Alchimie tra immagini e parole
Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 1996
Il fumetto ha vari nomi in varie lingue: “comics” rimanda alla sua origine umoristica, “bande dessinée” alla sua natura di “striscia disegnata”, “historietas” al fatto di raccontare (tra l’altro) piccole storie umoristiche. E’ solo l’uso italiano, “fumetto”, a dare al tutto il nome precipuo di una parte, cioè della nuvoletta che contiene le parole, quella che si chiama, in gergo tecnico, balloon, per evitare irrisolvibili omonimie.
Nonostante la connotazione vagamente denigratoria che la parola stessa possiede, il nome “fumetto” è adeguato al suo oggetto almeno nella misura in cui individua la componente davvero cruciale di questo linguaggio. Il fumetto, cioè il balloon, è quella parte della vignetta in cui l’immagine si fa parola, e la parola è immagine. E’ il luogo più simbolico di un linguaggio che vive a cavallo tra altri due, e che ha costruito la propria autonomia sull’apparenza di una dipendenza irrisolvibile.
Tutti i fumetti sono costruiti come rapporto tra immagini e parole, persino quelli dove le parole non ci sono, perché la loro assenza, in un contesto in cui normalmente sono presenti, è altamente significativa. Non si può valutare un testo a fumetti dalla sola qualità delle immagini, né dalla sola qualità del testo: l’errore diffuso è quello di ritenere che poiché la figuratività del fumetto non è in generale paragonabile a quella delle arti visive, e poiché la letterarietà del fumetto non è paragonabile a quella del romanzo, il fumetto non possa nemmeno sperare di assurgere alla dignità delle une o dell’altro. Ci si dimentica che nel fumetto la qualità sta nella relazione tra parole e immagini, e non nelle une o nelle altre singolarmente. E questa relazione si manifesta in innumerevoli modi, di non semplice catalogazione.
C’è un uso “classico” della parola, che rimanda direttamente all’uso “classico”, “hollywoodiano”, della parola nel cinema: i personaggi si scambiano le frasi di un dialogo di impronta realistica, e le didascalie intervengono solo di tanto in tanto a integrare quello che sarebbe troppo complesso (e troppo lento) mostrare con le immagini. Credo che chiunque abbia mai letto un fumetto classico d’avventura sappia perfettamente come funziona un uso di questo genere. E’, ovviamente, l’uso più normale e diffuso; è, per così dire, il livello zero, la norma.
Le strisce umoristiche adottano spesso varianti significative del modello normale di uso della parola. Sappiamo tutti quanto poco realistici siano i dialoghi di strisce come Peanuts, o Mafalda, o Doonesbury. La necessità di contenere in pochissime vignette significati complessi, spesso pluriallusivi, fa sì che disegno e parola vengano distillati sino a un’alchimia di prestazioni essenziali, la quale, col tempo, è in grado di costituire un microlinguaggio interno alla serie, che permette ai lettori abituali di cogliere significativi rimandi a partire da variazioni minuscole dalla norma. Avulsi dal loro contesto, i dialoghi di queste strisce apparirebbero assurdi e frammentati, spesso addirittura oscuri. Basta pensare alle riflessioni di Snoopy sulla vita, sulla scodella o sul gatto dei vicini.
Ma l’antirealismo non si trova solo nei fumetti umoristici. Persino in grandi classici come Tarzan, Flash Gordon, e Prince Valiant (in Italia Principe Valentino) la parola ha finito per assumere un ruolo diverso da quello standard. A partire da un certo momento nella loro carriera di autori, sia Harold Foster (Tarzan e Valiant) sia Alex Raymond (Gordon) decidono di fare a meno del balloon. Il processo avviene per gradi, ma alla fine degli anni Trenta il risultato è che ogni vignetta è accompagnata da alcune righe di didascalia narrativa, che inglobano i dialoghi come in una normale narrazione romanzesca. Nonostante questo la narrazione verbale non è autonoma, non sarebbe sufficiente da sola a sostenere il racconto, né tantomeno lo sarebbero le immagini: il senso è costruito da queste due narrazioni parallele e intrecciate, quella delle parole e quella delle figure.
Da qui al passo successivo, quello del rapporto straniato tra le due componenti, il passo è breve. Il primo a compierlo è un autore umoristico, George Herriman, che disegna Krazy Kat per quasi trent’anni sino al 1939, giustapponendo ai dialoghi surreali sfondi ancora più surreali, e costruendo giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, un universo di deliziose e sentimentali incongruenze. Bisogna però arrivare agli anni Settanta per trovare un uso sistematico di questo rapporto straniato: inizia in Italia Sergio Toppi e iniziano in Francia Les Humanoides Associés; proseguono autori come Jacques de Loustal, Daniele Brolli e Igort, in cui il contrasto tra, da un lato la distanza tra narrazione verbale e narrazione iconica e, dall’altro, il loro necessario rapporto è un oggetto esplicito di poetica.
Nasce forse da questi esperimenti, ma nello spirito di un iperrealismo di vocazione popolare, il rapporto tra parola e immagini tipico di molti recenti fumetti americani di supereroi. La parola, in queste storie, accompagna l’immagine esplicitando lo stream of consciousness dei personaggi, non di rado giustapponendo sequenze di pensieri appartenenti a coscienze diverse, e giocando spesso sull’impossibilità di distinguere tra i pensieri riportati e la voce del narratore, come nel più classico “stile indiretto libero” del romanzo novecentesco. Non c’è vocazione “straniante” in questo uso, che viene davvero percepito dai suo lettori come una forma di realismo – ma siamo andati lontani, ormai, anche dal realismo del cinema, e dal suo ruolo di linguaggio di riferimento per tanto fumetto di avventura di qualche anno fa.
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