Sono ricapitato per caso sul saggio di Eco dedicato al modo simbolico (già voce “Simbolo” dell’Enciclopedia Einaudi, poi capitolo del suo Semiotica e filosofia del linguaggio), e ne ho riletto alcune pagine dopo – confesso – diversi anni dall’ultima volta. Mi colpiscono alcune affermazioni verso la fine, di cui non avevo memoria. In particolare, quello che Eco dice sul simbolico nel misticismo e poi nell’arte mi induce ad alcune riflessioni, che si collegano a dibattiti recenti.
Ciò che caratterizza il simbolico, nella posizione di Eco (posizione che, in generale, sostanzialmente condivido), è il fatto che il simbolico cresce come una sorta di escrescenza su di un testo che avrebbe già un significato accettabile a livello letterale (o anche metaforico – ma in questo è differente dall’allegoria o dalla metafora, che di solito rivelano la propria presenza e la necessità di un’interpretazione traslata proprio perché quella diretta, di base, non avrebbe senso). Inoltre, ogni interpretazione simbolica ha alle spalle una teologia – ci dice Eco: in altre parole, poiché si tratta comunque di un uso del testo, le interpretazioni simboliche sono infinite, e possono prendere le vie più particolari; per questo, un’interpretazione simbolica, più che parlare del testo, parla della concezione del mondo che la alimenta. In particolare l’arte basa le proprie costruzioni simboliche su sistemi linguistici assestati e tradizionali, e ne è perciò indirettamente rivelazione – ma attraverso di loro è anche rivelazione di noi stessi (che abitiamo e viviamo questi sistemi).
Nel passaggio che il simbolico fa dal misticismo all’arte si inserisce però un’importante differenza, mi sembra. Mentre il misticismo pretende ancora di parlare di una verità, l’arte ha abbandonato del tutto la problematica della verità. Non dimentichiamo che l’arte non è una cosa sempre esistita e universale, ma semplicemente il prodotto di una concezione occidentale del mondo che non arriva ad avere quattro secoli. Non che prima non si facessero cose belle, ma venivano realizzate con un senso diverso da quello che noi oggi attribuiamo all’arte – o nello specifico alla poesia.
Nel passaggio dal misticismo all’arte (in senso moderno quindi) si perde la rilevanza della verità perché si passa da un valore collettivo e condiviso (in cui il mistico dice qualcosa che, tendenzialmente, deve essere creduto da tutti) a un valore individuale e scambiato (in cui il poeta non è tenuto a dire cose vere, perché non è quello il suo ruolo: deve piuttosto emozionare, commuovere, stupire…).
All’arte (alla poesia) è richiesto di dire la verità solo in un senso molto superficiale; diciamo a livello letterale (o di prima metafora). Tuttavia la dimensione in cui la poesia è davvero poesia non è quella letterale, bensì quella simbolica, e a livello simbolico parlare di verità è molto pericoloso – almeno sinché si intende la verità come corrispondenza tra il concetto espresso e il mondo. Detto in altro modo: se le diverse derive simboliche di un testo sono virtualmente infinite, come si può valutare la verità del testo nei loro termini?
Di fatto, la poesia non è fatta per dire particolari verità, se non a livello banale – e in effetti le verità che la poesia davvero dice sono in generale banali. Ma la poesia non è tale solo per quello che esplicitamente dice. La poesia è un tipo di testo che è fatto, che nasce, all’esplicito scopo di fomentare interpretazioni di carattere simbolico (e, nel dire “simbolico” non bisogna pensare solo al Simbolismo, e ai suoi simboli sublimi: il correlativo oggettivo eliotiano/montaliano è un esempio evidente di simbolo, e l’interpretazione simbolica può tranquillamente mirare anche al basso e al quotidiano). Potremmo arrivare a dire che una poesia riuscita (un’opera d’arte riuscita) è una poesia che ben si presta a numerose e affascinanti interpretazioni simboliche.
A portare questa tesi sino in fondo, salta fuori, però, che, allora, l’eventuale verità letterale delle parole di un testo poetico è davvero qualcosa di poco rilevante, almeno quanto lo è la “verità” di una successione di note in musica. Ma se questa verità è irrilevante, allora, in verità, ci importerà di sapere quale sia l’argomento di un componimento non perché esso possa dire al proposito qualcosa di vero, ma semplicemente perché ciò di cui un testo poetico parla (insieme al modo in cui lo fa) è la base letterale di tutte le possibili interpretazione simboliche – le quali a loro volta ci interessano non perché possano essere più vere di altre (e in questo sta la differenza col misticismo) ma perché nello stesso processo interpretativo che mettiamo in atto leggendo, ci inoltriamo in un percorso, che è un percorso di suggestioni ed emozioni. La poesia, insomma, non asserisce (se non al livello letterale, di base) ma suggerisce – e suggerisce (al livello simbolico) collegamenti e visioni che poi richiedono di essere eventualmente verificati in altri modi.
Tuttavia, se il problema della verità è così marginale in poesia, non si vede perché il testo poetico la debba veramente perseguire al suo livello di base – né si capisce perché la critica debba cercare di estrapolare delle verità dei testi stessi, piuttosto che occuparsi delle modalità del percorso di interpretazione simbolica. Come ho avuto modo di sostenere una volta, la poesia ha il diritto di essere incomprensibile, perché, se il problema della verità resta tagliato fuori, anche la comprensibilità al livello di base condivide la sua sorte.
Sin qui, questo discorso sembra portare acqua alla posizione di Marco Giovenale, e in particolare alla sua idea del cambio di paradigma (o almeno così mi pare di riuscire a intenderla). Se capisco bene la sua posizione, il cambio di paradigma riguarderebbe proprio un cambio di atteggiamento interpretativo (che, naturalmente, permetterebbe anche un cambiamento nella poesia stessa in direzione della non assertività) dalla poesia come oggetto chiuso da contemplare nel suo insieme ben definito, alla poesia come percorso da attraversare, senza che essa sia necessariamente dotata di una coerenza a livello letterale.
Ho tuttavia due ordini di obiezioni a questa posizione che attribuisco a Giovenale (sperando di non aver dato del suo pensiero un’interpretazione troppo “simbolica”). La prima è che la poesia è sempre stata impicitamente interpretata così (“sempre” è una parolona che va comunque relativizzata alla storia recente, non più vecchia di quattro secoli; più si va indietro e più bisogna farle la tara); per cui non vedo in gioco un cambio di paradigma, bensì una semplice presa di coscienza da parte della critica di qualcosa che di fatto veniva agito già da molto tempo. La seconda è che, anche abbandonando la questione della verità, quella della comprensibilità rimane viva.
Giovenale ha detto più volte (perdonatemi, non trovo i riferimenti, e cito a memoria – e quindi in maniera imperfetta) che la poesia deve far lavorare interpretativamente il lettore. Un componimento tranquillamente assertivo non produce questo genere di lavoro; ed è quindi poco interessante. Guardando le cose sotto la luce del modo simbolico, la prima asserzione appare vera (un testo che non fa lavorare il lettore non è nemmeno un testo poetico, secondo me), ma la seconda no, perché anche da un testo banalmente assertivo è possibile far partire una catena infinita di fascinose interpretazioni simboliche (l’esegesi biblica insegna). Quello che forse si potrebbe sostenere, come aveva fatto Jacques Geninasca (in La parola letteraria), è che un testo che si lascia facilmente interpretare a livello letterale non spinge a cercare nuove interpretazioni; come invece fa un testo che a livello letterale apparirebbe insensato. Bisogna però, per dar ragione a Geninasca, immaginare un lettore disposto comunque a interpretare, cioè a dar fiducia al testo, cioè a scommettere che quel testo ricompenserà il faticoso lavoro interpretativo che gli chiede, senza facili soddisfazioni intermedie.
Il punto, io credo, è proprio quello della fiducia, e della scommessa che, come lettori, siamo disposti a fare.
Un primo elemento di questa scommessa è, per esempio, la fiducia che abbiamo nell’autore: per esempio, ho già avuto modo di apprezzare la poesia di xy, lo stimo, mi aspetto che produca altre cose di valore; quindi mi fido e mi impegno nel lavoro interpretativo (non per cercare verità, ma suggestioni, suggerimenti, evocazioni, senza nemmeno un requisito di coerenza complessiva: già questo mi basta e avanza).
Ed è sulla base di una fiducia di questo genere che ho affrontato proprio la raccolta In rebus, del medesimo Marco Giovenale (Editrice Zona, 2012). Certo, il titolo va letto alla latina, nelle cose, ma non si può fare a meno di leggerlo anche all’italiana, con riferimento all’enigmistica, e alla decifrazione. Un riferimento che diventa più forte quando poi si vanno a leggere le poesie al suo interno. Rispetto a La casa esposta, a Shelter, la sensazione è che il gioco dell’evitare qualsiasi possibilità di definizione chiara del senso si sia fatto qui più duro, più estremo.
Cito, dalle ultime pagine:
albula corrente, piccola già dal nome
minibocca di acqua bruciata
dici piccola ma sei il “ne” atomo
la particella pronominale
da A-Z, niente che chiama
si dà il caso non si dia caso
qui tra i platani del “qui tra i platani”
di vocare, vociare, chioma –
l’albula prolunga, prosegue, pre-clara
dichiara avanti, antecede, ant anta continuata
per i milioni, di anni, animali, eoni,
vascelli alfa, enti ini, i leoncini
Non c’è niente di neodadaista o di conceptual qui (temi di una mia recente piccola polemica con Giovenale). Non ho obiezioni alla formula. Di Giovenale apprezzo anche la scrittura. Qua e là questi versi iniziano pure a prendermi. Ma poi subito dopo smettono.
Continuano piuttosto a darmi la sensazione che l’autore, ogni volta che tocca un tema potenzialmente evocativo, invece di svilupparlo, lo abbandoni al più presto, come se permettere la costruzione di un senso, anche simbolico, fosse un peccato, e si dovesse sempre costringere il lettore (e il primo lettore è l’autore stesso) ad andarlo a trovare più lontano, più lontano, ancora più lontano. Le paronomasie, le allitterazioni, le rime o quasi-rime sono qui spesso forzate, apparentemente gratuite. In un autore tutt’altro che ingenuo come Giovenale questa insensatezza non può che essere apparente; deve per forza nascondere un gioco, deve per forza essere un invito a non fermarsi lì.
Ma poi, per quanto io provi ad andare avanti, io resto sempre lì. Può darsi che il mio universo simbolico (la mia teologia di riferimento, per dirla con Eco) sia troppo diverso da quello necessario per leggere questi testi. Di fatto io arrivo a un punto in cui la sensazione più forte che vivo è quella che l’autore non faccia che evitare di permettermi un qualsiasi percorso – e quando questa sensazione diventa troppo forte, la mia fiducia in questi testi crolla, e io smetto di cercare.
La sensazione, analizzandola un poco più a fondo, è che l’autore stia cercando di evitare di commettere un peccato, il peccato dell’assertività. E poiché si può asserire in molti modi, e non c’è limite ai modi subdoli e incosapevoli in cui le parole possono arrivare (per via metaforica o anche simbolica) ad asserire qualcosa, tutta l’attenzione dell’autore sta nel cercare di evitarlo – arrivando, se necessario, quanto più vicino possibile all’irraggiungibile puro vuoto del senso, il grado zero della parola, il nulla (un classico delle avanguardie, dallo Zero di Porta agli Zeroglifici di Spatola).
In questo senso, allora il lavoro di Giovenale mirerebbe ad avvicinarsi a quelli (in questo senso nichilisti) di Broggi e Zaffarano, sui quali ho già discusso proprio con lui su queste pagine (sempre nello stesso post già menzionato). Eppure, che Giovenale continui a scrivere in senso pieno, inventando, invece di riportare e collegare tra loro frammenti di discorso alienato, mi sembra che sia un indizio a favore della possibilità che la sua ricerca del grado zero sia in verità contrastata e complessa. Sappiamo bene non solo che non c’è bisogno di poesia perché vi sia interpretazione simbolica, ma anche che qualsiasi oggetto del mondo ne è potenziale istigatore, nelle giuste condizioni. Datemi un cavolfiore, una ruota di bicicletta, il sole, o un angolo di marciapiede, e io ve ne ricaverò verità profonde e insondabili per pochi soldi (o per molti, se preferite). La mia sensazione è che Giovenale intuisca il pericolo di ridurre la sua poesia a un cavolfiore, e non intenda davvero arrivare a nullificarla così; per cui la sua poesia resta poesia, in fin dei conti, ma è poesia che cerca di negare il proprio stesso senso.
Insomma, anche se non riesco ad apprezzare davvero queste poesie, apprezzo Giovenale perché non arriva sino in fondo, continuando ad aggirarsi pericolosamente in un’area ai confini del senso – e qualche volta il senso risulterà attingibile, in qualche modo, e qualche volta no. Giusto per evitare fraintendimenti: ripeto che non sto parlando né di verità né di assertività, ma solo della possibilità di trovare un percorso, di vivere questi testi come se fossero paesaggi, in cui sono io a dar loro un senso (mentre li attraverso e senza neppure il requisito di una coerenza complessiva).
Ho letto talmente poco di Giovenale – e soprattutto solo in internet, e maggiormente suoi interventi teorici che non poesie – che quello che aggiungo con questo commento sarà un’uscita essenzialmente impressionista; nè pretende di essere di più. in realtà volevo solo suggerire – per capire se sensibilità condivisa o meno dall’autore del blog o altri di passaggio – di tentare l’accostamento del meccanismo semantico(?) descritto da Barbieri – che sinceramente non so quanto rispecchi le intenzioni dei testi di Giovenale, anche per quanto detto sopra, ma a pelle mi ci ritrovo – a quei tentativi a là Ponge di fare una poesia-oggetto: che si parta o meno da una assertività linguistica per interrompere sì una lettura simbolica (nei termini qui definiti) del testo, ma non con intenzione nichilista – questo il punto che mi convince meno dell’analisi qui sopra – quanto perchè si parta da un mondo in cui la frattura tra oggetto e soggetto è irredimibile e di conseguenza ogni significato non può essere che una forma di violenza alla materialità del testo. come sto dicendo è un’impressione non una disamina critica d’alcunchè (i testi di giovenale, broggi, zaffarano o anche le analisi tentatene in questo blog) e forse potrei chiarirla meglio suggerendo l’accostamento a un saggetto di Octavio Paz che parlando d’altro in situazione altra, mi sembra possa suggerire una storia\un passaggio a cui tentare d’accostare il paesaggio attuale, per quanto l’autore messicano parli chiaramente da un’angolazione diversa: http://www.cristinacampo.it/public/william%20carlos%20williams%20.pdf. il secondo accostamento a pelle che mi viene di fare, sempre genetico forse?, è a quell’idea sanguinetiana di una lettura di kafka come autore totalmente allegorico per il suo rifiuto assoluto della metafora… e gli agganci che questa penso abbia con il saggio di benjamin in angelus novus quando tenta di definire l’opera kafkiana come estrmo punto della tradizione: di cui può salvare la trasmissibilità solo a scapito della verità. insomma credo che il problema del cambio di paradigma che qui si affronta sia un modo di tornare a scavare all’interno a quella scoperta delle possibilità dell’aniconico in arte che mi sembra portata realmente rivoluzionaria dell’arte novecentesca e che resta un problema aperto (comunque si manifesti: neodadaismo, concept… ecc.)
faccio decisamente un minestrone tremendo ma è forse il tentativo di definire miei modi di decifrazione\avvicinamento al “cambio di paradigma” che si va proponendo, che posto qui per compartecipare ai diretti interessati, ‘fidando nella loro benevolenza di salvare il salvabile dal mio scrivere naufragato
Grazie intanto per il riferimento al bell’intervento di Octavio Paz (che, sì, affronta un tema un po’ diverso, però abbastanza pertinente, specie quando avvicina Williams al creazionismo di Huidobro). Però non sono sicuro di avere capito tutto del suo discorso nel commento.
Avvicinare Giovenale a Ponge mi sembra corretto (lo fa lui stesso, direi), ma questo non mi sembra che cambi la situazione. Anche su un oggetto (e su un testo-oggetto) il modo simbolico lavora – e se non lavorasse quello non sarebbe che un oggetto qualsiasi tra i tanti che il mondo contiene e non ci interessano particolarmente, o magari ci interessano solo in maniera strumentale (quello che un oggetto poetico non dovrebbe mai essere – se non dopo, eventualmente, la sua deriva simbolica).
Piuttosto, non ho mai usato l’espressione “nichilismo”. Il rapporto con il “grado zero” che Giovenale ha (ma anche Broggi e Zaffarano) è complesso, e a sua volta simbolico. Si tratta semmai di un orizzonte di riferimento, che viene evocato come potenzialità, ma poi evitato (specie in Giovenale).
Quanto al “cambio di paradigma” evocato da Giovenale, io mi provo a intenderlo come ho proposto, ma non sono certo di aver interpretato correttamente il suo pensiero. Credo però che non lo si possa comunque ridurre alla questione dell’aniconico – forse l’aniconico ne è solo uno dei possibili modi. Ma forse dovrebbe dirlo meglio lui…
ah, non aver capito del tutto il discorso contenuto nel mio precedente commento non è un male: non lo conosco neanch’io; era una nota puramente impressionista e ammesso che abbia un senso definito lo avrà per come mi si è costruito su una sommatoria di riferimenti che incontrati nel tempo pensando ad altre questioni mi sembravano poter offrire una piattaforma d’avvicinamento a quanto Giovenale dice sull’attuale “cambio di paradigma” o quantomeno dei modi in cui io singolare ne sto tentando l’avvicinamento: un dato storico, non critico(!). cercando d’essere un po’ più ordinato – ma sempre nei limiti del stare costruendomi un’idea\un approccio in divenire quindi nulla che possa rinunciare a imprecisioni\errori anche – sicuramente – madornali – provo a correggere allora quanto non condivido più del mio precedente:
1) il “nichilismo”: ho esteso troppo, appunto per mancanza di riflessione –> usando il termine ne ho fatto una categoria globale quando lei invece si riferisce a un aspetto particolare dell’oggetto di cui tenta una descrizione: specificamente mi trovavo a questa altezza del suo commento:
“[…] arrivando, se necessario, quanto più vicino possibile all’irraggiungibile puro vuoto del senso, il grado zero della parola, il nulla (un classico delle avanguardie, dallo Zero di Porta agli Zeroglifici di Spatola). In questo senso, allora il lavoro di Giovenale mirerebbe ad avvicinarsi a quelli (in questo senso nichilisti) di Broggi e Zaffarano […]”
2) la sua risposto sull’oggetto o il testo-oggetto mi sembra che un poco ricalchi i dubbi che lo stesso Paz mostra nel saggetto che ho linkato (tra l’altro nei riguardi dello stesso Ponge…) e mi sembra una “obiezione”\considerazione sensata, ma non necessariamente condivisibile da chi certi tipi di scrittura-oggetto ha cercato di metterli in atto… un riferimento, lasciando da parte Ponge, e avvicinandomi alle nostre lettere patrie mi sembra potrebbe essere rappresentato dalla parte finale(?) della produzione di Sbarbaro: che forse è stato l’unico esponente – se ne abbiamo avuti – di qualcosa di simile a quell’idea di poesia-oggetto di cui sopra; il quale simultaneamente lavorando a più progetti di scrittura vira dalla poesia all’aforisma e spunto diaristico al testo scientifico, dando l’impressione, per quel che ne posso conoscere in modo sempre superficiale, di una indecisione tra le forme che trova tutte concorrenti\concomitanti al suo progetto di scrittura… –> la domanda diventando: la produzione scientifica di Sbarbaro sui licheni, che questi non sembra in alcun modo discostare dalla sua precedente e simultanea produzione poetico\letteraria, ha un valore diverso dal proprio valore strumentale? vuole fare del suo oggetto qualcosa di diverso da un’oggetto fra i tanti? poi non penso di poter fare un paragone esplicito o tracciare un’analogia tra l’allora situazione e l’attuale (che conosco ancor meno, o sugli intenti… ma mi sembrano domande a cui non sia facilissimo rispondere;
3) ma questo mi viene in mente adesso: proseguendo il paragone che pure ho appena definito abusivo… ammesso che il mio tentativo di lettura dell’estremo Sbarbaro abbia (o non abbia, visto il caso) un senso: immaginando che con il suo gesto finale e scientifico tracci una possibilità di poetica oggettuale (oggettivista?), riancorarsi oggi a discorsi del genere cosa comporterebbe? dato che tutte le nostre idee sull’oggetto sono mutate rispetto ai tempi (i riferimenti di Sbarbaro vanno tutti al mondo naturale: animato anche quando non lo sembra, in grado di illudere – o mostrare – una possibilità di durata che sorpassa quella della Storia, umana,ecc.)
…poi ecco, il mio è un commento che non è meno caotico del precedente – forse son già troppo “dopo il paradigma” per potermi da solo dare una spiegazione dentro il paradigma precedente(!) – e più che focalizzare il discorso forse lo espande troppo, ma purtroppo la capacità analitica, di fronte la sintetica, è una qualità che per quanti sforzi faccia mi sembra sempre di mancare: per cui può essere bene che stia facendo un lungo e pomposo nonsense, se così non fosse, ringrazio intanto per l’attenzione dedicatami e poi aspetto volentieri una sua risposta che possa articolare un punto di contatto tra la mia replica e il post che la sovrasta o magari qualche parola in più da Giovenale stesso o da chi ne condivide la proposta poetica, per non farne qualcosa di sterile e narcisistico