Recensioni d’annata, 1997. La salamitudine aguzza l’umorismo

La salamitudine aguzza l’umorismo
Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 1997

“Salamitudine” potrebbe essere la parola che esprime la condizione esistenziale dei personaggi di Jacovitti: contornati da uno spazio ossessivamente pieno di dettagli, condannati a comportarsi secondo lo stereotipo narrativo di cui erano la parodia, ossessionati dalla presenza impertinente di salami mozzati (talora con le ali), di piedi senza padrone che spuntano dalla terra come singolari cactus e di resche di pesce, simbolo geniale e demenziale del dio delirante che organizzava il loro mondo. Jacovitti, come ogni vero grande umorista, è riuscito a farci ridere (e spesso fino alle lacrime) anche ripetendo mille volte la stessa battuta, la stessa gag, la stessa situazione narrativa. Magicamente, ogni volta era nuova, ma ogni volta aveva anche l’aspetto di una rassicurante conferma della stabilità del mondo – di un mondo, quello disegnato da lui, che pareva deragliare continuamente verso dimensioni imprevedibili.

Ma queste imprevedibili alterità, a loro volta, avevano forme riconoscibili e consuete (per quanto deformate dal contesto e dall’inventività di Jac): il governatore “della Cosa, della California”, don Pedro Magnapoco, esprime in dialetto napoletano le proprie istruzioni a don Perfidio Malandero, capitano delle guardie, per far fuori Zorry Kid. Il turbine coinvolge nel medesimo gioco le strutture narrative del serial disneyano di Zorro e l’Italia ancora dei dialetti, del miracolo economico, del dopoguerra passato ma per nulla dimenticato. L’americanità dei miti infantili di Zorro, del western, dei gangster, della fantascienza, viene filtrata da un’inventività dal gusto strapaesano e cocciutamente e sarcasticamente nazionale, regionale, campanilistico talvolta.

Per noi, bambini negli anni Sessanta, Jacovitti era la giocosa irrisione dei miti televisivi, qualcosa che li rendeva meno sacri ed eroici, avvicinandoli non solo alla quotidianità, ma anche alla realtà irrimediabilmente provinciale che, rispetto a quei modelli, ci pareva di vivere. L’indimenticabile Cocco Bill, che beveva camomilla al burro invece di whiskey, era al tempo stesso un pistolero del west (che viveva avventure non meno emozionanti di quelle che si vedevano in televisione e al cinema) e una persona familiare, con caratteristiche riconoscibili in quelle del vicino di casa, o del parente che abitava in un’altra regione.

Più drasticamente ancora, nella ripresentazione rivisitata di quegli eroi, non si poteva non riconoscere uno spirito di irrisione dal gusto squisitamente e appassionatamente infantile, pur condotto con una sapienza narrativa da adulto. Jacovitti ci si mostrava complice di scherzi ed irrisioni, e quindi gustoso cattivo esempio da seguire (i buoni esempi non sono mai gustosi). Si riconosceva in lui quello che oggi potremmo definire lo spirito di un Peter Pan deciso a non far crescere il proprio mondo fantastico interiore – ma cresciuto, e quanto!, nella capacità di esprimerlo.

Anche quando – anni dopo, e trasformata l’etica nazionale verso una maggiore permissività sessuale – Jacovitti si era cimentato con l’universo adulto dell’erotismo, i suoi risultati non erano stati da meno. Il suo Kamasultra è un inventario delle situazioni erotiche più assurdamente barocche e demenzialmente irrealizzabili, dove corpi in nodi gordiani mescolano oltre i limiti dell’immaginabile attributi sessuali e non.

Oggi che Jac è scomparso, la notizia sembra ancora un’altra delle sue burle, e che il suo defungere non sia che il preludio a una risata ancora più nera e dissacrante delle precedenti. Insieme a lui, vorrei rendere omaggio anche a un altro dei numi tutelari della mia infanzia, il maestro della televisione Alberto Manzi, protagonista educativo di quella stessa Italia, sospesa nel difficile (ma quanto risibile – potrebbe sogghignare Jacovitti) travaglio tra il villaggio e il villaggio globale.

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Recensioni d’annata, 1997. La storia di Bonelli e di suo figlio ‘Tex’

La storia di Bonelli e di suo figlio ‘Tex’
Il Sole 24 Ore, 23 novembre 1997

Cinquant’anni di Tex sono, non c’è dubbio, un traguardo considerevole. Il primo a stupirsene è lo stesso Sergio Bonelli, sceneggiatore ed editore, figlio di quel Gianluigi che, con Aurelio Galleppini alle matite, creò il personaggio nel 1948. Un personaggio tra i tanti che venivano creati, all’inizio, destinato con ogni probabilità a vivere qualche anno di relativo successo, e poi ad essere dimenticato per sempre.

E invece Tex resse, e poi continuò a reggere, aumentando il suo successo, e iniziando, con il trascorrere degli anni, ad ammantarsi di mito. Sono molti anni ormai che, insieme con Topolino, mantiene la testa delle vendite mensili, e persino in un periodo di crisi del settore come quello che stiamo vivendo oggi i lettori di Tex restano diverse centinaia di migliaia.

Altri personaggi furono creati nel corso del tempo da Sergio, mentre Gianluigi restava fedele al ranger. Zagor (1961) e Mister No (1975) sono quelli che hanno superato la prova degli anni. Ancora altri sono venuti dopo, per opera di sceneggiatori e disegnatori che la scuderia Bonelli ha acquisito o cresciuto: Martin Mystère, di Alfredo Castelli e Giancarlo Alessandrini, è nato nel 1982; Nick Raider, di Claudio Nizzi, nel 1988; Nathan Never, di Medda, Serra e Vigna, nel 1991. Mentre per Bonelli Tiziano Sclavi ha inventato Dylan Dog nel 1986, rilanciando una volta di più le sorti già fortunate dell’azienda.

Ultmi nati, in questi ultimissimi mesi, Magico Vento, di Gianfranco Manfredi (già noto come cantautore e scrittore) e Napoleone, di Carlo Ambrosini.

A Bonelli e alla sua storia è stata dedicata in questi giorni la prima edizione di Padova Fumetto, continuazione ideale di Treviso Comics, un festival molto amato dagli addetti ai lavori. Diverse mostre, dal 5 al 19 ottobre, hanno illustrato la storia e i diversi generi cui i personaggi di Bonelli appartengono, riempiendo il caffè Pedrocchi e altri luoghi storici della città di figure inconsuete. Un convegno, tenutosi l’11 ottobre, ha analizzato il ruolo dei fumetti Bonelli nel costruire numerosi luoghi del nostro immaginario, e, talvolta, anche del nostro linguaggio.

Ne è uscita un’immagine abbastanza atipica di queste creazioni. Magari per pure ragioni di sopravvivenza nel lungo periodo, e forse al solo scopo di trovare variazioni a temi che alla lunga finiscono inevitabilmente per essere monotoni, Sergio Bonelli e i suoi hanno finito per inventare un modo del tutto originale di contaminare e mescolare i generi – non di rado ispirandosi a vicende realmente accadute. E’ stato Giulio Giorello, nel corso del convegno, a evocare un’avventura di Tex in cui lo scontro avviene con dei beduini muniti di cammelli nel deserto del Texas. E’ del tutto legittimo pensare a una bella e fantasiosa mescolanza di generi; ma la storia si ispira a una vicenda realmente accaduta, e i cammelli del deserto texano esistono davvero.

Comunque sia, cinquant’anni di storia della casa editrice milanese hanno lasciato il segno nella cultura e nel comportamento degli italiani. E con Tex, o Dylan Dog o con altri personaggi questa storia pare destinata a durare.

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Recensioni d’annata, 1997. Fumetti d’imPazienza

Fumetti d’imPazienza
Il Sole 24 Ore, 9 novembre 1997

Venti anni fa, 1977, mentre le università italiane ribollivano degli ultimi, scoppiettanti bagliori della stagione nata con il ’68, e la sinistra studentesca iniziava a morire tra tossicodipendenze e Brigate Rosse, il fumetto italiano stava iniziando un viaggio che lo avrebbe segnato e trascinato lontano. Per almeno 10 anni gli autori che si stavano formando allora avrebbero dominato il campo, lasciando tracce un po’ su tutta la scena culturale italiana, dalla letteratura alle arti visive, dalla satira al teatro, al costume.

Non c’era solo un manipolo di ragazzi geniali. C’era un ambiente culturale che si riconosceva nel fumetto come in una forma espressiva non compromessa con l’ufficialità editoriale o commerciale; un’ufficialità peraltro inutilmente combattuta e detestata, ma contrastata, almeno simbolicamente, con ogni mezzo possibile. L’ambiente culturale riconosceva nei ragazzi geniali del “nuovo fumetto italiano” coloro che più compiutamente esprimevano il sentire diffuso, e li eleggevano a loro portavoce.

All’inizio era stato Cannibale, rivista troppo aperiodica e managerialmente dilettantesca per durare, ma radicale e innovativa, e di qualità straordinaria, tanto più se si pensa che gli autori erano tutti giovanissimi, e tutti alla prima esperienza editoriale, o quasi. Da quegli stessi autori, insieme ad altri con qualche capacità amministrativa in più, era subito dopo arrivato Il male, la rivista di satira più cattiva (e intelligente) che si possa immaginare, di cui resta memoria, nel pubblico, soprattutto per le false copertine di quotidiani nazionali che strillavano notizie straordinarie, da “Lo stato si è estinto” di Repubblica a “Annullati i mondiali” de La Gazzetta dello Sport.

Sono gli stessi ragazzi, nel 1980, a fondare Frigidaire, rivista di tendenza e di culto della prima metà degli anni Ottanta, mescolando un giornalismo aggressivo e controcorrente all’inventività grafica e letteraria. E producendo, naturalmente, fumetti tra i migliori che si siano mai visti in Italia.

Vent’anni dopo, cosa resta di questo? Che cosa fanno i protagonisti di questa storia? Due di loro sono morti: il corpo di Stefano Tamburini, motore grafico e ideologico di Cannibale e Frigidaire, fu trovato parecchi giorni dopo il decesso, nel 1986; e due anni dopo, nel 1988, morì di overdose Andrea Pazienza, l’autore più prolifico e amato della sua generazione. Tanino Liberatore e Massimo Mattioli continuano ancora oggi a pubblicare ottimi fumetti tra Parigi e Roma. Filippo Scòzzari non disegna quasi più, ma in compenso scrive, penna caustica e irriverente, non di rado avventata, quasi volgare – ma sempre gustosa, gustosissima, e tanto di più quanto più dice quello che di solito le lingue forbite usano tacere.

E’ proprio sulla storia che abbiamo accennato sin qui che Scòzzari ha pubblicato da poco un racconto autobiografico, dove gli entusiasmi e i drammi di quegli anni appaiono vissuti intensamente da dentro, da protagonista, inventore e trascinatore di autori destinati talvolta a un successo maggiore del suo. Un libro, Prima pagare poi ricordare, appassionato e sgarbato come il suo autore, composto con uno stile acutamente originale – da superba, irrefrenabile “malalingua”.

Il ritratto che appare più nitido, nelle pagine di Scòzzari, è quello di Andrea Pazienza, amato e ferocemente invidiato (da lui come da tutti) per la sua capacità grafica straordinaria. Scòzzari ci racconta come lo conobbe, come lo frequentò, come si concluse il sodalizio, prima – come spesso accade – per semplice esaurimento, e poi, inaspettatamente, in tragedia. Pazienza, nei suoi pochi anni, ha davvero attraversato come una bomba gli anni Ottanta, senza fare scuola e senza riconoscimenti all’estero: troppo originale e troppo calato in una realtà giovanile profondamente italiana, nella quale ha creato opere in cui il suo pubblico si è riconosciuto e immedesimato.

A Pazienza, in questo ventennale senza celebrazioni (ma che fa evidentemente riscontrare un diffuso risveglio di interesse per le vicende che ebbero inizio allora) troviamo dedicati in questi giorni un CD-Rom e una mostra. Il CD-Rom, Andrea Pazienza. L’antologia illimitata, a cura di Ferruccio Giromini, fa abbastanza fede al suo titolo, presentando nel non agevole formato dello schermo del computer (640×480 pixel) le tavole di tutti i fumetti di Pazienza, più una discreta scelta di vignette, dipinti e altro. Vi si trova una bibliografia delle sue opere che si può presumere completa, un’antologia di commenti della critica e una breve biografia, con filmati e foto del giovane e meno giovane Andrea dalla prima comunione in poi. Con gradita discrezione, gli autori non aggiungono altro: né commenti, che infatti meglio troverebbero posto in un volume cartaceo, né gratuite divagazioni multimediali, con l’eccezione di alcuni inutili giochi – ma pare che non si possano fare CD-Rom senza di loro.

La mostra, Andrea Pazienza. Antologica, promossa dall’Assessorato alla Cultura del comune di Bologna, è aperta nel capoluogo emiliano a Palazzo Re Enzo dal 5 ottobre al 16 novembre, e presenta circa 250 originali, di cui la metà tavole di fumetti e il resto illustrazioni e dipinti, alcuni inediti. Il catalogo, curato dai fratelli di Pazienza e da Vincenzo Mollica, contiene una nutrita serie di interventi.

 

Filippo Scòzzari
Prima pagare poi ricordare. Da “Cannibale” a “Frigidaire”. Storia di un manipolo di ragazzi geniali
Roma, Castelvecchi 1977
pp. 232, £.18.000

Andrea Pazienza. L’antologia illimitata (CD-Rom)
Imagica – L’Unità iniziative editoriali n.5
£. 30.000

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Recensioni d’annata, 1997. Ipertrofici muscoli da fumetto

Ipertrofici muscoli da fumetto
Il Sole 24 Ore, 10 agosto 1997

Prima era un’entità di scarso rilievo: solo il necessario supporto materiale di un personaggio. Appena in alcune figure femminili la descrizione grafica sottolineava il corpo con qualche compiacimento. Del resto, poiché i fumetti erano sostanzialmente comics, funnies, roba fatta per ridere, il corpo era un’entità puramente funzionale al racconto e alle situazioni umoristiche.

Dal 1929 le cose iniziano a cambiare, e il protagonista di questo cambiamento si chiama Tarzan. Disegnato da Harold Foster, un autore di notevole talento grafico, il seminudo signore delle scimmie porta nel fumetto (così come nel cinema, all’incirca negli stessi anni) un gusto per le forme corporee che prima di allora era del tutto alieno a quel mondo. Forme maschili, con muscoli tesi e grazie acrobatiche, e forme femminili, languide e quasi altrettanto discinte.

Da Tarzan in poi, il corpo dei personaggi del fumetto non sarà più lo stesso. Alex Raymond, sulla scia di Foster, riempirà dal 1934 il suo Flash Gordon di atleti e conturbanti principesse, provocanti al punto che le edizioni italiane di questo fumetto non riuscivano sino a tutti gli anni Sessanta a evitare di coprire il loro corpo di improbabili tessuti colorati.

E’ ancora Tarzan a rilanciare il corpo maschile, quando, verso la fine degli anni Trenta, il suo disegno passa a Burne Hogart, un disegnatore innamorato di Michelangelo e dei suoi nudi muscolosi. Il Tarzan di Hogart è un’apoteosi del nudo – sempre coperto là dove si deve, beninteso, ma addirittura sfacciato nella sua atletica sensualità.

E’ nello stesso periodo che sulla scena del fumetto americano fa la sua comparsa Superman, con la sua corte di eroi superdotati. Il modello tarzanico è evidente in questi personaggi, ma nessuno può vantare autori con le capacità grafiche di Foster, Raymond o Hogart. I corpi dei supereroi sono possenti, sì, ma non è certo la muscolatura, o l’esposizione dei bicipiti, a poter giustificare la loro potenza – legata a provenienze aliene o a esperimenti segreti.

E poi questi nuovi eroi, a differenza dei vecchi, sono sempre vestiti da aderenti calzamaglie, e nemmeno si accorgono delle signore attorno a loro, le quali, vittime di questi sguardi neutri, non possono per nulla competere con le esotiche ed esibite grazie delle altre, le compagne o antagoniste degli eroi senza il prefisso “super”. Ed è così che il corpo femminile più sognato nei fumetti degli anni Quaranta è quello sinuoso e inguainato della Dragon Lady di Terry e i Piraty, disegnata da Milton Caniff, un contesto decisamente diverso da quello degli eroi “super”.

Il corpo dei supereroi, vigoroso ma eroticamente neutro, torna alla riscossa negli anni Sessanta, con le apoteosi muscolari di Jack Kirby, l’inventore grafico dei supereroi della Marvel, dai Fantastici Quattro all’Uomo Ragno. Muscoli, muscoli e muscoli. Scatenati in lotte furibonde contro altri muscoli appartenenti agli avversari. Disegnati, ora come non mai, con uno stile che ha assai pochi riferimenti nella storia del disegno, fatto di tratti di pennello grossi e angolati, estremamente antinaturale, certamente assai meno erotico di quello di Hogart o di Raymond, ma originalissimo e di grande efficacia. Con il segno grafico di Kirby, è un po’ come se il corpo del supereroe assomigliasse di più al corpo di una macchina: un carro armato potente e invincibile.

Ma gli anni Sessanta sono anche gli anni in cui Frank Frazetta riprende la sensualità dei corpi di Raymond, per disegnare storie di selvaggi e magie – dalle quali avrà origine, di lì a qualche anno, la saga infinita di Conan il Barbaro, creatura più corporea e sensuale che mai, dovuta al pennello di un altro raymondiano, John Buscema. Muscoli maschili e curve femminili ne sono evidentemente il piatto forte, con una ricetta che non ha ancora smesso oggi di funzionare.

Anche i supereroi, presto o tardi, abbandonano il corpo modello Kirby. Alla struttura da carro armato, di cui Hulk e la Cosa erano gli esemplari migliori, negli anni Settanta Neal Adams contrappone un corpo atletico sì ma allungato, fino quasi, talvolta, a un eleganza che nasconde i muscoli. L’eroe diventa un bel tenebroso, cui si affiancano bellezze femminili singolari: il corpo è sempre lì, al centro del discorso, ma una volta tanto senza ostentazione di muscoli o di curve.

Il ritorno del modello Kirby è evidente in Frank Miller e nei suoi eroi rivisitati degli anni Ottanta, ma lo spirito di Miller è tutt’altro da quello di Kirby, e i corpi ipertrofici dei suoi personaggi sono del tutto assorbiti da un meccanismo narrativo che non lascia tempo per soffermarsi a riflettere su di loro. I corpi ci sono, insomma, ostentati e grandiosi; ma tutto nel racconto ci spinge ad ignorarne la fisicità.

E’ invece ed infine Todd McFarlane, all’inizio degli anni Novanta, a fare del corpo degli eroi l’oggetto stesso del racconto. Muscoli maschili e curve femminili disegnati con un segno grafico che sembra disegnare carni anche quando disegna oggetti – e tuttavia carni e oggetti quasi dematerializzati, di un erotismo statuario e ginnico, con eroine degne della passerella di miss Universo, ed eroi che potrebbero fare i modelli per Vogue, tutti e sempre eleganti e perfetti.

Corpi bellissimi di cera, su cui si immagina appoggiare una mano senza trovare la lieve cedevolezza della carne, ma una fredda ed eterna levigatezza. Non diversi, in questo, dagli eroi del fumetto giapponese, che a questo arrivano però con una storia assai differente. Diversi, certamente, dai corpi che si preferirebbe poter desiderare nel mondo incantato del mito, sia pure un mito da $ 2.50 mensili.

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Recensioni d’annata, 1997. Concrete

Concrete
Inedito per Il Sole 24 Ore, 1997

Qualche volta il vetusto schema di generazione dei supereroi americani può anche servire per dare vita a un fumetto il cui tema principale non sono scazzottate cosmiche o lotte (spesso ridicolmente) epiche per salvare il pianeta dal cattivo di turno. E almeno in un caso lo schema non dà nemmeno vita a una storia di critica dei supereroi, dove la dominante opposizione tra bene e male viene messa in crisi e la figura dell’eroe si trova sbalzata dagli altari alla polvere.

In Concrete, infatti, di supereroico c’è solo l’occasione che ha reso il protagonista diverso. Del resto, l’andamento lento, riflessivo, il tono cortese delle storie e dei suoi personaggi, l’insistenza su temi quotidiani e tutto il resto non hanno proprio nulla a che fare né con gli eroi rilucenti né con le loro critiche o parodie.

Concrete è un essere mostruoso, fatto di una specie di pietra, o di cemento, molto forte e quasi invulnerabile – ma anche goffo e impedito nei movimenti dalla sua stazza e dal suo peso, oltre che per sempre reso dolorosamente neutro dal punto di vista sessuale. Giovane dalle aspirazioni intellettuali, catturato dagli alieni, il suo cervello era stato trapiantato in questo corpo incredibile. Solo la fuga lo aveva salvato da ulteriori esperimenti devastanti. Tenuto in seguito segreto dal governo americano, riesce a conquistare la libertà e la possibilità di vivere una vita tendente alla normalità.

La sua condizione straordinaria non ne fa un salvamondo. Anzi, com’è in realtà assai più ovvio, lo rende un escluso, un diverso nonostante la notorietà. Quando prova – assai di rado in verità – a compiere delle imprese straordinarie, le cose vanno e non vanno: viene cooptato per salvare dei minatori rimasti intrappolati sottoterra, e il suo successo parziale diventa motivo di accusa da parte dei suoi avversari. Da un essere potente ci si aspetterebbe ben altra salvezza: ma Concrete, nonostante la sua forza e la sua robustezza, è più una vittima che un privilegiato.

La sua timidezza e il suo carattere meditativo ne fanno uno strano personaggio, interessato più a capire come la gente lo vede che non a farsi vedere dalla gente. Piano piano, il suo interesse si focalizza intorno ai problemi dell’ambiente, sino ad arrivare, nelle ultime storie pubblicate negli Stati Uniti e ancora inedite in Italia, a fargli stringere una problematica e combattuta alleanza con gruppi ecologisti radicali.

Paul Chadwick lo ha creato intorno alla metà degli anni Ottanta, conquistandosi in breve tempo le simpatie di un pubblico colto, poco amante del mainstream superomistico. In Italia lo si è visto poco, sino a quando, qualche mese fa, la casa editrice Phoenix lo ha reso protagonista di una rivista mensile che porta il suo nome, Concrete, e il patrocinio di Legambiente; e che sta ristampando, in sequenza cronologica, le storie che sono uscite dagli anni Ottanta ad oggi.

E’ una rara occasione per conoscere uno dei fumetti americani più atipici, più vicino, come spirito, alla meditata scarnezza di un Art Spiegelman, con il suo Maus, che non ad altro – anche se del tutto lontano, come spirito, dalla provocatorietà degli intellettuali newyorkesi.

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Recensioni d’annata, 1997. Scott McCloud

Scott McCloud
Inedito per Il Sole 24 Ore, 1997

Tra i non numerosi saggi teorici intellettualmente eccitanti che si occupano di fumetti, ce n’è uno – ed è decisamente tra i migliori – che ha la singolare caratteristica di essere esso stesso realizzato a fumetti. Si tratta di Capire il fumetto. L’arte invisibile, dell’americano Scott McCloud, pubblicato in versione originale nel 1993 e da alcuni mesi disponibile anche in italiano grazie alle edizioni Vittorio Pavesio Production.

Si dice, nell’ambiente del fumetto, che questo libro abbia scatenato un grosso dibattito tra i giovani americani appassionati di comics. Certamente, per chiarezza e ampiezza dei temi trattati, e per la simpatia e l’intelligenza con cui McCloud li affronta, il libro è destinato a lasciare il segno, anche quando non si condividono le opinioni dell’autore.

L’oggetto del discorso è il linguaggio del fumetto, visto davvero, per quanto è possibile, “da dentro”. Il vantaggio di affrontare a fumetti un argomento del genere è che scompare del tutto quella divisione artificiosa tra teoria ed esempi, cui è condannato qualsiasi saggio puramente verbale che tratti di struttura delle immagini. Provate a pensare a quante parole servono in uno scritto per specificare con precisione a quale particolare dell’immagine ci si sta riferendo, e di quale degli aspetti di quel particolare si sta tentando l’analisi. Le immagini si riempiono di lettere e numeri (zona A, particolare 4…) cui il testo fa continuo e pedante riferimento, e l’occhio del lettore corre e ricorre faticosamente dalle parole all’immagine e viceversa; le descrizioni si dilungano… Un saggio a fumetti presenta al lettore ciò di cui parla proprio mentre ne parla, semplicemente mostrandolo, permettendosi di scherzare, di parodiare se stesso mentre lo fa, con piccoli effetti borgesiani di “mise en abîme” che rendono più piacevole la lettura, e talvolta sono essi stessi utili a chiarire l’oggetto del discorso.

Con un’opera di questo tipo, McCloud si trova d’altro canto anche a tentare un’impresa nuova e nient’affatto facile, dando vita a un genere senza passato né tradizione – di cui forse questo resterà l’unica esemplificazione, ma non meno valida per questo. Qua e là, il testo lascia infati un po’ spiazzato il lettore abituato alla saggistica, semplicemente per mancanza di riferimenti per formulare un giudizio; e certamente questo aspetto di straniamento accattivante contribuisce non poco a far accettare al lettore le tesi dell’autore, un po’ distraendolo – almeno alla prima lettura – da una più severa valutazione dei contenuti.

E purtuttavia, non si tratta poi di un gran male. Quello che McCloud dice sulla semantica del fumetto sarebbe interessante anche se fosse trasmesso con strumenti linguistici più consueti. Si tratta, nel complesso, di un autentico breve trattato di semiotica del fumetto, che si preoccupa di dare una definizione precisa del linguaggio, di quali ne siano i segni caratteristici, di come venga fatto scorrere il tempo tra le vignette di una sequenza narrativa, e di come venga, per così dire, “battuto il ritmo” dell’azione. C’è un’analisi attenta di come può essere usata la linea grafica, del rapporto tra immagini e parole e di come cambiano gli effetti a seconda dei vari privilegi che il testo dà alle due principali componenti del linguaggio. Il colore è un altro oggetto di indagine, a metà tra nozioni di psicologia della percezione visiva e teoria dell’arte.

Negli ultimi capitoli McCloud mette tutto assieme, e dopo aver percorso i sei passi necessari per la creazione di una storia a fumetti (idea, forma, “idioma”, struttura, abilità manuale, superficie – ma, come autore, si impara a padroneggiarli nell’ordine inverso) ci presenta, nella migliore tradizione della saggistica anglo-americana, un coinvolgente compendio dei principali concetti esposti nel volume – sempre a fumetti, come è ovvio.

Una lettura insolita, anche per chi non si occupa specificamente di fumetti, visto che non di rado le intuizioni semantiche di McCloud sono di interesse per tutto l’ambito della visività, dal disegno alla pittura al cinema.

Il libro, purtroppo, non è di facile reperibilità. Lo si può trovare presso le librerie specializzate oppure richiedendolo all’editore. L’originale americano (Understanding Comics) è pubblicato da Kitchen Sink Press.

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Recensioni d’annata, 1997. La corta vita del nuovo fumetto

La corta vita del nuovo fumetto
Il Sole 24 Ore, 6 luglio 1997

Vent’anni fa nasceva in Italia quello che sarebbe stato in seguito chiamato “Nuovo fumetto italiano”, e contestualmente nasceva in Italia il “fumetto d’autore”. Nasceva, certo, non nel senso che prima di allora non vi fossero stati “autori”, colti o popolari che fossero: nasceva come consapevolezza culturale, come dibattito, come spazio editoriale diffuso. Nasceva sull’onda di una produzione fumettistica italiana di quantità e qualità elevatissime, legata a una cruciale e appassionata risposta del pubblico.

Meno di dieci anni è durata la passione. Poi le riviste hanno chiuso o cambiato ambito di interesse. E faticosamente altri dieci anni sono passati, con gli autori italiani emigrati in Francia, o costretti, in patria, a ritagliarsi un soffertissimo spazio tra supereroi americani e manga giapponesi. Quando si arriva, leggendo Frigo, valvole e balloons di Luca Boschi, al resoconto della fine degli anni Ottanta, ci si imbatte in un’improvvisa e inaspettata accelerazione: sembrava di essere a metà della storia e invece si era pressoché alla fine.

Nel volume di Boschi non può non colpire un’osservazione: gli editori francofoni mantengono le loro librerie costantemente fornite delle storie dei loro eroi più famosi, da Tintin ad Asterix, da Spirou a Lucky Luke. Gli eroi che hanno entusiasmato le generazioni precedenti vengono costantemente ripresentati, e ritornano buoni, come classici, anche per le generazioni a venire. In questo modo si conserva una tradizione, si mantiene la costanza di una consapevolezza stilistica, anche nell’inevitabile mutare delle nuove creazioni. E’ lo stesso principio per cui, in Italia e in ambito letterario, si deve continuare e si continua a pubblicare e leggere Verga e Svevo e Gadda a fianco dell’ultima uscita editoriale.

Ma in Italia il fumetto sembra non avere memoria, non avere storia. Con rare ed editorialmente pericolanti eccezioni, il fumetto italiano sembra vivere esclusivamente al presente, condannandosi all’effimero, alla dimenticanza. Lo scarso rilievo del fumetto nella considerazione della cultura italiana si paga così; e davvero i giovani lettori che con fatica trovano oggi fumetti italiani di valore tipicamente ignorano quello che è successo ancora così pochi anni fa.

Per questo il libro stesso di Boschi, dedicato a narrare la storia di vent’anni di fumetto italiano d’autore, è un’operazione importante; e non certo perché in esso si voglia rivendicare un’alterità qualitativa del fumetto cosiddetto “d’autore” sul fumetto cosiddetto “popolare”. Anzi, è evidente a lui come a tutti che il “popolare” Dylan Dog di Tiziano Sclavi è stato il fumetto più significativo degli ultimi dieci anni. Piuttosto, potrebbe forse oggi apparire strano e interessante agli stessi giovani lettori di Dylan Dog che il suo autore sia stato una figura significativa di un’epoca in cui Dylan Dog non esisteva ancora, e il fumetto flirtava con le arti visive, con la televisione e con la moda, imponendo tendenze culturali, invece di subirle, come era accaduto prima, o di viverne al margine, come accade oggi.

Certo, rimpiangere un'”età d’oro” è un’operazione che solleva sempre legittimi sospetti. Tuttavia, pur tagliando corto sulla storia del decennio più prossimo a noi, Boschi correda il volume con alcune preziose appendici, dove si dà notizia, in asettico e storicamente poco impegnativo ordine alfabetico, delle realtà editoriali degli ultimi anni, comprese quelle introvabili nelle edicole, che devono all’esistenza delle librerie specializzate la possibilità di esistere – e nelle quali sembra essersi rifugiato quanto in Italia del fumetto d’autore continua oggi ad esistere. Non manca un utile e aggiornata bibliografia delle opere apparse in italiano sul fumetto.

Protagonista egli stesso, come autore, critico, saggista, redattore, consulente editoriale, del ventennio di cui racconta, Boschi ci fa la storia dell’editoria fumettistica più che dei fumetti stessi. Una storia vista da vicino, talvolta anche troppo – ma da raccomandare comunque sia a chi conserva di quegli anni una qualche memoria, sia a chi, per anagrafiche o altre ragioni, quella memoria ha bisogno di farsela.

 

Luca Boschi
Frigo, valvole e balloons. Viaggio in vent’anni di fumetto italiano d’autore
Edizioni Theoria, Roma-Napoli 1997

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Di una foto di camini

I camini

I camini

Questa foto è stata scattata nello stesso luogo di quest’altra. E il mio sguardo evidentemente mirava in alto.

Ma c’è qualcosa di antropomorfo in questi camini, che sembrano quasi avanzare, venirmi incontro. E poi c’è la luna, che allude a tante cose.

Tra queste c’è ovviamente lo spazio, e la mia testa corre, per associazioni fantascientifiche, a un vecchio romanzo di Stanislaw Lem, in cui il protagonista su un pianeta lontano incontra una razza aliena; ma è così aliena che lui non li riconosce, e solo alla fine forse capisce che i suoi alieni sono quella specie di camini che sbucano dal terreno. Non ne ricordo il titolo, e magari mi ricordo pure male quello che accade. Però questi camini sono per me gli alieni di Lem.

Il caldo fa strani scherzi.

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Recensioni d’annata, 1997. Caboto al pastello

Caboto al pastello
Il Sole 24 Ore, 15 giugno 1997

Raccontare la storia di Sebastian Caboto, cartografo e pilota spagnolo nei primi anni dell’esplorazione dell’America Meridionale, è per Jorge Zentner l’occasione per riflettere sulla difficoltà stessa del raccontare. Le notizie su Caboto sono così incerte e frammentate, così confuse dall’accumularsi delle voci, che non è possibile costruire su di lui un romanzo vero e proprio, un vero e proprio racconto che abbia qualche pretesa di verosimiglianza storica.

D’altra parte, questa incertezza ricostruttiva fa parte ormai del fascino del personaggio stesso. E l’autore non può che riflettere e ammettere di dover immaginare un racconto, il quale di davvero storico non potrà che avere il profumo, o la probabilità. Non sappiamo come davvero siano andate le cose, quando Sebastian Caboto risalì per primo il Rio della Plata e il fiume Paraguay alla ricerca di uno dei tanti Eldoradi di cui la fantasia dei colonizzatori popolava il nuovo continente. Non sappiamo nemmeno che volto avesse, Caboto, e quale ambizione lo spingesse ad affrontare mille pericoli, cambiando la rotta stabilita e lo scopo della sua spedizione, salpata in origine verso le isole Molucche.

Zentner racconta comunicandoci insieme la sua incertezza, o la difficoltà della sua presa di decisione narrativa; un’operazione rischiosa, che non gli riesce davvero sino in fondo, lasciando sospeso non solo il narrato, ma anche il modo di narrare, in una lentezza un po’ faticosa. Tuttavia Caboto non è un romanzo, bensì una storia a fumetti, e dove lo sceneggiatore non riesce ad arrivare arriva invece il disegnatore, Lorenzo Mattotti.

Partendo ora dalle suggestioni (tutt’altro che assenti) ora persino dai limiti della storia di Zentner, Mattotti, con la capacità evocativa straordinaria del suo segno di pastello, costruisce una sequenza di immagini che potrebbero vivere e raccontare anche senza le parole che le accompagnano, gravide come sono di emozione. Dalla Spagna incantata delle primissime tavole, alla ricerca del volto e dell’immaginario del cartografo, al mare e alla costa americana, sino alle difficoltà e alle tragedie dell’esplorazione dell’interno, è un trasmutare di colori, un giustapporsi di campi di luce e ombre notturne.

Il mare e il fiume sono i luoghi della luce e delle campiture appena sfumate, mentre la foresta è l’occasione per battaglie cromatiche tra le tinte più accese e più diverse – una tragica festività di colori. Lo stile di Mattotti è una volta di più l’occasione per riflettere su che cosa significhi narrare con le immagini. Non è solo, infatti, la qualità delle singole immagini a valere: né più né meno che per un film, in un fumetto non bastano singole raffigurazioni di straordinaria qualità a dare qualità all’opera nel suo insieme. E’ la tessitura complessiva a valere, le modalità dell’accostamento e della successione, il modo in cui l’immagine racconta ciò che racconta nel momento in cui lo racconta.

Le immagini di Mattotti sembrano trascinare avanti il racconto di Zentner, farlo volare, fargli raggiungere singolari profondità, persino quando il racconto ha l’aria di inciampare, di zoppicare un poco. Gli fanno oltrepassare la frammentazione, l’indecisione di un narrare che non si ritrova, attraverso la loro magica materialità: sono comunque lì, vive, calde, incisive, anche dove il racconto sfuma, si fa evanescente. Sono esse stesse sensazione, emozione, esperienza, narrazione. Sono visione in una misura che l’immagine fotografica del cinema non è in grado di raggiungere, nemmeno nelle fantasmagorie herzoghiane di Fitzcarraldo e di Aguirre, che comunque indubbiamente vivono e traspirano in queste stesse immagini.

In qualche modo, come nell’immaginario degli esploratori spagnoli c’era il mito di un Eldorado, così per noi, oggi, c’è il mito di un mondo che nella loro azione ha iniziato a disperdersi, e anche la loro azione fa parte di questo mito. Zentner e Mattotti ce ne restituiscono il profumo, remoto ed incerto, ma nella sua incertezza intensissimo.

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Recensioni d’annata, 1997. Nel segno della paura. Ricordo di Roland Topor

Nel segno della paura. Ricordo di Roland Topor
Il Sole 24 Ore, 20 aprile 1997

Genio del male, nel senso poco usato – ma non meno pregnante – di genio di ciò che fa male, Roland Topor ha cessato in questi giorni di elaborare le sue divertite angoscie, le sue leggerissime tragedie mortali.

Davanti agli occhi abbiamo ancora le immagini di una mostra che Palazzo Reale di Milano gli dedicò dieci anni fa. Pittore? Illustratore? Come pittore, decisamente al di fuori di ogni corrente, se non, come vaga ascendenza o ricordo, il surrealismo. Come illustratore, illustratore di che, se non delle proprie affascinantissime paure?

Narratore per immagini potrebbe essere la sua definizione, che lo accosta implicitamente al mondo del fumetto, da lui poco o per nulla attivamente frequentato, ma oggettivamente vicino a lui, per lo meno in alcuni settori. E narratore Roland Topor lo è anche stato con le parole: autore di racconti tradotti in parte anche in Italia, leggeri e impietosi, cui un romanziere certamente maggiore di lui come Daniel Pennac ha comunque continuato a dovere non poco. E autore di teatro poi, autore di programmi televisivi, regista e scenografo teatrale, per se stesso e per altri.

Anche il cinema lo ricorda, tra l’altro, come coautore (con René Laloux) di un film di animazione premiato a Cannes, Le planet sauvage, inquieto apologo sulla differenza tra razze ambientato in un pianeta fantastico, dove gli uomini vivono un po’ alla stregua dei topi. Più volte attore, richiesto per quel viso sardonico e un po’ mortifero – davvero così in linea con tutta la sua produzione artistica.

Possono forse stupire gli accostamenti creati dall’arte di Topor. Il nome del movimento Frou-frou, da lui sostenuto, può evocare leggerezze e superficialità che in Topor sono tutt’altro che assenti. Ma sono quelle stesse leggerezze che guardate con appena più attenzione lasciano scoprire dettagli che ci fanno correre uno strano brivido lungo la schiena. E’ un po’ qui il cuore, il fascino dell’arte di Topor: quest’aria di prendere poco sul serio le cose, proprio quando queste cose rappresentano le nostre angoscie peggiori.

È lo stesso segno grafico, un po’ desueto, a tradirci. Topor disegna con l’aria di fare degli schizzi, dei bozzetti, delle prove, non di rado semplificando in maniera quasi infantile; così che si è portati a non dare troppo peso, a sottrarre l’occhio con rapidità all’immagine. Poi, come per caso, ci si accorge che l’immagine contiene qualcosa di strano, un particolare fuori posto, un dettaglio che non è come dovrebbe. E allora tutto improvvisamente sembra cambiare significato, e l’occhio che era sul punto di fuggire non riesce più ad abbandonare quelle forme, adesso sì, evidentemente, mostruose.

Come le sue immagini, i suoi testi. Racconti dall’aria innocente, dove con ingannevole tranquillità le nefandezze si susseguono, ora minuscole ora mostruose: sempre senza redenzione.

Cinquantanovenne, una vita di successi, Roland Topor ci lascia oggi a riflettere sui suoi e sui nostri incubi; senza pretendere, nella sua leggerezza, di averci insegnato qualcosa; non so bene quanto consapevole, nella sua intensità, di avere aperto una strada alla rappresentazione visiva di quello che, di solito, siamo appena capaci di nominare a parole.

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Recensioni d’annata, 1997. Laurea al padre di Paperinik

Laurea al padre di Paperinik
Il Sole 24 Ore, 20 aprile 1997

Fu a causa del grandissimo successo della testata Topolino che nei primi anni Cinquanta la casa editrice Mondadori trasformò in regola quella che era stata sino allora un’eccezione, e iniziò a costituire una vera batteria di autori italiani per i fumetti Disney. Il materiale che arrivava dagli Stati Uniti non era più sufficiente a riempire le pagine di un giornale che, a differenza del suo predecessore di anteguerra, non ospitava fumetti provenienti da altre produzioni. Poiché il materiale Disney d’oltre oceano non bastava, era però possibile produrne di originale a casa nostra – anche considerando il notevole successo degli esperimenti che erano già stati compiuti.

A Guido Martina e Angelo Bioletto – già autori nel 1949 de L’Inferno di Topolino, ancor oggi ben ricordata parodia dantesca – si affiancarono Giuseppe Perego, Luciano Bottaro, Romano Scarpa e in seguito molti altri autori. E arrivò anche, nel 1953, il ventiseienne Giovan Battista Carpi, destinato a diventare l’autore probabilmente più significativo del gruppo, più volte premiato e molto amato da lettori che per molti anni non hanno nemmeno potuto conoscere il suo nome; molti infatti ricorderanno che sino a qualche anno fa gli autori Disney erano impegnati all’anonimato.

Il riconoscimento più recente e più importante Carpi l’ha tuttavia ricevuto pochi giorni fa, il 10 aprile, quando nell’Aula Magna dell’Università degli Studi di Bologna il Magnifico Rettore gli ha consegnato una laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione. Il suo contributo artistico è stato ritenuto dall’Ateneo bolognese meritevole al massimo grado sia per la qualità educativa delle storie da lui prodotte in oltre cinquant’anni di attività, sia per la sua opera di educatore all’interno dell’Accademia Walt Disney, la scuola che forma i futuri disegnatori e sceneggiatori di Topolino.

Si tratta di un riconoscimento importante non solo per Carpi, ma per l’intero mondo del fumetto, tendenzialmente dimenticato dall’accademia e tenuto ai margini del mondo culturale italiano, quando non addirittura osteggiato. Certo, all’epoca in cui Carpi iniziava a disegnare Topolino il fumetto era considerato assai più di oggi una “seduzione degli innocenti”, ed è un vero piacere incontrare questo vecchio maestro che ha attraversato cinquant’anni di difficoltà senza perdere affatto la capacità di scherzare, quella che gli ha fatto inventare tantissime tra le “grandi parodie” che hanno fatto la fortuna del fumetto Disney in Italia, da Paperino principe di Dunimarca sino a Paperinik.

Proprio al personaggio di Paperinik, nato nel 1969 dalla penna di Carpi come parodia degli antieroi neri che imperversavano nel fumetto italiano di quegli anni, si deve tra l’altro l’ultima novità della scuderia Disney italiana. Ribattezzato PK, Paperinik è diventato protagonista di una testata autonoma, che fa il verso al fumetto superomistico americano, e inaugura uno stile decisamente atipico – ma evidentemente assai gradito ai lettori, visto che le vendite viaggiano intorno alle duecentomila copie.

Carpi, da parte sua, non è direttamente implicato nell’impresa. La sua attività principale si svolge oggi all’interno dell’Accademia Disney, nella formazione di giovani autori, tra i quali sono già emerse figure di spicco, che non sempre limitano la loro attività al mondo Disney.

Già, perché se c’è un rilievo che il mondo del fumetto può fare alla Disney è proprio quello di avere sempre costituito un po’ una realtà a sé, assai poco comunicante con il resto, così completa e funzionale a se stessa da crearsi un pubblico quasi esclusivo, e spesso concorrenziale con tutto il resto.

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Recensioni d’annata, 1997. Oniriche scivolate appena fuori dal senso

Oniriche scivolate appena fuori dal senso
Il Sole 24 Ore, 2 marzo 1997

Talora può ricordare Magritte, ma l’accostamento più felice è a Jean Arp, e ancora più come poeta che come artista visivo. L’ispirazione è quella di un dolce deragliamento dei sensi, di un tenero accostamento all’assurdo. Il segno grafico è di origine incerta, talora britannica, talora evidentemente italiana. Se per qualche tempo lo si è visto illustrare i giochi enigmistici di Stefano Bartezzaghi è perché, evidentemente, la dimensione fascinosa delle immagini dei rebus lo attira. Non tanto perché il medio disegnatore di rebus brilli per capacità e invenzione grafica, ma perché c’è indubbiamente spesso una singolare magia in questi frammenti disegnati di mondo, all’interno dei quali gli oggetti si trovano accostati grazie a particolari proprietà combinatorie dei loro nomi, e nonostante questo devono esibire ugualmente una qualche ragione meno estrinseca per trovarsi proprio lì.

Per Franco Matticchio l’illustrazione è un percorso attraverso il sogno, ma il sogno è un mondo di piccoli paradossi e rebus concettuali. I quali, nonostante la loro evidente natura concettuale, si sciolgono immediatamente appena si cerchi di ridurli in parole. C’è un piccolo disegno suo che rappresenta una donna nuda che, piegata, guarda attraverso il buco della serratura. Espresso a parole, il ribaltamento del luogo comune diventa così evidente da essere assai poco rilevante. L’immagine, invece, comunica piano piano il proprio leggero paradosso, complice lo stile grafico dimesso, la nudità tutt’altro che glamour, l’atmosfera complessivamente silenziosa che tutte le immagini di Matticchio trasmettono. L’approccio alla dimensione del ribaltamento è mediato dal tono divertito e trasognato che attraversa tutti i disegni, e che non lascia il lettore (lo spettatore?) in nessun momento. Il libro si chiama Sogni e disegni, e oltre ad avere esistenza e leggibilità del tutto autonoma, è il catalogo di una mostra che si sta tenendo in questi giorni a Milano. Un catalogo discreto e silenzioso come il suo autore, senza una riga di commento altrui, senza introduzioni o roboanti presentazioni. I soli testi che vi compaiono sono, qua e là brevi versi giocosamente poetici, meno leggeri – a un’analisi più attenta – di quanto non appaiano a prima vista.

L’autore, Franco Matticchio, è un disegnatore quarantenne ben noto ai lettori di Linus e al mondo del fumetto e dell’illustrazione italiana. Il fumetto, in realtà, non l’ha frequentato poi troppo. Qualche anno fa, su Linus, produsse una serie di brevi storie, poi raccolte in volume, che si fecero notare per la loro decisa non appartenenza a qualsiasi corrente. È solo a scavare e a rovistare che una lontana parentela con il torrenziale demenzialismo di Benito Jacovitti viene a galla – ma è come se dell’irrefrenabile impulso grottesco del vecchio maestro il giovane allievo avesse distillato alla fine niente di più che un concentrato cristallino di singolarità e calcolate incongruenze. Tanto più che il Matticchio che ricorda Jacovitti è il disegnatore, e non il fumettista. In realtà, le storie a fumetti di Matticchio non sono che l’espansione dei suoi disegni, i quali alla fine appaiono le sue produzioni più efficaci proprio per la concentrazione di elementi. Magritte è un riferimento che viene spesso alla mente, non foss’altro che per i frequenti ombrelli e bombette, e per l’accento a una dimensione semantica quasi misteriosa, eppure a portata di mano, o meglio, come spesso sembra apparire appena fuori portata di mano. Più giocoso di Magritte, Matticchio dissemina le sue figure di sproporzioni e scherzi visivi, come garbate caricature di un mondo dell’assurdo (o meglio dell’’appena assurdo’) che non è meno tale per questo – come nelle poesie di Jean Arp, dove l’elefante si innamora del millimetro e i cavalli prendono il tè nelle tazzine, ma anche nelle opere visive di Arp, dove le figure più astratte e astruse sono battezzate (e finiscono per apparire allo spettatore) come teste di folletti e sovrani dei conigli.

Il libro, e la mostra, si percorrono sorridendo. Solo di quando in quando il sorriso sfuma vagamente nelle ombre di un sogno ambiguo. Come nei racconti per bambini, dove il mistero appare al tempo stesso meraviglioso e invitante, ma anche pauroso. Il gioco infatti non esclude gli elementi di magia, e la magia è doverosamente preoccupante. Il gatto che sogna di essere trovato, nella notte, lui enorme, da un omino assai più piccolo di lui, è ancora più grande, nell’immagine disegnata, della sua immagine sognata, e ci invita a temerlo. Senza terrore, certo: non si tratta di un mostro. È solo un gattone, enorme e addormentato: ma chi può dire che cosa potrebbe accadere al suo risveglio?

Le parole in rima dell’autore, poco lontano dall’illustrazione del gatto, ci raccontano La storia del gato e del toppo, la quale recita così : “Un gatto in mezzo al pratto / insegue un topo zopo”. Anche le parole, come le figure, si piegano alla logica dell’’appena assurdo’, delineando le linee incerte di un mondo alla Lewis Carroll ragionevolmente irreale.

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Di una foto di dettagli (9)

 

Dettagli (9)

Dettagli (9)

Non c’è dubbio che, essendo stagione di mare, siate stati colpiti prima dal soggetto che dalla composizione. Da questo punto di vista, là dove questa foto è stata presa questo era anche uno dei punti di minore densità di meduse.

Ma al di là dell’horror balneare, quello che mi piace qui è questo effetto naturalmente flou, specie verso sinistra – ma anche la disposizione complessiva delle macchie di colore. Se uno non ci deve nuotare in mezzo, le meduse sono oggetti bellissimi; un quadro in perpetuo movimento.

 

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Di una foto di dettagli (8)

Dettagli (8)

Dettagli (8)

Non sono davvero sicuro di sapere perché questa foto mi piace. L’ho scelta istintivamente tra un gruppo di immagini abbastanza simili, scattate su uno stradello non asfaltato.

Sarà quella macchia di sole, o la disposizione dei sassi.

Magari piace solo a me. Se piace a qualcun altro potrebbe darmi qualche suggerimento?

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Di una foto con linee orizzontali (e verticali)

La siepe, il cielo

La siepe, il cielo

Magari, a guardare una foto come questa, si può avere la presunzione di capire che cosa ci trovasse Mondrian (e noi con lui) in quelle sue righe monotone orizzontali e verticali. Qui c’è molto di più (quanto a dettagli) e probabilmente assai di meno (quanto a composizione). A me (che sono un critico parziale e inattendibile, essendo pure l’autore della foto) piace il contrasto tra i chiari e gli scuri, in particolare nel dettaglio dei due pali, che mi sembra riassumere, in piccolo e in verticale, il senso che, nell’immagine nel suo insieme, risulta dal grande e dall’orizzontale.

Quello che Mondrian non può ottenere, e che qui c’è, non dipende gran che da me. Io mi sono limitato a registrare quello che vedevo, il silenzio del luogo, l’uccello posato per un attimo sul filo, la laguna (o mare) là in fondo.

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Di Ponchione, dopo Segar e Jacovitti

Il Popeye di Sergio Ponchione

Il Popeye di Sergio Ponchione

Segar, "Popeye",1934Sergio Ponchione rivela sul suo blog un segreto di Pulcinella, ovvero il debito enorme che ha nei confronti di Elzie Crisler Segar. A guardar bene, nella vignettona iniziale, si vede bene anche un altro grande debito, quello nei confronti di Benito Jacovitti.

Nelle loro peculiarissime specificità, Segar e Jacovitti sono stati forse gli autori più genialmente demenziali della storia del fumetto mondiale, capaci di costruire sul niente delle gag assolutamente esilaranti, spesso indimenticabili. I personaggi di entrambi ostentano continuamente un misto tra genio e stupidità, assai difficile da calibrare; così come è difficile giocare sul tormentone mantenendolo nei limiti di ciò che fa ridere, senza arrivare a far sì che stanchi. Quante volte il capitano don Perfidio Malandero può farsi schiaffeggiare dall’Alonza Alonza detta Alonza continuando a farci ridere? E quante volte Wimpy (o Poldo che dir si voglia) può riuscire a scroccare il suo panino?

Segar, "Popeye",1934C’è qualcosa, in Segar come in Jacovitti, che si potrebbe definire una sorta di geometria dell’assurdo, una sotterranea iper-regolarità delle gag, o dei rapporti stralunati tra i personaggi; una geometria che è una specie di idealizzazione astratta del reale, il quale, visto attraverso la sua lente, ci può apparire a sua volta assurdo. Ma la regola di questa geometria continua a sfuggire – ed è senz’altro diversa dall’uno all’altro autore.

Obliquomo è il figlio di questa assurda e inafferrabile geometria, il tentativo sempre più riuscito di definirne delle nuove coordinate, senza dimenticare quello che c’è stato prima. Vedere in questa tavola Ponchione che ripropone Segar in una grande panoramica alla Jacovitti è davvero un po’ emozionante. A quando una nuova grande storia surreal-demenziale del prof. Hackensack?

 

Jacovitti, panoramica da "Il Vittorioso", 1955

Jacovitti, panoramica da “Il Vittorioso”, 1955

P.S. A dire il vero, bisognerebbe aggiungere un terzo autore di riferimento per Ponchione, a costruire una sorta di trimurti del surreal-demenziale, che soprassiede agli incubi ponchioniani. Eccolo qui:

Basil Wolverton, "Eat at joe's"

Basil Wolverton, “Eat at joe’s”

 

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Di una foto di dettagli (7)

Dettagli (7)

Dettagli (7)

Già la spirale di per sé è una forma piuttosto affascinante. Qui la si vede bene nella conchiglia più in alto. La spirale è un vortice, che evoca una traslazione dal macrocosmo al microcosmo, o viceversa, a seconda di come la si percorre; e, comunque sia, ci si sente trascinati a percorrerla. È quindi una forma diabolicamente dinamica, e di conseguenza inevitabilmente simbolica.

Trovarne tante qui, immobili, nella luce calda e ferma del sole, incarnate nell’emblema stesso della lentezza, con questa materia così concreta e solida, con il legno del palo, e persino un ricciolo di cacca di chiocciola… insomma, c’è davvero un bel salto implicito, dall’astrazione inquietante al concreto quotidiano, e viceversa.

Non so se queste lumache qui siano buone anche da mangiare. Ma che cosa succede, a livello simbolico, quando si mangia il contenuto di una spirale?

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Della foto di una finisterre

Luoghi simbolici

Luoghi simbolici

Le finisterrae sono luoghi evocativi per loro stessa natura, luoghi simbolici che rappresentano l’estremo, la fine, il punto oltre cui non si può andare. Tanto più lo sarà la finisterrae estrema di un paese in cui i simboli contano molto, come questa.

Vivekananda, Tiruvalluvar, e poi non ricordo che altro ancora: i simboli si accumulano naturalmente in un luogo così simbolico. Ci sono persino le ceneri di Gandhi disperse in quell’acqua lì.

Di questa foto a me piace la prospettiva, con il punto di fuga verso sinistra, con il conseguente disporsi dei monumenti in un ordine umano, l’ultimo di fronte al mare, che qui davanti è davvero senza fine. E poi mi piace quel gruppetto di persone che sta lì, a guardare, ad assorbire la potenza simbolica del luogo.

È sempre pieno di turisti indiani questo posto. Gli occidentali sono pochi. In realtà non c’è gran che da vedere, per un turista, specie se occidentale in cerca di meraviglie. È solo la potenza simbolica che è straordinaria.

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Del mio nuovo libro, che esce oggi

A quanto mi dicono, Maestri del fumetto (Tunué editore) è in libreria oggi. Io non l’ho ancora ricevuto, e muoio dalla voglia di vederlo. Intanto qualcosa potete vedere anche voi, via ISSUU, o qui sotto (cliccateci sopra per ingrandire):

P.S.: Mi fa sapere giusto ora l’editore che c’è stato un ritardo, e il volume sarà in libreria il 28 giugno.  Bisogna trattenersi ancora un poco.

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Di Charles Bukowski rivisitato

Flavio Montelli, "Goodbye Bukowski" (Coconino 2012), pp.42-43

Flavio Montelli, "Goodbye Bukowski" (Coconino 2012), pp.42-43

La si legge volentieri, e non solo, questa prima graphic novel di Flavio Montelli. Il disegno, ispirato all’underground americano, è del tutto in linea con quello di cui si racconta; ma soprattutto ne emerge un’immagine di Charles Bukowski molto diversa da quella che di solito ne abbiamo: ubriacone sì, ma molto tenero e innamorato, dolcissimo con le donne e soprattutto con la figlia. Poi non so (e non mi interessa) quale sia il Bukowski più vero, se questo o quell’altro. Quello che conta è che Montelli lo racconta bene, forse perdendosi un poco verso la fine, quando i flash back si moltiplicano; ma è un peccato veniale, nel complesso.

Quello che più conta è che la storia ha un bel ritmo di pause e di eventi, e che soprattutto in questo modo si ottiene l’effetto di una complessiva serenità, anche se il protagonista non smette praticamente mai di bere. È come se un certo negativismo da intellettuale maledetto americano venisse riscattato da qualcosa di più solare, e persino il disegno, pur rifacendosi a Crumb, o a Seth, o comunque a quel tipo di impostazione grafica, appare in qualche modo più sorridente…

Sarà l’attraversamento dell’oceano, sarà che l’immagine degli scrittori ubriaconi è passata un po’ fuori moda (ma l’eventuale loro qualità letteraria no), ma nel complesso è molto piacevole questa rivisitazione, questa separazione del personaggio Bukowski dall’immagine un po’ usurata che ancora gli si tiene cucita addosso (e che magari vende, certo! e questo, per chi gestisce la sua eredità, è quello che conta).

Flavio Montelli, "Goodbye Bukowski" (Coconino 2012), pp. 136-137

Flavio Montelli, "Goodbye Bukowski" (Coconino 2012), pp. 136-137

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Dalla timeline
di Daniele Barbieri

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