25 Febbraio 2011 | Tags: comunicazione visiva, estetica, fotografia, fumetto, graphic design, illustrazione, manifesto, musica, pittura, poesia, semiotica, sistemi di scrittura, tipografia, Web e multimedia | Category: comunicazione visiva, estetica, fotografia, fumetto, graphic design, musica, poesia, semiotica, sistemi di scrittura, Web e multimedia | Guardare e leggere. La copertina
Be’, sì, è in libreria. L’altro giorno, quando ho detto a un mio amico che stava per uscire, lui mi ha chiesto: “E il blog l’hai fatto?”. Ho avuto un momento di perplessità. Ovviamente lui si riferiva al fatto che ormai quando si pubblica un libro si crea anche il blog per riparlare ed espandere i suoi temi. Ma io il blog ce l’ho già. Anzi è venuto al mondo un anno prima del libro. Un blog ha però una gestazione breve, mentre un libro ce l’ha decisamente più lunga. Il libro in verità esisteva già prima del blog, e il nome che a suo tempo ho dato al blog era anche augurale per il libro. Quindi, in fin dei conti, al mio amico ho risposto “Sì”.
Il libro è più specifico del blog, come è giusto. Se volete sbirciare indice e introduzione potete andare qui.
Mi sento un po’ come quelli che dal romanzo è uscito il film, o dal film il fumetto, o dal fumetto il romanzo. Il blog non cambierà, ma se qualcuno mi propone qualche tema di cui nel libro si parla, può essere una buona occasione per tornarci sopra.
Per adesso, ne parlo pubblicamente in un incontro nell’ambito del festival del fumetto Bilbolbul, sabato mattina 5 marzo alle 11.30 alla libreria Irnerio (via Irnerio 27) a Bologna, con Luca Raffaelli. Spero di vedervi tutti.
Francesco Cattani, Barcazza, pag. 26
Mi piace, Barcazza di Francesco Cattani (Canicola 2010), per quel segno di pennino sottile che ricorda quello del Mattotti della linea fragile. E mi piace anche perché le storie che racconta sono esili come il suo segno, e insieme – proprio come il suo segno – capaci di esplorare in profondità un piccolo mondo.
C’è un piccolo gruppo di persone in vacanza, al mare, in una casa isolata tra le rocce da qualche parte nelle isole Eolie o giù di lì. Una donna adulta, il nipote ventenne con la fidanzata, alcuni bambini, figli o nipoti.
C’è il mare, c’è il sole, c’è il non far niente della vacanza, attraverso cui strisciano piccoli eventi e tensioni, erotismi e gelosie. Succede poco o niente; gli eventi sono irrilevanti o inconclusi. Una vicenda sembra snodarsi leggermente, ma è come annegata nel torpore della vacanza.
È proprio questo che mi piace di questo libro, questo realismo minimale in cui con poco si suggerisce tutto, ma intanto si gode di quell’essere lì, nel silenzio e nel sole, nella lentezza quasi ingombrante della vacanza.
E il pennino di Cattani funziona al medesimo modo. Traccia poche linee, pochissime. Però il mare appare intensamente mare, e le rocce sono vere, e la casa è una casa delle Eolie. Ma le linee sono anche linee, e sembra quasi di vedere quel pennino che procede, che scava i profili delle persone sulla carta – un po’ come fa anche Gipi, che è certamente un altro riferimento del nostro.
Mattotti, Gipi. Direi che se ne intravede la lezione. Però, pur essendo passato di là, direi anche che Cattani ha già delineato una sua precisa strada. Mi piace.
Francesco Cattani, Barcazza, pagg. 84-85
Il bagno a Mamallapuram
Questa foto è stata presa sulla spiaggia appena a nord di Mamallapuram, il 15 agosto, festa dell’Indipendenza dell’India. È così che le signore indiane prendono il bagno, un po’ perché l’oceano è troppo pericoloso per immergervicisi, un po’ perché le signore non si possono spogliare, giovani o vecchie che siano – o, almeno, non ne ho mai vista nessuna meno vestita di così.
Questa foto mi piace perché i vestiti colorati portano un’aria di festa a questo mare così grigio e grosso, e perché mi piace la composizione un po’ orizzontale, ma in verità incerta, e questa tensione verso sinistra creata dalla prospettiva e dagli sguardi. Non di tutte, però: le due signore in rosso sono troppo impegnate con la sabbia e con l’acqua. Ma sembra che stiano danzando, queste signore sedute. C’è una misteriosa coreografia, che organizza i loro gesti.
Giacomo Monti, Camicia
Sarà magari perché ce l’ho in mente da quando ho parlato di Mumin, ma i fumetti di Giacomo Monti mi sembrano avere qualcosa in comune con i film di Aki Kaurismäki. C’è lo stesso sconsolato squallore, la stessa umanità appassionata e demente, la stessa ironia sottile e devastante. In realtà Kaurismäki mi fa ridere un po’ di più, ma anche lo squallore di Monti è talmente stralunato o lunare, così ridicolo e assurdo, che non si può restare del tutto seri.
Eppure le storie raccolte in Nessuno mi farà del male (Canicola, 2010) sono serie, serissime, talvolta drammatiche – proprio come quelle di Kaurismäki. C’è la capacità di cogliere il gesto, il dettaglio solo in apparenza insignificante: come la camicia spiegazzata del cliente della prostituta, su cui si incentra il loro discorso, unica relazione un poco umana nell’indifferenza reciproca generale.
Persino il disegno raccoglie e diffonde il senso di monotonia e grigiore della vita, con quelle caselline tutte uguali, quelle linee troppo o troppo poco marcate per essere di qualità, graficamente. E tuttavia persino il disegno è straordinario in Monti, nella sua assurda semplicità, nella sua quasi demenza. Mi piace persino il modo in cui Monti spreca lo spazio della pagina, limitandosi a poche vignette piccole dove potrebbe metterne tante, o magari farle più grandi.
Ma qui tutto deve essere piccolo, perché piccola è la vita, piccole le gioie, i dolori, le disgrazie. E persino l’arrivo degli alieni finisce per diventare una storia di amore coniugale di campagna.
Monti è antiepico, antilirico, antigrafico, ma riesce a esserlo liricamente e quasi epicamente, inventandosi una grafica del banale e dello scontato, che non è, in sé, né banale né scontata.
Insomma, capisco bene perché Gipi abbia scelto questo libro per ricavarne il soggetto del suo primo film. Mi domando giusto come farà a ottenere una trama unitaria da questo pulviscolo di piccole vicende.
Donna nel tempio Arunachaleswarar a Tiruvannamalai
Siamo nel medesimo tempio che la scorsa settimana vedevamo in assurda assonometria dall’alto della Montagna dell’alba, a Tiruvannamalai. Ora, da dentro, la prospettiva centrale è tornata a riaffermare il suo impero. La donna al centro è verticale, così come verticale è il palo che la sovrasta, anch’esso al centro. Di fianco a lei la riga diagonale del bordo della cisterna (sormontato da una fila di statue del Toro Nandi), che viene ripresa dall’altra diagonale della parete del gopuram, la grande torre d’ingresso piramidale.
Attorno a queste linee centrali, questa foto è piena di verticali (pali, colonne, umani) e di orizzontali (i panni stesi, le ombre, e poi cornici, tetti, basamenti), e ancora altre diagonali (altre fughe prospettiche, l’altro gopuram a sinistra, le cupolette, le schiene dei tori). La donna e il palo che la sormonta dividono la foto in due metà verticali; la base del tempietto a sinistra e la sua prosecuzione nell’ombra prima e poi nel bordo della cisterna in fondo dividono la foto in due metà orizzontali. Abbiamo così quattro quadranti.
I due quadranti in basso sono semivuoti, specie quello a sinistra. Anche i due quadranti in alto si assomigliano, affollati entrambi nella parte inferiore e caratterizzati da una grande V in quella superiore (per il quadrante di destra valgono i fili della luce). I due quadranti a destra (inferiore e superiore) sono accomunati da quella diagonale che continua (prima prospettiva, poi parete della torre). I due quadranti a sinistra sono invece contrapposti: l’uno è il quadrante più affollato, l’altro il più spoglio, praticamente vuoto.
La testa della donna, con il suo fazzoletto azzurro, è al centro di questo meccanismo, ed è rivolta a sinistra, verso lo spazio vuoto, che diventa così, paradossalmente, il luogo più pieno, quello dove si può trovare qualcosa degno di interesse, ma che noi non vediamo. A questo punto non facciamo fatica invece a vedere (con gli occhi della mente) qualcosa come la rotazione di un grande orologio, le cui lancette (che focalizzano l’attenzione dello spettatore) incominciano la loro corsa sulle 9, a sinistra, e proseguono attraverso i tre quadranti successivi per concludersi in quello vuoto, insieme con lo sguardo della donna, che sta proprio nel perno della loro rotazione.
Sono quindi i colori del vestito di lei a dare senso visivo a questa foto, imponendo la prima verticale e il cuore della rotazione, da cui tutto il resto segue. Puro esprit de geométrie indiano, colto per caso dal fotografo. O esprit de finesse, se volete. Qualche volta c’est la même chose.
L’articolo è qui, sul blog di Bilbolbul, curato da Lo Spazio Bianco.
Manuele Fior - Cinquemila chilometri al secondo, pag.72
Ho promesso, qualche mese fa, che avrei cercato di trovare se non la chiave, perlomeno una chiave per capire che cosa mi renda così inquieto leggendo i libri di Maunele Fior. Ora che Cinquemila chilometri al secondo ha vinto ad Angoulême, mi sembra di non potere più posticipare questa ricerca.
Mi sono messo così a pensare. Mi sono riletto il volume. Mi è ripiaciuto moltissimo, forse ancora più che alla prima lettura. Ma la chiave è rimasta nascosta.
Certo, posso dire che è una bella storia, raccontata molto bene e anche molto ben disegnata. Posso dire che i colori di Fior sono ammalianti, ed è molto bello anche l’uso che viene fatto delle varianti tonali per gruppi di pagine, quasi a esprimere degli stati d’animo dominanti. Posso dire che quel modo di trattare l’esotismo è profondo, e che la sensazione di Svezia e la sensazione di Egitto sono tutte e due intense, proprio nella loro diversità; è quasi come se ci stessimo vivendo anche noi. Non c’è niente di cartolinesco, niente di oleografico. Fior è davvero bravo anche in questo.
Insomma, che Fior è bravo si vede, si capisce continuamente: dai disegni, dai dialoghi, dal modo di condurre la storia complessiva… Ma perché mi inquieta? Come fa a prendermi così visceralmente?
Mentre brancolavo alla cieca alla ricerca dell’invisibile chiave, ho avuto un piccolo flash, e mi sono venute alla mente queste parole, lette tanto tempo fa: “C’è nella vita un tempo in cui essa rallenta vistosamente, come se esitasse a proseguire o volesse mutare direzione.” È l’inizio di “Grigia” il primo dei tre racconti che compongono Tre donne, di Robert Musil.
Tre donne è un libro che ho amato molto, negli anni dell’università. Proprio per questo lo regalai come dono di commiato a una donna (il regalo era mio, ma il commiato era stato suo), e smisi di averlo in casa. Qualche anno dopo lo ricomperai in tedesco, nell’illusione che la mia conoscenza della lingua di Musil (che già mi permetteva di leggere con fatica le favole dei fratelli Grimm) fosse sufficiente ad affrontarlo. Ma dopo avere speso due giorni per leggere le prime tre pagine, capii che al mio tedesco mancava ancora parecchia strada (una strada che in verità non ho mai più percorso). Ma quell’esercizio mi aveva lasciato stampato nella memoria quell’inizio folgorante: “Es gibt im Leben eine Zeit, wo es sich auffallend verlangsamt, als zögerte es weiterzugehn oder wollte seine Richtung ändern. Es mag sein, daß einem in dieser Zeit leichter ein Unglück zustößt.”
Che cosa ha a che fare Musil con Cinquemila chilometri al secondo? Non lo so, in verità. Non so nemmeno se Fior abbia letto Musil, anche se sospetto di sì. So però che il romanzo di Fior è focalizzato su alcuni momenti della vita dei suoi protagonisti, e per ciascuno di quei momenti potrebbero valere le parole di Musil. Sono quei momenti di debolezza in cui le costruzioni mentali che tutti noi ci facciamo per portare avanti alla meno peggio la nostra vita si indeboliscono e diventano trasparenti, lasciando vedere quello che c’è dietro. Sono quei momenti in cui la sfortuna potrebbe accanirsi contro di noi, come accade nel racconto di Musil ma non in quello di Fior. Ma sono comunque quei momenti in cui le persone si rivelano non solo nella loro superficie, ma quasi come se la loro pelle fosse diventata trasparente.
Non è un modo occasionale di procedere per Fior: La signorina Else e Rosso Oltremare sono costruiti al medesimo modo. Fior evidentemente sa disegnare e sa scrivere molto bene, ma il fascino delle sue storie deriva dal suo saper guardare le persone e le cose, in superficie come in profondità. E magari – chissà – dall’aver letto appassionatamente Musil, oltre a Schnitzler.
Il tempio di Tiruvannamalai visto da Arunachala
Sembra quasi un’assonometria, o prospettiva parallela, questa veduta del grande tempio Arunachaleswarar di Tiruvannamalai, presa dall’alto della montagna-che-è-Shiva Arunachala, la montagna dell’alba. Questa foto potrebbe essere il pendant di questa, presa da più in alto, nella direzione opposta, questa qui sopra tutta città, quella tutta campi.
Ma questa foto mi piace anche perché il tempio e la città sembrano come emergere dagli alberi, in questa posizione irreale – quasi che il mondo fosse in salita. E poi ancora perché, in questa foto, la confusione tipica dell’India rivela un’attenta costruzione razionale di fondo, proprio come mi era già capitato di osservare in quest’altro post.
Secondo me non è mica un caso che questo paese abbia inventato i nostri numeri e continui a sfornare grandi matematici (per non dire del software che utilizzamo, che è in larga misura scritto in India). Qui persino la religione ha a che fare con la logica: solo se ci si ferma alla superficie non se ne vede che l’effervescente (e affascinante) mitologia. Quando si scava sotto, si trovano pagine del Vedanta e dei suoi commentari che rivelano strane somiglianze con il teorema di Gödel e con i paradossi di Russell: fantastici apparati razionali che hanno come scopo di mostrare i limiti della razionalità.
Saul Steinberg, Dog on leash
Un post di Caro su The Hooded Utilitarian mi riporta agli occhi l’arte di Saul Steinberg, ricordando quella che lui (ma solo lui, Caro) definisce una graphic novel ante litteram (del 1954): il volume The Passport. Che The Passport fosse una graphic novel è naturalmente solo una boutade da appassionato, ma la passione per il lavoro di Steinberg è un fatto del tutto comprensibile, indipendentemente dalla decisione (discussa nel post) se si tratti di fumetti oppure no – un tema su cui non mi pronuncerò qui.
Saul Steinberg, No
Io ho incrociato Steinberg su un numero di Linus degli anni Settanta, o forse ancora prima. Ne ricordo una vignetta spettacolosa in cui il personaggio seduto dietro a una scrivania parlava a quello seduto di fronte a lui, e il fiume di incomprensibili parole che costituiva il suo discorso era contenuto in un grande e arzigogolato balloon che formava chiaramente un enorme NO. Al di là dell’efficacia della gag, c’era qualcos’altro che indubbiamente m’intrigava in quel disegno, e che ritrovo pienamente negli esempi portati dal post di Caro (al quale rimando per vederne molti di più di quelli riportati qui – ancora di più se ne possono vedere, ovviamente, su Google images).
Con poche eccezioni, tutto il lavoro di Steinberg è basato sull’uso di un pennino sottile, dalla punta dura che consente poca modulazione della linea, e su un’estrema economia di segni. In qualche caso, come quello riportato in alto, questa estrema economia diventa quasi il tema, e l’effetto insieme lirico e ironico di questa immagine è tutto basato su una grande assenza evocata dalle poche presenze – o da un grande nero (il buio della notte) rappresentato dalla pagina bianca. In altri casi, come quello che segue, si arriva al virtuosismo di eseguire immagini figurative abbastanza complesse attraverso l’uso di una sola linea continua: e l’ironia di Steinberg ci rivela di colpo dimensioni percettive di cui non siamo consapevoli, e, insieme, strane relazioni tra le cose.
Saul Steinberg, Tree and dog
Non è tutto qui. Con le sue linee striminzite, Steinberg ha costruito uno stile molto ben riconoscibile, talmente personale da essere continuamente quasi una specie di firma. Non a caso, poi, la sua firma vera e propria quasi non si distingue dagli scarabocchi con cui, di tanto in tanto, imita la scrittura.
Questo segno così personale è una sorta di “io” grafico; attraverso il segno così riconoscibile, è come se per ogni immagine che ci presenta, Steinberg stesse (sommessamente) dicendo “io la vedo così”, “ecco la mia visione delle cose”. Questa forte soggettivizzazione toglie immediatamente alle sue vignette qualsiasi pretesa di rappresentare il mondo com’è, e ci invita subito a cogliere il punto ironico e/o lirico del suo discorso.
Nell’immagine che segue, la complessità della parte in basso la rende subito sfondo, mentre l’attenzione si concentra su quella in alto, che contiene il cuore del discorso – compreso il delizioso dettaglio della luna, che si trova inquadrata nel finestrino, come se appartenesse solo al mondo di chi dorme, e non al paesaggio sottostante.
Saul Steinberg, Airplane
La forte caratterizzazione dei pochi segni permette a Steinberg di ottenere l’immediata concentrazione dell’attenzione dello spettatore su quello che gli interessa comunicare. Ed è in questo modo che diventa possibile trasmettere anche qualcosa di molto sottile, di leggero e impalpabile: qualcosa che magari fa appena sorridere il lettore, magari con un’ombra di tenerezza, magari con un sospetto di crudeltà.
L’ultima vignetta qui sotto la dedico agli amici del blog Sinsemia, che si occupa di comunicazione visiva. Come a volte succede con le vignette di Steinberg, ho dovuto avanzare dei dubbi sulla mia prima interpretazione. A prima vista, mi è sembrato che la vignetta giocasse sulla scarsa capacità di progettare ( e quindi di pensare – think) del personaggio, proprio mentre scrive la parola think. Poi mi sono accorto che quello che lui sta scrivendo si può leggere anche come “thin k”, cioè “k sottile”, dove “sottile” è scritto in bold. La seconda lettura non esclude la prima, né viceversa. Su cosa gioca Steinberg?
Saul Steinberg, Think
La rivincita del verde a Fort Kochin
Non so se la foto è bella, ma il soggetto era davvero straordinario, e del tutto integrato nell’ambiente urbano/naturale di Fort Kochin, nel Kerala, in un viale di alberi giganteschi, nel bel mezzo di un paese immerso in una sorta di giungla addomesticata, eppure grande, grandissimo, praticamente una città.
Il camion abbandonato sulla pubblica strada, che da noi sarebbe presto additato a vergogna e rimosso, qui si trasforma naturalmente in una singolarissima e affascinante aiuola, del tutto in sintonia con l’ambiente circostante. Ancora un anno o due e poi della struttura metallica non si vedrà più niente.
Mi vengono in mente i racconti (inventati) di Guido Gozzano di fronte alle rovine di Goa ricoperte dalla giungla. Bellissimo e struggente, da un lato. Sottilmente inquietante dall’altro. È una natura amica questa, che si prende beffa della nostra superba tecnologia, oppure è un’amara metafora del destino della nostra civiltà?
Dave McKean, copertina per The Dreaming
Le straordinarie copertine realizzate da Dave McKean per diverse serie di comic book americani mostrano bene che cosa ne sia dello strumento fotografico nell’epoca di Photoshop. Credo che a nessuno verrebbe infatti in mente di considerare i dettagli palesemente di origine fotografica che appaiono in molte di quelle immagini come testimonianze di una qualche realtà, di una qualche oggettività che da qualche parte in qualche tempo ha avuto luogo.
Eppure, d’altra parte, non ha neanche molto senso considerare quei dettagli come banali scorciatoie produttive, perché si fa prima a utilizzare un brandello di fotografia che non a disegnare quel particolare con un qualche tipo di tecnica manuale. McKean fornisce continuamente prove troppo evidenti della consapevolezza con cui gioca i propri elementi costruttivi per non dargli credito anche su questo.
Il punto infatti è proprio che, a questi dettagli, qualcosa del valore di testimonianza del reale comunque resta, ed è anche su questo residuo di realismo che l’autore gioca per costruire il proprio effetto comunicativo.
La copertina di The Dreaming che apre questo post è probabilmente realizzata del tutto con frammenti fotografici – a parte i caratteri della testata, anche se la loro fattura li potrebbe comunque far scambiare per tali. Nel complesso, per la qualità delle sfumature e della grana dei materiali riprodotti, l’immagine potrebbe anche essere davvero una singola fotografia – se non fosse che la sua collocazione (copertina di un albo a fumetti) e l’improbabilità del suo soggetto ce lo fanno escludere.
Ma l’allusione al reale che questa non-fotografia compie è comunque importante. Ciò che essa rappresenta è infatti a sua volta una rappresentazione: una complessa scultura in marmo o avorio da cui emerge, o meglio, da cui sembra stare uscendo una figura umana. Questa figura è, verso il basso (la parte più arretrata del gesto di emersione, ancora vicina al blocco scultureo), certamente di marmo o avorio, e continua a esserlo nelle braccia e nel tronco – mentre nel viso, che è la parte più avanzata, più vicina a noi, qualcosa è decisamente differente.
Al di fuori di questo viso, infatti, tutto è riconducibile abbastanza tranquillamente a delle convenzioni iconografiche note, e solo l’immersione delle braccia nel reticolo delle piccole figure può apparire non canonica. Il viso, invece, è decisamente non canonico: se questo è un angelo, o un Cristo (come potrebbe suggerire la forma del drappo che gli copre i fianchi), la calvizie e il labbro leporino sono immediatamente inquietanti, un improvviso tocco di eccessivo realismo. E quando si osserva questo, ci si prende anche immediatamente conto che la grana della materia delle guance, del mento e di tutta la parte inferiore del viso non è quella di una statua, bensì proprio quella della pelle vera, così come vero è il naso, e quel riflesso dell’occhio lucido che emerge dall’ombra.
La figura grande procede quindi verso di noi, come liberandosi dall’universo della rappresentazione per fare il suo ingresso in quello reale; ed è insieme una figura sinistra, ambigua. Nel contesto complessivo di finzione, l’apparenza fotografica crea un effetto di realtà, così che questo Cristo demoniaco sembra davvero colto nell’atto di acquisire carne, uscendo dalla propria materia statuaria di origine, e venendo verso di noi – creatura da incubo che esce dal sogno per entrare nel reale…
Anche l’altra copertina, in basso, realizzata per The Sandman, gioca sull’effetto fotografico, però quasi in direzione opposta. La parte fotografica è una cornice di legno, anzi, una serie di cornici concentriche. Ciò che la cornice inquadra è ovviamente un disegno (o un dipinto); salvo che la cornice è rotta, e attraverso lo squarcio si capisce che ciò che credevamo disegnato è invece il mondo reale, che la cornice si limita a inquadrare. Pur non smettendo di apparire come una cornice, la cornice si rivela ora una sorta di finestra, e la sua realtà (testimoniata dalla sua riproduzione fotografica) si trasmette a ciò che essa inquadra, nonostante si tratti chiaramente di un prodotto della mano.
Anche per questi esempi sarebbe pertinente la citazione di Borges con cui abbiamo aperto il post di lunedì scorso. Per McKean il dettaglio fotografico è l’effetto di realtà che confonde le acque, permette ai diversi livelli di interagire, mescola il Don Chisciotte letto con quello che lo legge. Ma se in Frank Miller tutto questo serviva per dichiarare ad alta voce: “Attenti, questo è spettacolo”, nelle copertine di Dave McKean il rimando al sogno è sufficiente a tematizzarle. È come se McKean ci avesse ripetuto, copertina dopo copertina, declinato in tanti modi diversi, lo stesso motto shakespeariano pronunciato dalla voce di Prospero: “We are such stuff / As dreams are made on”, ovvero “siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”.
Dave McKean, copertina per The Sandman
Mucca sulla spiaggia a Mamallapuram
Questa mucca presa sulla spiaggia di Mamallapuram sembra davvero camminare sul profilo del mondo contro un cielo uniforme e grigio, o contro un muro di nebbia. La verità si può vedere nella foto qui sotto (da cui si capisce anche che ho barato un pochino).
Certo, quello non è il cielo, ma l’acqua di una pozza. Eppure il cielo vero non è meno grigio, e la mucca cammina lo stesso in una dimensione metafisica, sul profilo di una qualche terra, che si interrompe, per poi riprendere nella sua realtà un poco più in là, e infine perdere concretezza del tutto verso il fondo.
C’è un grande senso di quiete, non disturbato ma persino confermato dall’irruzione del quotidiano all’estrema sinistra, nel cartellone del ristorante e nell’asta diagonale del lampione. Tutto è orizzontale, e procede da sinistra verso destra (le barche amarrate, la mucca e il vitello in alto a destra, l’insegna del ristorante, persino le due barche in mare sullo sfondo), ma senza fretta. Pure l’orizzonte lievemente inclinato ci rimanda a destra.
La ruota delle cose gira, il mondo scorre. Noi lo osserviamo da turisti, seduti sotto la tettoia del ristorante. Dalla foto non si capisce, ma sta piovendo un’acqua finissima…
Mucca sulla spiaggia a Mamallapuram
Jorge Luis Borges, da "Magie parziali del Don Chisciotte", Altre inquisizioni, Feltrinelli 1963, traduzione di Francesco Testori Montalto
Frank Miller "The Dark Knight Returns", DC Comics, 1985, pag. 26
Le parole di Borges hanno per oggetto testi classici, o speculazioni filosofiche. Le conclusioni a cui arriva restano comunque affascinanti. Questo è un saggio vero, non una delle sue Finzioni. Con Borges, si fatica a distinguere il reale dall’immaginato, e alla fine ci si rende conto che spesso non è una distinzione pertinente. Siamo anche noi il sogno di qualcuno, come Don Chisciotte era il sogno di Cervantes?
Che cosa c’entra Frank Miller con le fascinose ma astratte elucubrazioni del maestro argentino? Miller impara dai giapponesi, già nei primi anni Ottanta, a costruire la pagina in maniera diversa, a giocare con lo spazio della pagina nella sua interezza, considerando il margine delle vignette un elemento opzionale, da utilizzare o meno a seconda del caso. Il margine delle vignette ha, in generale, una funzione di cornice, e serve quindi, tra le altre cose, a distinguere lo spazio del mondo della finzione (il mondo raccontato) da quello del mondo reale (la pagina materiale, lo spazio bianco che allude allo scorrere della lettura e al passaggio dell’occhio del lettore a un altro quadro). Lasciare l’immagine al vivo, limitata solo dal taglio materiale della pagina, significa eliminare una cornice, cioè un elemento di distanza. Naturalmente rimane un’altra cornice ineliminabile, che è quella della pagina stessa – ma il taglio della pagina è un vincolo materiale, non un prodotto del disegno, proprio come il bordo della finestra che inquadra un pezzo di mondo. L’immagine al vivo rimane finzionale, ma il suo impatto è molto più forte, perché si avvicina di colpo al nostro mondo reale – lo sfiora, pur senza poterlo raggiungere. Se poi sai giocare bene anche sull’inquadratura, ecco che Batman sta davvero di colpo piombando su di noi.
Ma cosa sono dunque quei riquadri appoggiati sull’ìmmagine? Altre vignette, certo. Eppure se ci stanno sopra essi non appartengono al medesimo mondo: sono come cartoline appoggiate sopra a un manifesto. Nel mondo reale le immagini non si possono giustapporre in questo modo. Solo le immagini lo possono fare tra loro – e il fatto di trovarsi sopra indica che sono posteriori (non si infila un manifesto sotto a delle cartoline, di solito, ma viceversa).
Mentre l’immagine al vivo si accosta mostruosamente al mondo reale, la sovrapposizione di altre immagini la rigetta verso il finzionale, il rappresentato. Ma non dimentichiamo che la lettura di un fumetto va fatta in sequenza: prima dunque l’immagine grande è quasi-reale, poi diventa lo sfondo di altre immagini. La correttezza di questa modalità di lettura è confermata anche dalla posizione relativa delle vignette, e dall’andamento narrativo che ne consegue.
Si può leggere tutto questo però anche in un altro modo, cambiando un poco il punto di vista. Se l’immagine grande era quasi-reale, le vignette piccole si trovano ora ancora più vicine a noi – e poco importa che la realtà dell’immagine grande sia nel frattempo retrocessa, perché essa ormai si trova nel passato, e noi stiamo già leggendo le vignette piccole sovrastanti. È così che gioca Miller, illusione dopo illusione; e quando un’illusione si disvela, noi siamo già dentro la prossima, e poco ci importa della precedente.
E poi, soprattutto, poco ci importa perché quello che ci importa è soltanto l’impatto emotivo: questa insomma è fiction, questo è mito. Quello che Borges non arriva a dire (ma consegue dalle sue parole) è che l’ipotesi di essere a nostra volta personaggi della lettura di qualcuno ci rende parte di uno spettacolo, di un mito, di una fiction, in cui valiamo per quello che possiamo comunicare nella trama complessiva, non per quello che siamo. Se siamo i personaggi di un racconto, il senso della nostra vita, dell’intero nostro mondo, è quello di costruire un’esperienza significativa per chi ci legge, per chi lo legge.
Guarda caso, le vignette inserite sulla pagina di Miller sono schermi televisivi, con il relativo sonoro. Tutto The Dark Knight è intessuto di sequenze televisive. Le immagini più reali del quasi-reale che sta sotto di loro rappresentano dunque non una realtà bensì una rappresentazione – magari fedele, come può anche essere la TV, però una rappresentazione. Nel momento di massima vicinanza al mondo reale incontriamo quindi di nuovo una rappresentazione.
Non so se Miller abbia mai letto Borges, ma gran parte della sua notevolissima capacità narrativa sta proprio nell’aver capito che la fiction ci può apparire tanto più reale quanto più assomiglia a quella confusione di livelli tra il reale e il rappresentato che è il nostro mondo dominato dai media e dalle loro rappresentazioni. In un mondo in cui la rappresentazione (televisiva, cinematografica, raccontata dai giornali ecc.) può essere per noi più reale del reale, la realtà è per noi una dialettica complessa tra i tanti modi di viverla e rappresentarla.
Il Cervantes di Borges riduceva il mondo a spettacolo per la lettura di uno dei suoi personaggi, insinuando in noi il dubbio sulla nostra stessa realtà. Frank Miller non fa che riconoscere che il nostro mondo è ormai di quel medesimo tipo, e gli specchi della costruzione in abisso sono i diretti responsabili della costruzione del reale – non dei semplici riproduttori. Su questa dialettica senza scampo Silvio Berlusconi ha costruito il suo impero di finzione, e i suoi personaggi siamo noi. Per la lettura di chi?
Donne in rosso a Kanyakumari
Kanyakumari, punta estrema sud dell’India, la punta dei tre mari. Questa foto mi piace per quel gruppo di donne in rosso (con l’uomo in bianco), vivace e mosso, e con un atteggiamento molto presente, che si staglia su questa geometria immobile o ricorsiva del mare sotto l’orizzonte, della terra con i suoi muretti merlati, del palo un po’ storto.
Ci sono due colori dominanti e immobili: l’azzurro del cielo-mare, l’ocra delle cose solide. Cielo e mare sono orizzontali; la terra è caratterizzata da questa lunga diagonale che va verso l’orizzonte, a metà della quale c’è il gruppo di persone.
Sono attive e ben presenti. Stanno certamente parlando tra loro. Ma l’atteggiamento prevalente è il guardare, guardare oltre il muretto, guardare nell’oceano. Quella macchia rossa e contrastata è ciò che crea un ponte tra la terra e il mare. Se non ci fossero loro sarebbe tutto vuoto – interessante lo stesso, magari, ma vuoto.
Taniguchi Jiro, Quartieri lontani, p.200
Questo post vuole essere la continuazione del post precedente, ma ora parlerò di fumetti. Voglio scrivere di Jiro Taniguchi e del suo ultimo libro pubblicato in Italia: Quartieri lontani (Coconino Press, 2010 – l’originale giapponese è del 1998, ma Coconino l’aveva già stampato in due parti, nel 2002 e 2003, con il titolo In una lontana città).
Due parole sul suo tema le devo spendere, per permettere un minimo di orientamento a chi ancora non lo ha letto. Un uomo di 48 anni si trova – come in una sorta di sogno incredibilmente realistico – a rivivere i propri 14 anni, ma con la consapevolezza dell’adulto. Ritornare a scuola, rivedere i propri genitori, proprio nel periodo in cui il padre è andato via, rivivere i rapporti con i compagni di scuola, il primo innamoramento…
Però niente è come prima, perché prima di tutto lui, nel corpo del quattordicenne, è un adulto gettato nel passato, che cerca di nascondere agli altri le proprie conoscenze sul loro futuro, non sempre riuscendoci del tutto.
L’idea di base forse non è originale, ma, come sempre, Taniguchi è un maestro a svilupparla e a portarla sino alle ultime conseguenze. Il risultato è così un racconto sospeso tra la sensazione del già visto e la tormentosa inquietudine del non capire come possa andare a finire: guarda casa, le stesse sensazioni del protagonista della storia!
Taniguchi ha un disegno lineare e chiaro, piuttosto statico, ma questa semplicità si rivela poi adatta a meglio trasmettere le emozioni dei volti e dei corpi, sempre molto vere. E, insieme, c’è una sapiente costruzione dell’insieme, con un gioco di accostamenti/contrapposizioni tra la costruzione ortogonale della pagina, creata dalla serie delle vignette rettangolari, e lo sviluppo delle linee delle figure in esse contenute, che sono spesso anch’esse ortogonali, ma a volte organizzate sugli assi diagonali. Questa piccola vivacità costruttiva è sufficiente a dare vita alle pagine di Taniguchi, anche nel loro insieme – mentre al tempo stesso raccontano con espressività quello che sta succedendo.
Se stessimo parlando di uno scrittore, staremmo lodando la raffinatezza del linguaggio verbale e insieme la sua capacità di usarlo efficacemente per raccontare le emozioni – due qualità diverse, e non sempre compresenti. In un disegnatore di fumetti il corrispondente è ovviamente il rapporto tra il tratto grafico e la composizione, oltre che il modo di farne uso.
La strategia di semplificazione visiva agisce, in Taniguchi, anche al livello narrativo. La storia è semplice, assai lineare: tutto gira attorno a pochissimi elementi. Ma proprio come con la linearità del disegno, la linearità del racconto finisce per mettere fortemente in luce gli elementi chiave. Pagina dopo pagina, l’assurdità di quello che capita al protagonista svanisce anche per il lettore, e la vita del quattordicenne di 48 anni procede nella sua normalità, nelle sue piccole sorprese, nei suoi grandi timori.
Ho letto le 414 pagine di Quartieri lontani tutto di un fiato. Ci vogliono un paio di ore. L’immersione che mi ha prodotto non era così dissimile – come ho già detto – da quella del suo protagonista. In più di un momento della lettura mi sono sentito vivamente emozionato.
Certo, il romanzo di Taniguchi gioca su temi profondi: la memoria, il rimpianto, il sogno di rivivere il passato. Ma proprio perché sono temi così intensi, il rischio di essere banali è estremo. La semplicità del disegno e del racconto di Taniguchi è per forza quindi soltanto apparente. Il ritmo che qui l’autore costruisce è magari quello del sogno – ma non si ha mai l’impressione di trovarsi dentro un sogno. Tutto è reale, e anche il racconto è quello di qualcosa di reale. Forse è proprio questo straniamento a portare avanti il lettore – ma nella capacità che ha Taniguchi di farci dimenticare che stiamo leggendo una storia (e una storia di Giapponesi, tanto differenti da noi!) c’è qualcosa di davvero straordinario.
Come ho detto nel post precedente, non mi interessa trovare una verità del testo, e non credo che la critica debba concentrarsi su quello. Se il messaggio di Taniguchi è efficace su di me, in questo caso è perché già lo conosco e lo condivido. Non è il messaggio la parte interessante di un testo artistico, bensì l’esperienza su cui il testo ci conduce, il percorso di scoperta o riscoperta di qualcosa, che già lo conosciamo o no. Il messaggio, in questo, farà anche la sua parte – e ci sono sicuramente testi in cui è una parte importante, e davvero impariamo qualcosa di nuovo. Ma lo impariamo solo perché il testo ci ha condotto attraverso un’esperienza coinvolgente.
P.S. Giusto un’osservazione per la Coconino. Ristampare In una lontana città è certamente una buona operazione, che ha tutta la mia approvazione. E capisco anche che la concomitanza con il film di Sam Garbarsky sia una buona occasione per un’operazione commercialmente positiva (cosa da non disprezzare per un editore di questi tempi) e insieme culturalmente utile. Ma non apprezzo il fatto che da nessuna parte del volume compaia il riferimento alla precedente edizione, con il titolo mutato: la trovo anche una piccola truffa ai danni dei lettori che già possedevano In una lontana città, e che ora acquisteranno Quartieri lontani credendo che si tratti di un lavoro nuovo.
Statua del Toro Nandi a Madurai
Se, dalla posizione da cui è stata presa questa foto, ci si volta e si attraversa lo spazio mostrato da quest’altra foto, uscendo fuori dal Pudhu Mandapam, questo è quello che si vede. Questa grande statua coloratissima del Toro Nandi è ovviamente rivolta verso il tempio di Shiva che si trova, dopo il Pudhu Mandapam, alle mie spalle.
Il Toro Nandi è, per la tradizione shivaita, il proto-asceta, il primo adoratore di Shiva perso nella contemplazione del dio, nell’unione mistica dell’advaita. Eppure, come si può facilmente vedere da questa immagine, si tratta di una figura festosa, quasi allegra – specie se comparata all’immagine che tipicamente abbiamo in Occidente dell’ascesi mistica, fatta di santi emaciati se non flagellati in un contesto decisamente drammatico (anche se più che di santi dovremmo parlare di solito di santini, e il dramma è quello per noi ormai reso ridicolo da secoli di insulsa insistenza ecclesiastica sugli aspetti più spettacolari di qualcosa che dovrebbe piuttosto essere vissuto in maniera esclusivamente interiore).
Qui di drammatico mi pare che ci sia molto poco. Di questa foto a me piace il contrasto tra tre elementi così differenti: gli austeri cinquecenteschi propilei del tempio sullo sfondo, il coloratissimo asceta con la lingua fuori, e il traffico quotidiano circostante. Ciascuno di questi elementi, poi, ostenta da sé la propria specifica complessità. Siamo in India, insomma – e comprendiamo quel che possiamo.
Giacomo Nanni, "La vera storia di Lara Canepa" pp.82-83
Mi sento in dovere di parlare di Giacomo Nanni e mi accorgo che non mi è facile. È bravo, sì, ma non trovo la chiave. Forse è soltanto troppo minimale per me. Non chiedo alle storie di avere una morale, e nemmeno una conclusione. Ma, le sue, non so come prenderle. Potrei dire: semplici spezzoni di vita, cronachette. Ma se così fosse, che interesse avrebbero? Quasi nessuna quotidianità è di per sé più interessante della mia, che già lo è poco. È difficile raccontare la quotidianità perché è difficile selezionarne i luoghi interessanti, e ancora più difficile ricavarne una sequenza interessante. Giacomo Nanni ci riesce? Nelle Cronachette, in effetti sì. Ma in questa Vera storia di Lara Canepa? Non c’è troppa carne al fuoco? Elvis non morto e il figlio nato/non nato, e i sogni inquietanti? Il disegno è volutamente minimale, e questo non è certo un difetto, in sé. Però non aiuta ad andare oltre, e ci rende del tutto prigionieri della storia.
Scrivo, questa volta, non per proporre una soluzione, ma per sollecitare dei suggerimenti. C’è qualcuno che vuole provare a suggerirmi che cosa trova in questo libro, e come potrei tornare a leggerlo con meno difficoltà? (Non mi si dica di leggermi le recensioni. Ne ho lette diverse, giustamente lusinghiere e assolutamente evasive nel merito; per il mio problema, inutili).
Risaie presso Aleppey
Poiché la persona inquadrata nella foto sono io, e ancora non ho il dono dell’ubiquità (né amo gli autoscatti), è ovvio che questa foto non è stata scattata da me. Ci trovavamo poco lontano da Aleppey (o Alappuzha) nel Kerala. Avevamo preso una barca senza motore, per girare i canali in silenzio. A un certo punto il nostro conduttore ci ha proposto di fermarci per un te.
Siamo scesi, e non ci hanno messo di fronte a un tavolino, ma davanti a questa meravigliosa distesa di verde, come se fosse ovvio che eravamo capaci di apprezzarne la bellezza. Ma lo eravamo davvero, e quando il tè è arrivato ci ha fatto appena sorridere il fatto che i nostri ospiti si rendessero conto che non avevamo dove appoggiarlo. Si è rimediato con un’altra sedia.
Guardare davanti a noi era così coinvolgente che tutto il resto rimaneva in secondo piano. L’augurio da fare oggi, all’inizio dell’anno, sarebbe che guardare davanti a noi potesse essere ugualmente ispirante. Non viviamo nel paese giusto né nel periodo giusto, ma il primo dell’anno è fatto per illudersi felicemente.
Proprio come lo stare seduti su quella sedia.
30 Dicembre 2010 | Tags: Chris Ware | Category: comunicazione visiva |
Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 1 e 2
Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 3 e 4
Il centro della prima doppia pagina
Ogni volta che torno a guardare questa breve storia a fumetti realizzata da Chris Ware faccio delle piccole scoperte, che mi aiutano a capire i motivi sia della qualità del suo lavoro che quelli dell’effetto gelato che mi trasmette. Le ossessioni produttive di Ware stanno un po’ diventando oggetto delle mie ossessioni, come si può già vedere in questi post. In quello più recente mi ero soffermato sulla struttura complessiva della pagina e sulla costruzione di un effetto quasi mondrianiano attraverso la distribuzione delle vignette e delle linee bianche che le separano. Ora, tornando a osservare queste pagine mi cade l’occhio su un gioco di diagonali, contenuto nelle vignette, che costruisce un interessante contrasto con l’architettura ortogonale complessiva.
Il centro della seconda doppia pagina
Se guardiamo le due doppie pagine, possiamo osservare che ciascuna è organizzata attorno a una vignetta centrale, che rappresenta la stanza vuota della protagonista. Le due vignette sono quasi uguali (le riporto qui a fianco), differendo solo nella collocazione temporale diurna o notturna (e nella presenza/assenza di un pezzo di corrimano). Sono caratterizzate entrambe dalla presenza di una linea spezzata che va dal basso a sinistra verso l’alto a destra e separa il pavimento nero dal resto dell’immagine. Si noti che gli angoli di questa spezzata sono tutti uguali, secondo una regola di costruzione assonometrica (e dunque non prospettica), che però non comprenderebbe la diagonale delle scale. Ma pure la seconda spezzata, che separa, in alto, il soffitto dalle pareti, mostra le medesime angolazioni, anche se invertite in due linee diagonali su tre. Qui, tuttavia, non c’è nessuna regola di costruzione assonometrica che imponga questa scelta, che è dunque interamente arbitraria.
La diagonale
Infine, se si traccia il prolungamento della prima diagonale a sinistra, questo va a cadere esattamente sulla diagonale del soffitto in alto a destra, rivelando l’accuratezza della costruzione. E si tratta di una costruzione importante: questa immagine si trova al centro delle due doppie pagine, perché la stanza rappresentata è a sua volta al centro del racconto, e ricorre ossessivamente nella sequenza narrativa.
Ma non ricorre solo l’immagine della stanza. È la linea spezzata stessa che la caratterizza a ricorrere, in tutto o in parte, con l’ossessione di quegli angoli sempre uguali. La ritroviamo persino nell’inclinazione della testa della protagonista appoggiata sul cuscino quando è a letto, e nei profili dei tetti delle case nelle immagini in esterno.
Già l’abbandono della prospettiva a vantaggio dell’assonometria rende freddo e geometrico l’universo di Ware, eliminando concettualmente la presenza di un punto di vista umano – ma poi, questa ricorrenza esasperata delle medesime angolazioni sembra riportare tutto quello che viene mostrato e raccontato a questa medesima logica inumana.
La prima doppia pagina senza le parti estranee alla linea principale
Mi sono divertito qui a fianco a togliere dalle doppie pagine le vignette che non riguardano la situazione stanza. Ci si accorge bene, da queste immagini, che persino la distribuzione delle vignette che hanno per oggetto la stanza da letto segue un’organizzazione diagonale, più accennata nella prima doppia pagina e più spiccata nella seconda. Ma ci si accorge anche – eliminando le altre vignette – che c’è una logica moltro stringente nei colori: ai grigi della stanza si aggiungono un azzurro e un ocra (rosso).
La seconda doppia pagina senza le parti estranee alla linea principale
Se ora torniamo alle pagine vere riportate in alto, ci possiamo accorgere che le vignette qui mancanti sono costruite esattamente su questa coppia di colori, con appena un po’ di verde quando sono in scena i genitori. Insomma, nella monotonia della vita della protagonista, anche la ricorrenza inesorabile dei colori contribuisce a costruire l’impressione che non ci sia via di fuga, se non nella rassegnazione. L’ossessività della costruzione rinvia alla natura ossessiva e ricorsiva del vivere – o almeno alla visione che ne vuole esprimere Ware: gli stessi angoli, gli stessi colori dappertutto, senza scampo.
Andrea Pazienza, "Pertini", tavola 16, 1983
No, non è della mostra di Roma che voglio parlare. Però proprio a causa di quella ho preso in mano la mia vecchia copia di Pertini, Primo Carnera Editore, supplemento di Frigidaire del 1983. Mi ricordavo che non solo a suo tempo mi aveva fatto morire dal ridere (cosa normale da parte di Pazienza) ma che mi aveva anche colpito l’amore e il rispetto manifestati dall’autore nei confronti di Sandro Pertini. Non certo perché Pertini non se li meritasse (caso politico più unico che raro), ma perché mi colpiva allora e continua a colpirmi oggi un’esempio di satira in cui il protagonista non viene massacrato, ma anzi ne esce con simpatia.
Per questo, mi sono riletto le pagine di Pazienza, e mi sono reso conto che il vero oggetto della satira non è Pertini ma lui stesso. Non vera satira, dunque, perché su se stessi si può giocare, ma non è possibile massacrarsi.
Paz si mette nei panni dell’imbecille, che, con tutta la sua buona volontà, non riesce che a combinare guai. Se di Pert si può vedere parodia, sarà al massimo perché è troppo buono, troppo intelligente, troppo tollerante delle scempiaggini del suo luogotenente.
Le storie sono, a loro volta, una più scema dell’altra. Pazienza sembra prendere in giro se stesso anche come autore. Ma è una continua strizzata d’occhio al lettore, a cui si chiede di stare al gioco. Se saremo disposti a starci, ci sganasceremo dalle risate.
La comicità vive di meccanismi complicati. Esistono stupidità geniali e altre semplicemente stupide. Sono diverse per un soffio. Pazienza l’aveva quel soffio. L’aveva davvero!
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