non è fatta solo di finezze, ma anche di costruzione plastica complessiva – e quella, nonostante tutto, rimane. Però sarebbe come se, nel leggere un romanzo tradotto da un’altra lingua, l’editore italiano avesse tolto tutti gli aggettivi e tutte le descrizioni di contorno, lasciando solo quello che è essenziale per capire ambientazione e trama. Magari si legge lo stesso. Magari lo si apprezza lo stesso. Però si ignora davvero tutto quello che è andato perduto, e quanto più gratificante sarebbe stato leggerlo nella versione completa!

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio dall'originale

Alex Raymond, Rip Kirby 02-11-1946, dettaglio dall'originale

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Di Alex Raymond e del suo pennello

Alex Raymond, Rip Kirby, 3 maggio 1956

Alex Raymond, Rip Kirby, 3 maggio 1956

Quello che vedete qui a fianco è un dettaglio della striscia del 3 maggio 1956 di Rip Kirby, disegnata da Alex Raymond. Il personaggio raffigurato è the Mangler, o il Maciullatore, un sinistro villain ricorrente nella serie. L’immagine è stata scansionata direttamente dall’originale dell’autore, conservato presso il Fondo Gregotti.

Non è stato Raymond a introdurre l’uso del pennello tra i disegnatori americani di fumetti. L’onore va a Noel Sickles, compagno di viaggio e di lavoro di Milton Caniff. Sickles abbandona l’universo del fumetto nel 1936, subito prima che lo stile grafico adottato da lui e Caniff faccia epoca, per diventare lo stile con cui vanno disegnati i fumetti d’avventura in America. Ma nessuno, nemmeno Caniff stesso, o Will Eisner, è arrivato alla padronanza che Raymond ci mostra con questo strumento negli anni di Rip Kirby, e in particolare in questa immagine.

Certo, non è necessariamente tutto opera del pennello, quello che stiamo vedendo. Molti tratti sottili, specie nella zona del viso, potrebbero essere stati tracciati con un pennino – che meglio si presta a ottenere certe spigolosità dinamiche, che caratterizzano tutto il disegno di Rip Kirby (esattamente al contrario di quello che succedeva qualche anno prima con Flash Gordon). Ma poi, anche parecchi tratti sottili da pennino sono stati rafforzati col pennello, per dare più incisività alle ombre – come nella linea del profilo, che dal sopracciglio destro scende al naso e alla bocca.

E comunque, l’effetto drammatico di questa costruzione monumentale, enfatizzata dall’inquadratura con il punto di vista ribassato, è tutto giocato sulle grandi pennellate nere dell’abito e della manica, che creano l’effetto di luce radente, il quale a sua volta permette di vedere il personaggio come colto da una luce violenta e improvvisa mentre emerge dall’ombra.

Il lettore affezionato di Rip Kirby è in grado di riconoscere immediatamente questa figura sinistra, che è stata al centro già di altre avventure del nostro protagonista, e che – ovviamente – era dato per morto. A dire il vero, questa immagine procura un brivido anche se non sappiamo chi è il personaggio rappresentato; tanto più lo farà dunque, quando lo sappiamo.

Ci sono due punti di forza, in questa figura. Uno è ovviamente il viso, che si vede. L’altro è la mano, nascosta nella tasca, ma messa fortemente in evidenza dal gesto, a sua volta sottolineato dalle pennellate delle pieghe della manica. La tasca nasconde probabilmente qualcosa, magari un’arma, o forse solo una mano capace di colpire. Se seguiamo il percorso della manica, vediamo che c’è una linea con tendenza ovale accennata dalla spalla in alto alla tasca in basso. E, conversamente, se da lì risaliamo tenendoci un po’ più a sinistra, un secondo arco conduce alla zona del bavero e quindi al viso. L’attenzione viene in questo modo portata alternativamente dall’uno all’altro dei due luoghi nodali, attraverso due percorsi, uno, discendente, dalla luminosità al buio; l’altro, ascendente, attraverso il buio sino alla luce del bavero e del viso.

Al centro di quel viso, il Maciullatore sta guardando noi, più in basso di lui. Proprio come nella scena madre di un film hollywoodiano, come in un Terzo uomo decisamente più cattivo dell’originale.

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Di un nudo di Weston

Edward Weston, Nudo, 1934

Edward Weston, Nudo, 1934

Ci sono diversi modi per guardare questa foto di Edward Weston, scattata nel 1934. Si può osservare la composizione, non dissimile da quella di molta pittura astratta che si poteva vedere in quegli anni – quasi un Mondrian curvilineo, o un Malevich con più chiaroscuro. Si può vedere una singolare architettura naturale, una sorta di corta grotta di sasso liscio, con le sue ombre e qualche accenno di passaggio verso il buio delle sue cavità. O si può, ovviamente, vedere un corpo nudo femminile, colto, così da vicino, in un’intimità conturbante, quasi odorosa di pelle.

Ma se si vedono tutte queste cose, poi, non è più possibile separarle. Certo, come nell’esempio classico del coniglio-anatra della psicologia della Gestalt (o di Wittgenstein, a seconda di dove l’abbiamo incrociato), non possiamo vedere le diverse cose contemporaneamente: nello stesso istante, o si vede la pelle o si vede il sasso o emerge la composizione astratta. Tuttavia, se possiamo passare dall’uno all’altro – ed è così che facciamo – è perché queste diverse forme sono tutte contemporaneamente presenti alla nostra consapevolezza. E questo è insieme, per noi, un corpo un po’ conturbante di donna e un gruppo di sassi vicino al mare e una composizione suprematista o funzionalista.

D’altra parte, non solo la bellezza artistica, ma anche l’eros funziona così: qualcosa ci attrae perché è insieme se stesso e qualcos’altro, e produce l’improvvisa sensazione, in noi, di poter avere insieme il corpo e il mito, il piacere e il mondo. Sarà un’illusione, non c’è dubbio. Ma allora la realtà, cos’è?

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Di una foto presso Tiruvannamalai

Pianura a Tiruvannamalai

Pianura a Tiruvannamalai, dalla collina di Arunachala

Non sono in grado di esprimere davvero un giudizio su questa immagine, presa dalla cima della collina rocciosa di Arunachala, la “collina dell’alba”, presso Tiruvannamalai, nel Tamil Nadu. Io la trovo bella, ma capisco benissimo che il mio giudizio possa essere ancora fortemente segnato dall’esperienza vissuta in quell’occasione.

Sono circa le nove di mattina. Sulla cima di Arunachala c’è una brezza piacevolissima. Ma sino a pochi minuti prima stavamo arrancando da oltre due ore nel caldo-umido dell’India del Sud, colmando quasi ottocento metri di dislivello dalla pianura sottostante, avvolta in una leggera bruma.

Tiruvannamalai, la città che si stende dall’altro lato della montagna, è un luogo sacro a Shiva (che in Tamil Nadu ha anche nome, appunto, Annamalai), e vuole il mito che la montagna stessa sia non solo un’incarnazione del dio, ma addirittura la prima di tutti i tempi. Per questo, una volta l’anno, si svolge qui un festival a cui accorre oltre un milione di persone, e questa cima di roccia a cui siamo arrivati è interamente annerita dal burro fuso dell’enorme falò che vi viene acceso l’ultima notte – per essere visto da chilometri attorno.

Camminare sopra Arunachala vuol dire camminare dunque sopra il dio Shiva, e per quanto si possa essere lontani dalla religione, la cosa trasmette comunque un certo brivido – anche perché la visione della città sottostante, con il suo tempio enorme – tra i più grandi dell’India – è veramente impressionante.

Paul Klee - Strada principale e strade secondarie, 1929

Paul Klee - Strada principale e strade secondarie, 1929

Ma quando si arriva in cima, e si vede finalmente dall’altra parte, il panorama cambia del tutto, e il mio occhio di Occidentale acculturato non può fare a meno di vedere quello che Paul Klee ha a suo tempo visto magari solo con gli occhi dell’immaginazione.

Per me l’impatto è stato fortissimo, e non riesco più a capire quanto questa foto lo renda, e quanto la parentela con il sogno di Klee ne salti fuori.

Se aggiungiamo che questo stesso dipinto di Klee è anche protagonista di un libro di Pierre Boulez sui rapporti tra Klee e la musica (Il paese fertile. Paul Klee e la musica, Leonardo Editore, Milano 1989) si capirà come il cortocircuito si faccia ancora più stretto e più ricco.

Misticismo e sublime hanno strane vie, talvolta, per manifestarsi.

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Di Dino Buzzati e Guy Peellaert

Buzzati Poema a fumetti pag.174

Dino Buzzati "Poema a fumetti" pag.174

In un bel post del suo bel blog, Thierry Groensteen celebra Guy Peellaert, autore, nel 1966 e 1968 di due albi che appartengono alla storia del fumetto della migliore qualità, gli unici che abbiano davvero portato nel fumetto l’universo dell’immagine psichedelica.

Guy Peellaert "Jodelle" p.34

Guy Peellaert "Jodelle" p.34

Alla fine del post Groensteen scrive:

Si può rimpiangere che questo stile sia rimasto senza un vero seguito. Dino Buzzati ne trae ispirazione per il suo Poema a fumetti. In Spagna, Eric Sió tenta una sintesi tra pop e realismo fotografico. Touïs (Le Sergent Laterreur) inventa il cartoon psichedelico. Al di là di questi sforzi sparsi, nulla o quasi. Il solo erede lontano di Peellaert al quale io riesca a pensare è Alex Varenne, in alcune delle sue composizioni erotiche.

Adesso che Groensteen l’ha detto, mi domando come ho fatto a non vederlo prima. Peellaert pubblica Jodelle nel 1966 e Pravda nel 1968; Buzzati lavora al Poema a fumetti nel 1968 per pubblicarlo poi nel 1969. Aveva certamente visto Jodelle, e probabilmente anche Pravda.

Dino Buzzati "Poema a fumetti" pagg. 74-75

Dino Buzzati "Poema a fumetti" pagg. 74-75

Sicuramente, quello stile fatto di linee semplici e forti e di forti contrasti era già congeniale a Buzzati ancora prima di incrociare Peellaert, come si può vedere dai suoi dipinti; ma non c’è solo quello a tradire l’ispirazione peellaertiana. L’erotismo ostentato e parodiato dei fumetti di Peellaert viene fuori tutto nel Poema a fumetti, in chiave più melanconica e meno dirompente – ma con la stessa carica provocatoria per la cultura bigotta di quegli anni.

Certo Buzzati non aveva la mano di Peellaert, e il suo viaggio nel fumetto era più da appassionato che da professionista. La sua ispirazione era più classica, indubbiamente. Ma Buzzati ci vedeva bene, e capiva dove prendere quello che gli serviva facendone l’uso migliore per i propri scopi.

Non voglio fare altri commenti. Penso che le immagini bastino.

Guy Peellaert "Pravda" pp.28-29

Guy Peellaert "Pravda" pp.28-29

Dino Buzzati "Poema a fumetti" pagg. 210-211

Dino Buzzati "Poema a fumetti" pagg. 210-211

Guy Peellaert "Jodelle" pag.44

Guy Peellaert "Jodelle" pag.44

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Di Mattotti, Andersen e la letteratura per l’infanzia

Mattotti Hänsel e Gretel

Lorenzo Mattotti, illustrazione da "Hänsel e Gretel", Orecchio Acerbo 2009

C’è qualcosa di ironico nel fatto che il premio Andersen di quest’anno sia andato a una fiaba di Jacob e Wilhelm Grimm illustrata da Lorenzo Mattotti. Da un lato, è evidente una certa coerenza nel fatto che un premio intitolato a un autore di fiabe sia andata all’edizione di una fiaba scritta da altri autori di fiabe. Dall’altro, bene ha fatto la giuria del premio a giustificare la propria scelta iniziando con le parole: “Per essere un libro illustrato veramente ‘per tutti’”.

Il premio Andersen è infatti il principale premio italiano per il libro per ragazzi, ma né Andersen né i Grimm né tantomeno Mattotti sono mai stati davvero degli autori per ragazzi. Mi colpisce questo fatto, proprio mentre, riguardandomi il volume illustrato da Mattotti, penso che il premio l’ha davvero meritato – e che va benissimo che il premio sia intitolato ad Andersen, mentre insieme faccio fatica a vederci un prodotto per l’infanzia. “Per tutti” va bene; ma il problema è che andrebbe altrettanto bene per il medesimo Andersen e per i fratelli Grimm, che operavano raccogliendo fiabe e favole avendo in mente un recupero della letteratura popolare come espressione di un’epica, di un mito – con forti caratteristiche nazionali.

Possiamo giustamente lasciar perdere l’aspetto nazionale, e le sue conseguenze nazionalistiche, poiché le fiabe hanno valore indipendentemente da quello. Ma l’epica e il mito sono basilari, e mi conducono a loro volta a un’altra domanda: come mai un’altra epica e un altro mito, quelli greci antichi, non sono mai stati toccati dalla riduzione all’infanzia che ha toccato le fiabe? E non vale rispondere: ma come! si vede che le fiabe sono per ragazzi e i miti greci no! Ma si vede perché questo è ciò che ci hanno insegnato, e siamo cresciuto pensando che questa sia la norma.

Non vale nemmeno la risposta: perché i miti greci hanno Omero, e le fiabe no. Solo alcuni miti greci, di fatto, hanno Omero. Per tanti altri non c’è stato nemmeno un Andersen.

Piuttosto, riflettiamo sul modo in cui i miti greci e le fiabe sono arrivati all’universo della cultura “alta”: da un lato c’è un recupero che è stato cólto fin da sempre, e da sempre legato al fascino degli antichi; dall’altro c’è la scoperta, in secoli recenti, dell’esistenza di una cultura popolare, e il tentativo della sua riabilitazione. Ma questo tentativo, evidentemente, si è scontrato con qualcosa, con un qualche pregiudizio troppo forte da sradicare, e così la letteratura popolare non è stata considerata epos, o mito, ma è stata assimilata alla letteratura per bambini, utilizzando un’equazione implicita del tipo popolare=immaturo.

Al fumetto, guarda caso, nel suo arrivare in Europa, è successa la stessa cosa. Solo in America poteva nascere davvero una forma di letteratura popolare che non venisse immediatamente assimilata alla letteratura per l’infanzia! E questo poteva succedere proprio perché la tradizione cólta americana era ovviamente più debole, meno paludata, più disposta a differenziarsi da quella della madre Europa.

Un secolo è passato da allora, e molte cose sono cambiate. Ma al fondo il pregiudizio rimane, e Mattotti resta, per la cultura “alta”, un autore per l’infanzia, o comunque destinato a un consumo in qualche modo “immaturo”. Il problema non riguarda dunque esclusivamente il fumetto: i pregiudizi nei confronti del fumetto non sono che una delle applicazioni nei confronti di tutto quello che ha radici popolari più prossime – indipendentemente da quanto maturo, raffinato, colto, complesso sia oggi.

A saper guardare le figure di Mattotti sul racconto di Grimm, ci si accorge facilmente di quanto più “alta” sia in realtà questa cultura di quella di tanta letteratura verbale osannata dai giornali e dai media, e che riempie i dibattiti culturali dei nostri giorni.

Ci sono delle eccezioni, ed è interessante valutarle: non è successa la medesima cosa per la musica, per esempio. Perché?

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Del fumetto, delle immagini, del racconto e del jazz

In almeno un post precedente ho introdotto il tema delle immagini finalizzate al racconto. Ma quella volta poi il discorso si spostò, grazie alla polemica con Stefanelli, sul tema dell’origine del fumetto. Voglio tornarci sopra ora, per vedere le cose da un altro punto di vista.

Riprendo da alcune parole scritte allora:

La narrazione per immagini è sempre esistita, sin da quando si dipingevano i bisonti sulle pareti della grotta di Altamira, per farne presumibilmente gli attori di una storia raccontata a voce nel corso di una cerimonia rituale. Con l’avvento della scrittura e l’abitudine alla sequenzialità legata alla lettura, la narrazione per immagini prende talvolta essa stessa la forma di una sequenza, oppure inserisce filatteri di testo verbale in un contesto figurativo. In un certo senso gran parte della pittura medievale non è che narrazione per immagini, e non mancano gli esempi di sequenze narrative vere e proprie.

I concetti importanti li avevo già scritti allora, ma non ne avevo tratto le dovute conseguenze. Ora li ho evidenziati col neretto. Se riguardiamo l’arte visiva occidentale sino a qualche secolo fa, ci accorgiamo che essa è sostanzialmente narrativa. Non lo è talvolta nella decorazione (ma la decorazione è appunto tale – cioè non è figurazione autonoma); non lo è talvolta quando rappresenta la divinità e i luoghi ad essa vicini (perché qui vuole esprimere proprio l’assenza del tempo, e quindi degli eventi). Come ci ricorda Lina Bolzoni (La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino, Einaudi 2002) le immagini prodotte nel medioevo erano addirittura pensate per essere fruite in presenza di una voce narrativa di accompagnamento. E in questo senso non erano molto diverse, quanto a funzione, dai bisonti dipinti sulle grotte di Altamira.

Ma se pensiamo alla pittura in questi termini, è inevitabile pensarla, sino a un certo momento della sua storia, come narrazione per immagini. La concezione moderna della pittura, formalistica e plastica, è quindi impensabile prima del tardo Rinascimento, ed è figlia, credo, della pittura di genere, che è il primo tipo di pittura (non decorativa) che possa fare a meno del racconto – anche se per molto tempo continua a faticare davvero a farne a meno. E la nascita della pittura di genere, a sua volta, è legata alla diffusione di un modo diverso di utilizzare la pittura, in cui il privato (e l’arredamento delle case) gioca un ruolo particolare.

Comunque sia, nel corso del Rinascimento la pittura impara a costruire il proprio discorso da sé, e a fare a meno della necessità di una parola che l’accompagni. Quando Velázquez dipinge Las Meninas, l’acquisizione è pienamente compiuta, e la pittura è già qualcosa di molto simile a quello che intendiamo oggi.

Ma se le cose stanno così, e la pittura è stata sino a tutto il medioevo sostanzialmente narrazione per immagini, allora il problema storico non è quando sia nata la narrazione per immagini, bensì semmai quando sia nata la pittura intesa in senso moderno. In questa prospettiva, il discendente diretto di (poniamo) Paolo Uccello non è Pablo Picasso, ma Winsor McCay!

Certo, il fumetto, inteso in senso stretto, non poteva nascere prima. Gli mancava la possibilità di riprodurre tecnicamente le immagini per il grande pubblico – ma soprattutto gli mancava l’abitudine nel pubblico alla lettura e di conseguenza alla sequenzialità ad essa legata. Quando nel corso del Rinascimento a una pittura legata alla parola si sostituisce progressivamente (e mai del tutto, come sanno bene i teorici visivi della Controriforma) una pittura autonoma, autoesplicativa, la percentuale di coloro che sono avvezzi alla lettura e alla sequenzialità è ancora minima rispetto alla totalità dei fruitori delle immagini. Un’arte visiva sequenziale autonoma non può davvero nascere se non c’è nel suo pubblico una competenza sequenziale sufficientemente evoluta.

Nei due secoli che seguono, la narrazione per immagini vive un’esistenza più sotterranea, mentre l’alfabetizzazione si diffonde, e la cultura stampata inizia ad assumere forme anche popolari. Ma è interessante che l’evento scatenante, quello da cui esplode davvero il fumetto in senso stretto, avvenga negli Stati Uniti, nel medesimo contesto in cui nasce anche l’altra grande creazione artistica originale americana: il jazz.

Le riflessioni che state leggendo provengono da un incontro fortuito che ho fatto oggi in rete, un articolo di Giorgio Rimondi sul jazz dove si dicono (con tre anni di anticipo) cose piuttosto simili a quelle che ho scritto anch’io in un post di qualche settimana fa sulla scrittura e sulla musica. Rimondi ritiene, come me, che il jazz sia nato come reazione dell’oralità (con tutte le sue potenzialità espressive) al dominio della scrittura in ambito musicale. Ovviamente, la scrittura ha permesso alla musica un’evoluzione che altrimenti le sarebbe stata impossibile; ma le ha anche chiuso una serie di possibilità, che hanno continuato ad esprimersi nelle tradizioni popolari, senza però possibilità di accesso alla sfera colta, pubblica, di grande diffusione. Il jazz rappresenta questa mediazione: quella delle istanze dell’oralità, dell’espressività diretta, portate in un contesto sia popolare che colto.

La coincidenza del contesto di nascita tra fumetto e jazz mi ha sempre colpito; ma solo alla luce di considerazioni come queste sul rapporto tra scrittura e oralità, si può capire come non si tratti di una semplice casualità. Tutte e due le nascite avvengono in America, a cavallo tra i due secoli, in un contesto di minoranze etniche alla ricerca dell’integrazione; in un mondo nuovo che, in quanto tale, è sufficientemente slegato dalla tradizione da poter accettare più facilmente le innovazioni; in un mondo nuovo che si gloria di essere la patria della democrazia, dove non esistono privilegi di casta né alcun tipo di nobiltà – ma anche in un contesto di ricchezza crescente, di fiducia nel futuro, e di volontà di sviluppare un’identità propria, sufficientemente distinta da quella della vecchia Europa, nonostante essa resti comunque l’inevitabile punto di riferimento.

È questa situazione particolare che permette il riemergere di istanze che in Europa sarebbero probabilmente rimaste ancora a lungo sommerse: quella di una musica meno intellettualmente legata ai rigori geometrici della scrittura musicale, e quella di una narrazione per immagini finalmente dotata di un pubblico e di una tecnologia riproduttiva adatti. Queste istanze spingevano dappertutto, nell’Occidente, ma in Europa l’inerzia della tradizione le avrebbe probabilmente tenute ancora sotto controllo a lungo, se non per sempre. In America, viceversa, erano funzionali a quel diverso contesto.

Detto questo, si potrebbe pure osservare che non solo nel jazz ma anche nel fumetto sono in realtà presenti delle istanze orali importanti, e che, se pure di una sorta di scrittura si tratta, il fumetto è una scrittura che riproduce in immagine i corpi e li dota di parola diretta, ricreando in qualche modo con la sequenza delle vignette la sequenzialità della dimensione orale. Qualche accenno a questo tema l’ho fatto anche qui. Più estesamente ne parlo invece in un saggio che dovrebbe essere in uscita sulla rivista Fictions. Studi sulla narratività, dal titolo “Disegni che parlano. Il fumetto tra oralità e scrittura”.

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di Daniele Barbieri

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