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I correlativi oggettivi di queste poesie di Sergio Rotino si manifestano in sequenze di versi lunghi o extra-lunghi e privi di punteggiatura, come emissioni interminabili di fiato sporcato dalle parole e dal loro senso. Le immagini nette, dure, occasionalmente crude, che rimandano a un evento (a un seguito di eventi) crudele della nostra storia, sembrano annegare in questo movimento omogeneo del respiro che dà loro vita materiale. Non che ne risultino indebolite: è piuttosto come se si trovassero registrate nel flusso di una pellicola che scorre senza potersi fermare, così che la loro giustapposizione in sequenza è più forte della natura di ciascuna.
Lo sguardo distaccato riservato a queste immagini finisce così per avere una tonalità apocalittica, perché la ragione di questi versi va fatta risalire a una tradizione che ha al suo principio come modello il versetto biblico, e il suo andamento apodittico e definitivo, sanzionante, alla William Blake o alla Walt Whitman. In questo respiro dilatato, prosodicamente atonale, le parole suonano come occorrenze del destino, presenze numinose anche in assenza di qualsiasi dio. In questo ritmo da Antico Testamento, sequenze di discorso che sarebbero normali in prosa si ritrovano qui straniate dalla sospensione di quei nessi logici che spetterebbero alla punteggiatura, e trasformate così, dai rari ma non meno significativi a capo, in qualcosa di diverso.
È quindi questo specifico straniamento a trasformare gli oggetti in correlativi, gli eventi del mondo in oscure allusioni alla dinamica del male, o alla vuotezza dell’essere, al dramma banale del trovarsi qui – o magari semplicemente al posto giusto, normale, ma nel momento sbagliato.
E poi, di quando in quando, qualcuno di questi oggetti finisce come per caso in un’ansa del discorso, un verso capricciosamente breve, da cui riemerge nitidissimo, violento, come radicalizzato dalla luce potente di un riflettore vicino. Il film si è fermato per un attimo, ci ha lasciato, anzi costretto, a mettere a fuoco il dettaglio adesso immobile – salvo poi ripartire, rigettarci nel flusso. Sembra di non arrivare mai in fondo, a volte, in questi versi: gli eventi si susseguono senza arrivare a una fine che dia loro un senso; il tempo resta sospeso talmente a lungo durante questo sterminato procedere che la fine del verso giunge poi come una sorpresa, quasi fosse quello il vero evento di cui si sta parlando, la possibilità, finalmente, di tirare il fiato, abbandonando per una frazione di secondo il ciclo doloroso delle reincarnazioni verbali e continue delle cose.
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