Andrea Pazienza è nell’aria (grazie all’infelice riedizione del suo Astarte) ed è nell’aria anche la politica (grazie all’infelice esito delle elezioni, e a tutto quello che ci sta attorno). Per questo, mi salta sotto gli occhi questo articoletto che ho scritto nel 2005 non ricordo più per chi, e la coincidenza è troppo bella per non approfittarne. Quando leggo di quella politica, buona o cattiva che fosse, mi domando davvero come abbiamo fatto ad arrivare a questa, che buona certamente non è.
Una sera di aprile
Una sera di aprile del 1977 mi trovavo in un locale alternativo di Bologna, che aveva nome La talpa, per quella che veniva chiamata allora una riunione politica. Si trattava indubbiamente di una riunione, perché il luogo riuniva numerose persone, ed era sicuramente politica perché la politica era ciò che in quei giorni ci teneva assieme. Ma quando si pensa a una riunione politica oggi si pensa a un gruppo di persone dotato di una qualche omogeneità e di un qualche fine comune che discutono una strategia di azione. Quella sera, più che altro, l’omogeneità e i fini comuni erano una meta, anziché dei presupposti, e una meta nemmeno troppo ambita.
Più che altro, potrei dire oggi, quello che ci teneva insieme, nonostante divergenze ideologiche profondissime dividessero i presenti, era la consapevolezza di far parte di un medesimo ambiente, di un medesimo ambito culturale, di essere comunque un “noi” molto forte e compatto. Allora credevamo che il nocciolo di questo “noi” stesse nella politica, ma quello che si intendeva allora per politica aveva davvero poco a che fare con quello che si intende oggi. Basti pensare allo slogan in cui ci si riconosceva, che recitava “il personale è politico”, ma che si sarebbe potuto anche declinare all’inverso: “il politico è personale”.
La serata tardava a prendere il volo. Si chiacchierava e non c’erano interventi che monopolizzassero l’attenzione. L’interesse comune si coagulò a un certo punto attorno a un mazzo di foglietti che passavano di mano in mano, suscitando grasse risate. C’erano delle vignette umoristiche, disegnate a pennarello su quei foglietti, in cui riconoscevamo facilmente la situazione bolognese di quei giorni. Erano gli originali, non delle riproduzioni, e l’autore era lì tra noi, che si godeva i commenti divertiti e i complimenti del pubblico. Io, però, non riuscii a identificarlo, e nemmeno mi rimase memoria del suo nome.
Fu solo numerosi anni dopo, sfogliando una qualche pubblicazione di quel periodo, che riconobbi chiaramente le vignette che avevo visto quella sera, e capii che, di Andrea Pazienza, avevo assistito, inconsapevole, a uno dei primi successi pubblici bolognesi. In realtà un suo successo assai maggiore stava iniziando a esplodere sulla rivista Alter Alter proprio in quei medesimi giorni di aprile, che vedevano pubblicato il primo episodio de Le straordinarie avventure di Pentothal.
Io scoprii Pentothal ben un anno dopo, mentre scontavo in ospedale i postumi di un viaggio nel deserto. Sarà forse solo cronaca il far sapere che il mio desiderio di occuparmi di fumetti in maniera più approfondita è dovuto in buona parte a quella scoperta. Ma non è solo un fatto di cronaca la ragione di questo mio innamoramento. Il fatto è che Pazienza esprimeva davvero con Pentothal l’anima creativa e contraddittoria di quello che stavamo tutti vivendo; e la esprimeva con una ricchezza, una fantasia e una precisione emotiva che erano davvero impressionanti.
Io credo che la fortuna del fumetto italiano di quegli anni, tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, sia stata dovuta alla presenza di un ambiente culturale giovanile diffuso e molto ben definito, di cui il movimento bolognese rappresentava probabilmente una delle realtà più significative, ma che trovava riconoscimento ovunque. Per molti giovani autori, così come per tutti i nuovi lettori di quegli anni, il fumetto rappresentava una forma espressiva ideale, perché era potente, versatile, economica, e soprattutto perché non aveva alle spalle una storia di connivenza con l’industria culturale, con il potere economico costituito: era, insomma, ai nostri occhi, un medium sufficientemente vergine, almeno in Italia, da poter essere colonizzato, e dichiarato nostro.
Questa rinascita del fumetto non era dunque dovuta né a una proposta rischiosa di autori innovativi, né alla risposta di editori astuti alle richieste del pubblico. Ovviamente, entrambe queste componenti erano davvero presenti, ma quello che esisteva prima di tutto era un ambiente culturale, di cui autori e lettori si riconoscevano come parte, un discorso, una conversazione diffusa su temi che sentivamo pregnanti – e il fumetto ne era il mezzo di espressione privilegiato.
Credo che il primo ad accorgersi di quello che stava succedendo e a fare del proprio fumetto la voce fantasmagorica di quella conversazione sia stato Filippo Scozzari. Ma poi Pazienza ha rappresentato quella voce più e meglio di chiunque altro, facendo storia e leggenda della vita di quegli anni.
Rileggendo Giorno. Un concentrato di angosce metropolitane, chi ha vissuto quegli anni non apprezza solo l’esame di storia del cinema su Apocalypse Now. Perché Pazienza non era solo un grande umorista e un disegnatore strabiliante; era anche un prodigioso narratore, capace di individuare l’anima profonda delle relazioni personali e degli eventi, e di costruire racconti apparentemente senza né capo né coda, ma in realtà così ricchi e trascinanti da lasciare attoniti.
A chi lo ricorda soprattutto come umorista regalerei Gli ultimi giorni di Pompeo, la testimonianza più drammatica di quello che succede una volta che i miti si infrangono, e il personale e il politico si separano drasticamente, e per sempre. Proprio come Pompeo, Andrea si è buttato via, un po’ per indolenza, un po’ per sbaglio, un po’ perché le epoche storiche in cui invece di sentirsi soli ci si sente in tanti finiscono, e per troppo tempo non ritornano più.
Mi piacerebbe una sua lettura di “Morti di sonno” di Davide Reviati. Io vi ho trovato molte analogie con l’opera di Pazienza, a cominciare dall’avere individuato nei propri contemporanei i soli protagonisti possibili delle storie. Anche Morti di sonno è pervaso dalla stessa drammatica consapevolezza della scissione tra personale e politico (inteso in senso lato) che attraversa Pompeo, con la differenza che qui non è l’autore a voltare pagina, a dire al proprio pubblico che lui non può più essere la rockstar per la quale si faceva il tifo. Piuttosto è il contrario: è Reviati l’unico ad essere rimasto quando tutti i suoi ex compagni di calcio, di scuola, di vita se ne sono andati, lasciandolo alla solitaria missione di custodire volti e luoghi altrimenti destinati a perdersi.