Penso che la ragione per cui ho incominciato a disegnare fumetti sia sostanzialmente generazionale. Come accade frequentemente, la scelta iniziale è legata al caso; ho iniziato a disegnare i miei primi fumetti a undici anni, se non prima, per gioco… Mi piacevano i fumetti, era l’unico tipo di letteratura che da bambino leggevo, e quindi è evidente che per me la comunicazione passasse attraverso un fumetto, una storia, una fiaba, e non attraverso il cinema o la pittura. In poche parole il fumetto coniugava perfettamente le esigenze di un bambino: aveva storia, narrazione e disegno: la capacità di esprimersi attraverso personaggi e atmosfere disegnate.
Poi questa idea di fumetto, questa passione per il fumetto si è sviluppata attraverso diverse fasi. Prima disegnavo perché era il mezzo più espressivo e mi divertiva semplicemente farlo; in seguito il divertimento ha continuato a essere una costante, ma gli elementi che mettevo in gioco col passare degli anni erano evidentemente sempre più ricchi, diversi, e cambiavano secondo la mia età, le mie letture, quello che vedevo intorno a me, e anche secondo la storia stessa del fumetto. Ho passato fasi in cui io stesso sottovalutavo il fumetto, lo consideravo un’arte di serie B. Oggi, dopo un periodo di allontanamento in cui ho lavorato per la televisione, penso che il fumetto sia un’arte favolosa, perfetta, ricchissima, ancora da sfruttare. E quell’intuizione casuale che ebbi da bambino la confermo oggi; anzi sono pronto a ritornare a disegnare fumetti, convinto che siano un campo di ricerca espressiva, di letteratura visiva e non, capace di competere con qualsiasi altro tipo di espressione artistica.
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Ad un certo momento il mio stile è cambiato, diventando quello che mi ha fatto più conoscere dal pubblico, diventando più geometrico e meccanomorfo. Le ragioni di questo cambiamento sono di ordine espressivo. Era molto più utile per me avere un controllo totale su quello che mettevo in scena. Un’esigenza di ricostruzione del mondo che si soddisfaceva attraverso forme meccaniche, con un alfabeto mentale, umano, prevalentemente razionale, che è quello delle forme geometriche, che consentono il controllo di traiettorie, gesti e movimenti. Il mio procedere meccanomorfo nel ricostruire la realtà attraverso un atomo uguale e immutabile (sia per il mondo animale che per quello vegetale e minerale), questo modo di ricostruire con lo stesso materiale il mio teatrino, tutto di cartapesta, è un metodo che mi è servito ad esercitare più controllo sul mio lavoro. Così come alcuni dei più prestigiosi autori di fumetti italiani si sono conquistati il proprio controllo espressivo appropriandosi della tecnica di autori classici del fumetto americano quali Milton Caniff, io ho soddisfatto la stessa esigenza guardando anche alle esperienze artistiche europee del dopo-Cezanne.
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Una storia a fumetti nasce da un’intuizione. L’intuizione è un sogno che diventerà sceneggiatura e regia. La prima è la ricostruzione razionale del sogno e il suo inevitabile ampliamento. È la necessità di dare un senso e una scansione logica a quello che si è immaginato.
La seconda è la sua realizzazione visiva: la scelta delle inquadrature, dei colori, del ritmo, ma anche delle tecniche con cui costruire l’immagine.
Il prodotto dell’incontro di questi due elementi è la singola immagine e la somma delle singole immagini: cioè la storia a fumetti. L’armonia e l’equilibrio che legano questi elementi (il contenuto e la forma) determinano lo stile e la riuscita del lavoro.
C’è qualcosa di significativo in ogni intuizione, anche in un’intuizione che prende le mosse per partorire un fumetto. Non vedo nessuna differenza insomma tra un buon libro e un buon fumetto e un buon film e un buon quadro.
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Il pattern è già di per sé un elemento neutro che si offre come ripetizione di un’immagine, comunque piatto, di sfondo. E quindi narrativamente all’interno di un fumetto deve e può essere usato qualora la narrazione lo consenta per esprimere nel modo più evidente questo suo carattere di neutralità, questo suo carattere di piattezza. In Lichtenstein, per esempio, il pattern era usato come brutalmente preso dal fumetto, cioè era un retino, puntinato o a linee parallele, e lui non osava mutarlo, non aveva nessun senso mutarlo per lui; Lichtenstein ricercava la neutralità, l’astrattezza appunto da macchina, da stampa, e la ritrovava perfetta, la traduceva perfetta sulla tela. A lui non interessava operare una modifica su un pattern di stampa; lo prendeva come significante di per sé. Io se uso il pattern all’interno di una storia lo faccio esclusivamente per fini narrativi.
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Il fumetto e la televisione sono due media completamente diversi; anche se la pratica del fumetto è in questo caso un buon punto di partenza per avvicinarsi alla televisione. Apparentemente, lo storyboard di una sigla grafica è un fumetto muto, ma in questo caso il movimento delle sequenze è progettato per diventare reale, non per rimanere virtuale. Il movimento è infatti l’elemento aggiuntivo rispetto al fumetto che determina un radicale mutamento delle regole espressive. La televisione è un fiume di immagini che scorrono, davanti ai nostri occhi senza sosta. Questo flusso di immagini procede per sostituzione. Ogni immagine soppianta la precedente rendendo impossibile il confronto contemporaneo di due singoli fotogrammi. In televisione quindi una buona immagine non è da considerarsi tale se non è realizzata tenendo conto che si tratta di una delle venticinque immagini (fotogrammi) che compongono un secondo.
Naturalmente anche il rapporto immagine-contenuto è diverso, non avendo la sigla televisiva altro scopo se non quello di introdurre il programma o rubrica nel modo più spettacolare e appropriato, fornendo inoltre i titoli di testa. Ciononostante, nelle mie sigle non rinuncio ad elementi narrativi, come ad esempio il mago di Sotto le stelle, il quale nel corso della sigla trasformava stereotipi della stagione invernale in stereotipi della stagione estiva; una sorta di Mandrake dello stereotipo.
Un’altra differenza rispetto al fumetto consiste nell’uso di mezzi tecnologici, e non poveri e artigianali. La conoscenza dello strumento elettronico è fondamentale sia per l’ideazione che per la perfetta realizzazione dell’idea. A volte penso che i veri artisti siano gli ingegneri che ideano e rendono possibili le nuove funzioni del computer.
In televisione infine, al contrario che nel fumetto, non è possibile attuare la realizzazione del prodotto esclusivamente in prima persona. E si impone quindi un metodo di pensiero, prima che di lavoro, tale che trasformi le idee in informazioni inequivocabili, che possano cioè essere trasmesse agli operatori e da questi perfettamente rispettate.
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Il meccanomorfo, una volta servitomi ad acquistare padronanza di linguaggio, rischiava, col proprio ingombrante significato, di precludermi nuove e più ampie possibilità espressive. L’avere accettato la coesistenza nel mio lavoro sia del controllabile che dell’incontrollabile (come con alcune tecniche coloristiche) è ora fonte di più fertili risultati atmosferici. In ogni caso il fumetto, comunque lo si pensi, rimane fedele alla propria caratteristica fondamentale: l’artigianale povertà di mezzi. Nonostante la diversità di riferimenti e di propositi, mi piace immaginarmi il Jack Kirby di oggi: un cocktail di spettacolarità e tenera povertà di mezzi.
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Le mie storie, violentemente espressive? Espressive e basta. La violenza è uno dei contenuti da esprimere. Espressive è il mio ottimo, quello che ricerco. Espressività e basta.
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Questo è l’estratto dell’intervista a Giorgio Carpinteri contenuto nel volume Valvoforme valvocolori. Era il 1988. Le interviste agli altri autori di Valvoline seguiranno nei prossimi giorni. Qui un’introduzione a Valvoline.
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