L'orizzonte diagonale
Mi sono divertito un sacco a fare questa foto (e non solo perché ero in un bel posto). Lo studio consisteva nel trovare una linea da rendere orizzontale al posto dell’orizzonte, in modo da aiutare, con l’incrocio delle linee, la confusione sulla prospettiva.
E d’altra parte, chi l’ha detto che l’orizzonte, in una foto, debba essere orizzontale?
Ma il bello, qui, è che le colonnine della balaustra sul mare sono ugualmente verticali. Questo è un po’ inquietante.
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Alessandro Tota, Fratelli, (Coconino Press, 2011) pp. 98 e 99
Per Andrea Pazienza e la sua generazione si parlava di ascendenze underground, nel senso di quello che era iniziato a succedere negli USA circa dieci anni prima, o poco più. All’epoca l’underground sembrava un retaggio di altri tempi, mentre in realtà di tempo ne era passato pochissimo, e l’aria che si respirava era certamente ancora la stessa.
Ma le ascendenze erano ascendenze e niente più, in particolare per Pazienza; ma anche per i suoi compagni di rotta. Si era partiti da là per arrivare a un’onda italiana tutta particolare, ben difficilmente confondibile con quella degli zii d’oltre oceano. D’altra parte, si era loro ancora ideologicamente tanto vicini che era indispensabile differenziarsi il più possibile.
Trent’anni dopo, Alessandro Tota ha molto meno bisogno di questa diversificazione. Anzi, forse l’avvicinamento al disegno e all’impostazione grafica dell’underground americano è addirittura funzionale a nascondere la forte ascendenza pazienziana, che però salta fuori qua e là lo stesso, per inquadrature, rese espressive e tematiche narrative. Persino la scelta delle trame di questo Fratelli sembra debitrice nei confronti di Pazienza.
Va detto che l’ambientazione anni Ottanta degli eventi di Fratelli giustifica sia il rimando a Paz che quello all’underground, anche perché alla fine, leggendo il lavoro di Tota, non si ha affatto l’impressione di leggere un epigono. La storia è ben costruita e l’ambiente dei giovani senza sbocco descritto con sottigliezza. Non è Pazienza, certo – perché magari gli manca quel guizzo di devastante sarcasmo che rendeva Paz unico. Ma è comunque una lettura interessante, e del tutto libera dal buonismo che ancora rendeva un po’ goffo il lavoro precedente, Yeti.
Diciamo che abbiamo motivi per aspettarci un ulteriore miglioramento a breve, in una (almeno da me) attesa prossima opera.
Diagonali bianche
Me le sono trovate davanti affiancate per caso, e non ho potuto fare a meno di osservare una parentela, una rima, che vi ripropongo qui. La rima mi colpisce perché le due foto non potrebbero essere più diverse: una è stata presa in Algarve d’estate e l’altra sull’Appennino in inverno; in una le diagonali esprimono un pieno (le linee su un muro) nell’altra un vuoto (la fuga dei binari); in una convergono verso sinistra, nell’altra verso destra; in una il bianco è messo a contrasto con altri colori, nell’altra praticamente no.
A dispetto di tutte queste diversità, la rima però si impone alla mia attenzione, e mi costringe a vedere delle altre somiglianze, che altrimenti riterrei irrilevanti: la presenza di un oggetto piatto che sporge dal muro (la base del lampione a sinistra, il cartello “Binario” a destra), la presenza di successioni ritmate in alto (le balaustre dei balconi a sinistra, gli elementi della linea elettrica a destra), il rapporto tra le diagonali e le linee verticali, insieme alla scarsità di orizzontali (salvo che nella casa a sinistra, in entrambe le foto).
Tutte le scoperte del mondo iniziano così, osservando regolarità impreviste. Poi, dopo, si tratta di capire se il tutto è opera del caso, o se c’è una ragione interessante dietro alla regolarità. A volte la ragione interessante non la troviamo, ma continuiamo ad avere l’impressione che ci sia lo stesso, e l’accostamento ci affascina, e pensiamo che ci si debba riflettere sopra di più. Nel campo della comunicazione estetica l’esistenza di questa sensazione è decisiva: le opere che ci piacciono sono proprio quelle che la producono in noi, risvegliando la nostra attenzione con il loro essere interessanti, e non permettendoci di risolverle in una soluzione conclusa. Il mio esempio è piccolo, e magari funziona, un poco, solamente per me.
Io però continuo a guardare e riguardare questo avvicinamento di due mondi, uno caldo e solare e l’altro freddo. Le diagonali bianche in rima me li rendono come due facce della stessa moneta. Non so però, ancora, che moneta sia.
Chester Brown - "Io le pago", pp.198-199
Potrei parlare di Io le pago, di Chester Brown (Coconino, 2011), a due livelli diversi, ed è probabilmente anche a questo che il suo autore mirava. Potrei perciò parlare della qualità narrativa di Chester Brown, come al solito molto alta, come al solito capace di coinvolgere e sconvolgere, a dispetto dalla pulizia dei segni, della monotonia della gabbia grafica, della semplicità del tratto: insomma, un gioco al ribasso della spettacolarità, alla ricerca – per così dire – dell’anima delle cose, del senso profondo di quello che si racconta. Un po’ nell’onda del lavoro di Art Spiegelman, ma senza il sarcasmo di quest’ultimo: Chester Brown è minimalista e profondo, e basta.
L’altro livello a cui questo libro merita di essere commentato è quello della tesi che sviluppa, e del tema che tratta. Chester Brown difende appassionatamente la prostituzione, in queste pagine, e la propria scelta di fare solo sesso a pagamento. È esemplare, da questo punto di vista, la propria trasparenza emotiva (o almeno quella del personaggio di se stesso che mette in scena), non trascurando di citare il fatto che i suoi amici lo ritengono emotivamente un robot (anche se il robot più gentile e premuroso che si possa immaginare). Ed è proprio questa trasparenza emotiva che gli permette di dare veramente peso alle affermazioni che fa e alle situazioni che mette in scena, non negando né il proprio bisogno, comunque, di avere delle relazioni umane (purché non inglobanti ed esclusive), né i problemi che la sua scelta sessuale gli procura, nei confronti del mondo e della propria sessualità.
Insomma, alla fine della lettura (compreso magari il dossier, un vero e proprio pamphlet, che si trova alla fine) non si esce indifferenti. Si potrà non aver cambiato opinione sul sesso a pagamento, ma non c’è dubbio che l’autore ha sollevato un problema, che non si risolve nel semplice ritenere che sia semplicemente lui ad avere dei problemi psicologici: ce li avrà, senz’altro, come tutti – ma il problema esiste lo stesso.
Certo, quella singolare monogamia a cui il protagonista alla fine arriva, con una donna che lui ogni volta paga, ma che ormai fa sesso solo con lui, e lui solamente con lei, può essere letta sia come un trionfo che come un fallimento delle sue tesi: lui paga, senza dubbio, e questo gli permette di sentirsi libero; ma è comunque, quello, un rapporto di coppia, per quanto singolare. E gli equilibri su cui i rapporti di coppia si reggono nel tempo sono davvero insondabili, e tanto spesso ancora più assurdi di questo, anche se magari meno eclatanti, perché meno vicini a uno snodo etico così cruciale per noi.
Il tema è difficilissimo, perché tocca nodi profondi. Fare sesso a pagamento è sbagliato perché socialmente riprovevole, oppure è socialmente riprovevole perché ha qualcosa di sbagliato in sé? E che cosa, nel caso? L’incompatibilità di amore e denaro per la nostra etica non deriverà dalla nascita dell’amore romantico, che guarda caso coincide con quella del capitalismo mercantile medievale? E le conseguenze nefaste che associamo alla prostituzione (asservimento, sfruttamento, malavita…) non saranno a loro volta una conseguenza del ruolo da escluso, e del generale disprezzo con cui ci accostiamo alla tematica? Chester Brown sembra disegnare una situazione in cui l’amore passionale (quello che vorrebbe durare tutta la vita) è speculare e simmetrico al sesso mercenario (quello che serve solo a soddisfare il bisogno del momento): nel momento in cui si sente estraneo al primo, scompare in lui anche l’opposizione al secondo. E i rapporti con le prostitute finiscono per diventare per lui una sorta di scambi di reciproco sostegno, non raramente accompagnati da una sorta di amicizia o di affetto – sino ad arrivare al paradosso del rapporto stabile (quello che culturalmente vorremmo associato all’amore passionale) costruito su una base (discreta) di denaro.
Ci si dovrebbe domandare (lui stesso lo fa, nell’appendice) se questo rapporto strano a cui il protagonista arriva sia davvero ancora un rapporto di prostituzione; o magari che cosa siano piuttosto tanti matrimoni o rapporti palesementi basati sul vantaggio economico di una delle parti – seppure santificati e socialmente sanzionati dall’unione legale o persino religiosa. Il fatto che lui le paghi in maniera esplicita rende forse semplicemente più pulita la situazione, più chiaro il reciproco ruolo, di modo che, tolto di mezzo l’equivoco di fondo, si riesce a volte a essere persino sinceri, e affettivamente coinvolti.
Magari la prostituzione esplicita è davvero meglio di quella mille volte implicita, non meno anaffettiva, non meno fondata sul vantaggio economico, che si consuma sotto l’ala illusoria della passione, regolarizzata dalle sale comunali o dalle parrocchie. È probabilmente proprio la completa assenza di ipocrisia che rende tanto interessante il lavoro di Chester Brown, in quest’opera come in quelle che l’hanno preceduta.
La terrazza
Il bello delle città è che le epoche si stratificano.
Il bello delle diagonali è che danno l’idea del divenire.
30 Novembre 2011 | Tags: calligrafia, comunicazione visiva, Huai Su, improvvisazione, Jackson Pollock, musica, optocentrismo, pittura, progetto, sistemi di scrittura, Zhang Xu | Category: comunicazione visiva, estetica, musica, sistemi di scrittura | Zhang Xu, VIII secolo, esempio di Kuang Cao, o corsivo selvaggio
Mi domanda uno studente se non ci sia qualche relazione tra l’action painting di Jackson Pollock (cui ho già dedicato in questi giorni due post, qui e qui) e la calligrafia cinese. Gli rispondo che non ho notizie precise in merito, ma la cosa mi sembra ugualmente piuttosto probabile, soprattutto pensando a Zhang Xu, un calligrafo dell’VIII secolo, perché queste cose girano da tempo in Occidente – e senza arrivare a questo estremo di precisione, basta considerare l’importanza del giapponismo e la presenza costante dell’immaginario visivo giapponese, calligrafia artistica compresa (il Giappone non è la Cina, certo, ma le loro tradizioni calligrafiche sono molto vicine).
Poi faccio una ricerca rapida sul Web e trovo qua e là dei riferimenti non documentati, secondo i quali Pollock si sarebbe ispirato a Huai Su (il discepolo di Zhang Xu) e avrebbe dichiarato pubblicamente i propri debiti nei confronti della calligrafia cinese. Da nessuna parte mi viene fornito un riferimento preciso, per cui le propongo per come le ho trovate, mettendoci davanti un bel “è possibile che…”, “è plausibile che…”.
Non mi interessa in verità approfondire di più, dal punto di vista storico. Che Pollock sia arrivato alla propria procedura su ispirazione dalla calligrafia cinese (o giapponese) oppure che ci sia arrivato per altre vie, comunque la somiglianza formale tra le due procedure e i loro risultati esiste. Quello che mi colpisce è che mentre in Occidente questo modo di procedere appare come una novità del XX secolo, in Cina è invece una procedura antica e tradizionale, oggetto di innumerevoli aneddoti (come la storiella del pittore, dell’imperatore e del granchio riportata da Calvino nella sezione “Rapidità” delle sue Lezioni Americane). E in ogni caso, anche se davvero Pollock si è ispirato alla procedura cinese, bisognava che lui stesso e l’ambiente che lo riceveva fossero pronti ad accogliere un approccio davvero diverso da quello normale per noi.
Huai Su (725-dopo il 777) Esempio di Kuang Cao, o corsivo selvaggio
La novità di Pollock in Occidente non sta tanto nella priorità data alla fluidità e continuità del gesto, quanto nel fatto che l’opera, il dipinto, propone di essere visto più come un indizio della danza creativa che l’autore ha effettuato nel comporlo, che non come una composizione plastica. Naturalmente non è che la composizione nei suoi dipinti sia irrilevante, così come non era irrilevante, per la pittura occidentale prima di Pollock, la natura indiziale dei tratti di colore per ricostruire la manualità del pittore. Quello che cambia, con Pollock, è il maggiore o minore rilievo da attribuirsi all’una o all’altra: quando guardiamo un dipinto, poniamo, di Kandinsky, è certamente molto più importante comprenderne la composizione, che non analizzare le pennellate per vedere come l’autore si sia mosso nel realizzarla. In Pollock succede invece il contrario, e nel corsivo selvaggio dei calligrafi cinesi pure.
Questa differenza evidente ne sottende una più profonda, che riguarda il senso stesso della comunicazione espressiva: la potremmo descrivere come una differenza tra progettazione e improvvisazione. Questa opposizione, in Occidente, ci è tradizionalmente familiare in un contesto piuttosto piccolo, che contiene sostanzialmente la musica e il teatro, ed è dunque soltanto lì che possiamo facilmente analizzarla nel dettaglio. Tutte le altre arti, infatti, si basano su un supporto statico (o realizzano opere statiche, come la scultura o l’architettura); mentre la musica si manifesta soltanto nel divenire dell’esecuzione e dell’ascolto, e il teatro nel divenire della performance. Ma il teatro ha praticamente da sempre una sua versione scritta, e da oltre mille anni pure la musica può essere registrata su un supporto statico.
Jackson Pollock, Red Painting 1, 1950
È per questo che la dialettica tra progetto e improvvisazione caratterizza in maniera sostanziale queste due arti, per le quali il supporto statico è soltanto un espediente mnemonico (e progettuale), ma che vivono sostanzialmente della propria natura dinamica nell’atto stesso del proprio realizzarsi di fronte al pubblico.
Prendiamo la musica, nella sua versione colta. L’a solo improvvisato (o cadenza) è una costante dei concerti per strumento e orchestra dal Settecento in poi, almeno sino a quando il fossilizzarsi della tradizione non lo trasforma a sua volta in un pezzo scritto, spesso da parte dell’autore medesimo del concerto; così che la libertà dell’esecutore si riduce alla scelta di una cadenza piuttosto che di un’altra. La musica colta occidentale è dunque nel corso della storia sempre più scritta, più progettata a monte. È solo nel momento in cui il jazz assume i caratteri della musica colta che il momento dell’improvvisazione torna in gioco, e ritorna legittimo nell’ascolto la comprensione della musica come tramite di uno stato del momento.
Per quanto la scrittura permetta alla musica di raggiungere livelli di complessità impensabili in sua assenza, configurando la partitura come progetto preciso di un’esecuzione, c’è qualcosa di cruciale che viene perduto in questo. L’idea della musica come progetto si basa su, e insieme sostiene, una concezione formalistica, plastica, del flusso musicale, mettendo in secondo piano gli elementi di compresenza, compartecipazione, consonanza tra i partecipanti – quegli stessi elementi che vengono invece enfatizzati dalle performance improvvisative.
Jackson Pollock, Collage and Oil, 1951
Ma poiché la musica comunque non si risolve nella sua dimensione scritta, e comunque richiede di essere eseguita, essa non è mai del tutto riducibile alla propria costruzione formale, e le componenti gestuali, dirette, del momento, che caratterizzano l’esecuzione, non smettono mai di avere importanza.
In questa prospettiva di carattere optocentrico, è chiaro come invece la comunicazione visiva possa davvero interamente risolversi nella costruzione formale – poiché non c’è necessità di alcuna trasformazione successiva, che possa metterla in discussione. Ciò che Pollock e i calligrafi cinesi hanno in comune è dunque proprio una certa riduzione dell’optocentrismo, a vantaggio di una valutazione del segno grafico che ha aspetti di tipo musicale, poiché mette (tendenzialmente) in sintonia il gesto del fruitore (che segue l’andamento) col gesto dell’autore (che lo ha creato).
Jackson Pollock, Number 23, 1948
Dovremmo assumere, in questa prospettiva, che la cultura cinese sia tradizionalmente meno optocentrica della nostra, visto che mentre da noi si tende a una concezione visiva anche del sonoro, in essa vi sono tracce di una concezione di carattere musicale anche del visivo. Da noi, la valorizzazione dell’improvvisazione al di fuori del campo musicale (e teatrale) si fonda sulle conseguenze di una concezione romantica dell’arte come espressione dell’io, o della sua variante surrealista dove al posto dell’io viene messo l’inconscio. Ma è difficile postulare qualcosa di simile per la Cina dell’ottavo secolo – tanto più che questa concezione non è affatto necessaria per valorizzare l’improvvisazione.
Magari è solo perché i Cinesi non hanno avuto Platone, e la scrittura è rimasta manifestazione della parola senza che la parola dovesse identificarsi col pensiero razionale, o logos. In principio c’era altro, evidentemente, là.
Zhang Xu - Four poem calligraphy copybook
Frank Miller, Holy Terror, p.80
L’idea del superuomo, in sé, è un’idea consolatoria e infantile. È del tutto naturale che a un bambino possa piacere l’idea che ci sia qualcuno, più grande e più potente, che venga a risolvere con facilità dei problemi più grandi di lui; ed è anche ragionevole che un bambino possa appassionarsi alle avventure di questo potente genitore. Meno ragionevole è che vi si possa appassionare un adulto; ma ugualmente succede, e molti aspetti di varie religioni esistono pure per questo – e magari, storicamente, l’Illuminismo è andato vincendo la sua battaglia contro la religione proprio mettendone in luce l’infantilismo di certi suoi aspetti.
Dei limiti del concetto di supereroe nel fumetto americano si accorgono in tanti, e sin dall’inizio. Ma la storia che mi interessa, qui oggi, è quella di coloro che non vogliono abbandonare il genere, pur rendendosi conto dei limiti dell’idea che gli sta al centro (non intendo perciò parlare qui delle parodie, magari semi-interne, alla Will Eisner o alla Jack Cole). Per contrastare la grande crisi del fumetto di supereroi degli anni Cinquanta, i primi a prendere interessanti provvedimenti in merito sono dunque, proprio cinquant’anni fa, Jack Kirby e Stan Lee; la formula “supereroi con superproblemi” serve proprio a questo: spostare la focalizzazione narrativa da fuori a dentro l’eroe, rendendolo in tal modo più umano. Se fino a quel momento i supereroi DC erano stati una sorta di semidei, narrati da fuori, visti dal punto di vista del mondo e di quello che mostruosamente e meravigliosamente essi fanno, rispetto alla normalità degli esseri umani normali, i nuovi supereroi della Marvel, grazie al nuovo punto di vista, alla nuova focalizzazione, si rivelano al lettore come uomini normali alle prese con l’ulteriore problema (e l’ulteriore grande responsabilità) di avere dei grandi poteri. Se prima il gioco era: guarda cosa può fare per te un essere con superpoteri; adesso è diventato: pensa a come potresti essere tu, se ti capitasse di acquisire di colpo dei superpoteri!
Il nuovo gioco della Marvel regge alla grande per una decina d’anni. Non c’è dubbio che la sua ricchezza potenziale è molto maggiore che nella versione precedente. Ma le conseguenze della contestazione giovanile degli anni Sessanta e Settanta, e l’aumentata consapevolezza politica che ne deriva, mietono vittime anche qui. Negli anni Settanta la figura del supereroe è complessivamente in crisi, e non basta nemmeno più, a salvarlo, il cambio di focalizzazione. Diventa evidente, cioè, che il cambio di focalizzazione non è affatto, in fin dei conti, una problematizzazione, una messa in discussione dell’idea di superuomo e delle sue conseguenze. Il supereroe Marvel, benché più umano, non è meno straordinario e ammirabile di quello tradizionale DC.
Per superare questa seconda crisi ci vuole altro. Se ne accorge, per esempio, Neil Adams, il cui Batman (con Dennis O’Neil) gotico, nero, tormentato, è tra i pochi sopravvissuti alla moria di personaggi del decennio. E (la storia la conosciamo) lo capisce benissimo, meglio di chiunque altro, Frank Miller, che, dopo altre prove interessanti, alla metà degli anni Ottanta fa proprio di Batman il proprio cavallo di battaglia per il rilancio del fumetto di supereroi in chiave adulta. Miller si rende conto benissimo che l’idea del supereroe come personaggio è potente ma in sé poverissima: è potente perché permette esiti estremamente spettacolari, ma è anche poverissima proprio perché troppo infantile, troppo ingenua – e l’espediente di Kirby e Lee (pur indicando la giusta via) è ormai ampiamente insufficiente a risvegliare l’interesse di un pubblico adulto.
Miller non è da solo, negli anni Ottanta, a intuire il problema e a suggerire vie di soluzione. Ma è certamente colui che riesce a perseguire con maggiore chiarezza ed efficacia una via interna al mito del supereroe, problematizzandolo sia eticamente che psicologicamente, mettendolo in crisi, anche profondamente, ma sempre con l’idea di rivitalizzare il genere, non di affossarlo. Ben diverso, per esempio, è lo spirito con cui agisce Alan Moore, il cui Watchmen è una critica spietata all’idea stessa di supereroe, e alla stessa possibilità di glorificarne le imprese. Anche Watchmen finisce per contribuire alla rinascita del genere, ma probabilmente è proprio perché il Dark Knight Returns di Miller ha già impostato e reso credibile l’idea di una critica costruttiva e adulta, e quindi la possibilità stessa di un genere supereroi rinnovato, accettabile anche a livello adulto. Certo, si tratta di una mossa che ha senso in un mondo in cui esistono lettori adulti che hanno amato quel genere da bambini e adolescenti, e ora si trovano nella condizione di poter rinnovare l’interesse – in qualche modo ricollegando la consapevolezza adulta con la passione infantile, potendo rileggere nella complessità quello che, anni prima, amavano in un contesto di semplicità che, passata l’infanzia, apparirebbe solo ridicola.
Dato questo contesto, la mossa di Miller è straordinaria. Il suo Batman è eticamente e psicologicamente sfaccettato; tutte le sue scelte si trovano discusse all’interno della storia stessa, e messe in discussione persino da lui stesso. Persino l’idea stessa di supereroe si trova messa in discussione attraverso la figura meschina che viene fatta fare al supereroe per antonomasia, proprio Superman, nella sua integrità (e stupidità): in Dark Knight, Superman perde contro Batman perché non è capace di mettersi in discussione, e accetta acriticamente le linee di comportamento che gli arrivano dal potere.
Date queste premesse, poco mi importava allora delle critiche di coloro che mi avvertivano che Miller era di destra. Probabilmente era già vero, ed essi avevano ragione, ma il suo Daredevil e il suo Batman mettevano in scena dei valori in cui mi potevo benissimo riconoscere anch’io, che di destra proprio non sono. Sinché il fulcro del discorso sul superuomo sta nel senso del suo esistere e del suo agire, e nella propriocezione disforica del suo essere tale, poco mi importa che poi la conclusione di Miller è che è un bene che il superuomo ci sia: su questo non sarò d’accordo, ma su come mi viene presentata la situazione (e questo come è quello che conta) sì. E potrò perciò appassionarmi in una problematica in cui riesco a riconoscermi, e quindi persino godere di una spettacolarità che, nel suo eccesso ostentato, mi può apparire a sua volta come implicita critica pur mantenendo l’impronta spettacolare.
In altre parole, se anche magari, alla fin fine, The Dark Knight Returns suggerisce un discorso di destra, il grosso della sua costruzione, a monte di tale fin fine, è godibile e appassionante anche da parte di un lettore di sinistra, perché al centro del discorso c’è un tema, un problema, un nodo problematico, e non una soluzione, una proposta di direzione da prendere. Quella, se c’è, è talmente marginale e sfumata da non creare problema: è molto facile persino accettarla, persino non condividendola. Basta confinarla nel dominio del mondo della storia raccontata, che non è il nostro. E se poi proprio non la vogliamo accettare nemmeno lì, pazienza: sarà solo questo che ci dividerà da Frank Miller: un dettaglio, neanche tanto significativo.
Credo che a nessuno sia mai venuto in mente di etichettare come propaganda né Dark Knight né nessuno dei lavori del Miller di quegli anni. Col tempo, e progressivamente, le cose sono cambiate. I fumetti di Frank Miller sono cambiati.
Non ho apprezzato 300, nonostante le qualità grafiche e di regia di Miller, perché il messaggio mi sembrava già troppo scoperto e troppo diretto: non era più il dubbio, la problematicità, a dominare la scena, ma un’inossidabile certezza. Miller era, al momento, ancora in qualche modo, velato nell’esprimersi. La versione cinematografica di Zack Snyder, nonostante tutte le sue qualità di regia e scenografie, toglieva comunque gli eventuali dubbi residui (vedi, su questo, un bellissimo testo del 2007 di Wu Ming 1, qui); ma qualche anno, intanto, era passato, e quindi magari i dubbi residui erano scomparsi pure nel medesimo Miller. Ho continuato ad apprezzare, con qualche riserva, Sin City, perché il mondo in cui si trova ambientato è talmente assurdo e di maniera che non è difficile considerare Sin City come un esercizio di stile. A lungo andare, tuttavia, gli esercizi di stile possono apparire un po’ troppo fini a se stessi, e annoiare. Ho resistito a lungo, temendo il peggio, ad andare a vedere The Spirit. Avrei fatto bene a continuare a resistere: Will Eisner non faceva esercizi di stile, e vedere ridotto il suo mondo a quello, e solo a quello (proprio cercando a tutti i costi di non vedere le implicazioni ideologiche del film), è qualcosa che mi ha fatto male.
In Holy Terror, del Miller che a suo tempo mi ha fatto sognare, è rimasta solo l’abilità registica. Il resto è propaganda ed esercizio di stile. Neppure il disegno è quello di un tempo, piegato com’è, oggi, a sostenere le esigenze di una spettacolarizzazione reboante e finalizzata a convincere. Che sia propaganda me l’ha suggerito Miller stesso, nel suo blog. Miller sostiene una tesi paranoica, ovvero che, fondamentalmente, tutto quello che viene pubblicato è propaganda, i giornali non fanno altro che propaganda, i fumetti di supereroi degli anni Quaranta facevano propaganda: dunque perché non dovrebbe farla lui?
Ma lui stesso non faceva propaganda quando il dubbio era il protagonista delle sue storie, e i giornali stessi non fanno propaganda quando discutono delle idee e accettano quelle degli altri; e, sì, Capitan America era davvero un fumetto di propaganda, ma in quegli anni gli USA erano in guerra. La tesi di Miller è, evidentemente, che gli USA sono in guerra anche oggi, e questo giustifica tutto: poiché non può essere lui a prendere in mano il fucile, quello che può fare è questo.
Al di là dell’inaccettabilità di una tesi del genere, potrebbe ancora capitare che un autore paranoico, convinto di tesi assurde, possa produrre un’opera interessante. Ma Holy Terror è indifendibile da molti punti di vista: non ci troverete niente che non sia stato già visto e rivisto in lavori precedenti, salvo che mentre in Sin City la retorica dell’eroismo personale si trova sempre in qualche modo messa a contrasto con la dubbia moralità dei personaggi (ladri, balordi e prostitute – in un’oscura prospettiva di redenzione), qui il cattivo è cattivo e basta, e non è solo l’Islam e Al Qaida, ma sotto sotto c’è persino l’interesse economico – poiché evidentemente, quando uno è davvero cattivo come lo sono i terroristi, se non è stupido deve averci un interesse personale.
Solo nella propaganda di guerra si può vedere il nemico dipinto a tinte così esclusivamente e drasticamente negative e disprezzabili. Solo nella propaganda di guerra è necessario dipingere l’eroe (cioè noi) a tinte così immacolate e infantili. Confesso che credevo che queste cose fossero scomparse da un pezzo, o relegate a produzioni davvero da poco, quelle che definirle “fumetto popolare” è offensivo persino per il fumetto popolare e chi lo produce con onore.
Frank Miller crede di essere in guerra. Il che spiega anche le sue boutade contro Occupy, di cui abbiamo parlato la scorsa settimana. Se siete convinti di essere in guerra contro l’Islam, forse potete godervi questa roba. Non venitemi a raccontare che Miller fa differenza tra l’Islam e Al Qaida: in Holy Terror questa differenza non si vede. Quando si è in guerra, comunque, non si può davvero andare per il sottile. La guerra giustifica tutto, anche la stupidità.
Addio, Frank Miller. Sarebbe bello che la tua prossima mossa smentisse quello che ho detto. Sarei felice di aver torto, e di ritrovare l’autore che ho conosciuto anni fa. Sarei felice di poter apprezzare un autore di destra. Temo però davvero che non lo farai, confermando cupamente gli stereotipi che girano tra noi di sinistra su quelli di destra, lasciandoci pensare che i nostri luoghi comuni abbiano un fondamento. Dai Frank, dimostra che abbiamo torto! Te ne sarei davvero grato, e per più ragioni.
In salita
Questa foto, presa qui, lo stesso giorno della processione di cui la scorsa settimana, ne mostra – diciamo così – le retrovie, il percorso di chi, come me, ha preso la scorciatoia per riguardagnare la testa del corteo. Il che spiega perché tutti salgano. Ma io trovo che ci sia lo stesso qualcosa di surreale in questa figura. Che cosa?
Jackson Pollock, Autumn Rhythm, 1950
Restiamo ancora su Pollock, e – come si è detto l’altra settimana – sulla sua riformulazione della comunicazione della pittura attraverso il maggior peso attribuito al gesto piuttosto che al suo prodotto, o meglio, spingendo a interpretare il segno grafico più come indice (indizio) del gesto che come segno visivo (plastico e/o figurativo). Il lettore modello del dipinto di Pollock sarebbe dunque colui che legge l’intreccio delle linee come rinvio alla danza creativa dell’autore, un po’ come un a solo improvvisato, estremamente libero in linea di principio, ma, via via che l’operazione creativa procede, progressivamente sempre più vincolato dalle proprie scelte precedenti, in armonia e in contrappunto con i percorsi già registrati.
Nata in epoca di psicoanalisi come scienza nuova, come nuova spiegazione del mondo, la pittura di Pollock, se vista in questo modo, può essere certamente interpretata come una sorta di scrittura dell’inconscio e dei suoi ritmi, una sorta cioè di scrittura automatica, alla Breton. Quando si parla di scrittura dell’inconscio o scrittura automatica, non bisogna tuttavia pensare a una sorta di sfogo di forze brute, di pulsioni primordiali che escono e magicamente prendono forma visiva (o verbale). Indubbiamente il principio surrealista dell’automatismo può essere inteso anche così, cioè come una versione più moderna e più estrema dell’idea romantica dell’arte come espressione dell’io, una versione in cui all’io si è sostituito quello che gli sta sotto, in una ricerca di autenticità ed espressività ultima – nell’ipotesi, di matrice rivoluzionaria, che quello che gli sta sotto sia comunque eversivo, antiborghese, antinormale, unheimlich.
Eppure questa ipotesi, per quanto fascinosa essa sia, si trova falsificata dai fatti. L’automatismo surrealista ha dato vita certamente a molti testi interessanti, che rimangono tali anche a distanza di anni; ma ha prodotto pure una quantità di testi noiosi, banali e per niente rivoluzionari, segno o che il processo automatista non è sufficiente in sé a tirar fuori l’essenza sovversiva dell’inconscio, oppure che l’inconscio è in sé assai meno sovversivo di quanto si possa pensare.
La mia sensazione è che il principio surrealista dimentichi almeno una metà dei fattori in gioco, e che sia davvero in questo senso una propaggine (certamente un po’ deviante) dell’idea romantica dell’arte come espressione – non dell’io ma di quello che gli sta dietro: sempre di espressione, però, si tratta. Quello che Romantici e Surrealisti sembrano dimenticare è che un prodotto artistico è inevitabilmente un prodotto comunicativo, e che quindi mette in gioco (almeno) due parti; e la parte che riceve (cioè il fruitore) non è meno importante della parte che produce.
Un’opera che si vuole artistica che non riesca a trovare il proprio fruitore è infatti un’opera fallita (chiamatela – come si usa – brutta, noiosa, priva di interesse). Poco importa che essa intenda esprimere un inconscio sovversivo: alla fine dei conti non c’è niente di meno sovversivo del non sapere uscire da se stessi, del non sapere risvegliare l’interesse di qualcun altro.
Se non si arriva a produrre un qualche tipo di accordo, di consonanza, tra l’opera e il suo fruitore, un accordo o consonanza che renda possibile da parte di quest’ultimo un interesse e un conseguente lavoro di interpretazione, l’opera rimane muta e inutile (brutta, noiosa, priva di interesse…). E allora il punto non è se l’automatismo in sé come metodo funzioni, bensì semmai, visto che a volte funziona, perché succeda questo, e che cosa distingua un automatismo dall’altro, l’automatismo che produce opere interessanti da quello che produce banalità.
La risposta facile a questa domanda è che l’autore dell’opera apprezzabile, in qualche modo, abbia barato. In altre parole che abbia coscientemente e volontariamente utilizzato strutture comunicative tradizionali in modo da rendere più facilmente trasmissibile il suo discorso. In questa prospettiva il fruitore troverebbe l’accordo con il testo attraverso la familiarità di tali strutture, e sarebbe questo a permettere all’opera di esistere davvero, di vivere la sua vita comunicativa, permettendo a qualche fruitore di entrare in consonanza con lei, e di apprezzarla.
È probabile che molte opere surrealiste siano davvero costruite in questo modo, mediando l’automatismo attraverso un progetto che, in quanto tale, non ha nulla di automatico; e non ci sarebbe niente di male in questo. Si tratta certamente di un tradimento del principio surrealista, ma a noi fruitori interessa il risultato, e non la coerenza con un principio (discutibile) di poetica. L’arte si è sempre basata su strutture comunicative condivise, e non potrebbe essere altrimenti: che l’automatismo surrealista non sia che una rivoluzione parziale, molto meno influente di quanto pretenderebbe di essere, non è cosa che debba stupire, anche al di là delle dichiarazioni programmatiche delle avanguardie, le quali tipicamente esagerano – enfatizzando il fulcro dell’area di rottura con la tradizione – per ragioni di propaganda e autoaffermazione.
Eppure i dipinti di cui parliamo non sembrano situarsi nell’ambito di questa risposta facile. O ipotizziamo infatti in Jackson Pollock la presenza di una razionalità progettuale a monte, di una lucidità straordinaria, capace di guidare consapevolmente l’espressione del suo inconscio attraverso le strette di qualche principio compositivo assestato e riconosciuto, oppure la soluzione del controllo volontario per lui non regge. E non regge proprio perché parte del fascino dei dipinti di Pollock sta nella sensazione che il progetto a monte non ci sia affatto, e che la costruzione dell’accordo con il fruitore (con me che guardo) non si basi su quello. Se si fosse basato su quello, inoltre, cioè se il lavoro di Pollock fosse stato quello di un montaggio consapevole e progettuale di pulsioni inconsapevoli, non si spiegherebbe la sua sopravvenuta incapacità di produrre – per cui da un certo momento in poi l’autore smette di dipingere, portando a motivazione di questo il fatto che non troverebbe più il ritmo, non sentirebbe più la musica interiore che prima lo faceva danzare.
C’è allora un’altra soluzione al nostro problema, forse meno gratificante per Breton e compagnia, ma – mi pare – più ampiamente esplicativa. L’inconscio, io credo, non è affatto un blob destrutturato e potenzialmente sovversivo. Se lo intendiamo nel senso più della prima che della seconda topica freudiana (cioè come un magazzino profondo di esperienze, sia fattive (operative) che narrative, sia naturali che culturali, e non soltanto come il rifugio profondo del rimosso) l’inconscio conterrà anche le strutture, le forme, i ritmi, della natura come delle produzioni culturali e artistiche, e un automatismo autentico porterà alla luce inevitabilmente pure quelli.
Per questo poi molti testi automatici sono, alla fin fine, semplicemente banali: nell’ipotesi che l’automatismo porti a galla alla cieca dei brandelli di quello che si trova sotto, non è affatto detto che questi brandelli debbano essere sovversivi. Se l’inconscio è un magazzino generale dove si pesca a caso, se ne può portare a galla tanto la pulsione di morte quanto i ritmi di Carosello; ovvero tanto il diverso quanto l’uguale a quello che gli sta sopra. L’idea dell’arte intesa fondamentalmente come espressione di questo pre-io è sbagliata tanto quanto l’idea dell’arte come espressione dell’io: la banalità rimane in agguato nell’uno non meno che nell’altro caso.
Magari un filtro cosciente anche nel lavoro di Pollock c’è, come è auspicabile che ci sia: un’attenzione, cioè, a limitare l’emersione o l’espressione delle istanze più banali, troppo facili, troppo ovvie; quelle che renderebbero l’opera ininteressante, noiosa. A Pollock, come ai testi surrealisti riusciti, va riconosciuta questa capacità consapevole; la quale non è, però, in sé ancora un progetto, e non basta, da sé, ad assicurare la qualità del risultato. Sono tanti al mondo i filtratori attenti e responsabili della propria produzione che hanno finito per non rilasciare nulla nel corso della loro vita, perché tutto quello che usciva da loro appariva a loro stessi banale!
Io credo piuttosto che il genio automatista di Pollock stia nel fatto di avere interiorizzato profondamente, di avere reso inconsce, anche le regole, le buone forme, permettendo loro di uscire allo scoperto già amalgamate con il resto. Il contributo formale, cioè – filtraggio delle banalità a parte – non è qualcosa che venga esercitato razionalmente e coscientemente: è insito, piuttosto, nell’espressione stessa.
Quando uno strumentista musicale improvvisa, non si trova da solo: ha il feedback di un pubblico, e un immenso sistema di regole interiorizzate che lo guidano. Il solista di scarsa qualità non è meno in contatto con il proprio inconscio di quanto non lo sia – poniamo – John Coltrane: è il suo inconscio che è meno ricco, meno strutturato, più povero; o almeno è meno ricca la parte che riesce a esprimersi.
L’automatismo della produzione di Pollock richiede una ricchezza interiore straordinaria, e una straordinaria familiarità con le strutture culturali del visivo, comprese quelle tradizionali. Quello che emoziona, nel guardare un suo dipinto, è la continua comparazione tra il risultato formale, di grande equilibrio, e la danza convulsa, protratta, dionisiaca, che l’ha prodotto, e che si trova registrata nei percorsi del colore. Pollock ci conquista perché produce in noi l’idea che la mediazione razionale, costruttiva, progettuale, tra l’opera e noi sia ridotta al minimo, e il suo è davvero un automatismo; ma questo automatismo ha come prodotto un universo ricchissimo.
Pollock, nel dipingere i suoi quadri, ha insomma danzato con noi; e noi nel guardarli danziamo con lui, accorgendoci di quale straordinario danzatore fosse, di quanto ricca fosse la sua interiorità, e di conseguenza di quanto ricca sia la nostra, visto che siamo capaci di seguirlo. Nell’accordo che l’opera di Pollock in questo modo produce, noi riconosciamo (per tramite collettivo) la nostra stessa ricchezza profonda. L’automatismo di Pollock funziona perché rende non tanto il suo specifico inconscio, ma il nostro, e il mio, quello insomma che ci costruisce, nella nostra cultura, come persone, come soggetti, o anche solo come parte di un tutto collettivo.
Quello che riporto qui sotto è un frammento di un articolo che ho scritto nel 2009 per il catalogo di una mostra su Frank Miller (a Moncalieri – TO). Ecco:
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… Faccio fatica, insomma, a tenere insieme l’autore di 300 con quello di Sin City. Si potrebbe malignare che il filo che li lega sta in quella capacità di creare spettacolo che davvero pochi possiedono nella misura in cui la possiede Miller. Benché si tratti di un’osservazione in sé superficiale (appunto, una malignità), questa osservazione ci invita comunque a indagare sulla natura dello spettacolo proposto da Miller.
Rileggiamo Dark Knight, allora. Soffermiamoci, come mi è già accaduto più volte lavorando su Miller, sulla coppia di pagine in cui si racconta l’incontro tra Bruce Wayne bambino e il suo futuro demone, il pipistrello che diventerà in seguito il suo simbolo. Nella pagina di sinistra si racconta, quasi senza parole, della caduta di Bruce, del suo rialzarsi e del volo di miriadi di pipistrelli sino a che soltanto un’ombra rimane. A questo punto la parola narrante riprende. È un flusso di coscienza del Bruce maturo, che sta ricordando, ma il suo andamento ha qualcosa di poetico, o meglio, di liturgico:
Then…
…something shuffles out of sight…
…something sucks the stale air…
… and hisses.
(Poi…/ … qualcosa si trascina nell’oscurità… / …qualcosa aspira l’aria stantia… / … e sibila.)
Dopo una vignetta muta e quasi completamente nera, mentre la figura del pipistrello si avvicina a quella del bambino e finalmente si rivela:
Gliding with ancient grace…
unwilling to retreat as his brothers did…
eyes gleaming, untouched by love or joy or sorrow…
breath hot with the taste of fallen foes… the stench of dead things, damned things…
surely the fiercest survivor… the purest warrior…
glaring, hating…
claiming me as his own
(Scivolando con grazia antica… / non disposto a ritirarsi come hanno fatto i suoi fratelli… / gli occhi luccicanti, mai toccati da amore o gioia o dolore… / il fiato caldo del sapore di nemici caduti, il lezzo di cose morte, cose dannate… / sicuramente il sopravvissuto più fiero… il guerriero più puro… / sfolgorando (ma anche: guardando con ira), odiando… / rivendicandomi come suo.)
Fran Miller, The Dark Knight Returns, 1985, pp. 10-11
Non è rilevante se questi siano davvero versi oppure no, così come non è rilevante la qualità poetica delle parole di Miller. Queste valutazioni non hanno rilievo e non devono portarci su un percorso sbagliato d’indagine perché, a differenza che in poesia, qui le parole non devono essere fruite autonomamente, bensì come accompagnamento di una sequenza di immagini. Resta invece necessario notare la quantità di tecniche specificamente poetiche che vengono utilizzate in queste parole, tecniche riportabili in vario modo allo stesso principio di fondo che avvicina la scrittura poetica a quella liturgica e rituale: il principio del parallelismo.
Si può notare, per esempio, la ripetuta allitterazione sul suono “s” presente nella prima parte, rafforzata da una più debole insistenza sul suono (non lontano) “f”: something shuffles out of sight / something sucks the stale air / and hisses. L’allitterazione è un tipico principio costruttivo e unificante del verso germanico antico, ereditato in misura minore anche da quello inglese moderno. Si può notare la ripetizione in posizione parallela della parola something nelle due espressioni successive, e il ripetersi della medesima costruzione sintattica, rafforzata dalla quasi-rima tra sight e air. La medesima tecnica ritorna, enfatizzata, nei versetti (chiamiamoli così) della pagina successiva: osserviamo questo ossessivo ripetersi di gerundi, anche funzionale a un effetto di sospensione del tempo, in attesa del verbo non infinitivo che mi dica che cosa accade davvero – e che qui non arriva, mentre l’evento risolutivo viene descritto alla fine da un altro gerundio sospensivo.
Ci sarebbero ancora altre osservazioni da fare sul linguaggio, ma è più urgente ora mettere in relazione i versetti con le immagini che essi accompagnano. Ci accorgiamo, così facendo, che il progressivo allungarsi dei primi quattro (della pagina di destra) coincide con l’avvicinarsi dell’ombra del pipistrello al bambino spaventato, ed è funzionale a un progressivo rallentamento della visione, e perciò anche della percezione del tempo raccontato: a un crescendo di intensità dei contenuti corrisponde un crescendo di durate, e si produce così un crescendo di tensione alimentato in due differenti modi paralleli. Nel quinto versetto, il soggetto, cui prima si faceva riferimento solo indirettamente, diventa decisamente il pipistrello, proprio mentre l’immagine finalmente ce lo mostra di fronte. Nel sesto versetto c’è la ripresa dei gerundi, ma il crescendo è finito e il versetto è diventato brevissimo: l’immagine ci mostra un bambino non più terrorizzato, bensì abbandonato (conquistato o rassegnato); e la dichiarazione di appartenenza del settimo versetto, che coincide visivamente con la chiusura completa dell’immagine da parte dell’ombra, ci appare, in calando, come una semplice e inevitabile conseguenza dell’evento che si è già consumato appena prima.
L’effetto complessivo è quello di una celebrazione, poetica e liturgica, dell’evento fondante dell’identità del Batman, che il vecchio Wayne sta ora riportando alla memoria. Sicuramente il fatto di essere un evento presentato come leggendario, quasi mitologico, giustifica narrativamente questo uso così accentuato di un andamento di carattere epico e celebrativo – ed è anche per questo, è probabile, che questo momento ci si è proposto più immediatamente all’attenzione. Tuttavia non si tratta di un evento isolato nella produzione di Miller: anzi, la maniera assolutamente naturale in cui questo momento così fortemente liturgico si inserisce nel complesso di Dark Knight ci lascia pensare che si tratti solo di una punta, cioè di un passaggio fortemente epico e liturgico all’interno di un contesto complessivo che possiede costantemente elementi epici e liturgici, in misura ora più ora meno marcata.
La mia sensazione è che la qualità della dimensione epica che i racconti di Miller ci affrescano dipenda proprio dalla sua straordinaria capacità di tenere fortemente viva la dimensione liturgica, facendoci percepire le vicende come altrettante celebrazioni di un mito cruciale per la nostra cultura. Da Daredevil a Sin City, questa dimensione mitica e fondativa percorre stabilmente il lavoro di Miller.
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Immaginate ora che la stessa persona che è in grado di coinvolgerci così intimamente in una liturgia a base epica di questo tipo esprima opinioni che non potremmo mai e poi mai condividere, e che anzi riteniamo contrarie al vivere civile. C’è da stupirsi che noi reagiamo male? C’è da stupirsi che ci appaia come pericolosa una simile capacità tecnica, capace di coinvolgerci così profondamente, quando c’è il rischio (in verità, ormai, qualcosa di più del rischio) che venga applicata per propagandare idee che ci appaiono non solo sbagliate, ma nefande, nefaste? È lo stesso Miller ad ammettere di stare facendo propaganda, salvo difendere la propria propaganda in quanto buona da quella (secondo lui) cattiva.
Capisco ma non condivido la difesa che ne fa Mark Millar, il quale non condivide le idee espresse da Miller, ma ritiene che non si possa proporre di boicottare le opere di un grande autore se dice qualcosa su cui non siamo d’accordo. Avrebbe ragione se Miller si fosse espresso attraverso le sue stesse opere; ma, nel dire quello che sta dicendo, Miller non è più un autore: è un cittadino che esprime la propria opinione fondandosi sul prestigio che si è costruito con le proprie opere. In altre parole, le parole di Miller non agiscono più nell’arena del prodotto artistico, che ha le sue regole di interpretazione, e in cui mi posso sempre permettere di sospendere il giudizio, o di fare uso della mia libertà interpretativa. Agiscono invece in quella del dibattito politico, e sono molto chiare, nette, lasciando davvero poco spazio a interpretazioni concilianti o problematiche. Vanno perciò trattate in termini di lotta politica, contesto in cui anche un’azione di boicottaggio ha un senso: in altre parole, poiché per dare peso alle tue parole tu sfrutti la tua notorietà, io cercherò di colpire quella, che è basata sulle tue opere.
Insomma, è Miller stesso che ha cambiato arena; non i suoi (nonostante tutto) affezionati lettori.
Detto questo, tra questi affezionati lettori (come si capisce bene dal testo riportato sopra) ci sono senz’altro anch’io, o ci sono stato, o ci sono ancora, ma delle sue opere passate. Da DK2 in poi confesso che leggendo Miller ho continuato ad avere l’impressione che la retorica superasse l’abilità, producendo in me una dinamicissima e ripetitivissima sensazione di noia. Il top in questo senso è stato toccato dal suo film su The Spirit, che mi è parso quasi offensivo nei confronti dello spirito di Will Eisner. Continuo ad apprezzare qualche episodio di Sin City, ma forse perché il contesto è talmente assurdo e straniato che molte cose sembrano funzionare lo stesso.
Certo, probabilmente Miller era “di destra” anche allora, quando realizzava Dark Knight, ma tra le cose che la sua liturgia celebrava c’erano sempre anche il dubbio, la problematicità, la pluralità delle voci, il conflitto interiore, l’irrisolvibilità di molte decisioni su cosa sia bene e cosa sia male: tutti valori in cui mi riconosco, e che mi permettevano di accettare, almeno per il mondo di finzione in cui accadevano le storie, anche altri valori in cui mi riconosco meno. Poi, progressivamente, tutte queste dimensioni sono scomparse, e la celebrazione di Miller è diventata sempre più monotòna, e quindi anche più monòtona: se c’è una cosa che la propaganda non contiene, quella è proprio il dubbio (insieme con la problematicità, la pluralità delle voci, il conflitto interiore, l’irrisolvibilità di molte decisioni su cosa sia bene e cosa sia male…). Da quando il dubbio è scomparso, la produzione di Miller è diventata sempre più propaganda, e tanto più pericolosa quanto più sappiamo che lui è efficace.
Sotto un aspetto solo mi sentirei di difendere le parole scritte da Miller. Leggendole avevo l’impressione che non stesse parlando del nostro mondo, ma che parlasse piuttosto di un mondo delle sue storie, specie le ultime. Poi ho letto il primo commento in ordine di tempo (dovete selezionare, in cima ai commenti, “oldest first”, mentre il default è “popular now”), di un certo Dan Morelle, che dice “This sounds just like something Marv would say” (Suona proprio come qualcosa che direbbe Marv). Dan Morelle ha capito tutto: Miller vive nel mondo di Sin City, non nel nostro. Dovremmo perciò lasciare ai suoi personaggi, e solo a loro, il compito di sostenere nel loro mondo, e solo nel loro, la sua abusata notorietà.
Subida de la Virgen de las Nieves
Sicuramente sono un po’ cattivo ad accostare questa foto, presa qui, il giorno della festa della risalita (la Subida) della Madonna al suo Santuario delle Nevi, con il dipinto di Bosch riportato qui sotto.
Hieronymus Bosch
Non c’è dubbio che i bravi spagnoli della processione assomiglino ben poco ai gaglioffi messi in scena da Bosch, ma ai meccanismi associativi non si comanda, e quando la foto mi è capitata sotto gli occhi la mia mente è subito corsa al dipinto fiammingo. Se lasciamo perdere la valutazione morale, probabilmente non pertinente, il legame tra le due immagini sta nella natura sacra dell’evento, nel suo essere comunque una processione, e nel fatto di cogliere tanti volti ciascuno preso nella propria specifica attività, nei propri pensieri.
La processione era sterminata ed entusiasta, però mica si può essere sempre concentrati sull’evento sacro, che è anche (o soprattutto) un evento festivo, collettivo e spettacolare. Ed ecco questi volti divaganti o sorridenti, proprio vicinissimo al Sancta Sanctorum della processione, il baldacchino della Virgen appena dietro di loro.
La foto va ingrandita e i volti osservati uno per uno, compresi quelli in alto a destra, un piccolo esempio dei grappoli di persone che dappertutto aspettavano la processione per vederla dall’alto dalle proprie finestre e balconi, per poi subito dopo scendere e accodarsi a loro volta.
E infine (oltre alla scuola di musica) ci sono i fotografi, proprio come me, che prendono immagini da mostrare, come questa che state guardando – o come quella esibita dalla Veronica nel dipinto di Bosch.
Jackson Pollock, Autumn Rhythm, 1950
Due settimane fa, rispondendo a un commento di Guglielmo Nigro su Miles Davis, mi è capitato di avvicinare l’ascolto di Free Jazz di Ornette Coleman alla visione di un dipinto di Jackson Pollock. Il paragone mi è uscito del tutto spontaneo, sul momento, ma vale la pena di rifletterci sopra in maniera più approfondita.
Come ho scritto nel mio libro Guardare e leggere, credo che Pollock abbia introdotto in pittura la preminenza di una modalità di significazione che, pur essendo sempre esistita, è anche sempre stata però secondaria o addirittura marginale. Quando guardiamo un dipinto del Seicento, certamente quello che ci colpisce prima di tutto è la scena rappresentata, e poi, se siamo sufficientemente competenti, valutiamo la composizione plastica. Ma esiste anche il gusto e il senso dell’avvicinare lo sguardo a riconoscere il segno delle pennellate, a cercare di capire il gesto del pittore nello stendere quel colore sulla tela. Questo specifico gusto, attraverso il quale il segno pittorico non è più solo di tipo iconico (nella rappresentazione) o comunque genericamente visivo (nella composizione plastica), ma anche di tipo indicale (in quanto traccia di un evento reale – quello del gesto pittorico), non è veramente esercitabile su dipinti precedenti il XVII secolo.
Non che non si potesse capire il gesto del pittore anche prima, dai tratti del colore, ma l’idea dell’ostentazione di una capacità virtuosistica del pennello, non dissimile da quella dello strumentista che fa musica, è un’idea tutta barocca. Ed è quindi in epoca barocca che l’idea del virtuosismo della pennellata diventa una componente possibile, collaterale ma non ininfluente, del senso complessivo di un dipinto.
Nel dripping di Pollock, la rappresentazione non c’è più, e anche il valore della composizione plastica è minore rispetto a, poniamo, Kandinsky. Ha invece un grandissimo peso il sistema, indicale, dei percorsi: le tracce lasciate dal pennello sgocciolante che danno un’idea della danza del pittore, del ritmo del suo movimento – ed è la qualità di questa danza e di questo ritmo che finisce per fare la differenza tra i dripping di Pollock e quelli di chiunque altro.
In questo senso, dunque, l’action painting di Pollock costruisce una sorta di pittura musicale. Ma attenzione a non portare la metafora troppo in là: un dipinto di Pollock, come questo Autumn Rhythm, non è fatto di un solo ritmo, o di una sola danza, ma di un complesso intreccio di mosse, che ritornano e si sovrappongono, spesso rendendo impossibile seguire davvero le singole linee. Nonostante questa confusione – o forse proprio grazie a questa “confusione” – il dipinto funziona; è forte, di grande impatto, produce una sensazione vitale di movimento e di danza. A ben guardare, poi, l’intreccio è tutt’altro che omogeneo, e appaiono zone più dense di segni e zone più vuote. La sensazione di ritmo e di danza è prodotta dallo spostamento dell’occhio e dell’attenzione su questi segni, e anche dal tornare e ritornare sulle stesse forme: di fatto, nel dipinto, il movimento non c’è, e siamo noi spettatori a produrlo attraverso un’interazione ricorrente con dei segni statici.
Ora pensiamo a Free Jazz, di Ornette Coleman. Se lo pensiamo nel suo insieme, lo possiamo descrivere in maniera non così dissimile da come abbiamo descritto il dipinto di Pollock: ci sono una serie di danze o di ritmi (quelli dei vari solisti dei due quartetti) che si sovrappongono generando una sorta di “confusione”, dalla quale emergono con fatica (e spesso non emergono) le singole linee; ma poi ci sono zone più dense e anche zone più libere, nelle quali può emergere la voce e il percorso (la danza, il ritmo) volta per volta di uno o due dei solisti.
Ma a questo punto le somiglianze finiscono, e salta agli occhi una differenza fondamentale, e cioè che mentre per vedere la struttura complessiva del dipinto e le sue macro-forme non ho che da allontanarmi un poco in modo da rendere meno evidenti i dettagli, per percepire la struttura complessiva del brano musicale non ho altra scelta che ricostruirlo mentalmente in maniera quasi-visiva, come uno schema complessivo. In altre parole, mentre la struttura complessiva di un dipinto è un fatto visivo né più né meno dei suoi dettagli, quella di un brano musicale non è più un fatto sonoro, a differenza dei suoi dettagli. Mentre il dipinto continua a essere presente all’osservazione e disponibile a essere ripercorso, la musica scorre ed è in ogni momento quella che è in quel momento, contro lo sfondo di quello che è stato prima e nella prospettiva di quello che sarà, ma, in ciascun momento specifico dell’ascolto, sfondo e prospettiva sono fatti virtuali, presenze soltanto mentali, fatti di memoria e di immaginazione.
Free Jazz gioca programmaticamente sul fatto di non avere né futuro né passato, se non di breve durata: c’è sviluppo forse nelle singole improvvisazioni, ma non nel brano nel suo complesso. La libertà di cui godono i singoli esecutori impedisce al brano di avere un’evoluzione complessiva, e al massimo distinguiamo le fasi di improvvisazione collettiva da quelle delle improvvisazioni individuali. Nel dipinto di Pollock, la struttura complessiva c’è, ed è chiaramente dominante, ed è anzi ciò che evoca in noi il quadro ritmico complessivo, poi riproposto all’infinito dalle singole linee e dagli intrecci.
Nel brano di Coleman le singole danze non hanno modo di creare una macro-danza che dia un senso all’insieme, e questo è, per me, il peccato di Free Jazz: l’utopia della libertà espressiva del singolo esecutore che rende impossibile all’ascoltatore una sintonizzazione complessiva con la musica, un possibile “andare a tempo” o “sentire il ritmo” con l’insieme. Al mio orecchio Free Jazz è pieno di bei momenti, che non riescono a costruire complessivamente una bella musica – e a lungo andare mi annoio.
A quanto pare, dunque, la musica è fatta di elementi extra-sonori molto più di quanto la pittura sia fatta di elementi extra-visivi. E anche questo è certamente un effetto dell’optocentrismo di cui la musica patisce nella nostra cultura. L’idea di una musica fortemente improvvisata, come il jazz ha cercato di essere, va certamente nella direzione di un allontanamento dall’optocentrismo – ma la mia sensazione è che Coleman abbia sbagliato strada, perché – come scrivevo nella mia risposta a Nigro – se l’ascoltatore di Free Jazz vuole cercare una coerenza e un’evoluzione più generale di quella delle singole improvvisazioni è costretto a un forte lavoro concettuale, a una forte astrazione, che non è di carattere sonoro – e non è nemmeno più la percezione di una danza, o di un ritmo. Sembra quasi che dietro alla libertà illimitata dei solisti di Free Jazz ci sia un disegno fortemente razionalista, un progetto, termini (“disegno”, “progetto”, “immagine complessiva”) tutti relativi al campo del visivo. In altre parole, Coleman non avrebbe fatto un’operazione molto diversa da quella di un musicista della tradizione cosiddetta “colta” della musica occidentale – e in effetti lo vediamo facilmente in linea con un John Cage, e con la sua – intellettualissima – esaltazione del caso.
Tutto questo discorso, ovviamente, non comporta che Free Jazz sia un “brutto disco”. Con il peso culturale che ha avuto non ha nemmeno senso parlarne in termini di brutto o di bello. Però ci permette di riconoscere che nella sostanza il progetto di Coleman finisce per andare nella direzione opposta a quella che dichiara, approdando a un intellettualismo jazzistico che caratterizzerà pesantemente i decenni successivi – anche in molti casi con risultati, peraltro, che alle mie orecchie suonano decisamente meno “noiosi”.
L’optocentrismo non si sconfigge così facilmente. Forse non si sconfigge affatto. Forse non va nemmeno sconfitto. Ma ci sono altre strade, nel jazz e altrove, lungo le quali si vivono più suoni e si ricostruiscono meno (peraltro comunque indispensabili) astratte strutture.
José Luis Salinas, Cisco Kid, striscia dell'1 novembre 1952
Di questa bella vignetta del Cisco Kid di José Luis Salinas, conservata presso il Fondo Gregotti, mi interessa osservare il modo in cui Salinas usa l’inchiostrazione per definire i due personaggi e il loro rapporto. Dal punto di vista narrativo, la situazione rappresentata è facilmente intuibile: il bello ed elegante e macho Cisco Kid in atteggiamento galante nei confronti di una signorina ugualmente elegante e bella, e forse un po’ leggera di costumi – ma qui decisamente sulla difensiva. Lo rivelano, oltre alle parole che i due si scambiano, anche l’inclinarsi in avanti del corpo di lui e il leggero corrispondente arretrare di quello di lei, insieme alla posizione tutt’altro che accogliente delle sue braccia – un segno, semmai, di potenziale ostilità e di sfida, che comunque non esclude del tutto una futura apertura.
Insomma una situazione canonica di corteggiamento con protagonisti canonici, ben individuabili nei rispettivi ruoli. E i ruoli sono molto ben definiti attraverso alcuni elementi di inchiostrazione che agiscono anche indipendentemente dalla loro efficacia nel rappresentare i volti e i corpi. Se ingrandiamo l’immagine e osserviamo il volto di lui, comparandolo con quello di lei, è facilmente evidente una doppia opposizione: da un lato un profilo definito da una serie di segni brevi e rettilinei, dall’altra segni che sono invece tendenzialmente lunghi e decisamente curvilinei; da un lato molti segni a definire con insistenza dettagli e ombre, dall’altra poche linee che lasciano intuire una superficie liscia. Provate, per cogliere un aspetto eloquente di questa seconda contrapposizione, a seguire le linee ribadite del profilo di lui e quelle addirittura discontinue del profilo di lei.
Ora, certamente, i tratti rettilinei servono per definire il profilo più duro dell’uomo rispetto a quello più morbido della donna, e la maggiore concentrazione dei tratti a rendere più segnato il volto di lui rispetto a quello di lei. Ma, a guardar meglio, ci accorgeremo che persino i tratteggi che esprimono l’ombra sulla gola di lui sono rettilinei, mentre i tratteggi che hanno la medesima funzione sulla gola di lei sono invece curvilinei – e non mi si dica che lui ha la gola diritta e rigida, anche se certamente lei ce l’ha più rotonda e morbida! Persino i capelli di lui, dove pure qualche curva (nel ciuffo) si azzarda a comparire, sono definiti attraverso tratti di pennello tendenzialmente rettilinei, mentre quelli di lei sono un evidente tripudio di curve, ulteriormente enfatizzato dalle due piume che fungono da copricapo.
Insomma, lui è macho (e lei è femmina) persino nel tratteggio. Ma questa opposizione agisce in maniera così forte soltanto nell’area dell’immagine (il fronteggiarsi dei due volti) che richiama immediatamente l’attenzione, mentre è molto meno netta nel resto delle due figure. Certo anche il corpo complessivo di lui è riducibile a un sistema di segmenti di retta, mentre quello di lei è tutto curve, ma poi ci sono (appunto) i riccioli curvilinei in alto sopra il volto di lui e il complicato sistema di curve delle decorazioni della sua camicia, oltre alle rotondità dei muscoli delle braccia e della cintura che gli cinge la vita, mentre l’ombreggiatura complessiva del corpo di lei viene ottenuta attraverso una colorazione piatta da retino, che ne appiattirebbe pure il volume se non venisse corretta da altre linee di tratteggio nell’area sotto il braccio.
D’altra parte lui, il macho, qui viene colto in atteggiamento suadente, mentre lei, la femmina desiderabile, è qui invece aggressiva e sfidante. Nel procedere dunque dal centro alla periferia dell’immagine si susseguono le tecniche di inchiostrazione che definiscono tratti di personalità generali e stabili, prima, e atteggiamenti relativi all’occasione specifica, dopo. I due personaggi sono così immediatamente riconosciuti per quello che sono nell’economia generale della storia (una funzione di identificazione) e subito dopo caratterizzati per la situazione specifica (una funzione narrativa, o di specificazione locale). Questo duplice e non simultaneo riconoscimento dipende, in parallelo, sia dalla situazione messa in scena complessivamente che dalle caratteristiche grafiche di questa messa in scena, caratteristiche di cui la modalità dell’inchiostrazione è, a quanto pare almeno qui, una dei protagonisti. Ad ambedue i livelli Salinas è decisamente un maestro.
La Montagne Sainte Victoire
Quando si passa di lì, sull’autostrada della Provenza, poco dopo Aix-en-Provence in direzione dell’Italia, chi ha amato i dipinti di Cézanne non può fare a meno di guardare e riguardare la Montagne Saint Victoire. È una visione insieme affascinante e frustrante, perché non si può non comparare l’esperienza rilassata del pittore che ne godeva dai migliori punti di vista, e ricreava sulla tela quel fascino, con l’esperienza nostra, lanciati in velocità sull’autostrada, con la visione continuamente interrotta dalle emergenze sia naturali che dell’autostrada stessa. E poi, quella volta, non stavo nemmeno guidando io; quando guidi, è ovviamente ancora peggio.
Non so (e stavolta non mi importa) se questa è una bella foto, in sé. A me piace perché è una foto che rappresenta un’esperienza, quella di chi cerca nel mondo attorno tracce dei propri miti senza poter uscire dai binari della vita che conduce. (C’era anche il parabrezza un po’ sporco, oltre ai cartelli, ponti, guard-rail, camion…)
Paul Cézanne, La montagne Sainte Victoire, 1905
Ludovic Debeurme, Renée
Mi sembra che stia montando, nell’ambiente del fumetto (di chi lo legge con affezione, soprattutto) una qualche insofferenza nei confronti dell’autobiografismo e dell’intimismo. La sensazione mi proviene sia dall’esterno (cioè da critiche e commenti che leggo o che ascolto nel Web o altrove) sia dall’interno (cioè da quello che sento io stesso).
Tra le mie letture recenti ci sono due buoni esempi per quello che voglio dire. Si tratta di Renée di Ludovic Debeurme, e di La parentesi, di Élodie Durand, entrambi pubblicati da Coconino. Sono due buoni esempi prima di tutto perché sono due buoni libri, nel complesso, ben costruiti e disegnati (tutti e due, ma in particolar modo quello di Debeurme), che affrontano, in maniera piuttosto diversa, il tema della malattia mentale e dell’esclusione. Particolarmente apprezzabili, in Debeurme, sono gli echi dell’underground e di Edward Gorey. La Durand è forse un po’ meno eccellente nel tratto grafico, ma il libro è comunque molto ben costruito, e il disegno ben funzionale al racconto.
Non c’è quindi un problema di qualità, che nel complesso è buona. Eppure, la lettura di questi libri (e di molti altri ugualmente giocati su una forte dimensione psicologica e intimistica) non mi entusiasma come (forse) dovrebbe. Perché? Ho diverse ipotesi in merito, che, se riguardano me, mi riguardano come esempio di lettore (credo) sensibile, e quindi potenzialmente corrispondente a una collettività più ampia di lettori che potrebbero provare le mie stesse sensazioni.
1. Nella prima ipotesi, banalmente, questi testi, seppur buoni, non sono così buoni come altri. Non so bene se sia corretto far rientrare in questo genere, o almeno nelle sue origini, anche Andrea Pazienza (che certamente era autobiografico) o Lorenzo Mattotti (che certamente è intimista). Né l’uno né l’altro mi hanno mai stancato, forse perché il genere non è lo stesso, o forse perché il loro approccio aveva (ha) una marcia in più, essendo capaci di accostare la dimensione intima al paradossale (l’uno) o al fantastico (l’altro). Ma se invece dei nomi di Pazienza e Mattotti, faccio quelli più recenti di Gipi e di David B., diventa più difficile – mi pare – sostenere che si pongono al di fuori del genere. Eppure potrei dire di loro la stessa cosa, cioè che Gipi e David B. hanno una marcia in più, essendo capaci di accostare la dimensione intima al paradossale (l’uno) o al fantastico (l’altro). D’accordo: anche di Debeurme si potrebbe dire che vira frequentemente al fantastico, visto che il suo underground di riferimento è più quello di Jim Woodring o di Robert Williams che non quello paradossale di Crumb e Shelton. Ma più che fantastico, nel suo caso, io parlerei di allucinatorio, o di incubo. In altre parole, non un’uscita liberatoria, ma un’ulteriore discesa nell’intimo. Ma, di questo, tra poco.
In questa ipotesi, forse, allora, stiamo assistendo all’assestarsi di una maniera. I fenomeni culturali sono molto più complessi della banale equazione migliore qualità = maggiore successo. Perché la graphic novel possa assestarsi come formato culturalmente riconosciuto (e quindi acquistato da un ampio pubblico) deve essere riconoscibile come appartenente per certi versi a un mainstream di prodotti culturalmente riconosciuti. Ora, è un luogo comune dentro cui cresciamo quello secondo cui un romanzo serio è un romanzo psicologicamente profondo, il che mette il genere introspettivo automaticamente al top dei generi romanzeschi. È facile infatti dubitare della seriosità dell’avventura o del fantastico, per non dire dell’umoristico; più difficile dubitare invece dell’autobiografico o dell’intimistico. Insomma, il pubblico riconoscimento della graphic novel come prodotto alto passa inevitabilmente attraverso una certa dose di psicologismo.
2. Da qui nasce la seconda ipotesi, secondo la quale, indipendentemente dalla qualità di questi testi, chi ama i fumetti perché sono fumetti sente puzza di bruciato; sente cioè che, alla ricerca del riconoscimente culturale, qui si sta svendendo qualcosa. E il “qui” non si riferisce tanto al lavoro specifico né della Durand né di Debeurme, ma al contesto di cui essi fanno parte, e che li porta a lavorare in questo modo. Insomma, c’è la sensazione di un qualche tipo di snaturamento del fumetto, che non avviene né in Pazienza né in Mattotti né in Gipi né in David B., che continuano comunque a navigare in un immaginario che è anche quello dell’universo a fumetti – mentre altri autori sembrano quasi dei romanzieri che si esprimono per immagini – e magari lo fanno pure bene, però senza rispetto per il passato del linguaggio. E sembrano quasi più legati al mondo del romanzo verbale che a quello del fumetto. Se questa può essere una qualità per il lettore di romanzi (che lo avvicinerà dunque alla graphic novel) non lo è per il lettore di fumetti, che si sente in qualche modo tradito, e per ragioni di mercato. Persino l’allucinatorio di Debeurme (con tutte le sue non indifferenti qualità) non sfugge a questo sospetto, quasi fosse un modo per ricreare l’atmosfera del romanzo colto sfruttando i riferimenti del fumetto.
3. La terza ipotesi è quella della stanchezza. Il fumetto intimistico/autobiografico nasce tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta, per esplodere negli ultimi quindici anni. Magari semplicemente siamo stanchi, come lo siamo (almeno io personalmente) di storie di superoeroi e di fantasy. Certo, il capolavoro è il capolavoro, qualunque sia il genere. Ma appena la qualità scende appena un poco, la stanchezza si fa sentire – e se scende ancora di più, la reazione inevitabile è del tipo “chepp…!”.
4. C’è una quarta ipotesi, meno banale di quanto sembra, ed è che gli autori di cui sto parlando sono francesi. È vero che il discorso che sto facendo si attaglia anche a parecchi americani (tipo Craig Thompson, o la Abel, o Madden). Ma il fatto che siano francesi dà adito a un sospetto, che dipende dal tipo di mercato. La Francia è infatti il paese che ha il maggiore mercato “colto” del fumetto, e di conseguenza la necessità di maggiore standardizzazione di un prodotto di buona qualità. L’assestarsi di una maniera, di cui parlavamo sopra, è particolarmente sospettabile in questo contesto, e corrisponde a quello che succede in Italia, per esempio, col fenomeno editoriale del romanzo (tout court, cioè verbale), che è sempre più un prodotto di fattura editoriale, che presso i grossi editori passa solo se possiede certe caratteristiche di vendibilità, ed è di conseguenza aggiustato e riaggiustato editorialmente per adeguarlo alle esigenze. La dimensione ridotta del mercato italiano del fumetto ha un po’ salvato la nostra situazione in questo senso, garantendo la natura artigianale/artistica (due modi di dire la stessa cosa che hanno un riconoscimento culturale diverso) del prodotto nostrano. Inevitabilmente, con l’espandersi del mercato e il successo della graphic novel, ci andremo francesizzando anche noi – nel bene come nel male.
Élodie Durand, La parentesi, pp.162-163
Campo di gioco
In questa città invisibile, che è la stessa di questa, le linee di terra dei campi da pallone per i bambini sono fatte con la luce del sole, mentre le porte sono colonne monumentali di pietra.
Di questa foto, oltre alla nettezza della luce, e all’aria di giornata festiva che si respira, mi piace la rima tra la sequenza delle colonne a sinistra e quella delle colonne a destra, ciascuna disposta in una dimensione spaziale differente; e poi il modo in cui questa serietà geometrica e statica viene messa a contrasto con le posizioni casuali e dinamiche delle figure umane.
Inio Asano, Buonanotte Punpun (Planet Manga) pp. 12-13
Ho davanti a me due libri dall’origine del tutto diversa, eppure stranamente imparentati. Uno è francese, e racconta una storia di quasi sessant’anni fa. L’altro è giapponese e racconta una storia (mi pare) di oggi. Tutti e due hanno per protagonista un bambino, immerso in un contesto di bambini, che vivono in una realtà favolosa, a cavallo tra problematicità sociale e leggenda. Tutti e due sono ottimamente scritti e disegnati, e sono tra i migliori libri a fumetti (pardon, le migliori graphic novel) usciti negli ultimi mesi. Tutti e due non raccontano davvero una storia, ma una serie di episodi collegati a creare una sorta di affresco della vita, infantile e adulta, che gira intorno al protagonista.
Buonanotte, Punpun, di Inio Asano, aggiunge alla precisione espressiva del disegno un’invenzione degna di memoria. Il bambino Punpun, il protagonista, pur non raccontando in prima persona (cosa che in un fumetto certamente si può fare, ma è poi inevitabilmente contraddetta dalla prospettiva inevitabilmente esterna delle immagini), viene visto e rappresentato visivamente, in un certo senso, in prima persona. Nelle vignette della storia di Asano, infatti, il suo protagonista è rappresentato come una sorta di uccellino stilizzato, con braccia e gambe filiformi, come potrebbe disegnarle un bambino. E quando l’inquadratura si avvicina a lui non appaiono più dettagli come con gli altri personaggi (disegnati con un tratto minuziosamente realistico, appena appena caricaturato): al contrario, il medesimo segno di contorno del profilo del personaggio si ispessisce e si sfoca.
La metafora è abbastanza evidente. Il bambino Punpun, che di fatto si comporta come gli altri ed è trattato dagli altri in tutta normalità, senza che nessuno manifesti nessuna reazione a una sua qualche eventuale diversità, evidentemente si sente diverso; o meglio, non è capace di vedere se stesso con la medesima chiarezza con la quale vede invece tranquillamente gli altri. Rappresentandolo graficamente con questa sorta di scarabocchio, Asano mette in luce l’incertezza di Punpun riguardo a sé, la debolezza interiore del bimbo, il suo sentirsi indefinito rispetto alla definitezza di ciò che lo circonda.
Baru, Gli anni dello Sputnik (Coconino) p. 47
Niente di tutto questo invece ne Gli anni dello Sputnik, di Baru, il cui protagonista è sin dall’inizio più attivo, e tempera le inevitabili incertezze con una vita di gruppo in cui detiene persino un certo primato. Potremmo magari prendere la differenza tra i due personaggi come una differenza di fondo tra il modo di pensare l’io degli Occidentali e quello dei Giapponesi, certamente più spavaldo e aggressivo nei primi, e più delicato e legato alle relazioni di comunità nei secondi.
Nonostante l’indubbia qualità di ambedue i lavori (e in particolare Baru appare di nuovo nella sua forma migliore, qui dove la sua vocazione agli eccessi di rabbia, di grida e di lotta si trova naturalmente temperata dal contesto infantile, e i contrasti tra personaggi sono sempre sospesi tra l’epico e il ridicolo, ma con un largo margine di tenerezza), c’è però qualcosa che li accomuna anche nel non convincermi sino in fondo – che riesce a emergere magari anche grazie all’indubbia efficacia della trama, del ritmo complessivo, del riuscito disegno dei personaggi (disegno psicologico e anche disegno grafico).
Diciamo che si tratta di un sospetto, più che di una sensazione precisa. Ed è il sospetto, per tutte e due le storie, che la loro efficacia narrativa, e il forte coinvolgimento che producono (anche in me), dipenda da una costruzione del contesto infantile forse un po’ troppo come deve essere, un po’ troppo come, da adulti, ci aspettiamo che sia. La storia di Baru è una sorta di Guerra dei bottoni, o di Ragazzi della via Pal senza la parte triste. Quella di Asano è magari più malinconica e intimista, ma c’è comunque questa immagine di un’infanzia sospesa tra desiderio di avventura e necessità di certezze quotidiane.
Faccio fatica a spiegarmi, perché, comunque ne parli, riesco solo a descrivere un’immagine dell’infanzia che è quella che anche io ho – ed è per questo che tutti e due i volumi (in verità la storia di Asano è fatta di più volumi) sono comunque molto godibili, e qua e là anche struggenti. Ma – non so – è come se tutto fosse davvero troppo come mi aspetto che sia, e quest’infanzia fatta di incertezza, desideri, paure, sogni, genitori, amici, nemici, pericoli, avventura, corrisponda appena un po’ troppo al modello adulto del rimpianto di non essere più così, al modello favoloso (ma anche spaventato) di noi stessi a dieci anni – nelle due varianti, tendente all’eroico l’una e tendente al malinconico l’altra.
Insomma, due opere tutte e due da attraversare. E da meditare.
(Potremmo magari aggiungere alla lista delle opere recenti su gruppi di bambini anche il film Ruggine, di Daniele Gaglianone. Io l’ho trovato molto bello. E la sua infanzia non mi ha posto lo stesso problema, benché non fosse molto diversa da quella descritta da Baru e Asano. Potrebbe essere che Gaglianone è stato davvero più bravo. Potrebbe essere che il cinema è un medium diverso, che produce effetti diversi. Potrebbe essere anche che di cinema io sono molto meno esperto che di fumetti, e quindi anche molto meno attento a trovare il pelo nell’uovo. Comunque sia, il film di Gaglianone è una terza opera da attraversare, meditando.)
Giallo e azzurro
Questa foto potrebbe legittimamente fare da pendant a quella della scorsa settimana, ed è pure stata scattata nella medesima città; solo che qui i colori non sono solamente sul fondo, inquadrati dalle quinte bianche e grigie. E le diagonali stanno anche nelle pareti di sfondo, così che non c’è un appoggio definitivo alla fuga dello sguardo.
A me piace anche quell’ombra in alto, la cui diagonale viene ripresa dalla curva del muro proprio di fianco (di cui non riesco a capire il senso architettonico), perché fa parte di un gioco di zigzag che corre dappertutto, dal basso all’alto, dai lati al centro. E c’è persino il lampione, a sinistra, ad abbozzare un ulteriore ritorno.
E poi mi piace che al giallo che sfuma verso il grigio si contrapponga quel cielo di un azzurro così uniforme, quasi irreale se comparato alle scrostature e sfumature dei muri.
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Kazuo Koike e Goseki Kojima, Lone Wolf and Cub
Scrive Marco Pellitteri qualche giorno fa su Lo Spazio Bianco, elencando 11 “cose” che fanno male al fumetto in Italia, che, tra queste, ci sarebbero anche “Gli editori che da anni e ancor oggi pubblicano i manga in edizione ribaltata”. Ci dice Marco: “È una questione molto interessante, che riguarda un segno di distinzione nel gusto, un avvicinamento culturale al modo di lettura dei giapponesi, una corrispondenza maggiore all’esperienza di lettura dei manga da parte dei lettori nipponici.”
Temo che le cose siano molto più complicate di così. Della questione del ribaltamento ho avuto modo di parlare già qualche anno fa, e non ho cambiato idea. Basta guardare la coppia di immagini che ho allegato qui (e di cui non dirò quale sia l’originale giapponese) per rendersi conto che raccontano storie differenti di attacco o di difesa da parte dell’uno o dell’altro dei contendenti. All’obiezione che basterebbe conoscere il verso di lettura per saper leggere correttamente l’immagine, risponderò che non è vero. Certo, leggendo i manga alla giapponese, impariamo facilmente a scorrere le vignette nel verso giusto, e anche a leggere prima i balloon a destra di quelli a sinistra (pur se poi, all’interno di quegli stessi balloon, la scrittura occidentale mi reimpone di muovermi da sinistra verso destra). Ma la ricostruzione intuitiva del movimento si basa, oltre che su una serie di convenzioni (che possono certo essere apprese e reinterpretate dal lettore) anche su conseguenze percettive molto profonde di alcune di quelle medesime convenzioni. Noi, per esempio, cresciamo all’interno di un contesto in cui la successione sinistra-destra non è soltanto quella della scrittura, ma, a partire dal verso della scrittura, è diventata la successione generale delle cose che avanzano; e siamo quindi intimamente abituati a considerarla tale. Non è più una convenzione (modificabile e riacquisibile) a governare questa percezione, ma una capacità cognitivo-operativa di livello profondo, non dissimile da quella che ci permette di reagire agli stimoli del mondo quando ci si presentano improvvisamente davanti, comportandoci istintivamente ancora prima di qualsiasi riflessione.
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Kazuo Koike e Goseki Kojima, Lone Wolf and Cub
Con queste premesse, sostenere che la lettura dei manga alla giapponese costituisce per un Occidentale “una corrispondenza maggiore all’esperienza di lettura dei manga da parte dei lettori nipponici” suggerisce che pure i nipponici debbano leggere con fatica i suggerimenti di movimento (magari contraddetti dalla direzione della scrittura) – il che chiaramente non è, salvo forse quando i Nipponici leggono fumetti occidentali non ribaltati (ma loro sono avvantaggiati dal fatto che la direzione sinistra-destra, pur minoritaria, non è estranea alla scrittura e cultura giapponese).
Comunque, precisa Marco, “La questione del ribaltamento dei manga non riguarda primariamente una faccenda di leggibilità e di direzionalità percettiva. Come ho scritto sopra, essa riguarda il gusto dei fan dei manga, la loro identità di lettori molto spesso nettamente distinta rispetto a quella dei seguaci di altri fumetti (occidentali), il desiderio, che trova oggi piena soddisfazione, di poter trovare nella lettura da destra a sinistra la sequenzialità e la direzionalità originariamente predisposte dagli autori nipponici.”
Questo a Marco lo posso concedere. In effetti, se quello che conta non è la qualità della lettura ma l’identità specifica di lettore, allora certamente quei manga (ribaltati) che non la rispettano fanno male al fumetto in generale. O meglio, fanno male all’editoria a fumetti, perlomeno nella misura in cui essa si regge sui lettori che costruiscono la propria identità sul ritrovare la direzione di lettura originaria del giapponese. Questo non basta tuttavia a definire gli altri “un fantomatico gruppo di lettori «casuali» (anziani? ignoranti? pigri? semi analfabeti?) presuntamente non abituati o non abituabili alla lettura non ribaltata”, e non solo perché mi sento chiamato direttamente in causa (e quindi potenzialmente ascritto a una delle categorie elencate), ma anche perché, come abbiamo visto sopra, ci sono caratteristiche della lettura ribaltata a cui è possibile abituarsi, e altre che sono troppo profonde per coglierle con la fluidità necessaria a una lettura goduta di un fumetto (come di qualsiasi altra cosa). In altre parole, in una situazione controintuitiva come quella del movimento nel manga non ribaltato, o leggiamo fluidamente oppure interpretiamo correttamente il movimento, ma non le due cose insieme; e siccome, di solito, siamo più interessati al piacere della lettura che alla filologia, questo va a scapito della corretta interpretazione del movimento. Certo, evidentemente capiamo grosso modo ugualmente quello che succede; gli elementi contestuali sono tali e tanti da portarci comunque nella giusta direzione; e tuttavia quello che perdiamo in precisione ed efficacia è assai di più di quello che perderemmo con samurai e tennisti mancini.
Marco potrà pure stupirsi che esistano dei lettori che non sono né anziani né ignoranti né pigri né semi analfabeti, e che pure preferiscono avere un’esperienza di lettura consona alle proprie consuetudini percettive proprio come ce l’hanno i Giapponesi. Ma se gli resta “incomprensibile” che esistano lettori di questo genere è evidentemente perché lui stesso appartiene a quei lettori che costruiscono la propria identità nel ritrovare “la sequenzialità e la direzionalità originariamente predisposte dagli autori nipponici”. Per un lettore di questo tipo, evidentemente, il mito del Giappone è più forte del riconoscimento delle differenze, e delle conseguenze che esse comportano. La cosa ha davvero le caratteristiche di un innamoramento. Quando siamo innamorati, tendiamo a vedere come meraviglioso tutto ciò che pertiene alla persona amata. Il che è certamente una cosa positiva, perché ci spinge a migliorarci e a imparare a fare delle cose nuove. L’innamoramento ci spinge però anche a non vedere quali sono i nostri limiti, e a trascurare il fatto che ci sono cose che possiamo imparare e altre che no. A volte ci salva la reciprocità dell’innamoramento, per cui, vivendo la medesima condizione, la persona amata tende a sua volta a non vedere i nostri limiti. Altre volte la passione termina, e ci troviamo a domandarci come abbiamo fatto a innamorarci di una persona così.
Nei confronti dei manga non possiamo troppo sperare nella reciprocità, non a livello individuale, almeno. Senz’altro, se li possiamo leggere (ribaltati o meno) è perché il Giappone ha vissuto un innamoramento per l’Occidente forse ancora maggiore del reciproco. Ma questo non riguarda nello specifico il lettore di manga, per il quale, evidentemente, potersi immergere un poco di più nel mito del Giappone, anche attraverso un’apparenza di rispetto della sua direzione di lettura, è più importante della correttezza dell’interpretazione. Questo lo capisco benissimo: si legge per piacere e per fascino. La correttezza dell’interpretazione è roba da critici. Come me, e Marco, peraltro.
Insomma, riconosco a Pellitteri che il manga ribaltato può far male all’editoria a fumetti, perché è probabilmente vero che la maggior parte dei lettori di manga vive nel mito del Giappone, ed è più interessato a riviverne il profumo che a leggere correttamente. Ma non è detto che ciò che fa bene all’editoria faccia bene al fumetto in generale. Non c’è dubbio che, se non si vende, il fumetto muore; e quindi, se i lettori sono così, continuiamo pure a stampare i manga alla giapponese. Ma questa abitudine a leggere con superficialità, trascurando i segnali più profondi, attaccati alla griffe nipponica come un dandy al suo Versace, fa davvero bene al fumetto nel suo complesso?
La stradina
Ho leggermente giocato di saturazione, con questa foto, proprio perché il grosso della foto è per sua natura in bianco e nero. Questa serie di tonalità di grigio, dal quasi bianco dominante ai vari grigi delle modanature e delle macchie sui muri, mette natualmente in evidenza le poche aree davvero colorate, cioè il cielo in alto, il muro giallo di fondo in basso, le linee azzurre della casa a sinistra, e qualche piccolo dettaglio qua e là. Tra questi dettagli, mi piace molto quella strisciolina gialla proprio alla base del cielo, che riprende e rilancia per un soffio il colore del muro più sotto.
Certo, l’organizzazione prospettica, un po’ a quinte, contribuisce molto a questo effetto. È come se una realtà in bianco e nero inquadrasse il proprio fondo vero, facendolo risaltare. Come quando ci si veste in nero e bianco (o grigio e bianco) per fare risaltare la cravatta colorata – che lei, davvero sì, ci rappresenta; mentre il resto è “come si deve essere”.
Per quanto riguarda lo specifico del luogo in cui la foto è stata scattata, magari si tratta di un caso: non è tutta così. Però un bel caso. Una città invisibile dove il colore è sempre laggiù, sul fondo. Lo puoi raggiungere quando vuoi; ma la vita è un’altra cosa, in bianco e nero?
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