Per un sorriso di paura
Il Sole 24 Ore, 26 giugno 1994
C’era una volta il fumetto per bambini, un mondo magico del quale il sanguinario e l’orribile, il temerario e il sadico, lungi dall’essere banditi, rappresentavano il condimento principale. Per chi da adulto non ha rinunciato al desiderio di sorridere della paura, Francesca Ghermandi propone delle storie per immagini di altissima qualità e di raffinata invenzione grafica. Storie per adulti, dotate della stessa giocosa perfidia di quelle per bambini. Negli ultimi mesi sono due le pubblicazioni che si devono alla sua mano e alla sua inventiva: Joe Indiana. Il segno dei cinque, pubblicato dalle edizioni Comic Art di Roma, e Hiawata Pete, della Granata Press di Bologna.
Joe Indiana è una detective story dai toni burlescamente grandguignoleschi, di cui è protagonista un topo (assistito da un porcello), in una vicenda di mani mozzate e società segrete, che si intreccia tra piscine comunali, laboratori di chirurghi criminali, scenografie abbandonate del film di Peter Pan, abitazioni di mucche impazzite, spettacoli di magia… La città è diventata un intrico di viuzze e scale piastrellate, dove i giardini sono fatti di palme di plastica in cima ai palazzi, e gli spazi più ampi stanno dentro le case invece che fuori. La Ghermandi ha un talento particolare per la resa degli spazi, che continuano ad apparire instabili e grotteschi come in un film espressionista.
Hiawata Pete è una raccolta di strisce umoristiche ambientate in un futuro che ha molte caratteristiche del presente, in cui le figure della pubblicità escono dai televisori per inseguire gli spettatori, e c’è chi pretende di inventare automobili ecologiche che funzionano ad acqua di mare. Ma la mortadella vi è considerata una droga pericolosa, e farne spaccio è un reato grave, attorno al quale si intrecciano interessi criminali, che non esitano a farsi paravento con la predicazione visionaria di un ispirato che predica la grassezza. Un fumetto demenziale, lo si sarebbe definito qualche anno fa, godibilissimo per assurdità e cattiveria, pieno di miti rivisitati e luoghi comuni buttati per aria, disegnato come si vorrebbe ce ne fossero di più.
Lo stile grafico di Francesca Ghermandi costituisce un vero caso interessante. Ci troviamo tantissimi tra gli stilemi e le convenzioni del fumetto comico di animali (quello alla Disney, tanto per intenderci), ma è evidente, d’altro canto, l’estrema particolarità e personalità del suo modo di usare le modulazioni della linea nera e le sue curve, per ottenere alterazioni della forma a scopo espressivo. Mani e piedi sempre troppo grandi, colli troppo lunghi o inesistenti, una profusione di espressioni del viso degne del migliore cartone animato americano. L’amore per le inquadrature diagonali, dall’alto e dal basso, per i primissimi piani espressivi (del tutto inconsueti nel genere comico di animali), per l’abbondanza di dettagli (contraria alla regola della massima concisione per ottenere il massimo dell’effetto umoristico) rendono lo stile della Ghermandi un vero evento nuovo, un unicum nell’intero panorama del fumetto, italiano o estero che sia.
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