Strisce d’oltre Manica con vocazione letteraria
Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 1993
Chi è o è stato lettore di Jeff Hawke conosce la vocazione letteraria del fumetto britannico. Jeff Hawke, di Sydney Jordan, è un serial di fantascienza che accompagna in forma di strip da quasi quarant’ anni l’ uscita di molti quotidiani dell’ isola e d’ altrove. In Italia, dove la striscia pubblicata giorno dopo giorno non ha mai riscosso grande successo, lo abbiamo conosciuto grazie alla rivista Linus, e alla successiva pubblicazione in una lunghissima serie di volumi.
C’ è un filone visionario, d’ altra parte, nella stessa letteratura britannica, da Shakespeare e Marlowe (e chissà da quanto prima) a Milton, a Blake, a Byron, a De Quincey, a Joyce. Non si tratta di un fenomeno prettamente letterario, o perlomeno non di qualcosa che riguardi solamente la alta letteratura: una vena di fantastico attraversa con un’ intensità non indifferente l’ intero contesto culturale britannico. Attraverso di essa, alta cultura e cultura popolare si ritrovano singolarmente solidali.
Il fumetto, che ha una storica vocazione al fantastico e al visionario, e che nel Regno Unito è arrivato e cresciuto rapidamente (anche grazie all’ identità linguistica con gli Stati Uniti), ha trovato in questa eredità culturale un terreno fertile. Con tradizioni letterarie e popolari che sul tema del fantastico si trovano così vicine, è stato del tutto naturale per il fumetto britannico, a partire da un certo momento della sua evoluzione, accogliere nel proprio universo di riferimento tanta letteratura che in altre tradizioni nazionali rimane di solito lontana dal gusto di un pubblico di massa.
L’ effetto di questo recupero è sensibile soprattutto negli ultimi vent’ anni, ma è rintracciabile anche in numerose produzioni precedenti, come ben sanno gli appassionati di Jeff Hawke. Non è che il fumetto britannico copi o riproduca modi letterari (l’ influsso del cinema rimane di sicuro più evidente); è che la letteratura fa comunque parte del suo background di riferimento in un modo che in altre nazioni si incontra solo in fumetti rivolti espressamente a un pubblico colto. Basta considerare quello che succede negli anni Settanta, quando la americanissima Marvel (Uomo-Ragno, Fantastici Quattro, Hulk…) crea per il mercato locale un supereroe britannico, Captain Britain, e lo affida ad autori locali: persino un simile campione di superomismo americano diventa in Gran Bretagna il malinconico e problematico protagonista di una saga in cui elfi, streghe e buffoni non riescono a perdere una eco di shakespeariana vivacità .
Il momento di particolare successo che il fumetto britannico sta vivendo in questi anni deve molto all’ interesse della cultura americana. Una nutrita schiera di giovani sceneggiatori e disegnatori, che sino a qualche anno fa vivacchiavano in patria senza troppi riconoscimenti, è stata scoperta negli anni Ottanta dal mercato statunitense. Le case Usa più importanti hanno affidato loro parti sempre crescenti della propria produzione, ed essi si sono trovati a realizzare storie di supereroi senza, spesso, essere cresciuti avvolti dal mito di Superman, come accade invece normalmente ai giovani disegnatori d’ oltre oceano. E l’ effetto, sulla produzione americana, si è visto, sia per qualità che per vendite. In questo momento, un’ ampia maggioranza delle serie migliori della Dc Comics è realizzata in tutto o in parte da autori britannici. Il successo americano ha avuto come effetto collaterale quello di rilanciare la produzione nella madrepatria. Fattisi conoscere sugli albi statunitensi, i medesimi autori hanno potuto pubblicare in Gran Bretagna; il mercato si è aperto e ha lasciato spazi anche per autori che, quanto a carattere e tipo di produzione, non avrebbero mai potuto sperare in una cooptazione d’ oltre oceano. Chris Reynolds è tra questi.
In Italia, gli autori britannici sono arrivati per la via traversa del comic book americano, ma su riviste come Corto Maltese e Nova Express è da qualche tempo possibile trovare ampi e interessanti esempi anche di quella produzione che non è mediata dal mercato Usa. Tra i libri, che pure si iniziano a pubblicare, due sono recentissimi.
Uno di questi è un saggio critico sulle tendenze del fumetto britannico contemporaneo, dedicato in modo particolare a quegli autori che si sono imposti sul mercato americano, autori come Alan Moore, Neil Gaiman, Pat Mills, Kevin Ò Neill, David Lloyd, Grant Morrison, John Bolton e altri ancora. Si tratta di Nuvole britanniche, di Federico A. Amico, edito dalla Granata Press di Bologna, un libro preciso e dettagliato, ricco di analisi ancor più che di informazioni. Esce da questo libro un quadro piuttosto chiaro della situazione, anche se forse un po’ troppo focalizzato sui singoli autori cui lo studio è dedicato, mentre restano a margine una serie di aspetti contestuali cui sarebbe forse valsa la pena di dedicare più spazio.
Ne restano per esempio fuori (ma l’ esclusione è dichiarata) tutti gli aspetti un po’ underground della produzione d’ oltre Manica, anche quando si tratti di personaggi significativi come Hunt Emerson di cui qualche anno fa, per qualche tempo, “il Manifesto” pubblicò quotidianamente una striscia esilarante: Calculus Cat. E ne resta fuori Chris Reynolds, l’ autore di Mauretania, da poco pubblicato in Italia da Feltrinelli nella collana “I Canguri”.
Mauretania è il secondo romanzo per immagini di questa collana – che normalmente pubblica letteratura – dopo L’ uomo alla finestra di Lorenzo Mattotti. Con la storia di Mattotti, quella di Reynolds condivide l’accento sulla dimensione interiore, sulle sfumature emotive, sui silenzi e sulle contemplazioni. Diversissimo è invece il carattere grafico dei due testi, perché di fronte alla ricchezza del pennino di Mattotti, agilissimo nell’ esprimere tutti i colori delle emozioni, Reynolds non sembra offrire niente di più che una semplicità di segno che pare sconfinare nella banalità. Ma si tratta di un’ impressione solo superficiale. A mano a mano che si entra nel romanzo, questa essenzialità , questa povertà grafica, diventa progressivamente meno rilevante, lasciando emergere al suo posto il ritmo lento, gentile, profondo, con cui questi segni abbozzati disegnano una vita cui la monotona ripetizione degli atti di ogni giorno non arriva a togliere senso e interesse. Tanto più che quando questa vita uniforme viene smossa dagli eventi che il romanzo racconta, il suo essere raccontata con la medesima povertà di segno lascia il lettore con il dubbio se gli eventi fantastici che l’ hanno movimentata siano in fin dei conti davvero differenti dal tornare a casa, dal parlare con la madre, dall’ avere un lavoro in un ufficio, dallo sposarsi o meno.
Il fantastico – qui nella forma della paradossale relazione tra un minuscolo evento nella campagna inglese e il destino del mondo – non è, per Reynolds, nulla di strano o eccezionale, nulla che richieda spettacolarizzazione o stupore. Di quello che accade in Mauretania sembra non stupirsi nessuno dei personaggi: tutto è sempre, ed è destinato a rimanere, malinconica ma anche serena quotidianità .
Intellettuali a fumetti
Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 1992
Nella pletora di pubblicazioni precotte e riscaldate che caratterizza l’editoria americana a fumetti, accanto a un numero non particolarmente ampio di produzioni cucinate a puntino, si distingue una rivista in cui abbondano i piatti crudi, con una nouvelle cuisine fumettistica particolarmente invitante. Si tratta di Raw, un magazine newyorkese dalla periodicità incerta, dalla evidente cura artigianale, rivolto esplicitamente (e ironicamente) ai “damned intellectuals” della Grande Mela e del resto del mondo. In Italia Raw non è facile da trovare, ma vale la pena di parlarne lo stesso. Oltre che per le sue qualità, vale la pena di parlarne perché ultimamente si è molto parlato del suo direttore e fondatore: Art Spiegelman.
Art Spiegelman è l’autore di Maus, un romanzo grafico il cui secondo volume è stato recentemente pubblicato in italiano dalla Milano Libri (e recensito su queste pagine alcune settimane fa). Con Maus, Spiegelman ha creato un’opera piena di fascino e culturalmente importante, ma ha anche costituito un precedente, sia negli Stati Uniti che in Italia: là come qui Maus è stato il primo libro a fumetti che stampa e pubblico hanno trattato con lo stesso tono con cui normalmente trattano i romanzi, invece che con l’accondiscendenza un poco ironica che viene spesso riservata a queste pubblicazioni. Storia drammatica dell’olocausto ebraico, storia ironica (e un po’ tragica) del rapporto con un padre chiuso nel proprio mondo, storia di un’umanità brulicante e resa ancor più umana dall’aver assunto l’aspetto di piccoli animali (topi, gatti, maialini, cani), Maus merita tutti gli elogi che gli sono stati fatti, e un successo presso il pubblico italiano come quello (notevole) cha ha già avuto in America.
Anche se il suo autore non è molto conosciuto al grande pubblico – e non lo era nemmeno a quello americano – Maus non è un opera prima. Spiegelman è arrivato a concepirlo e realizzarlo (con impegno e fatica) dopo una lunga militanza nel fumetto underground, e dopo molti precedenti, anche se nessuno di una portata paragonabile. Inoltre, non è davvero un caso che sia stata quest’opera la prima a uscire dal ghetto culturale in cui sono di solito relegati i comics negli USA. Se c’è qualcuno in America che ha creduto nel fumetto come strumento di espressione artistica di grandi potenzialità, e che ha lavorato e combattuto per diffonderne l’idea, questo è proprio lui. E Raw è stata la sua spada.
Quando Raw è nata, nel 1980, il fumetto underground americano si trovava già da tempo su un lungo, lunghissimo viale del tramonto. Negli anni sessanta e settanta l’underground aveva rappresentato la risposta dell’intellettualità di ambiente universitario al monopolio delle grandi case editrici di fumetti. Negli Stati Uniti, il fumetto che non fosse comic strip, cioè che non fosse di quel genere che si trova pubblicato ogni giorno sui quotidiani, era (ed è tuttora) in larga parte fumetto di supereroi. Sino a tutti gli anni settanta, il pubblico dei fumetti di supereroi era certamente tutt’altro che acculturato, o polemico nei confronti della società. Così, degli outsider come Robert Crumb (“Fritz the Cat”) e Gilbert Shelton (“The Fabulous Furry Freak Brothers”) trovarono un pubblico per i loro disegni e le loro storie dissacranti in quell’ambiente studentesco da cui essi stessi provenivano: un ambiente insofferente, contestatore, pacifista, ecologista ante litteram, talora non lontano dal movimento hippy.
Contro la logica dei monopoli editoriali, il fumetto underground veniva stampato e prodotto artigianalmente, diffondendosi e facendosi conoscere più tramite il tamtam personale degli ambienti studenteschi che non avvalendosi di operazioni commerciali vere e proprie. Negli anni settanta il suo successo e il suo peso culturale fu tale da ingenerare una vera crisi nella grande editoria.
Ma l’underground, per quanto intelligente e sarcastico, mancava della raffinatezza necessaria a farsi accettare dalla classe intellettuale americana in un modo che andasse al di là dalla semplice dissacrazione politica o sessuale. E soprattutto si proponeva con discorsi, e modalità di costruirli, diversi da quelli che la cosiddetta “alta cultura” riconosceva come propri. Tanto più significativo, questo, in un ambiente culturale come quello USA, con tutte le sue essenziali ripartizioni e classificazioni accademiche di generi e linguaggi.
Nel 1980 dell’undeground rimaneva tanto poco quanto della contestazione studentesca. I suoi effetti più forti si sarebbero visti, di lì a poco e paradossalmente, proprio su quel fumetto di supereroi del quale aveva già provocato la crisi, ma che in quel momento incominciava a dare chiari segni di ripresa. Raw fu inventata da Spiegelman, insieme con la moglie Françoise Mouly, con l’idea di una rivista evidentemente underground, per marginalità e provocatorietà, ma molto diversa dalle altre per stile e intensità del discorso. Ambedue i fondatori appartenevano a quello stesso ambiente intellettuale cui si rivolgevano, ma intendevano aprirlo a un modo di comunicare diverso, che non fosse né quello della pittura e delle arti visive né quello della letteratura, ma che potesse ugualmente comunicare con entrambe.
Il risultato è che Raw è da tredici anni oggi una rivista unica al mondo, per qualità e continuità, e rappresenta per molte persone una specie di mito. Spiegelman e Mouly vi hanno alternato autori americani, europei e giapponesi, con una sapiente e calibrata riproposta di classici un po’ dimenticati. Non so quanto dicano ai lettori italiani i nomi di Sue Coe, Jerry Moriarty e Mark Beyer, autori forse un po’ troppo legati a quell’espressionismo crudo ed emotivamente violento tipico di molta arte newyorkese per essere davvero amati in Europa. Probabilmente il nome di Charles Burns è già più noto, vista anche la sua lunga permanenza in Italia e la sua partecipazione al gruppo italiano Valvoline nei primi anni ottanta. Joost Swarte, Ever Meulen e Lorenzo Mattotti sono tra gli europei che compaiono su Raw.
Uno degli aspetti più affascinanti della rivista è la sua alternanza tra autori così diversi. Spesso impressionante è il contrasto – non di rado da una pagina all’altra – tra il caos pollockiano di Gary Panter e l’ironia elegante di Swarte, tra l’intensità narrativa di José Muñoz e l’irriverenza grafica di Pascal Doury, tra la sensualità materica di Mattotti e il concettualismo underground di Kim Deitch. Eppure, l’insieme tiene, senza dare in alcun modo l’idea di un contenitore neutro. La linea intellettuale è chiara e coerente. Complessa, questo sì, come un pranzo di nouvelle cuisine, in cui lo chef accosti sapori tradizionalmente lontanissimi, alla ricerca di nuove relazioni tra loro, e di altri sapori che emergano dalla relazione.
Spiegelman ha trovato questi nuovi sapori. La contaminazione di tragedia e ironia che rende grande il suo romanzo, Maus, mostra altre facce, altri modi di essere, in Raw. Con la sua rivista, questo altro piccolo ebreo newyorkese dimostra di non essere solamente un grande solista, ma anche un sapiente direttore d’orchestra.
Se ne è accorta, tra gli altri, la casa editrice Penguin, che dal 1990 si è presa carico della pubblicazione e distribuzione, dopo dieci anni di ostinato e intenso lavoro casalingo.
Snoopy, il fantastico fatto a bracchetto
Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 1992
Giocatore di hockey, tennista di grido, esploratore, romanziere, pilota della Grande Guerra, avvoltoio, serpente a sonagli: il bracchetto Snoopy è tutto tranne quello che dovrebbe essere. Come cane da guardia non è senz’altro da raccomandare, ma come personaggio di comic strip è probabilmente quanto di più riuscito il nostro secolo abbia prodotto.
Sono in questi giorni quarantadue anni che il fantasioso bracchetto è uscito per la prima volta dalla penna di Charles Monroe Schulz: le prime strisce dei Peanuts comparvero infatti sui quotidiani americani nell’ottobre del 1950. Non era previsto che si chiamassero così: il nome doveva essere Li’l folks, “Piccola gente”, ma qualcuno cui Schulz aveva presentato la striscia commentò “Sembrano noccioline”; e così si chiamarono: “noccioline”, “peanuts”.
Il successo di questo comic, che raccontava di bambini con trasfigurati problemi di adulti, fu notevole sin dall’inizio. In un’America in cui la psicoanalisi incominciava a furoreggiare, la striscia di Schulz faceva sorridere dei luoghi comuni della quotidianità, e delle debolezze di ciascuno. Il mondo di bambini che vi veniva rappresentato era scopertamente una metafora del mondo degli adulti, ma permetteva al racconto di rendere palese quello che nella vita è implicito, attraverso l’ingenuità comunicativa (ma niente affatto psicologica) dei suoi personaggi. In altre parole, Charlie Brown, Linus, Lucy e compagnia erano dei bambini con la psicologia dei grandi e la facilità comunicativa dei piccoli.
Ma i Peanuts del 1950 erano ancora piuttosto diversi da quelli di oggi. Al posto dello stile grafico un poco tremolante e dalle linee essenziali che ben conosciamo tutti, c’erano delle linee perfette e curate, un po’ fredde nella loro regolarità. E poi Snoopy era quasi irriconoscibile: molto più cane di quanto non sia ora, nel 1950 Snoopy era davvero un cucciolo di bracchetto, impegnato a correre dietro alle persone e a recuperare bastoncini, senza il minimo accenno di fantasia simil-umana.
Lo Snoopy che conosciamo noi si forma piano piano durante gli anni cinquanta, ed è già del tutto lui quando i Peanuts sbarcano in Italia. Siamo nei primi anni sessanta, all’epoca della pubblicazione dei libri di Charlie Brown da parte delle edizioni Milano Libri. A testimoniare l’importanza che venne data sin dall’inizio a queste pubblicazioni potrebbe bastare l’introduzione di Umberto Eco al primo volume, introduzione poi ripresa per un famoso articolo in Apocalittici e integrati. Qualche anno dopo, poi, un’edizione Mondadori delle strisce di Schulz sarebbe stata titolata Il bambino a una dimensione, con evidente riferimento (e niente affatto a sproposito) all’opera di Herbert Marcuse.
Le problematiche di interazione psicologica ironicamente affrontate nei Peanuts trovarono presto un discreto terreno in Italia, ma il personaggio che in quegli anni godeva della massima attenzione non era Snoopy, bensì il frustrato Charlie Brown. Negli anni dell’esistenzialismo e dei primi fermenti della sinistra non storica, Charlie Brown era lo specchio in cui ciascuno poteva veder riflessa la propria epocale incapacità di vivere: un sentimento che era allora molto di moda.
Nonostante questo, la rivista che nacque nel 1965 si chiamò Linus, e non Charlie Brown. Contribuirono sicuramente alla decisione anche ragioni di semplicità del nome, ma non si può trascurare il ruolo fondamentalmente positivo e ragionevole che il personaggio Linus gioca nel mondo di Schulz. Era forse già scritto in questa scelta che qualche anno più tardi la rivista Linus sarebbe passata dall’intellettuale proposta di fumetti del presente e del passato, alla critica politica impegnata e a una quasi militanza nella sinistra giovanile degli anni settanta.
Snoopy in tutto ciò non è mai stato marginale, ma la sua dimensione fantastica e dolcemente demenziale si trovava forse un po’ fuori sintonia con le tendenze di quegli anni. Il mondo di Snoopy è un mondo a parte persino all’interno del mondo dei Peanuts: della “poesia ininterrotta” (definizione di Eco) che caratterizza la narrazione dei Peanuts, le vicende di Snoopy sono un po’ la parte da teatro dell’assurdo, da “deragliamento dei sensi”. Sul palcoscenico della striscia, dove si alternano illusioni e frustrazioni (tutte filtrate attraverso una luce ingentilente e ironica che le spoglia dell’angoscia senza vuotarle di significato), Snoopy è l’unico a non conoscere né le une né le altre.
Il suo fascino è quello di vivere un’illusione così perfetta da non patire alcun confronto con la realtà, col risultato di non essere nemmeno più vera illusione. Nulla può distogliere Snoopy dal suo mondo irreale, perché tutto quello che gli succede viene subito tradotto nei suoi termini, ed entra immediatamente a farne parte: deludere Snoopy è impossibile. Snoopy incarna la fuga dalla realtà, è il fantastico fatto bracchetto.
Oggi, anni novanta, è ormai da tempo che Snoopy rappresenta il personaggio-simbolo dei Peanuts, quello che più di tutti incarna lo spirito di Schulz, quello più amato dal grande pubblico. Giustamente perciò la mostra che celebra il quarantennio dei Peanuts è intitolata a lui. Dopo essere stata, in forma molto più ridotta, a Parigi, la mostra “Il mondo di Snoopy” è approdata a Roma, presso lo Spazio Flaminio, dove è stata inaugurata venerdì 16 ottobre.
Non vi si trovano soltanto le tavole originali di Schulz (e l’autore in persona, almeno sino a ieri), che ne costituiscono comunque il cuore. Ad esse si aggiungono molte altre sezioni, tra cui quella che contiene una serie di omaggi a Snoopy da parte di pittori, architetti, designer e fumettisti, quella con la sfilata di moda per Snoopy, un’aula didattica con brevi lezioni sulla comunicazione, una mostra del merchandising di Snoopy (un aspetto del successo di Schulz da non trascurare), film, interviste registrate, videogiochi… Un mondo di Snoopy che non è solamente il mondo suo, interiore, ma anche tutto quello, esteriore, che si è sviluppato col tempo e che ha contribuito a fare del bracchetto fantasioso un mito di oggi, il mito del bambino che può permettersi di non crescere mai, persino quando un intero universo ruota attorno a lui.
La mostra è organizzata dal Gruppo Prospettive, di Roma, e conta prestigiose collaborazioni di enti e persone. Resterà aperta sino al 17 gennaio. Tappe successive in Italia Milano e Venezia, poi Europa e Stati Uniti.
E l’Uomo-pipistrello risorge dalle ceneri
Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 1992
Non è trascorso molto tempo da quando era la norma che un film tratto o ispirato a un fumetto americano fosse un prodotto non solo di consumo, ma anche di scarse pretese estetiche e poche o nulle velleità artistiche. Forse qualcuno ricorderà alcuni film del dopoguerra o degli anni cinquanta ispirati a Batman o a Superman, a Dick Tracy o a Flash Gordon; e quasi tutti ricorderanno le infelici pellicole di Superman di qualche anno fa. Ma l’inversione di tendenza avvenuta quattro anni or sono con il primo Batman di Tim Burton, poi confermata dal Dick Tracy di Warren Beatty e ora nuovamente dal secondo Batman, è stata troppo netta e forte da rimanere inosservata: tre film decisamente interessanti, tre esempi ben riusciti di cinema antinaturalistico e surreale. Ma non so quante persone siano riuscite a darsi una risposta sul perché di questo cambiamento.
La spiegazione superficiale è che, dopo tanto tempo, solo oggi dei registi intelligenti e sensibili come Burton e Beatty hanno deciso di manifestare la propria passione per un universo di personaggi cui nessuno aveva mai prestato interesse nel cinema, se non per ragioni di semplice cassetta: osservazione vera ma insufficiente. Per capire qualche cosa di più è necessario sapere che nel mondo del comic book americano gli anni ottanta sono stati segnati da un’enorme trasformazione, e che il personaggio del Batman ne è stato al centro.
Il comic book, fascicoletto mensile a colori su carta povera, rappresenta da lungo tempo uno dei due principali modi di pubblicazione del fumetto americano; l’altro è la strip, la striscia che compare ogni giorno sui quotidiani. Tradizionalmente strip e comic book si sono rivolti a pubblici differenti, adulto la prima (i lettori dei quotidiani), bambino o adolescente il secondo. I cosiddetti supereroi, da Superman all’Uomo-Ragno al Batman, sono personaggi da comic book, mentre sui quotidiani troviamo sia strisce umoristiche come i Peanuts, Doonesbury, B.C. e Calvin & Hobbes, sia strisce di carattere più avventuroso, a puntate, come Dick Tracy.
Fino a una decina di anni fa la situazione del fumetto americano è rimasta descrivibile sostanzialmente in questi termini. Ma una serie di fattori, economici e culturali, hanno spinto, da quel momento in poi, verso il cambiamento: da un lato il comic book si è trovato con l’esigenza di una crescita del mercato, appena ripresosi dalla paurosa crisi degli anni settanta, e dall’altro gli autori più giovani hanno spesso agito sotto l’influsso delle novità occorse nel frattempo in Europa, dove, soprattutto in Francia e in Italia, si era intanto imposto un fumetto molto più colto, decisamente destinato a un pubblico adulto e consapevole. Si aggiunga che la crisi del comic book di supereroi degli anni settanta ha annoverato tra le sue ragioni anche il successo del fumetto underground, vicino alla contestazione studentesca – e quindi a sua volta innovativo, irriverente, slegato dai vecchi schemi. E c’è stato infine il fatto, tutt’altro che trascurabile, che i personaggi del comic book sono conosciuti ai lettori americani (e non americani) ormai da decenni, ed esiste di conseguenza un potenziale pubblico adulto che li conosce per averli frequentati in età più giovane.
Una serie di circostanze che sarebbero forse rimaste senza alcun collegamento, senza sortire conseguenze rilevanti, se non fosse stato per un giovane autore, Frank Miller. Fu lui che nel 1985, dopo una serie di prove personali di crescente successo, decise di creare una miniserie in quattro parti sul Batman, su basi completamente nuove rispetto al passato. Slegata dalla serie regolare dove si raccontano le avventure dell’uomo-pipistrello, Batman – The Dark Knight (pubblicato in Italia dalla Milano Libri) racconta il ritorno sulle scene di un Batman invecchiato, ultracinquantenne, in un contesto umano e sociale che fatica a riaccettarlo, in un contesto politico sull’orlo della guerra mondiale, e alle prese con i peggiori tra i nemici di sempre, ora più mortali che mai. Robin è morto sul campo anni prima, i supereroi insieme con cui egli combatteva sono banditi dalla legge, mentre il solo Superman agisce in incognito come braccio armato del Presidente, ligio al potere come sempre.
La storia raccontata da Miller ha la complessità, la profondità, l’impatto emotivo dei migliori esempi di letteratura americana, cinematografica e non. Si rivolge a un pubblico di adulti che sono stati ragazzi e che come ragazzi hanno letto, conosciuto e amato quei personaggi. Richiede al suo lettore l’accettazione di un mito, e glie ne presenta in cambio la versione adulta, problematica, complessa, articolata in mille facce dall’aspetto differente. L’eroe Batman è sì il simbolo della purezza morale, ma evoca ora le pericolose sembianze del cittadino che si pone al di sopra della legge, ora il fulgore oscuro del combattente misconosciuto, ora l’ansimo patetico di chi ha messo in moto un meccanismo destinato a schiacciarlo, ora la coinvolgente euforia di chi sa trovare la soluzione non convenzionale al problema impossibile, ora, infine, la malinconia di chi vive un tempo che non è più il suo.
Quando The Dark Knight viene pubblicato, nel 1986, il successo è clamoroso: le ristampe si succedono alle ristampe in tempi brevissimi – e, cosa più importante, la maggior parte dei nuovi lettori sono adulti, spesso adulti acculturati. E’ un nuovo mercato che si è aperto al comic book, un mercato più difficile e di umori alterni, ma sufficiente a risollevare le sorti del settore. A partire da questo episodio i comic book di supereroi per adulti, già nati da qualche anno, diventano una forte realtà editoriale: prodotti strani, soprattutto quando visti con gli occhi dell’Europa, per la loro acerba contaminazione tra temi che qui da noi possono sembrare eccessivi (come quello, reiterato, del superuomo) e modalità narrative e stilistiche decisamente raffinate.
Con il passare degli anni, il comic book per adulti è passato dal momento esplosivo a una più assestata fase di routine. Oggi è difficile dire dove finiscano i prodotti dedicati ai ragazzi e inizino quelli destinati ai grandi. Se allora il valore estetico delle storie per gli adulti era un fatto evidente, oggi la differenza sta forse più nel modo di scrivere che nella qualità. Inoltre, l’intero mondo del fumetto di supereroi ha subito il contraccolpo della storia di Miller e di alcune altre che nel medesimo periodo, con minore fortuna editoriale, ne hanno condiviso lo spirito.
Così, il mito del supereroe campione di virtù, perfetto e immortale, si è trasformato nella critica del mito (che non ne cancella la presenza, anzi, semmai, la rende ancora più accettabile), e l’immobilità temporale dei personaggi è divenuta un’apparente ma vorticosa trasformazione. Gli ultimi anni hanno visto una serie di avvenimenti nel mondo fatato degli eroi del comic book che non sarebbero stati nemmeno pensabili in passato: abbiamo assistito in diretta alla morte di Robin, aiutante e pupillo del Batman, abbiamo assistito al matrimonio dell’Uomo-Ragno e al frazionamento degli X-Men; una pletora di eroi minori, ma pur sempre eroi e protagonisti, sono caduti sul campo e usciti di scena. Qualche anno fa è stata pubblicata addirittura una serie i cui eroi erano destinati a morire dopo breve tempo a causa dello stesso procedimento che donava loro i super-poteri. In questo contesto l’annunciata morte di Superman non stupisce affatto, oggi; e come sa ogni buon lettore di supereroi, la morte del personaggio non è la morte del mito, poiché le sue avventure possono continuare in una miriade di modi, senza nemmeno ricorrere all’obsoleto (ma non del tutto abbandonato) trucco della resurrezione o della falsa morte: vi sono infinite avventure al passato dello scomparso Superman che devono ancora essere raccontate, e vi sono infiniti eredi nel presente che ne possono evocare la grandezza agendo nel suo nome…
Insomma, i bei film sul Batman che Tim Burton ci ha regalato hanno radici nello stesso retroscena che sta condannando Superman a gloriosa (e remunerativa) morte. Forse tutto questo visto dall’Europa fa sorridere un poco, e getta ombre di fanciullezza sull’intera cultura americana. Ma davanti allo schermo cinematografico ogni tanto anche la vecchia Europa può ben apprezzare quest’aura di giovanile mitologismo, per quanto alieno esso le possa sembrare.
Sono un po’ stanco di scervellarmi per i post di questo blog. Stanchezza estiva. Voglia di ferie.
E ferie siano. Da lunedì.
Ma ho fatto una pensata per non lasciare sguarnite queste pagine. Tra il 1992 e il 2005 ho scritto numerose recensioni per il Domenicale de Il Sole 24 Ore. Non è un materiale che abbia molto senso ripubblicare in volume, perché si tratta davvero di cose d’occasione, legate all’attualità del momento. Ma possono ben apparire qui, d’estate, a tempo perso.
Se a qualcuno interessano, tanto meglio. Se invece no, non sarà molto diverso che se avessi lasciato il blog sguarnito.
Da lunedì 11 luglio, dal lunedì al venerdì, pubblicherò, al ritmo di una al giorno, queste Recensioni d’annata, così come sono, senza toccare una virgola, magari anche senza rileggerle. Era quello che scrivevo allora, sia chiaro.
Poi, se capita l’occasione, la voglia e il tempo, potrebbe apparire anche qualche post attuale.
Buona estate!
Magnus, Le femmine incantate, pag11
Volevo parlare di tempo raccontato e tempo del racconto nel fumetto, ma nel cercare l’esempio giusto mi sono reso conto che le cose sono molto più complicate di quello che mi preparavo a dire. L’opposizione tra tempo raccontato e tempo del racconto è tradizionale in narratologia, e contrappone il tempo che trascorre nell’universo dei fatti narrati a quello che trascorre nell’universo reale, impegnato nel corso della lettura.
Volevo dire che il tempo del racconto non è solo un fatto empirico, ma che è tipicamente organizzato in modo da costruire nel lettore una durata interiore dell’evento che si sta raccontando. In altre parole, posso raccontare brevemente o a lungo un evento di durata narrata breve oppure lunga, senza nessun vincolo di corrispondenza; ma un evento che richiede un tempo di lettura maggiore impegnerà l’attenzione del lettore più a lungo, e sarà perciò sentito come più importante.
Così esposto, tuttavia, il principio non è corretto. In una sequenza narrativa complessiva, un evento può richiedere un tempo del racconto maggiore di un altro anche solo perché corrisponde a un tempo raccontato maggiore. In questo caso, la maggiore attenzione che richiede non rimanda a una sua maggiore importanza, ma solo a una sua maggiore durata. Quando invece si allunga il tempo di lettura (più tempo del racconto) a parità di tempo raccontato, allora è evidente che si sta dando particolare rilievo all’evento, perché il tempo psicologico (insieme con l’attenzione) che esso richiede/induce non è giustificato dal solo tempo raccontato.
Guardando questa tavola di Magnus, mi rendo però conto che anche questa formulazione non è ancora del tutto corretta. Infatti è evidente che l’evento di maggior rilievo qui è quello della vignetta centrale, ma possiamo davvero dubitare del fatto che il pure evidente rilievo visivo di cui essa gode abbia come effetto una sua maggiore durata percettiva da parte del lettore: in altre parole, la vignetta centrale chiederà certamente maggiore attenzione, ma non è affatto detto che richieda maggiore durata di lettura.
Forse dobbiamo riformulare il principio in questo modo: non è semplicemente il rapporto tra il tempo del racconto e il tempo raccontato a costruire in noi un’esperienza percettiva di maggior durata e intensità. Probabilmente è sufficiente il suggerimento che quel pezzo di racconto sia particolarmente importante, e che dunque andrebbe fruito più a lungo per meglio coglierne il valore. Non una durata effettiva della percezione è dunque in gioco, bensì il suggerimento dell’opportunità di una durata.
In questa pagina sono molti i fattori che concorrono alla valorizzazione della vignetta centrale: c’è la sua dimensione maggiore, la posizione centrale stessa, l’effetto passepartout attorno ai due volti centrali; e poi, narrativamente, essa contiene l’evento preparato nelle vignette precedenti; e poi, subito dopo di essa, il tono del racconto (e anche dei neri della pagina) cambia di colpo: dalle figure simmetriche ed eleganti e statiche delle prime vignette si passa a quelle asimmetriche e mosse e in apprensione delle ultime vignette.
Ma questa pagina non è fatta per essere letta solo in sequenza. Tutta la serie de Le femmine incantate è fatta per una rilettura ripetuta, destinata a nuove scoperte visive e narrative a ogni visita successiva. Leggendo e rileggendo questa pagina, il tempo del racconto dell’immagine centrale, ovvero la durata percettiva che le dedichiamo, finisce per essere molto maggiore di quella delle altre, non foss’altro perché l’occhio corre sempre lì, una volta che la curiosità del “come va a finire” che caratterizza ogni prima lettura si sia esaurita.
Così, l’evento dell’atto d’amore tra l’uomo e la dea, per quanto rinchiuso in una sola immagine, dura psicologicamente quanto il resto della storia, perché tutta la storia gira intorno a quello, prima preparandolo e poi traendone le conseguenze. Raccontare non è riportare dei fatti: è costruire un andamento ritmico dell’anima in cui le nostre stesse passioni si possano riconoscere, trovando in questo forma nuova.
Lorena Canottiere, Oche, pag.11
Trovo questa bella grande vignetta (a piena pagina) dentro Oche, di Lorena Canottiere, da poco uscito per Coconino. La trovo bella, molto ben disegnata e con un tratto originale. Apre, dopo una specie di prologo, una storia che mantiene le promesse delle prime pagine, forse con un pelino di buonismo di troppo. Non è però della storia o del libro che voglio parlare, ma di questa medesima immagine, che trovo a sua volta un ottimo esempio di focalizzazione complessa.
Ci sono quattro figure umane in questa immagine, una molto vicina a noi, grande, una più piccola e più scura in secondo piano, e due ancora più piccole, sul fondo. L’immagine della ragazza, vicina e grande, è fatta per richiamare per prima l’attenzione, per posizione e dimensione. Poiché però non mantiene le promesse percettive (nonostante sia in primo piano la sua figura è molto meno definita di tutto quello che le sta attorno), l’attenzione la abbandona immediatamente, e si sposta sulla seconda figura umana disponibile, quella del ragazzo sotto l’albero, e qui si ferma. Sappiamo che questa è una vignetta di una storia a fumetti, e cioè di un racconto; e un racconto ha dei personaggi, i quali sono di solito umani: anche l’albero è infatti molto ben definito, e la sua chioma si trova pure nella posizione privilegiata per iniziare la lettura, in alto a sinistra, tuttavia è molto improbabile che l’albero possa essere un personaggio – perciò lo ignoriamo, se non come contorno, contestualizzazione.
La figura del ragazzo sotto l’albero ha invece diverse caratteristiche per essere focalizzata, e mantenere sufficientemente a lungo la nostra attenzione. Non si trova al centro, ma nemmeno troppo lontano dal centro, e, soprattutto, la dominanza di tonalità scure e di figure definite a sinistra ha spostato il centro percettivo dell’immagine verso quella parte. Ancora di più conta però il fatto che il disegno della figura del ragazzo sia molto più definito di quello della figura della ragazza: più contrastato, più fitto di segni e di dettagli, insomma tanto più carico di informazioni da chiederci di osservarlo con cura, perché probabilmente quelle informazioni serviranno. Infine, e non è un dettaglio trascurabile, il ragazzo guarda verso di noi, o forse guarda la ragazza in primo piano (la quale invece guarda altrove, fuori campo, a destra).
Lo sguardo del ragazzo, non potendo noi decidere se sia rivolto a noi o alla ragazza, ci interpella e insieme definisce una relazione potenzialmente significativa per il racconto. Si tratta di due ragioni diverse e concorrenti di interesse (anche se remano nella stessa direzione): la prima più generica, basata sul fatto che è frequente che il soggetto di una foto guardi in macchina; la seconda più narrativamente specifica, perché in quello sguardo su di lei c’è già un pezzo di racconto. Proprio attraverso quello sguardo la nostra attenzione può tornare adesso su di lei, memorizzandola come un potenziale altro personaggio (e sarà davvero così, già poche pagine dopo). Ora ci accorgiamo che la sua posizione in primo piano le ha comunque fornito un privilegio: anche se la prima focalizzazione su di lei è stata sfuggente, questa seconda focalizzazione non lo è. Certo, a giudicare da questa immagine, il protagonista della storia rimane lui, anche se lei potrebbe avere un ruolo di rilievo. In seguito, come scoprirà chi si leggerà la storia della Canottiere, entrambi saranno in verità protagonisti a pari grado, come anche un terzo personaggio, già introdotto nel prologo.
E i due personaggi sul fondo? Forse quelli nemmeno li si nota: quando lo sguardo arriva sino a loro ha già compiuto il percorso di andata e ritorno tra la ragazza in primo piano e il ragazzo sotto l’albero, e la storia ha già, sin da ora, preso una piega che non li riguarda. Naturalmente il seguito di una storia può sempre ribaltare le premesse; tuttavia se qui facesse così avremmo ragione di sentirci portati volutamente sulla strada sbagliata – cosa che si può fare, certo, ma bisogna che se ne capisca il motivo. Inoltre i due personaggini sul fondo sembrano immersi in una loro specifica conversazione, che niente ha a che fare con gli altri personaggi, comunque maggiormente focalizzati. Insomma, anche loro, alla fine, proprio come l’albero, non sono che contorno, contesto.
Se questo fosse un film, anziché una storia a fumetti, avremmo probabilmente una prima inquadratura che mostra la ragazza a destra troppo vicina per essere davvero focalizzata, proprio mentre sta uscendo di scena, lasciando solo il ragazzo sotto l’albero a popolare l’immagine. A questo punto l’inquadratura dovrebbe durare abbastanza da permetterci di concentrare la nostra attenzione sul suo sguardo (e un po’ di zoom potrebbe aiutare questa focalizzazione), mentre per rivelarne l’oggetto dovremmo avere a questo punto un controcampo che inquadri la ragazza che si allontana.
Questa immagine, così ben costruita, fa tutta da sola il lavoro di queste tre inquadrature cinematografiche, giocando sul percorso della nostra focalizzazione. Nel cinema, questo percorso deve essere reso almeno in parte più esplicito (naturalmente anche il cinema ha i suoi margini di manovra, come dimostra il fatto che nella seconda – ipotetica – inquadratura, non è necessario lo zoom perché la focalizzazione si porti sul ragazzo sotto l’albero); ma il cinema è legato a tempi reali, quelli dello scorrimento della pellicola, mentre il fumetto costruisce dei tempi ideali attraverso la conduzione dell’attenzione e dello sguardo. In più, la traduzione cinematografica che ipotizziamo sarebbe già più definitoria, perché il controcampo sulla ragazza che si allontana espliciterebbe inevitabilmente una relazione tra i due che in questa immagine rimane assai più suggerita.
Le immagini durano, e il tempo della loro percezione può facilmente trasformarsi, nel racconto a fumetti, in durata raccontata. Ma di questo torneremo a parlare.
P.S. Per fortunata coincidenza (o focalizzazione parallela), nel tempo che intercorre tra la stesura di questo post e la sua uscita è uscito anche un post di Marco D che tratta una questione piuttosto simile di focalizzazione, però in fotografia.
Andrea Queirolo mi domanda di dire la mia sul suo sempre interessante blog a proposito della critica fumettistica, facendo seguito all’intervento di Marco Pellitteri pubblicato il 20 giugno. Posso partire proprio da lì, perché le cose che dice Marco mi sembrano…
Il post di oggi ha cambiato blog: è qui, su Conversazioni sul fumetto.
Sto (Sergio Tofano), Il miracolo di don Luciano Zimmardo, 1917
Anche questo disegno di Sergio Tofano proviene dal Fondo Gregotti. È del 1917, l’anno in cui debutta il Signor Bonaventura. Non sono riuscito a capire di che cosa faccia parte. L’immagine completa, di cui questo è un dettaglio, contiene il titolo. Forse è la testata illustrata di un racconto, o per una locandina.
Comunque sia, mi interessa qui solo come esempio del tratto di Tofano, il cui interesse sta probabilmente proprio nella sua essenzialità. È il tratto di un pennino duro, quasi per nulla modulato, che definisce le figure con poche linee tendenzialmente rettilinee, o poco poco curve (per questo, l’unico luogo del disegno in cui le curve abbondano – cioè il volto del malato – riceve poi tanto rilievo). Persino la mano al centro dell’immagine è un susseguirsi di frammenti di retta.
Con questa omogeneità e leggerezza, bisogna poi essere molto bravi a costruire l’immagine, perché, in assenza di dettagli, quello che emerge è inevitabilmente l’insieme, con le piccole discrepanze: il bellissimo dettaglio delle due dita ravvicinate nella mano al centro, che rende gentile il gesto; la piega dell’altra mano, che la mostra abbandonata; la tensione dei bottoni della federa, dentro cui il cuscino sembra quasi esplodere…
La leggerezza e irrealtà del tratto rende altrettanto leggera e irreale la situazione, e ci rivela la vocazione teatrale di Tofano. Non è la realtà che interessa a Sto, ma la sua evocazione, l’allusione alle cose, il loro racconto. La sua è una linea chiara qualche anno prima di Hergé, ma più matura e intellettuale e disillusa di quella del grande belga. Nel creare Bonaventura, darà presto vita a un anti-anti-eroe, uno che vince per sottrazione di doti: non perché sia bello, o forte o intelligente, ma perché è sgraziato, inetto e un po’ stupido.
Insomma, solo nella stilizzazione del teatro e della sua ironia ci può essere salvezza. Solo nel distillare la realtà in queste linee essenziali, costruite con cura e destinate a mettere in evidenza le opportune sfumature c’è davvero l’arte, se mai arte ci può essere. Il futurismo, ultima spiaggia della genialità italiana, sembra essere l’unica direzione possibile da prendere, ma è ben lontano dal bastare, ben lontano dal salvarci. Tofano se ne ride anche di Marinetti. Non gli piace il fracasso. Le sue linee e i suoi disegni sembrano evocare una voce bassa anche quando ci fanno ridere a voce alta. Oppure, come qui, si accompagnano a un gesto delicato, con eguale gentilezza.
Barcellona, facciata di una casa vicino all'Arc de Triomf
Ho scattato questa foto, insieme a molte altre, a Barcellona, mentre quello che vedevo mi ispirava una riflessione sulle posizioni espresse nel 1908 da Adolf Loos, in un suo testo famoso e influentissimo, Ornamento e delitto (è un articolo breve; lo potete leggere interamente, per esempio, qui). Come è noto, la tesi di Loos, che sarebbe stata ben presto fatta propria e anche oltrepassata dalle correnti funzionaliste, era che sostanzialmente l’architettura (anzi, tutto il campo di ciò che oggi chiameremmo design) doveva fare a meno degli ornamenti, perché la sua bellezza si poteva (anzi, si doveva) trovare nei puri rapporti formali, quelli che esprimono le funzioni stesse dell’edificio o dell’oggetto. Il resto è un sovrappiù, e un sovrappiù colpevole, perché ci nasconde la realtà essenziale delle cose. L’architettura (e non solo) deve essere sincera, e trovare in questa sincerità la sua bellezza – mentre l’ornamento è un imbroglio, una falsità, un delitto, uno spreco di tempo, un diletto infantile, un’attitudine popolare e primitiva.
Non si può negare che la posizione espressa da Loos sia stata fertile, e che il funzionalismo abbia in seguito espresso numerosi capolavori, a partire dai lavori di Wright, Gropius, Le Corbusier… Ma siamo anche costretti a riconoscere che i medesimi principi, una volta applicati senza l’intelligenza di questi (e ancora molti altri) grandi maestri, hanno prodotto pure un intero universo di periferie di gelidi orrori; e che i principi dello stile internazionale si sono facilmente involgariti producendo mostri di cemento senza senso e senz’anima – nel complesso assai peggiori delle vezzose e superficiali case e oggetti ornati aborriti da Loos.
Loos aveva dunque torto? Sì e no. Certo, si può prima di tutto capire bene la sua posizione in un’epoca in cui il bello in architettura doveva essere ornato, e l’ornamento aveva certe regole e certe ricorrenze. Da questo punto di vista Loos aveva sicuramente ragione: l’ornamento non è necessario. E tuttavia la sua è, in fin dei conti, una posizione fondamentalmente aristocratica; e Loos, nel suo scritto, non lo nasconde affatto (anzi, a rileggerlo oggi, a un secolo di distanza, Loos finisce per restarci persino antipatico).
Creare degli edifici interessanti, notevoli, piacevoli da guardare e da vivere seguendo i principi del funzionalismo non è in realtà facile. Lo può sembrare per qualche decennio, sino a quando cioè l’assenza di ornamento appare alla gente come una novità, e l’assenza si nota in quanto tale: sino a quando, cioè, gli stili ornati restano la norma, l’assenza di ornamenti è la presenza di un’assenza, e un edificio senza ornamenti si trova ornato da questa assenza. Ma quando questo diventa a sua volta la norma, l’assenza è assenza e basta, anzi nemmeno quello, perché non c’è più una presenza di riferimento che la faccia sentire.
A questo punto, davvero, gli edifici restano gradevoli solo se sono stati costruiti con un gusto particolarmente sviluppato, e lo sono perché continuano a essere interessanti i loro rapporti formali. Ma gli edifici che godono di queste qualità sono davvero pochi! Solo i grandi architetti ne hanno prodotti.
È un po’ come dire che tutti sono capaci di tirare delle linee nere orizzontali e verticali su una tela, ma solo Mondrian riesce a farne dei capolavori. Solo che abbiamo molto più bisogno di case che di dipinti.
L’ornamento sarà pure accusabile di falsità (non sempre però, in verità), perché una casa ornata distrae l’attenzione dall’insieme richiamandola sui dettagli, cioè sugli ornamenti stessi – ma proprio per questo, è più facile costruire degli edifici il cui interesse resista un poco al tempo. Sarà magari un interesse nei confronti del curioso e del pittoresco – come spesso accade a Barcellona, dove mica tutti gli edifici sono stati progettati da Gaudí – ma è comunque un interesse che c’è, e rimane.
È che l’ornamento, nella sua infinita varietà, finisce per essere meno aristocratico perché le soluzioni accettabili, anche se magari nascondono errori maggiori, sono infinitamente di più di quelle che permette il funzionalismo. Sarà pure pittoresco, vernacolare, curioso, ma in qualche modo funziona.
E nel momento in cui ritorna, storicamente, a imporsi, produce a sua volta un effetto singolare, per cui anche lo stile funzionalista diventa esso stesso uno stile, cioè una forma di ornamento, e l’idea che la forma architettonica debba esprimere la funzione si rivela per quel grande bluff ideologico che è stata. Basta approfondire l’idea di funzione per capirlo e rendersi conto che tra le funzioni di un edificio e di un oggetto ci sono pure quelle simboliche, che non sono affatto meno importanti delle altre.
Nel fascino di Barcellona c’è anche il fatto che la città sembra avere saltato proprio quella fase, quella del funzionalismo. Non del tutto, in verità, specie nei suoi aspetti peggiori – ma sono le cose che si notano meno. Perché a Barcellona c’è un sacco di architettura moderna che si fa notare: c’è quella che precede o ignora l’anatema di Loos, con Gaudí e il modernismo catalano in testa, e c’è quella che segue il tramonto dell’ideologia formalista, quella che si è resa conto che l’ornamento ci può benissimo essere, se serve, ma che non siamo limitati al campionario degli ornamenti storici, e possiamo sbizzarrirci a inventare qualsiasi cosa, purché se ne possa comprendere il senso, purché ci faccia sognare, purché ci faccia sentire parte di qualcosa che vive, e che comunica se stesso.
Armin Hofmann, poster "Giselle", 1959
Questo è un manifesto importante per la storia della comunicazione visiva. È stato realizzato negli anni d’oro della grafica svizzera, quella grafica da cui sarebbe derivato il cosiddetto international style, un modo di pensare la comunicazione visiva che continua a restare influentissimo anche oggi, ed è comunque alla base di qualunque ragionamento grafico, anche quelli che le si sono (anche molto sensatamente) contrapposti. In altre parole, nella Svizzera di quegli anni si gettavano le basi di un discorso visivo e della sua grammatica; queste basi possono essere anche state negate, in seguito, ma non dimenticate. Come dire che la comunicazione visiva ha percorso, da allora, anche strade molto diverse da quelle proposte dai grafici svizzeri, ma inevitabilmente confrontandosi con la loro lezione.
Questo manifesto è stato prodotto a Basilea, però, e non a Zurigo, ovvero in una situazione culturale già leggermente dissidente, leggermente eretica rispetto alle direttive che, dall’anno prima, si trovavano espresse sulle pagine rigorose di Neue Grafik / New Graphic Design, la rivista di tendenza, quella che stava facendo la storia del graphic design in quel momento. Anche per questo, non voglio percorrere il manifesto di Hofmann come esempio di uno stile, ma interrogarmi piuttosto sulle ragioni della sua efficacia – non molto diversa, in effetti, oggi da allora; segno che questo tipo di impostazione comunicativa ha ancora largo spazio nel nostro presente.
Il poster pubblicizza un balletto, Giselle, il cui titolo è anche il nome della protagonista della vicenda. È nero, come il contesto, notturno, in cui si suppone avrà luogo lo spettacolo. Da questo nero emergono due figure verticali, a destra la foto mossa di una ballerina in tutù, nel corso di un movimento rotatorio, presa piuttosto da vicino, in modo che restino tagliati fuori sia il piede basso che la testa; a sinistra le scritte, quelle piccole in alto con i dettagli, e quella grande, verticale, con il titolo.
È impossibile non associare tra loro le due figure, che, oltre a essere piuttosto analoghe visivamente, sono legate semanticamente tra loro in almeno due modi: “Giselle” è infatti il nome dello spettacolo di cui vediamo a destra un dettaglio, ma è anche il nome della protagonista dello spettacolo, che stiamo qui vedendo danzare. Dal punto di vista visivo, Hofmann ha rafforzato l’analogia con molta sottigliezza, giocando su alcune caratteristiche del carattere scelto, l’Akzidenz Grotesk (il must della grafica svizzera di quegli anni, in seguito sostituito dal similissimo Helvetica). Se si guarda la lettera G, per esempio, è facile vederla anche come un vettore circolare, con tanto di freccia a un’estremità, e dunque rappresentazione schematica del medesimo movimento che caratterizza la figura della ballerina.
Ma Hofmann ha anche alterato lo spazio tra i caratteri di questo titolo, riducendolo al minimo possibile per non confondere le lettere, o addirittura annullandolo, quando possibile. Questo fornisce alla scritta verticale una compattezza complessiva che la rende formalmente molto simile alla figura danzante alla destra, caratterizzata da una sottile struttura verticale centrale con le due emergenze laterali delle braccia e del tutù – qui corrispondenti alle emergenze della “i” e della doppia “l”.
Infine, il puntino della “i”, che dovrebbe essere quadrato e vicino alla stanghetta verticale (come si può osservare nelle scritte piccole in alto), è stato sostituito da un cerchio piuttosto lontano, sospeso nello spazio nero proprio come quella macchia di luce ovale a cui è ridotto il braccio rotante della ballerina poco più in alto. E persino la scritta piccola in alto, con la sua forte irregolarità sul lato destro, sembra rinviare all’irregolarità e all’aspetto sfrangiato della figura mossa della ballerina.
Insomma, il parallelismo è così forte e insistito da apparire immediatamente evidente, mettendo a sua volta in evidenza le diversità: a sinistra la geometria, nitida, immobile e schematica, a cui il vettore insito nella G fornisce un accenno di movimento, ma ugualmente suggerito e simbolico; a destra il corpo, sfumato, mobile e dalle forme poco riconducibili a schemi semplici, a cui però il movimento dona una certa geometricità, quella del cerchio; a sinistra la parola, che rinvia simbolicamente alla realtà, attraverso una mediazione razionale; a destra l’immagine, che rinvia analogicamente alla realtà, attraverso una mediazione percettiva. Nitido e sfumato, geometrico e naturale, fermo e in movimento, simbolico e analogico, nominato e mostrato, primo piano e secondo piano: tutti gli elementi di queste opposizioni si trovano a essere messi in scena, e in qualche misura identificati.
Sono separati, certo, perché i primi elementi di ogni coppia sono relativi alla forma di sinistra, mentre i secondi sono relativi a quella di destra. Ma le due forme hanno il medesimo riferimento, sono due modi di rimandare alla stessa cosa; e l’analogia tra le loro forme visive ne rafforza il senso di identità.
Quello che succede dunque, a chi guarda questo manifesto, è che l’attenzione passa continuamente dalla forma di sinistra a quella di destra, e da quella di destra a quella di sinistra, e poi ancora da sinistra a destra, e così via, senza potersi risolvere, se non per stanchezza. Ma quando si smette, è già stato innestato un meccanismo ritmico, in cui in primo piano passa nel secondo e il secondo nel primo, il nitido passa nello sfumato e lo sfumato nel nitido, il geometrico nel naturale e il naturale nel geometrico, l’immobile nel mobile e viceversa, il simbolico nell’analogico e viceversa, il nominato nel mostrato e il mostrato nel nominato. L’immagine complessiva ha acquisto durata, e ritmo; ci ha preso con sé e ci ha fatto per qualche attimo danzare. E poiché i ritmi sono virtualmente senza fine, e rimandano al loro proseguimento all’infinito, pure questa immagine rimanda a un’eternità di danza anche sulla base di pochi secondi di fruizione.
Non è il suo significato a renderla indimenticabile: in fondo non è che la pubblicità di uno spettacolo! È piuttosto quello che essa ci induce a fare; è piuttosto questa danza dell’attenzione in cui ci trascina, portandoci a vedere oggetti fermi come mobili e oggetti simbolici come analogici e così via e anche viceversa.
Alludendo all’infinita varietà del senso, e alla sua continua trasmutabilità, Hofmann ci rende protagonisti di un’azione trascinante, per quanto breve, un atto di interpretazione che non può aver fine, una danza dell’identità e della differenza, in cui il non essere capaci di risolversi in un senso o nell’altro ci costringe a continuare, virtualmente senza smettere mai. Un po’ come quando danziamo per davvero, e smettiamo solo per stanchezza, o perché è tardi – non, certo, perché la cosa in sé abbia esaurito il suo piacere.
Alex Raymond, Jungle Jim, 1934
Mica male come esordio per il ventiquattrenne Alex Raymond! Era nato il 2 ottobre 1909 e questa tavola, apparsa all’inizio del 1934, era probabilmente stata disegnata con qualche anticipo. La scansione proviene, al solito, dal deposito ziopaperonesco del Fondo Enrico Gregotti.
Forse il leone è ancora un po’ legnoso (gli mancava un buon modello, evidentemente), e sembra un po’ una statuetta sospesa per aria – ma il nostro Jim è già disegnato con una maestria dinamica stupefacente. Molto fa la scelta della posizione, ovviamente, insieme all’angolo di inquadratura (occhio dell’osservatore basso, all’altezza della cintura): questo scatto (lui sì, a differenza del leone) felino, con la gamba destra a terra, la sinistra sospesa e seminascosta dal braccio abbassato per afferrare la frusta, mentre il braccio sinistro cerca di mantenere l’equilibrio…
Ma la fluidità, la tridimensionalità, lo spessore di questo corpo dinamico sono poi dovuti alla sapienza degli inchiostri di questo giovanissimo Raymond. In seguito diventerà ancora più bravo, ma già qui c’è un bel po’ di pane per i nostri denti. Ingrandite l’immagine in un’altra finestra, dunque, e guardate da vicino le linee.
Le linee sono lunghe e molto modulate. Magari qualcuno più esperto di me mi saprà dire se sono segni di pennello o di un pennino molto morbido. Il pennello c’è senza dubbio, intorno: le pieghe del pantalone verso l’inguine sembrano testimoniarlo (ma potrebbero essere anche tracce di pennino ripassate due o più volte), e certamente è realizzata col pennello l’mbra di Jim in basso, così come le foglie in alto a destra.
Comunque siano state realizzate, sono queste linee lunghe e modulate a creare la fluidità del movimento del personaggio, un po’ come se la fluidità del gesto del disegnatore si ripercuotesse sull’effetto di fluidità di quello che rappresenta. Ma non è una boutade: la fluidità del gesto da sola non basta, ma associata alla forma giusta ne diventa un amplificatore potente. Qui non si sta costruendo l’effetto di un gesto improvviso e nervoso, ma quello di un’azione rapidissima, fluida e consapevole – proprio come il gesto grafico del disegnatore.
Persino l’uso del pennello (o del pennino) un po’ a secco, nelle tessiture delle ombre (del braccio sinistro e delle gambe), contribuisce all’effetto di rapidità. E lo fanno anche i colpi rapidi che descrivono i capelli, insieme con i tratti più sottili del deltoide destro o del polso sinistro.
L’immagine non è particolarmente dettagliata, né lo dovrebbe essere, visto che deve rendere l’impressione della rapidità. Però è comunque molto più definita del paesaggio che le sta attorno, ridotto davvero a poche linee e macchie. Anche questa povertà grafica dell’insieme (e perfino il tratto un po’ insulso del leone) contribuiscono a concentrare l’attenzione sul gesto del personaggio centrale.
Ora, indubbiamente, Raymond sta raccontando per immagini. Però ciò che costruisce l’effetto dinamico non è solo quello che lui ci mostra, ma anche la dinamicità stessa del suo tratto, insieme con l’evocazione di rapidità e sicurezza che esso esprime. Il che non vuol dire che Raymond fosse davvero rapido e sicuro nel disegnare; probabilmente lo era anche, ma l’essenziale è che il suo segno lo mostri tale.
Per questo è tanto più difficile dare l’idea del movimento in un’immagine fotografica, dove non puoi evocarlo attraverso la dinamicità del gesto pittorico. Disegnare è molto di più che riprodurre la realtà: nelle giuste condizioni, il dinamismo del segno stesso può valere ancora di più del dinamismo delle figure rappresentate.
Guido Crepax, Emmanuelle, 1978
Lo confesso: ho sempre considerato Crepax un disegnatore da moda e pubblicità, troppo milanese (in questo senso) per essere davvero bravo a lavorare a fumetti. Poi, certo, era un ottimo narratore, e, soprattutto, le sue invenzioni di taglio delle inquadrature e delle vignette, e le sue invenzioni di montaggio, sono state davvero importanti. Nel complesso, quindi, mi piaceva, e a volte anche moltissimo – almeno sino a quando non ha incominciato a imitare se stesso, e a buttarla tutta sull’estetismo e sull’eros; e lì io l’ho lasciato perdere.
Ingrandendo questa comunque bella immagine si vede abbastanza bene quello che Crepax sapeva e non sapeva fare. Di certo, non aveva una mano sicura; non ci sono infatti linee lunghe, qui, e tutto è ottenuto attraverso un intreccio, una tessitura di linee brevi e un po’ incerte. Persino quella che qui appare come una bella modulazione della linea che definisce le spalle dell’elegante signora, a guardarla da vicina si rivela una linea composita, fatta di linee brevi intrecciate.
Quali che fossero i suoi limiti come disegnatore, Crepax li conosceva comunque bene, e sapeva altrettanto bene giocarci. A linee incerte corrispondevano vicende di incertezza; e dove la linea non era ottimale per definire i corpi femminili, Crepax era straordinario a giocare di situazioni psicologiche, inquadrature e giochi d’insieme.
Non è però sempre stato così. La linea delle prime storie di Neutron è molto più pulita, netta, definitoria, anche se, forse, povera di capacità di diversificarsi. Le singole vignette di quegli anni sono forse più belle, più incisive, di quelle successive – ma è come se la tavolozza di Crepax vi fosse troppo limitata. Volendo espandere le proprie capacità narrative, e non essendo sorretto dalla qualità del tratto grafico, Crepax ha quindi, da un certo momento in poi, puntato su altro – facendo una scelta vincente, in fin dei conti. Il tratto si è impoverito e un po’ standardizzato, ma l’invenzione visiva è comunque cresciuta, insieme con il virtuosismo narrativo.
Per quanto importante sia la linea, evidentemente c’è, nel fumetto, molto altro su cui giocare.
Diane Arbus, Teenage couple on Hudson Street, N.Y.C. 1963
Oggi pomeriggio alle 18, al Centro delle Donne in via del Piombo 5 a Bologna, parlo di Diane Arbus. Non sarà una conferenza vera e propria. Mi è stato chiesto, qualche mese fa, se ci fosse qualche autrice che mi ha particolarmente colpito, e di raccontare, quindi, le ragioni di questo particolare interesse – all’interno di un ciclo tutto strutturato così. Certo, non è la Arbus l’unica autrice al mondo che mi ha colpito, però, per qualche ragione, ho subito pensato a lei.
La Arbus mi ha colpito in tempi molto antichi. Difficile dire quando e in che occasione ho visto per la prima volta le sue foto. Però, leggendomi un po’ di cose della sua vita (quella di cui stasera dirò solo i sommi capi: perché è delle sue foto che voglio parlare, e di lei solo attraverso di loro) ho scoperto che la mostra che l’ha resa famosa si è tenuta alla Biennale di Venezia nel 1972. Nell’estate del 1972 io avevo 15 anni, e facevo il mio primo viaggio da solo proprio a Venezia. I ricordi delle varie Biennali che ho visitato si sovrappongono, per cui non posso dire di avere ricordi di quell’edizione specifica. Ma sapendo quello che facevo in quegli anni, e le modalità del mio turismo, è estremamente probabile che io sia entrato alla Biennale e abbia visto quella mostra – del tutto all’oscuro di quello che stavo vedendo. Probabilmente nemmeno ho memorizzato il nome della Arbus, salvo riconoscere qualche anno dopo le sue foto, e imparare ad associarglielo.
È successo un sacco di volte nella mia adolescenza (e anche dopo, in verità) che delle immagini mi si imponessero senza associare loro un’identità, magari a volte senza nemmeno sapere che erano opera di un medesimo autore. Poi, a un certo punto, arrivava la scoperta.
La Arbus è nota come la fotografa dei mostri, e tuttavia sono proprio le sue foto di mostri a inquietarmi di meno. I suoi nani, le sue terrificanti drag queen, i suoi fenomeni da baraccone, i suoi giganti, mongoloidi, ermafroditi sono spesso semplicemente belli, malinconicamente teneri, molto umani. Del resto è lei stessa a confessare di sentirsi più a suo agio con loro, quando dice “La maggior parte delle persone vive nel timore di poter avere un’esperienza traumatica. I mostri sono nati già con il loro specifico trauma. Hanno già passato il loro test per la vita. Sono degli aristocratici.”
I veri mostri delle foto della Arbus non sono dunque i mostri, ma gli altri, quelli che ostentano una indubitabile normalità, mentre rivelano, nelle sue foto sempre (in questi casi) crudeli, una profondità di squallore, di perdizione, di incolpevole ma definitiva ottusità. Basta guardare questa coppia di adolescenti, colta nelle strade di New York nel 1963: poco più che bambini, da un lato; mentre dall’altro i vestiti, la posa e l’espressione dei volti sono mimati da un mondo adulto che appare come un destino obbligato, senza scampo – chiuso come quel muro alle loro spalle. Solo la presa nervosa della mano di lui sulla spalla di lei tradisce l’avventatezza del gioco: loro sanno di non essere ancora così, ma recitano a esserlo, perché è così che vogliono essere – e hanno trovato la fotografa che permette loro per un attimo di essere quello che ambiscono a essere: dei grandi, e dei grandi standard, normali.
Tutte le foto della Arbus sono duplici, a partire dalla banalità apparente delle inquadrature (figura centrata, sguardo in macchina, magari lei che sta dicendo “guarda l’uccellino”) che nasconde una finezza straordinaria di costruzione. Una banalità della forma che si rispecchia nella banalità delle vite fotografate, e a cui corrisponde invece un malessere profondo, uno sconfinato male di vivere. Potremmo chiamare in gioco quella che Hannah Arendt chiamò, ad altro proposito, la banalità del male, o magari la malignità del banale.
Certo, non è necessario vedere tutto questo grottesco, questa tristezza, all’interno delle vite normali. Il normale, il banale, sono tali proprio perché di solito non ci danno motivo di interesse, né in positivo né in negativo. Probabilmente, la capacità della Arbus di tirare fuori tutto questo malessere nascosto, di rivelare il male, deriva dal fatto che questo male stesso ha casa dentro di lei – e ogni volta, nel fotografare il mondo, lei sta fotografando se stessa, quello che ama e insieme odia di più.
Mi fermo qui. Il resto lo dirò stasera, guardando le 80 foto che ho scelto – o che mi hanno scelto.
La info ufficiale dell’evento (e il commento è ancora scritto da me) si trova comunque qui, mentre un’informativa sul ciclo nel suo insieme può essere letta qui.
Geo McManus, Bringin' up Father, frammento dalla striscia del 6 maggio 1942
Qualche volta, anche un’inchiostrazione neutra può essere utile. Ingrandendo per bene questa immagine, scansionata dall’originale conservato presso il Fondo Gregotti, si può osservare l’inchiostrazione lineare, tradizionale, pulita e regolare di Geo McManus. Da manuale, per certi versi; niente di che, per altri.
Insomma, un’inchiostrazione piuttosto neutra, poco o nulla espressiva in sé. Evidentemente, questa neutralità è voluta, e serve per mettere in evidenza altri aspetti, prima di tutto del disegno stesso, e in seconda istanza delle storie raccontate.
Qui, infatti, come sarà poi in Tintin (anzi, come è già in Tintin, ma per vie del tutto indipendenti) la pulizia del disegno è funzionale a mettere in evidenza gli elementi (figure ed eventi) rilevanti per il racconto, e quindi per la gag. Però McManus (e forse addirittura più di Hergé) ha una sapienza grandissima di disegnatore, e la storia è raccontata quasi del tutto dalle espressioni e dai movimenti dei personaggi.
A quardare questo dettaglio si capisce bene la maestria del disegnatore nel rendere l’affanno e la corsa scomposta del personaggio vestito a scacchi, mentre il nostro “Arcibaldo” è palesemente un perfetto cafone in marsina – persino nell’espressione del viso. Per non dire della deliziosa postura della grassa e gelosa signora sul fondo.
L’inchiostrazione neutra funziona benissimo quando movimenti ed espressioni sono già così caricati all’origine. Per certi versi, quindi, McManus lavora con procedimento opposto a quello di Al Capp, che invece delega proprio alla modulazione della linea gli effetti espressivi, con un dinamismo complessivo delle figure molto minore, e pure una minore enfasi sulle espressioni visive. Ma Capp insegue una sorta di realismo figurativo, che diventa caricatura proprio grazie agli inchiostri un po’ pompati – mentre McManus parte già rappresentando dei fantocci, a cui dà vita la posizione e l’espressione.
Probabilmente, gli inchiostri alla Al Capp sulle matite alla Geo McManus produrrebbero un risultato eccessivo, forzato, squilibrato. Ma non è detto: magari equilibrando in senso opposto qualche altro aspetto ancora, si può riuscire pure così.
Ernie Bushmiller, Nancy, striscia del 22-9-1946
Chi si ricorda di Arturo e Zoe, o meglio, Nancy, di Ernie Bushmiller? Questo segno pulito anticipa di quasi vent’anni quello del Barnaby di Crockett Johnson, e di poco meno di trenta, dunque, quello dei Peanuts, di cui Nancy è certamente un antecedente. Queste surreali storielle, caratterizzate dall’inventività infantile e dallo spirito pratico della protagonista, mostrano un segno maniacalmente pulito, maniacalmente regolare, maniacalmente piatto.
Questa immagine è stata presa dall’originale custodito presso il deposito di Zio Paperone, cioè, no, scusate, presso il Fondo Gregotti e mostra bene, una volta ingrandita a dovere, la precisione del segno di Bushmiller, e la sua ossessiva linearità. Certo, un segno così semplice non si presta gran che a esprimere emozioni, sentimenti, o movimenti particolari dei corpi. Ma a questo, in un fumetto umoristico supplisce benissimo la situazione (come ha saputo in seguito fare genialmente Schulz), a patto che la situazione sia a sua volta molto evidente e piena di interesse.
Ma il vantaggio del segno lineare è che i personaggi diventano facilmente l’icona di se stessi, quasi dei marchi. Sono sicuro che anche tra coloro che non saprebbero dire il nome della ragazzina, la sua capigliatura ispida col fiocco, gli occhi circolari e le guance tonde riportano immediatamente al pensiero qualcosa, e qualcosa di vagamente surreale, o demenziale.
Naturalmente, un buon marchio non è che un buon punto di partenza per un prodotto, che deve dimostrare di essere valido anche a prescindere dal marchio. Ma poi se il prodotto lo è, come questo, un buon marchio rappresenta un vantaggio straordinario.
Rappresenta anche, però, una remora al cambiamento. Nancy è Nancy, allora come oggi. Come si fa a cambiarne anche solo un ispido capello?
Devo pagare un debito. Leggo nel blog di Luca Boschi della scomparsa di Paul Gillon, sabato scorso, il 21 maggio. Aveva 85 anni e, sì, devo confessare che non avevo più notizie di lui da tempo. Nemmeno sapevo se vivesse ancora.
So bene, invece, quante volte ho letto e riletto nella mia vita Les naufragés du temps, da lui disegnato tra gli anni Sessanta e i Settanta, sui testi di Jean-Claude Forest. In Italia, usciva su Alter Alter, insieme a molte altre meraviglie che provenivano dalle pagine di Metal Hurlant. Lo stile di Gillon era decisamente più classico di quello di tutti gli altri, e forse mi piaceva per la sua evidente impronta raymondiana.
O forse mi piaceva perché la storia di Forest era, come sempre, indimenticabile, e il disegno di Gillon le dava realtà, consistenza, concretezza. E sembrava reale il pianeta-anello-d’acqua, e l’universo cannibale contenuto nel sistema digerente di un immenso verme; e la bella e inquietante Chinina, la puttana dalla mano d’avvoltoio, destinata progressivamente a trasformarsi del tutto in un mostro…
La fascinazione di quei mondi è stata tale che sono poi andato a cercarla nei disegni di Gillon anche in altre serie, ora più belle ora più brutte – sempre magnificamente disegnate. Non ho voglia, ora, di cercare di capire che cosa mi arrapasse così tanto nel suo segno. Magari lo farò un’altra volta.
La notizia mi fa venir voglia soltanto di riguardarmi ancora quelle tavole, quelle storie, quel fantastico così impossibile, così bizzarro e insieme così vicino, così vero.
Paul Gillon, Les naufragés du temps
Walt Kelly, Pogo, dettaglio dalla striscia del 22-05-1951
Diciamo pure che quando vedo le vignette di Walt Kelly io mi commuovo. Non so bene perché. Sarà forse l’intelligenza e la raffinatezza dei dialoghi e delle battute, insieme con la tenerezza dei personaggi, e questa ugualmente tenera presa in giro di tutti loro. Pogo mi appare certe volte come l’apice insuperabile di quel tipo di fumetto che fa uso di pupazzi animali antropomorfizzati, e che doveva essere teoricamente per bambini. Un po’ come Krazy Kat, ma anche meglio.
Alla fin fine, in effetti, lo preferisco a Krazy Kat, magari di poco. E forse il punto è che di Herriman non mi prende più di tanto il disegno (che, per la sua epoca, è abbastanza standard – mentre è tutt’altro che standard quello che poi ci fa, con quel disegno lì), mentre il disegno di Kelly mi tocca il cuore.
Forse, guardando da vicino questo originale conservato presso il Fondo Enrico Gregotti, qualche intuizione la potremmo anche avere. Osserviamo allora da vicino (ingrandire in altra scheda, please) il viso di Churchy LaFemme, la tartaruga. È come se scrutassimo nelle interiora di Pogo. Vi si intravedono le tracce delle matite di Kelly, il cui segno è molto più insicuro. E poi ci sono quei pochissimi tratti di pennello che definiscono – con estrema sicurezza, invece – il profilo e l’occhio. Se ora torniamo a guardare la versione ridotta qui sopra, ci possiamo accorgere che gran parte dell’espressione di questo viso viene data dall’occhio, e in particolare dal riflesso banco che gli dà vita. Ma guardate, nella versione ingrandita, che forma strana che ha quel riflesso bianco!
E poi osserviamo la forma dei tratti di pennello, così fortemente modulati. È proprio questa linea che diventa molto rapidamente più spessa e più sottile a creare quelle rotondità che rendono teneri e infantili i personaggi (secondo la regola disneyana, a cui Kelly è notoriamente debitore). Persino il ridicolo cappellino di Churchy è disegnato secondo lo stesso principio.
La modulazione delle linee di inchiostro è dunque il punto di partenza del discorso di Kelly. Su questa base tenera e infantile, si può poi innestare – in armonico contrappunto – la realtà surreale della palude, e il quotidiano conte philosophique dei dialoghi.
Alberto Breccia e Carlos Trillo, Un tal Daneri, Occhio per occhio
L’esperienza della lettura. Attraverso una storia di Alberto Breccia e Carlos Trillo
L’analisi del significato, qualunque sia la metodologia con la quale la si mette in opera, non è sufficiente a dare ragione dell’efficacia retorica di un racconto, ovvero della sua capacità di trasportare il proprio lettore lungo un efficace percorso emotivo. L’individuazione di uno schema narrativo, dei ruoli attanziali, delle attribuzioni di valore ecc. sono tutti passi utili per una migliore comprensione del testo narrativo, ma non ci permettono, di per sé, di distinguere un testo efficace da uno che non lo è.
Viceversa, se non siamo in grado di valutare l’efficacia retorica di un testo narrativo, non saremo nemmeno in grado di valutare l’incidenza con cui i suoi significati possono arrivare alla comprensione del fruitore. Questo è tanto più vero quanto più la fruizione del testo non è obbligata, ovvero quanto più si basa sull’interesse da parte del fruitore, stimolato dal testo medesimo. Tanto più siamo, viceversa, obbligati dalle circostanze alla lettura e comprensione di un testo, tanto meno la sua efficacia retorica sarà rilevante. Tuttavia nessuno ci obbliga alla fruizione della maggior parte dei testi narrativi (letterari, filmici, fumettistici…) con cui veniamo continuamente a contatto: per tutti questi testi dunque la qualità del percorso emotivo su cui il lettore verrà trasportato sarà una condizione imprescindibile per la stessa trasmissione del significato.
La nostra ipotesi è che l’efficacia retorica dipenda dal sistema di tensioni e risoluzioni che il testo costruisce nel corso della lettura, nonché dagli effetti di ritmo che il testo produce anche attraverso i suoi andamenti tensivi. Andamenti tensivi e effetti ritmici sono prodotti tanto dalla successione dei significanti quanto da quella dei significati, ma in un testo narrativo (a differenza di quello che succede, per esempio, nei testi poetici e musicali) la dimensione del significato è più influente, e richiede quindi anche per questo – oltre che per la sua maggiore complessità – un maggiore approfondimento. Proporremo dunque un percorso analitico a sei livelli, applicato a un oggetto narrativo a fumetti, un testo argentino del 1976 sceneggiato da Carlos Trillo e disegnato da Alberto Breccia, l’episodio “Ojo por ojo” della serie Un tal Daneri (sette pagine in bianco e nero, realizzate a china con varie tecniche e collage). I livelli che organizzano il nostro discorso sono livelli diversi di analisi e comprensione del testo, non necessariamente successivi in una fruizione reale; solo nell’ultimo si cercherà infatti di delineare complessivamente il percorso emotivo sulle cui linee il testo cerca di condurre il lettore.
1° livello: la lettura narrativa di base
Il primo livello, preliminare a qualsiasi altro, è quello della comprensione di base della forma narrativa, cioè della comprensione del racconto. L’effetto di una comprensione di questo tipo sarà qualcosa di simile al seguente resoconto:
Daneri entra in un locale dall’aria equivoca per portare a termine una missione: spaccare le mani al pianista Marengo, per conto di Julieta. Dopo aver agito, viene seguito da un amico di Marengo, che gli rivela che Julieta, famosa fotomodella, lo ha ingannato, essendo lei la persecutrice di Marengo e non viceversa, come aveva fatto credere a Daneri. Dopo lunga riflessione, Daneri si reca da Julieta, si fa pagare regolarmente per il lavoro svolto, e poi si vendica dell’inganno vendicando insieme anche Marengo, e distrugge il viso di lei, secondo la legge antica dell’“occhio per occhio”.
Non è questo l’unico resoconto di base che si può ricavare dal testo di Breccia e Trillo. Se ne possono immaginare facilmente versioni più concise o più dettagliate, ma anche versioni diverse, con divergenze più o meno accentuate. Poco importa quale sia la comprensione di base, ma è indispensabile che essa ci sia. Questa è comunque quella da cui partiremo noi, ritenendo che sia, presumibilmente, abbastanza simile alla lettura di base che farebbe qualsiasi lettore medio occidentale.
2° livello: analisi generativa
Al secondo livello possiamo descrivere il racconto secondo le categorie della semiotica generativa. Ci accorgeremo così che siamo di fronte non a un solo racconto, bensì a due, di cui il primo funge complessivamente da fase di Manipolazione del secondo. [….]
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L’articolo completo, di cui questo è l’inizio, può essere scaricato in PDF dalla pagina Downloads del mio sito. Uscirà su un prossimo numero della rivista latinoamericana di semiotica deSignis, in spagnolo. Proprio nel momento in cui esce questo post mi trovo a Siviglia, a un convegno organizzato da loro.
Questo post era stato preparato già da qualche giorno, comunque prima della scomparsa improvvisa di Carlos Trillo. Trillo faceva parte, per me, del mito del fumetto argentino. L’articolo gli era già, per il suo argomento, implicitamente dedicato. Mi dispiace molto che ora debba fungere da commemorazione – ma almeno dà un’idea della stima che avevo per lui.
Ho concluso un post precedente (19 gennaio: Della poesia, della prosa, della critica e del Web) dicendo che “sarebbe ora che chi si occupa di critica poetica si accorgesse che l’universo del Web ospita la poesia di oggi e di domani”. Non ero arrivato a questa conclusione spinto dall’entusiasmo per le potenzialità del Web rispetto alla poesia, ma da alcune considerazioni piuttosto amare (e condivise con altri) sulla marginalità editoriale della poesia, e sulla sua irrilevanza di fatto rispetto al mercato. Come dire sì “evviva il Web per la poesia”, ma non perché le favorisca una nuova giovinezza, bensì perché le permette di sopravvivere, di tirare avanti, di far sì che l’esiguità dei confini sociali del suo orto non la uccida del tutto.
Quasi nessun editore di poesia oggi fa davvero l’editore. Tolto Einaudi e poco altro, e tolte le stampe o ristampe di autori ritenuti affermati e quindi sicuri, il ruolo di investimento economico (ovvero pagare le spese) tocca di solito all’autore – mentre quello che si autodefinisce editore non fa che organizzare la stampa e la distribuzione, senza rischio economico. Di conseguenza i poeti che non vogliono o non possono pagare non pubblicano – oppure si rifugiano sul Web, nelle varie forme, più spontanee o più organizzate, che il Web permette; tutte comunque a costo vicino allo zero.
Se il costo economico è vicino allo zero, lo stesso non si può dire del costo culturale, che non è enorme, ma è comunque consistente, e rischia di trasformare ulteriormente la poesia e il sentire che le sta attorno.
Credo che alla base del meccanismo di approvazione poetica stia un bisogno di distanza personale: in altre parole, per il campo della poesia vale moltissimo l’antico adagio nemo profeta in patria. Solo quando qualcuno è già stato riconosciuto profeta (poeta) altrove può tornare in patria con qualche speranza di essere apprezzato anche lì (ma voi potrete mai credere davvero che il figlio del falegname dietro l’angolo, che conoscete sin da quando rompeva le scatole calciando il pallone contro la vostra porta, e che avete visto fare le normali cazzate che tutti fanno, potrete mai credere davvero che sia quello che si dice in giro che sia? Ma andiamo!).
I meccanismi del Web e dei social network tendono a ridurre il mondo a paese. Quando non so chi sia qualcuno, faccio una piccola ricerca su google. Spesso trovo con facilità anche l’indirizzo email. Se poi le poesie appaiono su un blog, posso persino commentarle affinché prima di tutto lui (lei) legga il commento. Se poi pubblico anch’io poesie su un blog, mi aspetterò che lui (lei) ricambi la gentilezza: ho apprezzato le tue poesie; mi aspetto quindi che tu apprezzi le mie.
Non è un meccanismo nuovo. Gli ambienti culturali funzionano così da sempre, attraverso commenti e recensioni sui giornali. Ma nel Web il meccanismo assume una dimensione capillare e microscopica, e il successo di un poeta può ben dipendere dalla quantità dei rapporti personali che ha, e dalla quantità di apprezzamenti che è capace di distribuire.
Non che la qualità di quello che scrive non conti. Ma, assodato che il poeta abbia un minimo di sensibilità poetica, sulla base di questo meccanismo sarà ben difficile discriminare tra chi ne ha davvero soltanto un minimo e chi ne ha ben di più. La poesia funziona bene quando può davvero giocare sul proprio alone mitico; e uno dei compiti dell’editoria tradizionale consisterebbe anche nel costruirlo. Se un editore (vero) pubblica il libro di un autore, è perché ha evidentemente deciso che vale. La poesia pubblicata va perciò incontro al mondo già armata di questo riconoscimento – che, naturalmente, sarà tanto maggiore quanto maggiore prestigio avrà l’editore. Poi, il meccanismo delle recensioni e delle varie modalità della critica serve anche a rafforzarne l’aura.
Il problema del Web non è tanto che leggere una poesia su un monitor è meno coinvolgente che leggerla su una pagina (è un po’ vero, ma è anche – credo – questione di abitudine); è semmai che la stessa natura democratica del Web rende difficile la costruzione dell’aura. Se il poeta si autopropone, la sua aura indotta è prossima allo zero, e potrà contare solo sulla propria capacità di pubbliche relazioni; se il poeta viene proposto da qualcun altro, l’aura dipenderà dal prestigio di chi lo propone; ma l’universo della poesia è conservatore, e tipicamente questo prestigio sarà stato costruito attraverso i media tradizionali, e non sul Web. In ogni caso, il Web ha una storia troppo breve perché il prestigio di un editore di poesia (qui editore in senso lato, evidentemente) possa essere grande.
Non sono certo di quello che dico, e mi piacerebbe sentire altre opinioni in proposito. Mi baso anche sulla mia stessa esperienza di lettore di poesia. Posso dire che non mi piace giudicare le poesie che leggo; o che non leggo poesie allo scopo di giudicarle. Leggo piuttosto per vivere un’esperienza coinvolgente. Ma la poesia è un medium difficile, che non sempre rivela la propria qualità a prima vista, e che può talvolta richiedere numerose (e magari faticose) letture per permettermi di accedere a esperienze anche di valore. Tuttavia, io a priori non lo so se quello che sto leggendo vale la pena dello sforzo che mi richiede.
Se ho davanti a me un campo sterminato di auto-proposte, sono costretto a giudicare, e sono costretto a scartare rapidamente tutte quelle che non mi appaiono subito degne di interesse – a costo, inevitabile, di errori madornali. Non è umanamente possibile approfondire tutto. L’aura (comunque acquisita) serve anche a questo: se una poesia ce l’ha, sarò disposto a dedicarle più attenzione, a non fermarmi alla prima difficoltà, alla prima incomprensione. Questo non vuol dire che apprezzerò comunque quello che leggo. Io sono comunque condannato a giudicare. Tuttavia, avrò almeno giudicato dopo aver fatto un certo lavoro interpretativo, dopo aver dato al testo che ho sotto gli occhi svariate chances interpretative.
La parità di diritti, paradossalmente, è nemica della poesia. Il mio sogno di lettore è quella di incontrare sempre testi di grande interesse; di non dover mai distogliere gli occhi (o le orecchie) annoiato. Sul Web questo sogno è diventato ancora più lontano di quanto non fosse con la carta.
Poi, io leggo e giudico un sacco di roba, è inevitabile. E se non facessi così non scoprirei mai niente di nuovo. Ma sono grato all’editoria e alla critica che mi risparmiano una parte del lavoro e mi indirizzano: se tutto fosse davvero uguale, e tutte le proposte avessero lo stesso peso, anche la mia volontà esplorativa sarebbe frustrata dall’enormità del compito. E magari non leggerei nemmeno più.
A questo punto, non posso che ripetere con maggior forza che “sarebbe ora che chi si occupa di critica poetica si accorgesse che l’universo del Web ospita la poesia di oggi e di domani”. Il valore di luoghi di riflessione e presentazione come Nazione Indiana, La poesia e lo spirito, °punto critico, Poesia 2.0, AbsoluteVille, con tutti i loro difetti, è enorme; è l’unica cosa che può salvare la poesia sul Web. Dovrebbero forse occuparsi di più di quello che sul Web già c’è – ma certo non è facile, e le logiche del favore reciproco non sempre lo rendono possibile.
Talvolta, purtroppo e inevitabilmente, questi siti finiscono invece per costituire l’arena di spettacoli abbastanza deprimenti, dove il dibattito culturale degenera in ridicolo litigio. Per esempio, qui è possibile trovare la traccia di una discussione altamente edificante. Magari discussioni del genere ci sono sempre state, tra poeti; ma quando il privato era separato dal pubblico, la voce pubblica del poeta era sostanzialmente quella dei suoi testi. Che cosa resta dell’aura, qui?
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