Fred Bernard l’ho conosciuto, non troppo da vicino, a un incontro di Bilbolbul. Si impegnava, non era antipatico, ma credo che non abbia detto cose così interessanti, visto che non ne ricordo quasi nulla. Ci sono andato perché Fred Bernard è l’autore de L’Uomo Bonsai, e quello, pur avendolo letto qualche mese prima, me lo ricordavo (me lo ricordo) benissimo.
Adesso, per l’occasione, me lo sono pure riletto, e mi ha rifatto la stessa molto positiva impressione. È una storia di mare, raccontata da un anziano capitano a dei giovani marinai in una bettola, la storia – a lui a sua volta raccontata – di un uomo a cui cresce un albero in testa, un albero che lo ucciderebbe, se non venisse sapientemente potato e ridotto a un bonsai; e invece in questo modo gli dona l’invulnerabilità e una forza incredibile.
Il disegno non si può definire “bello”, eppure ogni tanto raggiunge effetti di grande spessore. La storia non si può definire originale – se non per l’idea del bonsai – ma è lo stesso estremamente avvincente. Inizi a leggerlo pensando che sia l’ennesima roba francese un po’ snob, col disegno tirato via alla Sfarr (ma senza l’arguzia di Sfarr) – e poi ci resti sopra, anzi dentro, sino alla fine. Non sarà l’arguzia di Sfarr, ma è il favoloso di Bernard. E il segno, dopo un po’, finisce per essere persino realistico – salvo per l’uso dei colori piatti e dei contrasti cromatici, che sono la cosa più bella da vedere.
L’Uomo Bonsai appartiene a quella categoria di testi che si apprezzano senza capire bene il perché. Sono i testi che affascinano i critici irrequieti, come me, perché difficili da sistemare nelle categorie assestate. Non c’è il bel disegno, non c’è la storia originale; puoi quasi prevedere quello che succederà dopo. Anzi, lo prevedi proprio, perché tanto, sin dalle prime pagine, sai già come andrà a finire. Cos’è, allora, che ti tiene lì?
Sarà il fatto che è il racconto del racconto di un racconto; saranno i mari del sud; sarà la storia d’amore con Shangai Li; sarà l’incubo alla Lovecraft del seme che ti mette le radici sulla testa; o sarà che quest’incubo si rovescia in positiva leggenda, in meraviglia del mare e della vita; saranno i colori raffinati, e i tatuaggi blu sulla pelle azzurra del protagonista, a contrasto con il giallo della sua amante. Nessuna di queste cose è sufficiente da sola a fare di un testo a fumetti un bel testo. E allora sarà il modo in cui si combinano tutte quante, e ancora molte altre…
La formula per dimostrare che un testo (a fumetti o di qualsiasi altro tipo) è oggettivamente bello la sto ancora cercando. Appena l’avrò trovata potrò fornire dimostrazioni sicure e inconfutabili di qualità. Per adesso continuo col mio naso, anche a costo di non saper fornire giustificazioni rigorose. Avrò letto troppi libri di pirati da bambino! Sarà qualcosa nascosto nel mio inconscio! Ma siccome non sono il solo ad aver seguito certe strade, magari le mie specifiche idiosincrasie non sono soltanto mie.
E magari anche voi apprezzereste, quindi, più o meno quanto me, questa storia assurda raccontata da un albero cresciuto su un vascello alla deriva nell’oceano, e poi riferita a dei marinai ubriachi, attraverso cui è arrivata nei disegni un po’ sghembi di in una storia a fumetti, di cui ora io vi sto a mia volta raccontando.
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