Attraverso la finestra
E rieccoci alle mie amate geometrie. Evidentemente questa immagine mi piace perché amo Mondrian, ma mi piace anche perché detesto il suo ideologico purismo.
Attraverso la finestra si vedono geometrie ortogonali, ma anche la finestra stessa, e un’altra finestra che le fa eco. E poi si vede la grana dei muri, delle vernici e dei metalli; e quel cespuglio per nulla mondrianiano che cresce attorno a quei tubi anche loro per nulla mondrianiani. E poi c’è quel rametto luminoso che spunta da sinistra, unico oggetto carico di luce di sole; ma la cui luminosità trova subito eco nei riflessi (di finestre?) sul muro giallo in basso a destra.
E infine ci sono gli spazi: quello (il mio) della stanza da cui scatto, rivelata dalla finestra; quello limite della finestra stessa; quello aereo intermedio, dove si slancia il rametto; quello dei muri, della terrazza intuita; e poi, ancora, l’altro spazio limite dell’altra finestra; e quello del suo interno; e poi? E poi è buio: è una porta chiusa o una soglia aperta quella che si intravede?
C’è una storia raccontata qui? È generica e vaga, ma c’è: molte cose potremmo dire di questo luogo solo guardando ciò che vediamo. Ma non sarebbe così interessante, forse, o almeno non lo sarebbe ai miei occhi, se l’intersecarsi delle geometrie ortogonali non mi riportasse questa immagine a un universo figurativo che è il mio, con cui vivo in ammirazione e in polemica.
(dimenticavo: presa qui)
Sergio Toppi, “Algarve1460”, 1978
Di pochissimi, o forse di nessun autore di fumetti, mi è capitato di scrivere tanto come di Sergio Toppi, e con tanto piacere. Specie dovendo parlare di fumetti a un pubblico potenzialmente ostile, le immagini di Toppi sono state tantissime volte il miglior viatico possibile per mostrare all’uditorio la misura dei suoi limiti e dei suoi pregiudizi.
Credo che questo non dipenda solo dalla sua abilità grafica, ma anche e soprattutto dal fatto di essere stato capace di innalzare il linguaggio del fumetto a una dimensione epica, dentro la quale hai continuamente l’impressione di essere di fronte a eventi memorabili: memorabili non perché grandi, ma perché simbolici, profondamente rappresentativi, e ciascuno scolpito visivamente e narrativamente come un monumento – ma non quelli delle piazze, nazionalistici o comunque ideologici, ma quelli che celebrano qualcosa del nostro profondo, del nostro intimo, rivestendolo di condivisa magia.
A parlare di qualcuno appena scomparso, è facile cadere nella retorica. E i morti appaiono facilmente come più grandi dei vivi. Credo che Toppi non avrebbe avuto nessun bisogno di morire per apparire così grande. Quando scompare qualcuno così, ci verrebbe voglia di correre da lui e abbracciarlo e dirgli “Grazie”, ma siamo ovviamente in ritardo, e possiamo soltanto raccontare a chi resta che ci sarebbe piaciuto farlo.
Dettagli (11)
Più che un dettaglio spaziale, questa foto coglie un dettaglio temporale, di quelli che l’occhio nudo non può vedere, perché ci vuole l’eternizzazione dell’attimo colto dall’obiettivo per poterlo osservare con tanta cura.
Non è un parabrezza sporco. Quella che state guardando è invece acqua, sospesa nell’aria. A pochi metri da me una forte onda si è schiantata sulla massicciata che protegge la strada. Io sono, incredibilmente, all’asciutto (o quasi).
C’è qualcosa di festoso, in questa inutile dimostrazione di forza…
La casona sul mare
Questa casa degli spiriti si trova qui. Se la fissate un poco, potrà sembrare anche a voi che sia pure lei a fissarvi. Quel muro è, cromaticamente, bellissimo. Gli spalti, o contrafforti, ai due (quattro) angoli, la rendono qualcosa di più di una semplice casa, facendola già leggermente propendere per la dimensione del castello.
È evidentemente disabitata, eccetto per gli eventuali spiriti, recintata, probabilmente cadente. Ma non è del tutto trascurata: in alto, subito sotto il tetto, ci sono macchie di cemento fresco che dimostrano interventi umani recenti per tenerla su. Spero che sia una sorta di monumento, pubblicamente accudito, destinato a rimanere in questa condizione sospesa per sempre.
Pensate a cosa ne sarebbe se una famiglia americana la comperasse e restaurasse, per farne una casa delle vacanze sul mare, con bella vista e bel giardino! Siamo fatti strani: le cose che ci piacciono sono quelle che stanno percorrendo la propria storia, ma pretenderemmo ugualmente che il momento in cui le cogliamo non debba passare mai.
Contrappunto. Asterix contro l’idiota
Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 1999
Benché sia circondato da stupidi, che cercano in tutti i modi di creargli dei problemi, Asterix ha un alleato che tutti vorremmo avere: una pozione magica, che lo rende invincibile. Non ha desideri di potere, né ambizioni di ricchezza: se beve la pozione è solo per difendere le ragioni del proprio buon senso contro l’idiozia che lo circonda; perché, a differenza di Superman, il suo nemico non è il male, ma una cosa assai meno epica e molto più quotidiana: la stupidità, appunto.
Lo celebriamo non perché gli abbiano dedicato un film che, nonostante qualche merito, sarà dimenticato assai prima di lui, ma perché saranno tra pochi giorni quarant’anni che il piccolo Gallo ha fatto la sua comparsa sulla stampa francese. E celebriamo – perché va celebrata – l’intelligenza del suo creatore René Goscinny, morto cinquantunenne ben ventidue anni fa.
Celebrare l’intelligenza fa bene. Fa bene al morale, perché ci dà l’impressione che in fondo, in qualche modo, la pozione magica del druido Panoramix un poco esista, e che Goscinny vi avesse attinto con abbondanza. Quarant’anni di successo sono indubbiamente una vittoria, specialmente per un personaggio nato con il solo intento di divertire. Eppure, di diversione in diversione, la strada, al pubblico, è apparsa nettissima.
E’ chiaro. Nonostante l’insistenza di tanti commentatori, non sono i Romani gli stupidi, contrapposti ai sagacissimi Galli: il Cesare di Asterix è persona del tutto rispettabile. Proprio come nel mondo reale, nelle storie di Goscinny la stupidità è pervasiva. Ci sono stupidi tra i Romani come tra i Galli, tra gli Iberici, gli Elvezi, i Germani, e così via; ci sono stupidi tra chi comanda e stupidi tra chi obbedisce; ci sono stupidi da una parte politica e stupidi dall’altra. Ma la stupidità – si badi bene – non è tutta uguale: a quella bonaria e laboriosa di un Obelix, Goscinny ci suggerisce di riservare più che altro un sorriso. E’ quando la stupidità si associa all’avidità, alla pigrizia, all’ottusità nei confronti degli altri e del mondo, al potere, che la sua lama satirica cala feroce. E noi, lettori e cittadini, godiamo.
Quarant’anni senza una grinza, senza una smagliatura nella capacità di farci ridere sembrano la prova che l’intelligenza non ha età. Neanche la stupidità, purtroppo.
Narratori senza parole
Il Sole 24 Ore, 26 settembre 1999
Raccontare senza parole. E’ la sfida del mimo, e fu quella del cinema muto. E’ stata, in qualche epoca, la sfida della pittura: ma in pittura ci si limitava a mettere in figura una storia già nota, evocata nella sua interezza dalla messa in scena di una sua situazione cruciale – nell’ambiguità, talvolta, che si trattasse della storia di Giuditta e Oloferne, o di quella di Salomè e Giovanni Battista…
Il racconto è così legato alla parola, che ci sono lingue in cui “dire” e “raccontare” vengono espressi dalla stessa parola, come l’inglese “to tell”. E pure in italiano un racconto è certamente, in assenza di ulteriori specificazioni, un racconto a parole.
Nella nostra tradizione, almeno fino a un secolo fa, è solo con il teatro che è possibile raccontare in una forma che non sia semplicemente verbale. Il teatro da sempre, potremmo dire, mette in scena un racconto: lo fa avvenire davanti ai nostri occhi, seleziona frammenti di realtà, li artefà e li rimonta in modo che lo spettatore veda chiaramente la sequenza degli eventi che costituisce il racconto, anche senza l’accompagnamento della voce del narratore.
La parola ha un ruolo importante nel teatro, ma rispetto al racconto puramente verbale il salto è enorme; perché il ruolo della parola nel teatro si riduce dall’essere fondamentale al semplice essere utile. E la mimica, la scenografia, il movimento reale, assumono valenza narrativa, rendendo possibile alla fine, quando l’evoluzione tecnologica ne fornirà gli strumenti materiali, l’ipotesi di un arte che racconti integralmente senza fare alcun uso della parola.
Visto all’indietro, con gli occhi di oggi, il cinema muto appare singolarmente e talora grottescamente espressivo. L’immagine deve rendere chiaro quello che nella vita normale (e nelle abitudine dei lettori di sempre e dei cinespettatori di oggi) viene solitamente reso con qualche parola: sensazioni, sentimenti, emozioni…
Ma se il cinema è nato muto, per ragioni squisitamente tecniche, il fumetto è nato con le parole. Convenzionalmente, si usa considerare data di nascita del fumetto quella della comparsa della prima tavola di Yellow Kid in cui compare un balloon, un fumetto appunto, corredato del suo contenuto di parole. Non si considerano fumetti, convenzionalmente, le storie illustrate esistenti in precedenza, né quelle per bambini dell’Ottocento, né quelle edificanti e popolari diffusissime nell’Europa dal sedicesimo al diciottesimo secolo. C’è di buono, in questa data convenzionale, che essa individua grosso modo anche la data di inizio di un’industria culturale, che rende il fenomeno “comics” assai diverso da quanto di anche simile esistesse prima. E questi precedenti, non frequentissimi e talvolta davvero senza parole, sono dimenticati molto più del cinema muto.
Per questo, realizzare oggi dei fumetti senza parole appare come un’operazione inusuale e difficile, con pochi precedenti. Ricordiamo le strisce storiche di Ferd’nand del danese Mik, e di Little King (Piccolo Re) di Otto Soglow; ma si trattava di strisce umoristiche, che presentavano e risolvevano una situazione nelle quattro vignette di un’apparizione quotidiana. Non c’era davvero racconto, non c’era azione.
Più prossimo a noi è il fumetto giapponese Gon, di Masashi Tanaka, storie di un piccolo e fortissimo dinosauro alle prese con un mondo che ignora (e poi subisce) la sua forza. E più prossima ancora è una collana inaugurata qualche mese fa dalla casa editrice Phoenix di Bologna, dal significativo titolo No words.
Sono tre i volumi usciti sino ad oggi, di cui almeno due di deciso rilievo. Si tratta di Pastil, di Francesca Ghermandi, e di ¡Infierno!, di Tito Faraci e Silvia Ziche. Due storie molto diverse, accomunate dal tema surreale.
In Pastil, una bambina dalla testa piatta come una pastiglia continua a svegliarsi in tante variazioni del medesimo incubo, vola all’interno di una cassetta del pronto soccorso, ora fuggendo ora arrivando in situazioni da cui è necessario risvegliarsi. ¡Infierno! racconta invece del destino post-mortem di un boss mafioso, che, ovunque vada, riesce in breve tempo a rivolgere la situazione a suo vantaggio. Una parodia che si risolve in un continuo incubo la prima, un incubo che si risolve in parodia la seconda.
In entrambe le storie, a ben guardare, ritroviamo gli aspetti che abbiamo visto caratterizzare il cinema muto: poiché non si possono utilizzare le parole, i sentimenti vanno resi evidenti, vanno sottolineati con l’eccesso dell’espressione. Ma il fumetto, con tutta la sua storia di parodia e caricatura, convive tranquillamente con questa esasperazione, e le storie di No words non fanno eccezione. Quello che crea differenza, e stranezza, nel cinema, è del tutto naturale in un medium differente, e con una storia differente alle spalle, come il fumetto.
Ma qualcosa di diverso c’è comunque, rispetto a un normale fumetto che faccia uso di dialoghi e didascalie. La parola – è facile osservarlo, in generale – influisce profondamente sui ritmi del fumetto: rallenta la lettura, dando più tempo alle singole vignette, e quando compare in didascalia accelera il racconto, esprimendo con poche parole quello che potrebbe richiedere anche parecchie vignette. La sua assenza è dunque cruciale nelle storie di No words. Nella diversità che comunque manifestano tra loro, la diversità ritmica rispetto a qualsiasi altra storia a fumetti è comune e evidente. Molti lettori, solitamente appoggiati alle parole (dialoghi e didascalie) si troveranno qui costretti – magari davvero per la prima volta – a guardare le figure, a compiere un’opera di decodificazione grafica a scopo narrativo.
Una volta tanto, per quanto strano possa apparire dirlo, le immagini del fumetto non sono trasparenti. L’assenza della parola costringe il lettore ad attraversarle senza la consueta stampella. E il discorso narrativo vi si costruisce forse con qualche leggera difficoltà, ma con un grande godimento visivo e con un notevole effetto didattico. Cosa che, in una società popolata da analfabeti dell’immagine e in cui la comunicazione passa in larga misura attraverso figure, basterebbe da sola a dar valore a questi testi.
Ma si tratta, per quanto singolari, anche di storie, con tutta la fascinazione del racconto, dello sviluppo narrativo. Restituito in qualche modo con la forza delle cose che si vedono per la prima volta, come la teoria – di nuovo di origine teatrale – dello straniamento ci ha da tempo insegnato.
Francesca Ghermandi
Pastil
Tito Faraci, Silvia Ziche
¡Infierno!
Phoenix, Bologna
pp. 48, £. 7.900
E il fumetto prova a perdere la parola
Il Sole 24 Ore, 13 giugno 1999
Chi si ricorda che nella seconda metà degli anni Trenta, studente rumeno ed ebreo, poco più che ventenne, Saul Steinberg disegnava su “Il Bertoldo”, rivista satirica assai poco allineata al regime? Non era ancora, certo, l’intellettuale raffinato che le copertine e le pagine del New Yorker avrebbero fatto conoscere al mondo a partire da qualche anno dopo; ma le sue vignette senza parole erano già loquacissime, e sembrano appartenere, viste da oggi, a un epoca ancora a venire – segno che tale epoca a venire a lui e al suo stile ha poi dovuto molto.
Chissà: se non fosse stato per le leggi fasciste contro gli ebrei, forse Steinberg non avrebbe lasciato l’Italia – come invece fece nel 1940 – e la storia del prestigioso mensile di New York sarebbe stata diversa…
Steinberg non è stato un vignettista qualunque, e nemmeno un grande vignettista qualunque. Si ha l’impressione, guardando molti dei suoi disegni, di trovarsi di fronte a scarne e ironiche riflessioni sul mondo, sulla comunicazione, sul disegno stesso. Qualcuno l’ha definito un filosofo, ma la definizione non sembra calzargli davvero: manca solitamente ai filosofi quello sguardo divertito, quell’amore per l’apparenza (e solo l’apparenza) del nonsense. Un artista pensatore, semmai, che ha usato il pennino per tracciare non parole ma immagini parlanti, vere concrezioni di segni.
Steinberg ha portato al massimo grado la capacità di accostare, tramite il suo pennino, segni appartenenti a mondi comunicativi diversissimi, creando riflessioni implicite sull’uomo e sul suo modo di comunicare. La serie basata sui nomi dei grandi pensatori – per fare un solo esempio di tanti – è un manuale di semiotica della linea grafica, dove la dimensione, la posizione, il tipo dei caratteri sono altrettante componenti dell’effetto complessivo. E, altrove, i personaggi che disegnano se stessi, le divagazioni sulla linea, che diventa ora un profilo, ora il contorno della vignetta, ora una linea e nulla più, gli arabeschi calligrafici, suggeriscono la densità e complessità di un linguaggio, quello grafico, completamente maturo, maturo al punto, in Steinberg, di poter riflettere su se stesso – un potere tradizionalmente riconosciuto solo alla parola.
Steinberg ci lascia un patrimonio sterminato di immagini, e innumerevoli lavori su di lui. C’è una sua vignetta in cui un uomo dall’aria distinta porta a mo’ di trofeo un groviglio di nomi di eroi letterari, da Raskolnikov al Capitano Achab a Emma Bovary; lo affronta con fare spavaldo un individuo assai meno raffinato che brandisce un arabesco formato da un solo nome: Kim Novak. Come armi e come trofei Steinberg ha usato, con grazia e ironia, tutta la cultura di un secolo che ha attraversato da cima a fondo.
Dettagli (10)
Questo Dettaglio riguarda evidentemente le sfumature, l’acqua, la luce, e la sorpresa dei colori improbabili.
Essendo fresco di scatto, non posso davvero escludere di essere invaghito più del soggetto che dell’immagine, vedendoci qualcosa che solo io ci posso vedere. Ma spero di no.
La spiaggia
(ingrandire per comprendere, meglio se al massimo)
Giusto perché siamo in agosto, giusto perché la memoria di questo luogo ideale mi è fresca, giusto perché l’idea di una spiaggia ideale può essere diversa per ognuno di noi, metto qui questa foto di acqua diafana, di un luogo che mi dava l’impressione ricorrente di essere sul set delle figure di Nell’acqua, di Lorenzo Mattotti (ma lui, interrogato in merito, ha negato di esservi mai stato – quindi è tutta una proiezione mia).
Giusto per farvi invidia, giusto per farmi tristezza, visto che io sono qui, davanti al computer, a casa mia; e non lì, a vivere di quello che mi vedrei davanti.
(in alternativa, potrei anche tagliarla così)
La spiaggia (2)
Fantascienza, il fumetto osa di più
Il Sole 24 Ore, 25 aprile 1999
Non c’è dubbio che la fantascienza sia figlia di un’epoca che della scienza ha fatto il proprio mito. Quando il Pianeta è già tutto inesorabilmente esplorato, e ai folletti dei boschi non fa caso più nessuno – perché più nessuno ha paura del bosco – quando dei, cavalieri e principesse rimangono soltanto per farci sorridere… la nuova frontiera del mito si sposta allora più in là, e gli esploratori attraversano il cosmo, e gli spiriti maligni sono quelli che stanno nelle macchine, e la frontiera è quella del cyberspazio…
Non c’è nemmeno dubbio, d’altra parte, che esploratori, spiriti, dei, cavalieri e principesse non sono affatto scomparsi. La fantascienza, neonata o matura, li ha fatti tutti propri, ridisegnandoli con la propria penna. L’iconografia tradizionale ritorna ammantata di metallo e di silicio. Il golem e lo spirito del male che ha preso forma umana ritornano nell’automa di Metropolis. Il cavaliere che libera la principessa combatte con la spada laser contro un impero dai caratteri medievali. Gli dei sono entità mangiamondi contro cui combattono Quattro Fantastici umani…
A fumetti, la fantascienza nasce, ufficialmente, appena tre anni dopo la sua origine letteraria, sempre quella ufficiale, s’intende. Ufficiosamente, letteratura e grafica di anticipazione esistevano da oltre un secolo, e lo stesso cinema arriva sulla luna ben prima di questi fatidici 1926 e 1929. Ma è solo in questa coppia di anni che accade qualcosa che rende riconoscibile il genere: nel 1926 viene fondata la rivista Amazing Stories, che raccoglierà da allora la narrativa fantascientifica (ben presto seguita da una pletora di imitatori); tre anni dopo viene pubblicato “Buck Rogers in the Year 2429”, un fumetto ispirato a un racconto di fantascienza di grande successo.
Siamo nell’ambito del pulp, è noto, quel fenomeno che vede, negli anni Venti e Trenta, la produzione di una quantità di romanzi (e poi di fumetti) di basso prezzo e generalmente di bassa qualità, tirati e venduti con numeri da capogiro. Ma anche all’interno del pulp si sono verificati fenomeni di interesse non solamente massmediologico, e la fantascienza ha occasionalmente prodotto delle opere interessanti, crescendo nei decenni successivi verso una maturità artistica che altri generi coevi non hanno mai raggiunto.
“La fantascienza” ci fa notare Daniele Brolli “è quel genere che rinnova le sue regole a ogni storia”. O meglio, prosegue poi, lo sarebbe se non fosse bloccata da un pubblico conservatore, che ama ritrovare le stesse situazioni, e fatica ad accettare i grandi sconvolgimenti. “Ma la fantascienza a fumetti è un’altra cosa, forse esattamente l’opposto”: è il disegno a mantenere alto il suo livello di credibilità, e a permetterle di osare assai più spesso.
Lo si vede bene visitando la mostra “Fantascienza. Ritorno alla terra. Il fumetto e la grafica della fantascienza come anticipatori di visioni”, aperta a Trento sino al 9 maggio, e dal cui catalogo sono tratte le osservazioni di Brolli. Settant’anni di fantascienza a fumetti sono preceduti da due secoli di approssimazioni e tentativi, occasionali o sistematici; e la mostra spazia tanto sulla storia di questo genere come sulla sua preistoria.
Si può scoprire così come, dopo la grande avventura grafica di Flash Gordon negli anni Trenta, ancora narrativamente legata agli schemi della fiaba, si possa arrivare, negli anni Cinquanta, alla nascita di un fumetto come Jeff Hawke, dell’inglese Sydney Jordan, forse la saga di fantascienza più profonda, colta e appassionante che sia mai stata prodotta. Ed è dalla rilettura di un autore delirante, e legatissimo alle problematiche sociali, come Philip Dick, che nel corso degli anni Sessanta la fantascienza a fumetti inizia a prendere una piega politicamente impegnata, e un umore complessivo assai più serio e riflessivo di quanto non avesse avuto prima.
L’epoca delle space operas è finita. I fermenti degli anni Sessanta sfociano nell’esplosione fumettistica degli anni Settanta: da un certo momento in poi la stragrande maggioranza dei fumetti interessanti, innovativi, che vengono prodotti, hanno un tema fantascientifico. Il genere si allarga, si diversifica, moltiplica le proprie diramazioni…
Il primo autore della nuova fantascienza è un francese, e si chiama Philippe Druillet. Ma la sua capacità grafica è inferiore alla sua inventività formale, e il suo destino finisce per essere quello di aprire la strada a Moebius, oggi considerato il maestro della fantascienza a fumetti. Per Moebius e Druillet la fantascienza è un pretesto per parlare della società e del mondo, ma anche per farlo in maniera visionaria e graficamente barocca. Dopo un po’ che si leggono le loro invenzioni è facile dimenticare il genere a cui appartengono. La fantascienza è più forte che mai, negli anni Settanta, ma in un certo senso è scomparsa, è diventata soltanto un modo obliquo per raccontare il presente.
E’ noto che Moebius avrebbe dovuto collaborare (e in piccola parte lo fece) alle scenografie del film di Ridley Scott Alien. Il suo posto fu preso da un disegnatore svizzero, Hans Rudolf Giger, a cui si deve l’aspetto da zoomorfismo metallizzato protoindustriale del mostro e delle sue architetture. Così come da una riflessione sul ribellismo narrativo di Moebius nasce invece il racconto di Enki Bilal, il fumettista serbo-francese che ha creato le più belle storie di fantascienza a fumetti degli ultimi vent’anni, mescolando misticismo, incubo e tecnologia.
L’idea della metropoli malata da allora non ha più abbandonato la fantascienza a fumetti. In Italia Stefano Tamburini, giocando sui disegni di Tanino Liberatore, l’ha portata ancora più lontano, rendendola sporca, volgare, violenta; rendendo, con Ranxerox, iperreale quello che prima era stilizzato e simbolico.
Questa idea nella fantascienza, così diversa e lontana da quella originaria americana, è ritornata al suo paese di origine solo negli anni Ottanta, per riformare e rilanciare il fumetto più classicamente americano, quello di supereroi. La troviamo in Ronin, di Frank Miller, nel 1983, e poi sempre più diffusa e influente. In buon accordo con l’arrivo dal Giappone di una visione della fantascienza in perfetta sintonia.
Catastrofismo, millenarismo, misticismo. Con queste caratteristiche giunge a noi oggi un genere nato sull’onda dell’ottimismo per la scienza. Una storia che intreccia varie culture si ritrova integralmente nel prodotto seriale fantascientifico più venduto in Europa, Nathan Never, delle edizioni Bonelli. Pur legato – come rimpiange il suo autore Antonio Serra – ai vincoli della struttura seriale, Nathan Never spazia su tutti i temi di cui la fantascienza si è caricata nei suoi settant’anni e due secoli di storia…
La mostra di Trento ci permette di vedere tutto questo, dalla protofantascienza alle visioni di Moebius, Giger, Bilal, alla mensilità densa di Nathan Never e di Legs Weaver, l’altro fumetto Bonelli nato da una costola del primo. Un’occasione per attraversare una fetta cruciale dell’immaginario del nostro secolo, occasione che si ripresenterà, dopo Trento, anche a Torino, dove la mostra sarà visibile dal 21 maggio al 27 giugno.
Il catalogo, assai ricco, a cura di Roberto Festi, contiene interventi di Daniele Brolli, Gianni Canova, Alfredo Castelli, Stefano Della Casa, Gianfranco De Turris, Sergio Pignatone, Maurizio Scudiero e Antonio Serra.
Fantascienza. Ritorno alla terra.
Il fumetto e la grafica della fantascienza come anticipatori di visioni.
Trento. Spazio Foyer del Centro Servizi Culturali S.Chiara (tel. 0461/884286)
31 marzo – 9 maggio 1999.
Eisner, storie di uomini invisibili
Il Sole 24 Ore, 7 marzo 1999
Ha 82 anni, ed è una leggenda da quasi sessanta. Quando, all’inizio degli anni Quaranta, Will Eisner creò The Spirit, creò un prodotto di grande successo e prorompente innovatività. Aspetti avventurosi e aspetti umoristici si sposavano con arguzia, ma quello che colpiva era la finezza della descrizione psicologica dei personaggi, insieme alla magistrale invenzione grafica. The Spirit non ha mai smesso di fare scuola, da allora; e il mondo del fumetto continua a riscoprirlo, generazione dopo generazione.
Fu Eisner invece a smettere di fare fumetti, negli anni Cinquanta, per tanto tempo che sembrava una scelta definitiva. Solo negli anni Ottanta, infatti, la sua vena creativa ritornò a scorrere. Incontrato di persona durante una sua visita in Italia nell’autunno scorso, durante la quale ha partecipato a una serie di dibattiti con il pubblico, Will Eisner dimostrava nello spirito e nell’arguzia la metà dei suoi anni.
Questa seconda fase della produzione di Eisner consiste (oltre che di un fondamentale manuale, tradotto in italiano con il titolo di Fumetto e arte sequenziale) di storie di vita, che hanno per protagonisti persone comuni. E come ogni persona comune, anche queste quando sono viste da vicino rivelano un intero universo di motivi di interesse.
Gente invisibile, realizzato nel 1992, e pubblicato in italiano negli ultimi mesi, raccoglie tre storie di persone che non si vedono, celate dalla loro normalità e dalla loro solitudine nella grande città. Ciascuno di loro fallisce l’occasione per essere un po’ meno invisibile, non per nequizia o sfortuna, ma perché, ci sembra dire Eisner, nella grande città l’invisibilità è la condizione normale.
Pincus, che fin da bambino aveva sempre cercato di nascondersi, trova il proprio annuncio mortuario sul giornale. Un errore, certo, ma la catena di conseguenze è devastante per lui.
Morris è un guaritore, con un potere sanatorio vero. Ma l’unica strada che le circostanze gli permettono di seguire, suo malgrado, è quella del ciarlatano.
E il bibliotecario Herman, che nonostante la mezza età vive con la madre, si ritrova innamorato e costretto a scegliere tra due situazioni, adesso, entrambe frustranti.
Se cercate eroi, nei fumetti, questo non è certamente il libro per voi. Ma se cercate uno specchio di voi stessi (che è ciò che la letteratura sa costruire meglio di tutto – indipendentemente dal linguaggio con cui viene realizzata), queste storie, raccontate con la vena di ironia che ci permette di guardare ad occhi bene aperti anche i drammi più neri, sono un sincero e attento campione.
Will Eisner
Gente invisibile
Editrice PuntoZero, Bologna, 1998
pp. 120, £.18.000
I tre Adolf di Tezuka
Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 1999
In Italia, il fumetto giapponese gode di cattiva fama, perlomeno nell’opinione comune. L’immaginazione evoca facilmente frotte di ragazzini fanatici per cartoni animati e pubblicazioni dalla qualità discutibile. Ma in Giappone si producono più fumetti forse che nel resto del mondo, e anche se è probabilmente vero che la qualità della gran parte del fumetto giapponese corrisponde all’opinione diffusa, esistono anche le manifestazioni di una letteratura per immagini di grande valore.
Osamu Tezuka, scomparso a sessant’anni nel 1989, è considerato il padre del moderno fumetto giapponese. La storia dei tre Adolf, realizzata nel 1983, è un racconto sull’intolleranza, sulla guerra e su come lo stato può schiacciare l’individuo. E’ la storia intrecciata di alcune persone: un giornalista giapponese, a cui i nazisti hanno ucciso il fratello in Germania, un bambino ebreo che vive in Giappone, di nome Adolf, un altro bambino di padre tedesco e madre giapponese, anche lui di nome Adolf, e infine Adolf Hitler. Un Hitler visto singolarmente da vicino, che finirà per impazzire per il timore che vengano rivelati i documenti intorno a cui gira tutta la storia, e che potrebbero provare una sua ascendenza ebraica.
Per un lettore occidentale poco avvezzo al modo di raccontare giapponese, certi modi di rendere le scene potranno sembrare strani, o poco seri, come la frequente consuetudine di situare situazioni comiche nel bel mezzo di una scena drammatica. Ma a lungo andare anche queste che a noi possono apparire come disparità finiscono per essere assorbite dall’intensità della storia. Il giornalista rischierà più volte di essere ammazzato, per proteggere i documenti; il padre dell’Adolf ebreo, partito per la Lituania per salvare dei correligionari, sarà imprigionato dai nazisti; mentre al secondo Adolf toccherà il destino più infame, diventando egli stesso – dopo aver rinnegato i buoni propositi della sua infanzia – un ufficiale delle SS e uno sterminatore.
Non è una lettura breve. Nella migliore tradizione del fumetto giapponese La storia dei tre Adolf si avvicina alle 1500 pagine complessive, divise in cinque volumi. Per chi lamenta che la lettura di una storia a fumetti duri sempre troppo poco, è il testo ideale.
Osamu Tezuka
La storia dei tre Adolf
Hazard Edizioni, Milano
Voll. 1-5, ogni volume 270 pagg. £. 20.000
Il Ridley Scott della biacca e del pastello
Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 1998
Se Enki Bilal ci aveva abituato, in passato, a trame complesse e fantasiose, messe in scena con un disegno che del realismo ha solo l’apparenza – un po’ alla Toulouse-Lautrec – con Il sonno del mostro ci troviamo improvvisamente un passo ancora più in là nelle medesime direzioni. Nella New York del 2026, l’informatico Nike Hatzfeld riesce a mettere a punto una tecnica per ricordare i suoi primissimi giorni di vita, trentatré anni prima, a Sarajevo, quando giaceva, da subito orfano, in un lettino di un ospedale semidistrutto, a fianco di altri due neonati nelle sue stesse condizioni. Nike ricorda il diciottesimo giorno di vita, e andrà ancora più indietro; ma vuole soprattutto ritrovare i suoi due confratelli, che la vita ha destinato a storie del tutto diverse. La storia di Nike si incrocia con quella di una setta integralista plurireligiosa, che ha acquisito un enorme potere e intende acquisirne ancora di più, soggiogando i corpi e le menti.
Si potrebbe definire una storia degna del Blade Runner di Ridley Scott, se non fosse Scott ad essere profondamente in debito col Bilal di qualche anno fa, e non viceversa. Ma qui, oltre alla storia coinvolgente, a dispetto o forse proprio grazie alla sua stranezza, c’è il disegno di Bilal a fare la parte del leone. Un disegno pienamente e sontuosamente narrativo, ricco di linee e di colori per definire una realtà incerta e sfuggente, continuamente debordante nell’allucinazione. Un disegno di matite e pastelli e biacca e carboncino e pennello per costruire una storia visiva dal ritmo al tempo stesso lento e incalzante.
Un po’ un peccato che l’edizione italiana di questo ennesimo capolavoro del grande parigino slavo Enki Bilal lasci un po’ a desiderare quanto a traduzione e lettering. Piccoli difetti che si dimenticano volentieri – anche se non proprio del tutto.
Enki Bilal
Il sonno del mostro
Alessandro Editore, Bologna 1998
pp. 70, £. 32.000
La letteratura a strisce
Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 1998
Stagione di festival, nel mondo del fumetto. In attesa del salone di Lucca, che aprirà il prossimo mese, Napoli ha avuto il suo primo Comicon, Salone Internazionale del Fumetto, con una bella mostra dedicata a Lorenzo Mattotti; e a Padova si è svolta la seconda edizione di Padova Fumetto, che prosegue la tradizione ormai più che ventennale di Treviso Comics, con lo stesso staff e la medesima impostazione. L’edizione di quest’anno (4-25 ottobre) è dedicata al rapporto tra fumetto e letteratura, col titolo “Letteraria”.
Cinque belle mostre illustrano vari aspetti di questo rapporto controverso, dai 30 anni di fumetti del Messaggero dei Ragazzi, alle versioni a fumetti del capolavoro di Melville, Moby Dick, tra le quali spicca quella recente di Will Eisner. E poi le Grandi Parodie dei fumetti Disney, che in cinquant’anni hanno rivisitato in chiave paperinesca tutti i classici delle letterature europee. La mostra Romanzi a fumetti ripropone sette disegnatori di oggi che alla letteratura si ispirano più per lo spirito che per l’argomento dei loro lavori (Davide Fabbri, Gabriella Giandelli, Vittorio Giardino, Lorenzo Mattotti, José Muñoz, Filippo Scòzzari, Sergio Toppi); infine, la mostra più vasta e fascinosa ci ripropone le tavole di Dino Battaglia, che della traduzione a fumetti dei classici della letteratura aveva fatto un’arte da autentico virtuoso, con risultati di altissimo valore espressivo.
A fianco delle mostre, gli incontri e i dibattiti con autori e critici. I primi hanno raccontato il proprio rapporto con romanzi e racconti, i secondi hanno cercato di valutare da diversi punti di vista che cosa lega e che cosa separa il fumetto e la letteratura. Insieme con chi scrive, Ivano Paccagnella e Alberto Abruzzese hanno discusso di bassa e alta cultura, di rapporto tra parola e immagine narrativa, di funzione culturale della letteratura a fumetti.
Come ogni anno, sono stati premiati due volumi. Per il fumetto umoristico il premio Signor Bonaventura è andato a Leonardo Ortolani, con il suo Rat-Man, assegnato oltre che per la qualità del lavoro, anche per la tenacia con cui l’autore si è autopubblicato e autopromosso. Per il fumetto “serio” il premio è andato a José Muñoz e Jerome Charin, con il loro Il morso del serpente.
Così morde il serpente
Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 1998
A raccontarla, la trama può sembrare una delle tante storie poliziesche: una donna poliziotto a New York cerca il fratello scomparso, perché coinvolto nel traffico di droga. Per liberarlo arriva sino in Cile.
Ma quando si inizia a leggere Il morso del serpente, i disegni di José Muñoz iniziano dalla primissima vignetta a tagliar fuori i luoghi comuni, impostando un ritmo narrativo secco, fatto di brevissimi flash e improvvise pause meditative. Poi, nel giro di poche pagine, anche la sceneggiatura di Jerome Charyn incomincia a catturare il lettore, e sulle mille situazioni già note di una trama di questo genere si innestano personaggi inconsueti, piccole imprevedibili variazioni sul tema – così che persino una conclusione scontata per questo genere di storia finisce per assumere un sapore che di scontato non ha proprio nulla.
Con tutti i meriti dello scrittore Charyn (non nuovo, peraltro alla sceneggiatura del fumetto), la felicità di questo racconto è però in larga misura dovuta alla china di Muñoz. Non si tratta solo della qualità del segno grafico, personale e inimitabile, ma anche della capacità di tagliare il tempo in una maniera che evoca il cinema senza imitarlo affatto. Muñoz sfrutta, del fumetto, persino la sua assenza di sonoro: le grida e i colpi di aria da fuoco, per esempio, vengono mostrati senza alcun effetto di rumore, appaiono distanti anche se sono vicini, e il loro tempo si dilata proprio nel momento in cui l’azione concitata farebbe aspettare un’accelerazione.
Il ribaltamento temporale coincide con quello emotivo. Parte del fascino di questa storia sta proprio nel fatto che le emozioni che i personaggi esprimono sono assai diverse da quelle che il genere lascerebbe ipotizzare, e la stessa protagonista si trova a combattere una battaglia che non appare affatto così come essa stessa si aspettava che fosse.
Tutto è diverso, insomma, da quello che appare. Miss America del Nord non è una ragazzina con patetiche mire hollywoodiane, ma un sergente di polizia, che torna a casa da solo dopo la premiazione. La violenza, quando c’è, non è una serie di barocche evoluzioni, ma un attimo secco, un lampo di luce o di ombra. La salvezza appare un atto dovuto, o una condanna, o un evento del tutto inutile e scontato, o una concessione…
Era da tempo che ci si aspettava un nuovo volume di Muñoz, dopo che da qualche anno uscivano solo ristampe, per quanto graditissime. Con questo Morso del serpente speriamo che si inauguri una nuova stagione; e non soltanto in Francia, dove – come troppo spesso accade – le storie di Muñoz trovano generalmente un pubblico assai più attento che da noi.
Jerome Charin, José Muñoz
Il morso del serpente
Hazard Edizioni, Milano, 1998
96 pagg., £. 20.000
Sconosciuto, o quasi
Il Sole 24 Ore, 30 agosto 1998
Una carriera unica, quella di Magnus. I più lo ricordano per le sue produzioni degli anni Sessanta – Kriminal e Satanik prima, Alan Ford poi – storie che hanno segnato l’ immaginario degli italiani. Ma nell’ ambiente del fumetto hanno colpito ancora di più le sue produzioni degli anni Ottanta e Novanta, quando Magnus, abbandonata definitivamente la vocazione “popolare”, si è dedicato a costruire storie di un esotismo immaginario, caratterizzate da intrecci complessi e da un’ impressionante capacità grafica.
A cavallo tra questi due periodi, uscita originariamente tra il 1975 e il ’76, sta la prima serie de Lo Sconosciuto, pubblicato allora in albetti mensili dallo stesso editore che pubblicava anche le storie erotiche di Magnus. La veste era dunque decisamente “popolare”, ma il contenuto, pur restando ancora di facile leggibilità per tutti, mostrava piuttosto chiaramente gli aspetti della svolta che stava per prendere la produzione dell’ autore.
Storie intricate, intricatissime, in cui interessi diversi ordiscono trame che si intrecciano, spesso condotte dal caso, e all’interno delle quali il protagonista, lo Sconosciuto, si muove come un sopravvissuto, ex mercenario con l’animo pieno di amarezza. Le situazioni di quelle cinque storie mostrano altrettante assurdità politiche dell’epoca: traffico d’armi in Marocco, eversione neofascista a Roma, deliri di reduci della Seconda guerra mondiale, guerriglia in America latina, e le vacanze del “Cummenda” milanese in una Beirut già sconvolta da una guerra selvaggia.
Numerose sono state da allora le ristampe di questa prima serie de Lo sconosciuto (cui fecero seguito, negli anni Ottanta, altri episodi su riviste “d’ autore” di grande formato), ma la caratteristica peculiare di quest’ultima, oltre a raggruppare i sei fascicoli originari in un solo volume, è che l’editore è Einaudi, il quale, per la prima volta fa apparire una storia a fumetti nella serie dei suoi Tascabili.
Magnus, “Lo Sconosciuto”, Einaudi, Torino 1998, pagg. 670, L. 28.000.
Dick Fulmine
Il Sole 24 Ore, inedito 1998
Singolare e interessante appare che la casa editrice Federico Motta dedichi a un personaggio dei fumetti il volume che celebra il centenario della nascita del suo fondatore. Ma la ragione è presto evidente, poiché Dick Fulmine ha accompagnato a lungo la vita di Federico Motta, che ne è stato prima lo stampatore, e poi, dopo la guerra, anche l’editore, iniziando proprio in questa occasione tale attività.
Dick Fulmine è stato uno dei primi personaggi italiani avventurosi originali, nato quando il regime fascista, nel 1938, vietò la pubblicazione dei prodotti americani, mentre il pubblico continuava a richiedere storie di quel tipo. Nel volume Dick Fumine. L’avventura e le avventure di un eroe italiano si racconta con precisione e dovizia di particolari quale fosse il clima della cultura popolare di quegli anni.
Il primo dei quattro saggi che ci raccontano la storia del personaggio, a firma di Giulio Cesare Cuccolini, descrive quale fosse negli anni Trenta l’immagine dell’America nei lettori italiani di fumetti, e di quanto sia stato determinante l’impatto della cultura americana nel formare l’immaginario giovanile. Lo stesso Dick Fulmine, nato come risposta italiana a quella (ormai vietata) cultura, ne fu evidentemente il risultato, negato nel momento stesso in cui si trovava sotto gli occhi di tutti con il suo nome e le sue attività.
Dick Fulmine nasce dunque con questa ambigua vocazione di (assai fascista) italianità. Ci raccontano Gianni Bono e Leonardo Gori (anche curatori del volume) come il gusto del pubblico dell’epoca fosse in evidente sintonia con gli eroi semplici e muscolosi. Evidentemente da noi le cose non erano così diverse da quello che accadeva in quello stesso anno negli Stati Uniti, dove Superman aveva appena iniziato ad impazzare.
Il ruolo di Fulmine nella guerra – ce lo racconta Ernesto G. Laura – è assai ambiguo: ora del tutto dimentico, ora impegnatissimo contro il nemico. E dopo l’armistizio, improvvisamente e prudentemente, il suo campo di azione si sposta al di fuori dell’Italia, dove resterà quasi regolarmente sino alla fine della sua vita di personaggio, verso la fine del decennio successivo.
L’aspetto più affascinante di questo volume celebrativo, iconograficamente molto ricco e curato, è l’immagine che esso ci fornisce della cultura popolare italiana e della sua evoluzione dagli anni Trenta ai Sessanta. Nessuno potrà mai sostenere che Dick Fulmine sia stato un personaggio di valore artistico o culturale, eppure in questa minuziosa indagine sull’Italia dei decenni centrali del nostro secolo questo personaggio rozzo, mediocremente disegnato e sceneggiato, amato dal pubblico più di tantissimi altri, spesso migliori, è il pretesto ideale per mostrarci come eravamo, perché eravamo così e come abbiamo fatto a diventare ciò che siamo.
Dick Fumine. L’avventura e le avventure di un eroe italiano
a cura di Gianni Bono e Leonardo Gori
Federico Motta Editore, Milano
pp. 240, £. 220.000
Storie di solitudine e kafkiana alienazione
Il Sole 24 Ore, 19 aprile 1998
Non è un periodo facile per il fumetto, questo. E tantomeno lo è per il fumetto italiano, ma gli difetta forse più il pubblico che i talenti, più la circolazione del denaro che quella dell’inventiva. E’ per questo che, nonostante l’atmosfera complessivamente asfittica, ci sono momenti in cui compaiono tutte assieme varie cose degne di interesse, e che davvero meriterebbero un pubblico più interessato di quello che mediamente paiono avere.
Tra queste, colpiscono le produzioni recenti di due autrici, diverse per origine e formazione, ma accomunate dalla profondità e originalità dello stile, la cui uscita in libreria dedica evidentemente il risultato del loro lavoro a un pubblico più riflessivo di quello dell’edicola. Si tratta di Gabriella Giandelli, autrice di “Hanno aspettato un po’, poi se ne sono andate”, uscito come terzo numero della rivista Mano (di cui già abbiamo avuto occasione di parlare); e di Vanna Vinci, autrice di Ombre, pubblicato da Kappa Edizioni di Bologna.
“Hanno aspettato un po’…” è, come altri racconti della Giandelli, la storia/non-storia di una solitudine. Un uomo in un momento cruciale della propria vita (ma quale momento non è cruciale? pare sottintendere l’autrice) è in preda alle proprie emozioni, causate da fatti spesso all’apparenza banali. Un racconto di sfumature, in cui gli eventi, uno dopo l’altro, sembrano essere assorbiti dall’impossibilità della vita; scatenano emozioni, desideri, rimpianti, timori, ma non spostano nulla, non risolvono situazioni che appaiono dall’inizio alla fine senza uscita.
Eppure non c’è nessuna retorica della disperazione, e nemmeno nessun “minimalista” annegare nella piattezza della vita quotidinana. Al contrario, il disegno netto e pulito della Giandelli sembra fare di ogni immagine un’incisione su legno, donando al racconto delicatezza e ansietà, insieme con un senso profondo della concretezza della vita, anche quando l’irrealtà le si mescola insensibilmente.
Più marcatamente nel segno dell’irrealtà sono le tre storie che Vanna Vinci raccoglie in Ombre. La storia d’amore tra una ragazza e un giovane rumeno dai lunghi canini, la cui immagine non è rimandata dagli specchi, è seguita dall’incubo della giovane che, assunta al lavoro in un luogo lontano da casa, vede sfaldarsi una dopo l’altra tutte le certezze sulla propria identità, e come in un film espressionista la realtà si contorce sempre più attorno a lei. Infine una strana storia di truffe e omicidi si risolve nell’amore tra i due inquieti protagonisti.
In comune con Gabriella Giandelli, Vanna Vinci ha la capacità di raccontare storie di solitudini e difficili contatti. Storie che assomigliano forse a tante altre storie che già conosciamo; ma la capacità di un narratore è proprio quella di farci godere di una storia già sentita come se fosse nuova. In questo il segno della Vinci – nonostante sia forse ancora un po’ più ingenuo di quello della Giandelli – riesce a condurci per mano attraverso le passioni dei suoi personaggi, rendendole tanto più vere quanto più è assurdo il contesto in cui vengono generate. E l’incubo di Ines Saudade, che arrivata sul posto di lavoro si ritrova con i documenti e l’identità di una certa Vera Caligari, procede con l’esattezza inarrestabile di una storia di Kafka, in cui l’alienazione procede per gradi, ma è tanto più terribile proprio per questo.
Si tratta di due autrici e due esempi che mostrano, a chi avrà l’ardire di leggerle, che esiste una letteratura a fumetti di cui molto meno si parla ed è molto meno premiata della letteratura tout court. Ma da cui proprio diversi autori di questa stessa letteratura potrebbero trarre non indifferenti lezioni di originalità e di stile.
Gabriella Giandelli
Hanno aspettato un po’, poi se ne sono andate
Mano, n. 3
Mano Edizioni, Bologna
pp. 96, £. 16.000
Vanna Vinci
Ombre
Kappa Edizioni, Bologna
pp. 174, £. 20.000
Penthotal preso con filologia
Il Sole 24 Ore, 8 marzo 1998
Un raccontare seguendo l’emergenza delle suggestioni, assemblando immagini e frammenti ispirati a narrazioni di genere, diversissimi, lontanissimi, carico di quotidianità come di fantastico, di ironia e di passione. Questo era stato Pentothal, opera prima di Andrea Pazienza, creata a frammenti (progressivamente più radi) tra il 1977 e il 1980.
Allora fu pubblicata a puntate sull’Alter Alter di Oreste del Buono, e in seguito raccolta in un volume ormai introvabile. Oggi è stata ripubblicata da Baldini & Castoldi, in occasione della mostra bolognese su Pazienza.
Il lettore ideale di Pentothal non è quello che ama le narrazioni costruite su un’idea stringente e rigorosa, che si dipanano come meccanismi senza una sbavatura dall’inizio alla fine. Com’è doveroso per una storia centrata su un personaggio che ha il nome di una droga, le straordinarie avventure di Pentothal sono un susseguirsi onirico o psichedelico di situazioni diverse, dalla quotidianità della fila in mensa dello studente fuori sede alle situazioni hard boiled, all’esplorazione di luoghi esotici e di mondi. Ma stranamente, e piacevolmente, in questo calderone di idee, di fughe oniriche e di citazioni, tutto si tiene, e la strabordante incoerenza narrativa viene trasformata – dal disegno e dalle modalità di transizione tra situazioni diverse – in un viaggio affettivo e culturale incredibilmente accattivante.
Insomma, se si dovesse dire in poche parole di che cosa parla l’opera prima di Pazienza, si dovrebbe rispondere con un ambiguo e insoddisfacente “di tutto”, ma appena dalla considerazione dell’insieme si passa a quella delle parti e del loro succedersi, questo “tutto” si sfalda in una miriade di invenzioni, di richiami, di ironie, di raffinatezze grafiche, di provocazioni piccole e grandi… L’ironia e l’emozione sembrano viaggiare appaiate, in un autore capace di renderci favolosa la vita quotidiana, e sarcastica l’avventura – senza perdere una briciola del suo fascino.
La grandezza di Pazienza è stata, sin dal suo inizio, probabilmente in questa capacità grandiosamente mitopoietica, associata a uno spirito ironico e a un’attenzione vivissima al quotidiano, alla microosservazione del personale e del sociale, all’invenzione linguistica.
A questa nuova edizione di Pentothal va riconosciuto il merito di far conoscere ai lettori di oggi un’opera fondamentale (e non solo per il mondo del fumetto), associando alla storia vera e propria un’ampia sezione filologica, in cui si trovano raccolte una quantità di tavole tra prove, pagine scartate, esperimenti di colorazione, disegni collaterali o associati, schizzi e abbozzi. Nel complesso, inoltre, si potrebbe definire filologica la stessa presentazione della storia: non si tratta infatti di una ristampa delle edizioni precedenti. Le tavole originali sono state riprese una per una e riprodotte con l’attenzione a non perderne nemmeno un dettaglio, nemmeno una sfumatura.
E sta forse qui il limite, o il problema di questa edizione. Come spesso accade nel fumetto, le tavole di Pazienza sono state create dal suo autore per una riproduzione a stampa “al tratto”, la quale, legata alla nettezza del bianco e del nero, fa di solito tranquillamente giustizia di tratti di matita, campiture non omogenee, leggere sbavature, e insomma di tutto quello che, tonalmente, sta a metà tra le due tinte estreme. In questa edizione, la cura della riproduzione mette impietosamente in luce le non uniformità delle campiture, i tratti di matita preparatoria lasciati lì, i profili dei tasselli di carta appiccicati per correggere ampi errori; tutto quello insomma che l’autore non si è curato di portare a perfezione perché contava sull’imperfezione del mezzo di riproduzione per ottenere l’effetto che lui desiderava.
Insomma, l’edizione Baldini & Castoldi di Pentothal sembra dedicata più a chi sia interessato a capire come lavorava Pazienza (e scoprire tavole meravigliosamente complesse senza l’ombra di una matita preparatoria è davvero qualcosa che fa venire i brividi) che non a chi voglia onestamente leggersi un testo di altissima qualità.
Andrea Pazienza
Le straordinarie avventure di Pentothal
Milano, Baldini & Castoldi 1997
pp. 192, £. 30.000
Due paperi, una coppia esplosiva
Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 1997
Il papero dal becco lungo, dal carattere superficiale e dispettoso e dalla voce caratteristica, comparso per la prima volta in un cartone animato di Topolino nel 1934, ricevette un aspetto grafico definitivo e corrispondente all’attuale solo tre anni dopo, quando Al Taliaferro diede vita alle tavole di Donald Duck, Paperino. Nelle storie di Taliaferro Paperino era un borghese casalingo, alle prese con problemi di tutti i giorni, impestato da un certo momento in poi dall’arrivo di tre terribili nipotini.
Taliaferro portò avanti il suo personaggio per alcuni anni, caratterizzando Paperino come il più autentico uomo della strada, con tutti i suoi difetti (e anche un buon numero di pregi). Le brevi storielle rappresentavano un ambiente familiare o di piccolo vicinato; piccola satira personale e sociale.
Quando nel 1943 a Taliaferro subentrò Carl Barks, lo spirito delle storie iniziò subito a risentire della nuova mano. Le storie di Barks dei primi anni sono caratterizzate da un ritmo narrativo forsennato, in cui l’ambiente ancora e sempre più o meno casalingo viene stravolto da ridicole incomprensioni con animali, vicini, o con gli stessi nipotini. Paperino si anima di una vitalità che Taliaferro (che di qualità, come autore, ne aveva comunque avute parecchie) non era riuscito a donargli. In qualche modo Barks recupera lo spirito del cinema di animazione e del suo vitalismo paradossale, riproducendolo sulla carta con un’abilità senza precedenti.
Ma l’abito incomincia presto ad andargli stretto. Le storie dal ritmo forsennato ma con la logica elementare di botta e risposta, azione e reazione, pur nella loro estrema godibilità non sono sufficienti a Carl Barks. Grosso modo, il cambio di registro coincide con la creazione di un nuovo personaggio, Uncle Scrooge, Paperon de’ Paperoni.
L’ingresso di un riccastro nel mondo piccolo borghese di Paperino cambia per sempre la sua vita di personaggio. Il semplice confronto con la smisurata ricchezza dello zio modifica alla base il contesto di riferimento narrativo: dal 1947 in poi le storie di Barks non possono più essere semplici vicende di casa e giardino (per quanto tornino spesso ad abitare anche questi semplici luoghi). La differenza di stato sociale, il problema del guadagnarsi da vivere, la sete di ricchezza, diventano temi ricorrenti e dominanti.
Certo, trattati con leggerezza e arguzia. Ma lo zio Scrooge, che in italiano perde il riferimento al famoso avaro del Natale di Dickens, è il prototipo del capitalista, disposto a tutto pur di racimolare anche solo qualche spicciolo in più; talmente stereotipico nel suo assatanato desiderio di denaro da riuscire persino simpatico, alla lunga. Dalle primissime storie, infatti, in cui zio Paperone è un personaggio veramente avido e assai poco simpatico, piano piano Barks ne fa uscire tutto il suo spirito di avventura. Così l’avaro riccastro rivela la parte migliore della vocazione di imprenditore a tutto campo: ovvero la capacità di non tirarsi mai indietro davanti a nessuna impresa.
Presto dunque, con Paperone, le storie di Barks diventano storie di avventura, ambientate in luoghi esotici e fantasiosi, anche se con riferimenti più o meno evidenti al mondo reale. Paperino non è più il piccolo borghese che vive un’esistenza legata alla casa, ma il contraltare comico di un avventuriero fanatico, il Leporello di un don Giovanni della ricchezza. La coppia Paperino-Paperone gira per i luoghi più assurdi e dimenticati del mondo, percorrendo in parodistici rovesciamenti tutti i luoghi tipici della letteratura di avventura – senza tuttavia perdere in questi ribaltamenti umoristici il senso del meraviglioso. Anzi aggiungendo, con i limiti più ampi che si concedono allo scherzo, meraviglia alla meraviglia.
La capacità di Carl Barks è stata soprattutto quella di averci fatto gustare l’avventura senza toglierci la possibilità di riderne; la sua abilità quella di concatenare eventi che da un’apparente banalità all’altra finivano per sfociare (spesso insensibilmente) nel grandioso – e tuttavia ancora con humor. Salvo poi ripescare, alla fine delle storie, quei dettagli dall’apparenza iniziale così insignificante, ora tanto più carichi di significato, ma anche di comicità.
Barks ci ha fatto ridere dei problemi della società americana senza nessuna pesantezza. Che di questo gli si possa imputare di essere stato il suo limite – perché talvolta una simile leggerezza finisce per far dimenticare il problema che pur viene posto, a vantaggio del divertimento della storia – credo non si possa negare. Ma d’altro canto difficilmente a un personaggio nato con lo spirito di Paperino si sarebbe potuto chiedere di più: anzi in questo senso Barks ha riempito di critica sociale i suoi fumetti più della maggior parte dei suoi contemporanei, e la loro leggerezza ha permesso che venissero letti da tutti.
Così Paperino ha potuto essere l’eroe negativo di una nazione che crede fermamente negli eroi, quelli positivi, senza nessuna apologia della negatività. La sua sfortuna ha fatto ridere tutti, e probabilmente ha fatto sì che qualcuno si rendesse conto che il pur simpatico zio Paperone qualche responsabilità in merito dovrà pure averla avuta.
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