Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto.
Il lavoro di Chris Ware può apparire freddo. Faremmo meglio a dire che vuole apparire freddo. Il feeling di astratta geometricità che una tavola come questa produce è di sicuro attentamente progettato dal suo autore. Eppure la materia di cui questa pagina racconta è tutt’altro che fredda: Building Stories gira tutto attorno ai sentimenti della sua protagonista, ai suoi desideri e ai suoi ricordi.
In un certo senso, la distanza che l’autore vuole rimarcare nei confronti di quello che racconta è un po’ la distanza che separa l’entomologo dall’insetto che sta osservando. Eppure, benché questa distanza sia comunque evidente, qui l’entomologo Ware appare incredibilmente vicino ai sentimenti del suo insetto.
È probabilmente questa la chiave del fascino delle storie di Ware: grande distanza e insieme estrema vicinanza, freddo e caldo insieme, entrambi acutamente percepibili.
Osserviamo con attenzione questa pagina. Building Stories è un cofanetto composto di una serie di oggetti: dai libri veri e propri, contenenti racconti di più pagine, ai singoli grandi fogli piegati, dove la storia è composta di due sole facciate. Questa è la prima di due pagine di questo secondo tipo.
Quando la si guarda, l’attenzione è immediatamente richiamata dal grande volto a centro pagina. Ware sa benissimo che le pagine a fumetti non fanno eccezione alle regole dei percorsi dell’attenzione: prima di iniziare a leggere dall’alto a sinistra, inevitabilmente l’occhio vede l’intera pagina, e viene catturato dai dettagli maggiormente rilevanti, se ve ne sono. Qui il volto al centro, così graficamente isolato, così marcato nel suo contorno dalla linea nera regolare, così simmetrico sia verticalmente che (almeno nel suo contorno) orizzontalmente, non può non imporsi all’attenzione. Tanto più che quella sottile linea rossa che lo raggiunge dal basso può ben assomigliare al filo di un palloncino (e la freccia immediatamente sotto al profilo del mento può facilmente essere vista come il nodo alla sua base). Questo grande viso ha un’espressione malinconica e meditabonda, che corrisponde alla personalità della protagonista (non c’è un ordine obbligato con cui leggere le diverse storie del cofanetto – quindi è possibile che il lettore la conosca già): il viso di qualcuno che sta ricordando, immerso nei propri pensieri.
E a questo punto, poiché non ci sono altre emergenze percettive che si impongano alla visione iniziale, il nostro sguardo corre all’inizio della pagina, e non si stupisce di trovarvi a mo’ di titolo la frase As a kid, cioè da bambina. Non ci sono emergenze specifiche, ma la pagina è già apparsa come divisa in tre aree, oltre a quella del viso centrale, ciascuna caratterizzata da una tinta dominante: un azzurro poco saturo in alto, un grigio nella colonna di sinistra, un bruno o verde acido nella colonna di destra, anche loro poco saturi.
Quando iniziamo a leggere abbiamo dunque già un’idea di quello che ci aspetta: tre episodi distinti, tutti e tre oggetto di ricordo. La pagina è inoltre dotata di una relativa ma significativa simmetria, debole in alto, nell’area a dominante azzurra, e più forte al centro e in basso. Osserviamo, per esempio, le due vignette più grandi ai lati del viso centrale, che esibiscono, simmetricamente, un’inquadratura angolare (dove, qui come sempre, gli angoli sono di 120 gradi), contrapposta alle inquadrature frontali di quasi tutte le altre vignette più piccole – e questo si ripete nella striscia più in basso.
La pagina è narrativamente, ma anche graficamente, scandita dai titoletti in rosso: AS A KID, MEN, I’LL NEVER FORGIVE, THE COMBINED, Y’KNOW. Anche il loro lettering è geometrico e freddo, ma non ci sono simmetrie nella loro posizione. Hanno tuttavia lo stesso colore rosso che, qui come in altre pagine di Building Stories, caratterizza le linee di collegamento che guidano il percorso di lettura là dove non è quello standard. Sono quindi anche loro delle indicazioni di direzione, quasi delle frecce; tanto più che non sono veri e propri titoli, separati dal testo che segue, ma semplici attacchi del discorso, evidenziati da un diverso trattamento grafico, ma discorsivamente collegati a quello che c’è dopo.
La sequenza a dominante azzurra mostra la protagonista bambina davanti allo specchio, a immaginare il proprio aspetto da grande, casualmente interrotta dall’ingresso del padre. Il discorso che inizia con I’LL NEVER FORGIVE (non perdonerò mai) fa riferimento a un autoritratto, visibile a sinistra, e quindi è lì che veniamo rimandati, per poi scendere da quel lato attraverso i ricordi dell’adolescenza, fino a ritrovarci, in basso, nella quotidianità del presente, in bagno davanti allo specchio, mentre una voce fuori campo chiama “mamma”. Da qui il filo rosso ci porta al volto/palloncino centrale e ancora da qui alla colonna di destra, dove la protagonista è nuovamente un po’ più grande, fino alle vignette in basso, che ci riportano nel presente.
Notiamo che la sequenza tollera bene anche una lettura “sbagliata”, che proceda – attraversando il viso centrale – per righe orizzontali da sinistra verso destra. Letta in questo modo, la sequenza appare come il montaggio alternato di due ricordi diversi: del resto, tutto Building Stories è fatto di frammenti spazio temporali giustapposti, che possono essere letti in qualsiasi ordine, perché possiedono al proprio interno le coordinate per creare un ordine narrativo complessivo. Anche la lettura “sbagliata” rimarrebbe quindi accettabile, e non muterebbe gran che l’effetto d’insieme, un effetto comunque labirintico – nel quale il percorso giusto esiste (ed è la sequenza temporale del racconto) ma va cercato e trovato, sia globalmente che localmente.
Anche la struttura labirintica contribuisce al distacco che il lettore percepisce. È come se tutta la passionalità della vita si trovasse ricostruita qui attraverso un progetto razionale, certamente articolato e complesso, ma la cui complessità è inevitabilmente minore di quella delle emozioni della vita reale. In questo modo, Ware raggiunge l’obiettivo di generare il pervasivo senso di angoscia, e il senso tragico che permea queste vicende pur prive di grandi avvenimenti: la tragedia è quella di una vita già destinata, sin dall’inizio, a seguire un percorso, senza scampo. Il percorso è segnato dalle regole sociali, che qui si trovano, spesso, narrativamente appena accennate; mentre vengono fortemente richiamate da questa ricostruzione grafica razionale che permea tutto, e solo attraverso la quale arriviamo al racconto e alle sue emotività.
Nella prima metà del Novecento l’idea di progetto razionale ha dato vita al funzionalismo e alle sue conseguenze, con l’ideale ottimistico che la razionalità avrebbe migliorato la vita dell’uomo. In Chris Ware il medesimo principio si rivela invece l’angosciosa scatola da cui non siamo più capaci di uscire.
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