Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Guardiamo queste due pagine (70 e 71) di Fun, di Paolo Bacilieri (Coconino 2014). Soprattutto nella prima riconosciamo una tecnica molto usata in certi momenti da Frank Miller, quella della splash page che presenta la scena nel suo insieme, inquadrandola nel suo complesso spazialmente e temporalmente, su cui si appoggiano vignette piccole all’interno delle quali si sviluppa nel dettaglio la vicenda. Soprattutto nella seconda pagina riconosciamo invece una tecnica molto usata da Chris Ware, dove le piccole vignette si moltiplicano, con l’aggiunta di frecce e percorsi indicati o aree di fondo bianco lasciate intenzionalmente vuote.
Che cosa hanno in comune due autori così lontani tra loro come poetica, come Miller e Ware? Almeno due cose, direi. La prima è l’attenzione alla costruzione grafica della pagina in senso spettacolare – anche se la spettacolarità di Ware è antitetica come spirito a quella di Miller, essendo una spettacolarità dell’immobile e del raggelato, un esercizio raffinato di proporzioni in cui è sì necessario ricavarsi una dinamica della lettura (si tratta comunque di una storia a fumetti) ma tutto sembra remare contro; mentre in Miller la spettacolarità è momento culminante di un flusso che vuole essere travolgente proprio nel suo scorrere. La seconda è un forte senso della tragedia – di nuovo antiteticamente risolto: tragedia personale, interiore, inesprimibile se non indirettamente per Ware, conflitto di ideologie o di morali per Miller, mostrato come una guerra. Fatte salve le grandissime differenze tra le due impostazioni, sia Ware che Miller sembrano prendere molto sul serio la vita e il modo di raccontarla, premendo, ciascuno a modo suo, il pedale dell’acceleratore dei sentimenti, verso il freddo e il distacco, o verso il caldo e il coinvolgimento.
Ora, che cos’hanno in comune Ware e Miller con Paolo Bacilieri? Come si spiega l’innegabile convergenza grafica che si può notare in queste (e in molte altre) tavole? C’è spettacolarità grafica e c’è tragedia in Bacilieri? Be’, sì, ci sono – anche se non è proprio Fun il luogo della tragedia (Sweet Salgari sarebbe un altro paio di maniche); e tuttavia, se invece di tragedia parliamo di senso del tragico (definito da Thierry Groensteen qualche anno fa parlando di fumetti e in particolare proprio di Chris Ware) inteso come il senso della tragicità e ineluttabilità dei fatti della vita (come lotta inutile nei confronti del destino), ecco che lo troviamo anche nella seconda delle due nostre pagine, e non manca mai, in effetti, nei lavori di Bacilieri, anche quelli in apparenza più scanzonati.
Il fatto è che è pervasivo nel lavoro di Bacilieri, da quello che racconta al modo di raccontarlo sino al tratto del suo disegno, un senso dell’ironia, o forse dell’autosarcasmo, o forse di un distacco un poco sardonico, come un lieve darsi continuamente dello sfigato che, poiché poi né l’autore né il protagonista sono davvero tali, ci qualifica un po’ tutti come tali. Insomma, mentre in Miller c’è l’eroismo del fare, dell’azione, del risolvere, e in Ware c’è l’eroismo del resistere, del perdurare, dell’affrontare la vita di tutti i giorni, quello che viene ribadito qui è proprio un generale antieroismo, dove persino il tragico e la spettacolarità finiscono per essere oggetto di uno sguardo disilluso e un po’ distaccato. Guardate, nella seconda pagina, il modo in cui viene descritta la morte sul lavoro di Zattera: nelle immagini e persino nel lettering dei balloon tutto è quotidiano e ironico, come se si raccontasse un episodio buffo (guardate quei piedi che escono da sotto le lastre di marmo, che sembrano presi da una vignetta di Crumb, per esempio); però al tempo stesso la narrazione è secca e fredda, e dice i fatti nella loro agghiacciante semplicità, preparando il vuoto della seconda parte della terza striscia, e la ripetizione ossessiva del dramma dello zio Italo nelle vignette successive.
Persino le forme preferite da Bacilieri sembrano andare nella medesima direzione. Guardate (qui e altrove) come le forme rotondeggianti o quelle quadrateggianti tendano continuamente alla forma intermedia del rettangolo con gli angoli smussati. È così sempre per i balloon e le didascalie, è così per il lettering (componente importantissima del lavoro di Bacilieri), ed è spesso così anche per le teste, e talvolta persino per le vignette (non qui). Si tratta però di rettangoli irregolari, disegnati a mano con la voluta incertezza della mano libera – nella somiglianza e nell’opposizione con un procedimento non così dissimile seguito da Chris Ware, che però sfrutta geometrie pure e perfette. Magari è proprio in questa contrapposizione tra quelle geometrie, dove il tragico è freddo e distaccato, quasi una condizione esistenziale assoluta, e queste ricercate imprecisioni che si coglie l’antieroismo di Bacilieri, per cui il tragico c’è, certo che c’è, ma non c’è niente di assoluto in ciò, e la banalità della vita quotidiana (che comprende anche la nostra capacità di non prenderci troppo sul serio) è quello che conta davvero.
È questo che dà calore alle sequenze di Bacilieri, contrapponendolo definitivamente al gelo esistenziale di quelle di Ware: è come se Ware disegnasse storie come potrebbero essere viste dall’occhio di Dio, oggettivo e distaccato, mentre Bacilieri le disegna come potrebbero essere viste dal mio occhio, o dal suo, o da quello di uno qualsiasi di tutti gli sfigati di questo mondo (dei quali persino il nome del suo personaggio Zeno Porno è una fantastica, ironica ed efficacissima metafora).
Smontato così il tragico (senza però disfarsene), cosa ne è dello spettacolo? Be’, qui la soluzione è facile: mostrare in maniera spettacolare il quotidiano, nella sua palese antispettacolarità, è un classico della parodia, uno straniamento che ci costringe a guardarlo con occhi diversi, ben attenti a quello che si presenta di ridicolo. Siamo quindi ancora in linea con quello che abbiamo già osservato. Solo che pure in questo caso, proprio come con il senso del tragico, la spettacolarità non si dilegua affatto, rimane (e sappiamo bene come ci siano tavole, anche in questo stesso Fun, fortemente giocate sullo spettacolo grafico – per esempio tutta la sequenza iniziale su New York), anche se in forma un po’ dimessa (il bianco e nero, la bicromia, la normalità dei soggetti che riempiono i quadri…), continuando a suggerirci che è possibile uno sguardo non banale anche sul banale, e che da una vita da sfigato è possibile uscire, pure senza essere l’occhio di Dio, ma con un semplice occhio un poco distaccato, e magari pure un po’ affettuoso.
È il bianco di fondo così dominante, con questi canali bianchi così grossi tra le vignette, a fomentare il confronto con Chris Ware nella seconda pagina. Ma il gioco di irregolarità, pervasivo nei dettagli e diffuso nella struttura, rende la pagina di Bacilieri tanto affettuosa e partecipe quanto quelle di Ware sono fredde e distaccate. Persino questa piccola polifonia di balloon e didascalie diverse, creando quasi un effetto di confusione, alimenta la percezione di un calore affettivo diffuso, come se alla pianificazione grafica indubitalmente presente si sovrapponesse poi una spinta istintuale, un non poter fare a meno di aggiungere dettagli, piccole curve storte, piccole modulazioni dal tondo al grassetto (e ritorno) nel lettering.
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